(SAINT SEIYA) di Hanabi, estate 1994 I personaggi di Saint Seiya sono proprietà di M. Kurumada/Shueisha.
CAPITOLO 1: "Prologo" - parte prima Ho quasi sei anni quando vengo a sapere che mia mamma aspetta un altro bambino.
Fino a quel momento sono stato il signore incontrastato della casa, l'oggetto di tutte le coccole: sono un bambino felice e viziato, in una grande casa dove non manca niente, figlio di ricchi genitori. La mia felicità si incrina un po' al pensiero di perdere i miei privilegi. Ad ogni modo spio la pancia della mia bellissima mamma, sapendo che lì dentro accade qualcosa di misterioso. Giorno dopo giorno quella pancia cresce. A volte mamma mi fa posare la guancia contro di essa e sento dei colpi, qualcosa che si muove dentro. "E' il tuo fratellino, o la tua sorellina. Tu cosa preferiresti?" "Un fratellino!" dico, a colpo sicuro. Se proprio deve arrivare, che sia qualcuno con cui possa giocare... Un giorno sento molta agitazione in casa, papà che chiama il medico e l'ostetrica, mi chiudono nella mia stanza con una baby-sitter, e rimango lì finché non mi addormento. Alla mattina scopro che è nato il fratellino che volevo: un bel maschietto, dicono, anche se sporgendomi sulla culla vedo solo un mostriciattolo urlante tra le copertine. Per un lungo periodo perdo in pratica mia mamma: il mostriciattolo è sempre con lei, ed io sbuffo accanto a papà. Ma lui mi dice che è tutto normale, che mi vogliono bene ugualmente, e che ormai sono un fratello maggiore, un bambino grande. Però anche lui è sempre più corrucciato. Credo che sia geloso anche lui: ha conosciuto tardi la mamma, lavorando in Polinesia, e lei è così bella e giovane che lui la vorrebbe tutta e solo per sé... Man mano che cresce, il mostriciattolo non è più tale: diventa un bambino così bello da sembrare più una bimba che un maschietto, diverso da tutti quelli che ho visto fino a quel momento: ha la pelle bianchissima, una testa piena di capelli dorati e due occhi enormi che diventano sempre più verdi, un verde profondo come quello della giada. Non ha la macchia mongolica che io ho sulla schiena. E' piuttosto sveglio, cammina e parla presto, e mi segue ridendo per tutta la casa. E' così simpatico, anche se invadente, che io gli perdono di avermi portato via l'esclusiva sui genitori: mi diverte, quel piccolo furfante, e mi piace quella sua strana aria esotica... Forse anche troppo esotica, ma non lo capirò che dopo molto tempo. Una strana tensione sale tra i miei genitori. Più mio fratello cresce e più loro litigano, sempre più spesso e sempre più aspramente. Sento parole che non capisco come tradimento, inganno, amanti: mia madre grida di essere innocente, lo giura, si dispera. Io so solo che mi si spezza il cuore a sentirli litigare, e a volte sono pieno di risentimento nei confronti di mio fratello: andava tutto così bene prima che lui nascesse... Però non capisco che cosa faccia di male, e comunque paga la sua colpa. I miei non vogliono vederlo: se cerca di imitarmi ed abbracciare papà al suo ritorno dal lavoro si becca una sgridata, se vuole un po' di coccole dalla mamma lei gli dice seccamente che ha altro da fare. Non lo fanno mai uscire di casa con la scusa che è piccolo: se ci sono ospiti lo rinchiudono nella sua camera, come se fosse una specie di mostro. A quelli che per caso riescono a vederlo raccontano delle cose strane, del tipo che il bambino che aspettavano è morto, che il piccolo è figlio di un diplomatico amico di papà che è andato all'estero, e che stiamo ospitando fino al ritorno dei genitori... Ascolto per caso tutte queste bugie, ma taccio perché papà mi lancia un'occhiata perentoria. Più tardi chiedo spiegazioni, e mi dicono che devo obbedire e non capire, che devo parlare di mio fratello il meno possibile. Ed io obbedisco, come sempre, anche se sento dentro di me che non è giusto. Ogni volta che esco di casa guardo la finestra della cameretta di Shun (così si chiama mio fratello), e vedo il suo musetto sognante di piccolo recluso contro il vetro. Penso che debba odiarmi, e non so dargli torto, perché ho tutto quello che lui non ha: gli abbracci dei miei, l'orgoglio, i bei giocattoli, la possibilità di uscire e di vedere nuovi posti... ed allora, per vincere il mio senso di colpa, gli passo tutte le mie cose più care, i giocattoli di cui sono più geloso. Lui accetta le mie offerte con stupita gratitudine, rispetta i miei giocattoli senza rompere nulla (come invece farei io al suo posto!). Finisce che mi fido di lui al punto che, quando so che devo uscire, gli riempio la stanza con i miei libri illustrati, così può almeno passare il tempo a guardare le figure. Scopro così che è intelligente, anche se questo non interessa a nessuno. Ed è perfettamente capace di soffrire: a volte si lascia andare a crisi di pianto che durano ore, finché non cade sfinito a dormire; oppure passa un giorno intero seduto in un angolo, muto come un pesce; o infine bagna il letto, chiaramente di proposito. Forse fa questo per attirare su di sé l'attenzione dei miei, ma ottiene l'effetto contrario: finisce che lo detestano ancora di più. L'unico in famiglia a cui pare non dare alcun fastidio sembro proprio io. Per questo si attacca a me, con un'affettuosità che mi stupisce e che sotto sotto mi fa molto piacere. Mi aspetta ansiosamente al ritorno dalla scuola, quasi mi salta addosso, e da quel momento non me ne libero più. Mi segue ovunque vada: ormai mi sono abituato a mangiare e andare in bagno e guardare la televisione in sua perenne compagnia, a fare i compiti con lui che gioca intorno a me. A volte sentiamo i nostri genitori litigare, ed allora lui mi si avvinghia stretto, spaventato. Poi di notte corre nella mia camera e si infila nel mio letto, cercando conforto e protezione. Non riesco a cacciarlo via, anche se sono più turbato di lui: la sua cieca fiducia mi commuove, mi spinge a volerne essere degno. Così faccio il bravo fratello grande, gli dico che non è nulla, che non deve avere paura; e lui si addormenta beato al mio fianco... Compio i miei undici anni e sono festeggiato come al solito, anche se mio padre mi vieta di invitare degli amici. La cosa mi secca, ma non c'è verso di fargli cambiare idea: meno male che almeno Shun è sempre con me, e mi offre il suo regalo di compleanno: una fenice portafortuna di carta colorata, con le ali spiegate, il becco aperto e la lunga coda distesa. "L'hai fatta tu?!" chiedo, sbalordito. E lui annuisce timidamente, mostrandomi uno dei miei libri più negletti, un vecchio manuale di origami. Non sa ancora leggere bene, però ha studiato le fotografie mentre io facevo i compiti. E poi ha fatto pratica nella sua cameretta, nelle interminabili mattine di solitudine. Ringrazio il mio fratellino del bel pensiero (che bravo che è!). Però il suo non è l'unico regalo che ricevo: ci sono anche un sacco di scatole per me da parte dei miei genitori e da tutti i parenti. Insieme a Shun mi tuffo tra i pacchi e li scartiamo allegramente a quattro mani; poi adoperiamo subito i nuovi, bellissimi giocattoli, passando un magnifico pomeriggio tra videogiochi e piste di automobiline, ingozzandoci di torta e di bibite. Sembriamo i bambini più felici del mondo. Ma ancora per poco. I giorni diventano ancora più plumbei, si sente quasi che si marcia verso il culmine della tensione tra i nostri genitori. Mi chiedo disperato cosa potrei fare per deviare questa tempesta. Penso alla prossima festa del papà, comunico l'idea a Shun e alla mamma. Il primo è entusiasta, la seconda semplicemente d'accordo. Aiutiamo tutti e due la mamma a preparare la tavola, la adorniamo, nascondiamo i nostri tradizionali bigliettini sotto il piatto. Poi attendiamo frementi la cena, Shun con ingenua allegria, io con trepidazione; ah, vedere di nuovo la mia famiglia unita e sorridente... Papà arriva, si mette a tavola di pessimo umore. Trova i bigliettini, li mette da parte senza una parola, comincia a mangiare in silenzio. Noi facciamo altrettanto, spiandolo di sottecchi. Alla fine lui parla, finalmente. "Vattene." Tutti e tre restiamo raggelati con il boccone a metà strada. Lui si gira verso Shun e tuona: "Sei sordo?! Ti ho detto di andartene!" Il cucchiaio di mio fratello cade nella tazza. Lui alza i suoi occhi tremanti e pieni di lacrime, ma non protesta: obbediente come sempre, si alza e se ne va. Era già successo altre volte, ma stavolta è davvero terribile... "Il piccolo non ha mangiato," mormora mamma, con voce strozzata. Io prendo la tazza di Shun, faccio per alzarmi. "Tu stai fermo dove sei!" ordina papà, categorico. "Finisci di mangiare!" Non posso far altro che obbedirgli, ma non riesco più a toccare cibo. L'amarezza mi soffoca: ecco com'è finito il mio bel tentativo di metter pace... e tanto per cambiare, è Shun che ne ha fatto le spese. "Sei un mostro!" mormora la mamma. "Te la prendi con un povero bambino innocente..." "Finiscila!" esplode lui, "Lo so che questa storia dei bigliettini è un'idea tua. Speri così che io dimentichi, che ti perdoni?" Prende il biglietto di Shun e lo getta via. "Dì a quel moccioso di fare gli auguri al suo vero papà, anzi, di andare da lui e fuori da questa casa!..." Mia mamma trasalisce violentemente, mi guarda ad occhi spalancati. "Cielo, sta' zitto! C'è il bambino..." "Al diavolo! Non è più un bambino. Ormai è un ragazzo, e poi credi che sia cieco? Non l'ha visto anche lui che quel bambino non è mio figlio, ma il figlio di qualche bianco?" Fisso il vuoto, sentendo il sangue defluirmi dalla faccia. Vorrei tapparmi le orecchie, scappare per non sentire quelle parole... "Non è vero!" grida mia madre, e si rivolge a me, in tono disperato. "Ikki! Ti giuro che papà si sbaglia... che Shun è figlio suo!" "Quello, mio figlio?" Mio padre fa un'aspra risata. "Non è altro che un piccolo bastardo gaijin che mi hai messo in casa!" Un silenzio tremendo segue quelle parole. "Mi spiace, figlio mio," mi dice papà, a voce bassa, "Ma così non si può andare avanti. Non si può. Sono stufo di sopportare questa vergogna... quando sarai grande forse mi capirai." "La tua vergogna è trattarmi così davanti a tuo figlio, fargli credere che sono una poco di buono, mentre non ho fatto niente, niente di cui vergognarmi!" esplode la mamma, in lacrime. "Ma davvero!... Spiegami allora come posso essere padre di un bambino biondo con gli occhi verdi... come posso affermare davanti a tutti di esserlo!" "Fagli il test del DNA se non ci credi! E piantala sempre di parlare degli altri come se avessero sempre il diritto di giudicarti..." "Certo che mi giudicano! Io sono un uomo con un'immagine pubblica da mantenere! Il mio è un nome onorato, non voglio sporcarlo con un bastardo figlio di chissà chi!" "Basta!" urla mamma, "Non ti sopporto più!..." Si alza e se ne va precipitosamente, singhiozzando. Papà resta immobile a fissare il piatto. Per un lungo istante il silenzio è totale. Poi lui alza gli occhi, mi vede lì immobile, sul punto di piangere. Fa un gesto distratto con la mano. "Se vuoi andartene anche tu, fa' pure. Non restare lì imbambolato a guardarmi." Mi alzo, e mi dirigo come una marionetta in camera mia. Per tutta la sera resto sdraiato sul letto, fissando il vuoto. Medito su quel che è successo, mi chiedo cosa debba cambiare nella mia vita ora che ho sentito quelle parole terribili. Papà ha ragione? O la mamma? E Shun? Mi devo vergognare di lui? Ma perché? E' un bambino tanto buono! Lo manderanno via davvero? Me lo toglieranno, il mio fratellino che mi aspetta sempre a braccia aperte, che mi fa sentire tanto grande? Ed i miei genitori si separeranno? Certo, come potrebbero vivere ancora insieme dopo quel che ho sentito? E se questo succederà, con chi dei due dovrò andare? Mi si spezza il cuore a questi pensieri: non voglio lasciare nessuno della mia famiglia, non posso scegliere tra mio fratello, mamma e papà! Quale bambino potrebbe fare questa scelta senza essere spaccato in due dal dolore?... Sento un lieve bussare, e poi vedo la figuretta di Shun che entra di soppiatto, richiude la porta, resta lì nella penombra stringendosi addosso il suo orsetto preferito, quello che gli ho regalato io. "Scusami, Ikki..." dice in un sussurro, educato come sempre. Mi alzo a sedere sul letto, cavo da sotto il cuscino il pacchetto di dolci che avevo prelevato dalla cucina. "Hai fame, vero? Ti ho procurato questi, mangia pure e non dire niente a nessuno." Ma lui scuote la testa. "Tu che sei grande... mi dici una cosa?" "Che cosa?" "Mi dici che cos'è un piccolo bastardo gaijin?" I dolci mi cadono di mano. Quando ritrovo la voce, riesco solo a mormorare con voce soffocata: "Dove... dove l'hai sentito?" "E' una cosa brutta, vero?" Sento un respiro tremante. "Una parolaccia... ho capito. Grazie." Si volta, afferra la maniglia. "Aspetta!" grido io, saltando giù dal letto. Vado da lui, lo prendo per un braccio, lo faccio voltare e accendo la luce. Vedo la sua faccia inondata di lacrime. "Oh no, no..." mormoro inorridito. Non era andato in cameretta quando papà l'ha cacciato, è rimasto in corridoio, ha sentito tutto... Cerco istintivamente di abbracciarlo. Ma lui mi respinge, grida all'improvviso: "Lasciami! Non sono più tuo fratello, sono quella brutta cosa!..." Apre la porta, corre nella sua cameretta, sbatte la porta chiudendosi dentro. Io lo inseguo, faccio per aprirla ma non ci riesco: lui è dietro che la tiene bloccata, sento i suoi singhiozzi disperati. Non voglio forzarlo, busso, gli dico piano: "Shun, da bravo, aprimi, fammi entrare. Devo parlarti, tu non hai capito..." "Papà dice che non è il mio papà, che io devo andare via!" è la risposta soffocata. "Ecco perché non mi vogliono bene! Ma se vi do tanto fastidio, faccio come nel telefilm... e vi faccio tutti contenti!" "Ehi, Shun, che diavolo vuoi fare?!" Nessuna risposta, ma sento che sta spostando una sedia... "Shun!" grido spaventato. Faccio per aprire la porta, ma lui deve averla bloccata con la sedia, come mi ha visto fare una volta. Invano la scrollo. Terrorizzato corro per tutta la casa alla ricerca dei miei genitori. "Mamma! Papà!..." Trovo mio padre nella sala da pranzo. Ha scostato tutti i piatti, e siede in mezzo a varie bottiglie vuote, una tazza da tè in mano, ma piena di chissà cosa. "Papà!" gli dico, tutto in un fiato, "Shun ha sentito tutto, si è barricato nella sua cameretta, dice che vuol fare come nei telefilm, ho paura che voglia... " Non riesco nemmeno a finire la frase. Papà alza appena lo sguardo, gli occhi lustri con una strana espressione vuota. Mi rendo conto, agghiacciato, che è ubriaco: non l'ho mai visto in quello stato. "Ah, quel piccolo bastardo ha origliato, eh?" dice, e si alza faticosamente, barcollando. "Bene. Tu fila a letto, ci penso io a questa faccenda. E non ti preoccupare che non ci si ammazza alla sua età. Vuole metterla giù dura, il marmocchio! Beh, e dura l'avrà." Mi passa al fianco senza degnarmi di uno sguardo, apre l'armadio a muro, tira fuori una canna di bambù e se ne va per il corridoio borbottando. Io resto a guardarlo, paralizzato dall'orrore. Non mi ha mai picchiato... solo un ceffone o due quando me lo meritavo... "Apri questa porta!" urla, nel silenzio irreale della casa. E' già successo forse ed io non me ne sono mai accorto? Il mio buon papà, l'affettuoso papà non poteva essere così cattivo, o così credevo... Shun non mi aveva mai detto di essere stato picchiato, ma chi racconta ciò che un genitore ti fa per farti vergognare? Quelle sgridate assurde, quelle volte che mi trovavo nel letto un bimbo in lacrime e tremante.... cielo, come ho potuto essere così cieco?! Una spallata e la porta della cameretta si apre. Papà entra, sbatte la porta alle sue spalle. Silenzio. Meno male che non è toccato a me, dice una voce odiosa nella mia mente. Faccio un passo verso la mia stanza. Poi un altro. Un lamento di mio fratello... "Sta' zitto!" La voce di papà. Un altro passo verso la mia stanza... "Così impari!" Un pianto disperato... Un altro passo ancora. ...e quel pianto si interrompe di colpo, seguito da un urlo soffocato... No, non resisto più! Sento una strana sensazione dentro di me, una fredda fiamma che mi pulsa nel sangue, rabbia e lacrime mescolate insieme. Sono terrorizzato, ma nondimeno corro verso la camera di Shun e la spalanco... E vedo mio fratello raggomitolato sul letto, mio padre che sta per colpirlo di nuovo. "No!!!" urlo, con tutta la voce che ho in corpo. Lui si ferma, si volta appena, mi lancia un'occhiata velenosa. "Non sono cose che ti riguardano. Sparisci!..." Quel tono, quello sguardo spaventerebbero chiunque. E spaventano anche me, ma nondimeno scuoto la testa e ribatto, con furia isterica: "Non ti lascerò picchiare mio fratello!" "Ma davvero?... Sta' attento, ragazzo, o ti becchi anche tu la tua parte." Di nuovo alza il braccio su Shun. Io balzo in avanti e gliel'afferro, facendogli mancare il colpo. Lui si gira di scatto e mi colpisce in piena faccia con un ceffone accecante. Finisco col sedere per terra ed uno strano sapore in bocca. Me l'asciugo con la mano e scopro inorridito di sanguinare... "L'hai voluto tu!" Papà è davanti a me, inferocito. Ho appena il tempo di coprirmi istintivamente la testa con le braccia, prima che inizi a colpirmi selvaggiamente. Segue un istante senza tempo in cui aspetto solo che finisca, che finisca, che finisca... "Basta!..." L'urlo disperato di mia madre. Papà si ferma, ansimando. "Sei pazzo a picchiare così i bambini?!" strilla lei, in lacrime. "Cosa stai facendo a Ikki? Non dirmi che dubiti anche di lui! Vuoi ammazzare tuo figlio?!..." Il respiro di papà è il suono più tremendo che abbia mai sentito. Sembra un mantice. Oso togliermi le mani dalla faccia e guardarlo. I suoi occhi mi fissano, sbarrati. Getta via la canna e se ne va impetuosamente, urtando contro mia madre e quasi buttandola per terra. Lei gli corre dietro. Sento il rumore di qualcosa di infranto. Poi una porta che sbatte. Silenzio. Striscio fino alla porta della cameretta, la chiudo per isolarmi finalmente in un piccolo mondo di pace. Resto seduto lì, con le braccia strette al corpo: tutto mi fa male, ma sento il dolore in maniera confusa, sono troppo sconvolto. Mi accorgo di essere in lacrime: ho finalmente compreso che tutto il mio mondo è distrutto per sempre, nulla sarà mai come prima. Il papà che adoravo e che mi adorava mi ha picchiato a sangue. Ho visto una belva al posto dell'uomo amorevole che conoscevo... Mi rendo conto all'improvviso del pianto soffocato di Shun, ancora inerte sul suo letto, la faccia affondata nel cuscino. Non ho il diritto di abbandonarmi all'autocommiserazione... se sto soffrendo io che sono grande, cosa sta provando lui che è ancora così piccolo? Mi asciugo le lacrime, vado a sedermi sul letto, mi chino a toccarlo e lui sussulta. Chissà come gli fa male! O forse gli fa più male sapere quanto è odiato. Ma non da me, e deve saperlo, deve sentirlo... Gli accarezzo i capelli scomposti, mi chino su di lui, gli sussurro: "Non aver paura. Nessuno ti picchierà mai più. Ora ci sono io con te. E non ti lascerò, te lo prometto. Se andrai via, io andrò via con te." Sento che farò proprio quel che ho promesso. In tutto il dolore ed il caos della mia anima, ho trovato finalmente un punto fermo a cui ancorarmi: lui, mio fratello. Mi sento all'improvviso un adulto, con tutto il peso e la gloria di una grande responsabilità. Quanto grande, non ne ho idea... e non mi importa. Shun si gira, mi abbraccia impulsivamente facendomi sussultare dal male. "Scusami! Scusami... Hai preso le mie botte, ma non volevo, non volevo..." "Su, calmati. Tanto sono grande, non mi hanno fatto niente!" mento io. Lui tira su con il naso, alza il suo visetto congestionato e mi guarda negli occhi.. "Sei buono con me anche se sono così cattivo... " Mi bacia di slancio. "Ti voglio bene, Ikki." "Anch'io ti voglio bene." Sorrido nonostante le lacrime che mi rigano la faccia. "Ti ho sempre voluto bene. Sei il mio fratellino." Ci abbandoniamo a quell'istante di tenerezza come due naufraghi su una spiaggia. Abbiamo tutti e due bisogno di non sentirci soli in quel momento terribile. Il fatto di aver condiviso il dolore e la punizione ci rende uniti come mai lo siamo stati. Resto a dormire lì, esausto come mio fratello. Sento confusamente una mano che ci copre delicatamente nel freddo della notte, una voce dolce che sussurra: "Sei un ragazzo generoso, Ikki... sono fiera di te." Un bacio lieve non mi strappa dal dormiveglia, ma so che è la mamma. "Buonanotte, piccolo." Bacia anche Shun che dorme al mio fianco. Poi scompare, ed io sprofondo finalmente nel sonno più nero... All'improvviso un tuono secco rimbomba per tutta la casa, svegliandoci di soprassalto. Scattiamo a sedere tutti e due, col cuore in gola. "Che è stato?!" sussurra Shun, spaventatissimo. "Non lo so." Un denso silenzio. E poi un altro tuono alto, secco, lacerante. Sembra uno sparo come quelli che si sentono alla televisione, nei film... ma è molto più forte, più spaventoso. Shun si mette a piagnucolare. "Voglio la mamma!..." "Andiamo a cercarla," annuisco, tremando di paura. Avrei bisogno della mamma anch'io... Insieme, tenendoci per mano e facendoci coraggio a vicenda, attraversiamo la casa sprofondata in un silenzio di tomba. Accendo le luci, chiamo: "Mamma?... Papà?" Nessuna risposta... Andiamo alla loro camera. Sento un odore strano, irritante, come di fumo. "Mamma?" Silenzio. "Non ci sono..." singhiozza Shun. "Andiamo via." "No. Lo senti questo odore? Bisogna controllare che non sia un incendio..." Apro la porta. Non l'avessi mai fatto. Vedo la mamma. E' distesa sul letto, la faccia rivolta verso di me. Ha gli occhi aperti ma non mi guarda. Del sangue esce dalla bocca e dalle narici, ed il letto è tutto sporco di sangue. Papà è in un angolo, seduto, la testa reclinata, sfondata da un lato, mentre sulla parete il sangue ed il cervello schizzati colano lasciando orribili strisce rosse. Ha ancora in pugno la pistola con cui si è sparato. Io e Shun restiamo in silenzio a contemplare quella scena, senza nemmeno fiatare. Poi afferro mio fratello, lo volto con la faccia contro di me, lo abbraccio e mi metto a urlare... urlare... *** Tutto è confusione nei miei ricordi. La polizia che invade la casa, medici intorno a noi che ci imbottiscono di sedativi, rapaci parenti che già si fanno avanti per aiutarci, i funerali davanti ai nostri occhi allucinati, con tutti che dicono: lui era molto geloso, ha ucciso la moglie e si è suicidato per il disonore di essere stato tradito da lei, guardate lì la prova! E additano la testa bionda di mio fratello, i suoi occhi verdi. Restiamo soli davanti alle tombe. Non piangiamo nemmeno. Sappiamo perfettamente che anche la nostra vita di un tempo è finita per sempre. "Come facciamo adesso che mamma e papà sono in cielo?" mi chiede Shun. "Non lo so," gli rispondo. "Ora siamo orfani." Alzo le spalle, fissando il vuoto. "Non andrò più a scuola. Andrò a lavorare come faceva papà, e tu dovrai abituarti a stare in casa da solo. Ma ormai sei grande..." Quanto siamo ingenui! Siamo due bambini, i nostri progetti non contano nulla. A casa della gente di cui non sappiamo niente si sta occupando delle faccende di papà. Lugubri individui con valigette annunciano che io passo sotto la tutela di un lontano parente che mi manderà in un collegio. "E Shun?" chiedo, esterrefatto. "Non è mai stato riconosciuto da tuo padre," è la gelida risposta. "E non ha parenti di tua madre che possano occuparsi di lui. Andrà in un orfanotrofio." Lui trema, mi guarda disperato. Io gli prendo una mano e la stringo forte. "In collegio non ci vado senza di lui." "Nessuno ha chiesto il tuo parere." Sento di nuovo quella strana forza, il fuoco dentro di me. Alzo la testa e mi sento molto più grande dei miei undici anni. "Shun è mio fratello. Non lo abbandonerò mai." Un'occhiata ostile, che sembra voler misurare l'acciaio che è in me. Affronto quello sguardo senza battere ciglio. "Bada, ragazzo. La tua famiglia non ha alcun obbligo verso di te, se non morale. Ti stiamo facendo un favore in memoria di tuo padre." "Tenetevi i vostri favori! Voglio stare con mio fratello." "Oh, ma non andrà a star tanto male... troverà senz'altro qualcuno che lo adotti. E tu andrai in un collegio prestigioso, che ti assicurerà un futuro sicuro." A undici anni, dopo aver visto i cadaveri dei genitori, un ragazzino non sa neanche cosa sia il futuro. Mi metto a ridere, sull'orlo dell'isteria. Shun mi tira per la maglia, costringendomi a smettere. "Vai nel bel posto, Ikki." Lo guardo, stupito. E' sull'orlo delle lacrime, col naso rosso, ma quegli occhi grandi mi fissano con una fermezza sconcertante per un bambino della sua età. "E dovrei lasciarti andare in un orfanotrofio?" "Ti ho già fatto troppo male." China lo sguardo, "Tutti dicono che è per colpa mia che papà e mamma sono in cielo. L'ho sentito molte volte." E resta così, chiedendosi forse in cuor suo cosa mai abbia fatto per compiere un'azione tanto malvagia. Capisco che, piccolo com'è, sta cercando di sacrificarsi per espiare la sua colpa inesistente, per salvarmi... "Non dire sciocchezze!" gli dico, con decisione. "Tu non hai colpa di niente! Ascoltami, Shun: ora siamo soli al mondo, tu non hai che me, io non ho che te. Quindi non ci separeremo. Staremo insieme e diventeremo grandi e forti come mamma e papà ci avrebbero voluti." "Ikki..." singhiozza lui, guardandomi. Gli sorrido, e lui risponde al sorriso in mezzo a un torrente di lacrime, la sua mano stringe la mia. "Comincia a imparare a non frignare!" gli dico, imperiosamente, da bravo fratello maggiore. E lui, obbediente, si asciuga le lacrime con la manica. Quindi due paia di occhi pieni di sfida affrontano chi crede di poterci dividere. Nei giorni che seguono provano comunque a separarci. Ma dal momento che nessuno dei miei aspiranti tutori vuole accollarsi l'onere di Shun, io reagisco violentemente, con tutti i mezzi, allo scopo di rendermi impossibile da sopportare. Non ho paura di niente, nulla mi sembra azzardato: minaccio di uccidermi, rompo tutto quel che mi capita a tiro, aggredisco come un gatto infuriato i bravi educatori che mi mandano. Vengo a sapere che Shun da parte sua si rifiuta di mangiare e di bere, si rinchiude terrorizzato dall'idea che lo portino via a forza, e non fa che invocarmi. La nostra guerra si conclude con l'amara vittoria. Senza tutori ufficiali disposti a sopportarmi, io sono un orfano adottabile esattamente come mio fratello. Finalmente uniti, ci caricano su un'automobile e ci portano insieme lontano, alla periferia di una lurida città, per sbatterci in un orrendo orfanotrofio, il peggiore che siano riusciti a trovare. *** I miei ricordi dell'orfanotrofio sono orribili. In un casermone fatiscente che pare una prigione, con sbarre alle finestre e lugubri camerate, sono riuniti dei minorenni abbandonati da tutti, sotto la tutela di persone a cui non interessa nulla di loro. Lì dentro vige la legge del più forte, anche per le cose più stupide o elementari come il gioco, il cibo o il sonno. I più grandi impongono le loro angherie sui più piccoli. E bisogna difendersi anche dagli adulti che a volte, invece di accudirci, sfogano su di noi le loro frustrazioni. Siamo le vittime perfette: chi potrebbe impedirglielo? I genitori che non abbiamo? Ora ho capito le terribili parole di papà che mi sono rimaste sempre incise nel cuore... so cosa vuol dire essere un piccolo bastardo gaijin. Sono diverso da tutti gli altri bambini rinchiusi qua dentro. E sono diverso anche da Ikki, una cosa che sapevo di già, ma che non immaginavo così vergognosa... Non c'è stato nessuno che, vedendomi assieme a lui, abbia mancato di riderci in faccia e dire: "Fratelli, voi due?! Ma se non avete niente in comune!" "Il sangue," è la gelida replica di Ikki. "Che razza di sangue accomuna un mezzo-negro come te e un bianco come lui?" è la battuta che segue invariabilmente, quando invece non insultano nostra madre. Chiamano Ikki mezzo-negro perché ha la pelle scura come la mamma. Però il sangue polinesiano gli ha dato anche una statura e una vitalità tali da farlo sembrare più grande della sua età. Mangia come un lupo lo squallido vitto che ci passano, e coltiva la sua forza, imponendola ben presto in quel girone infernale e ritagliandoci così una finestra di pace. Ma diventa sempre più violento, sembra destinato a diventare il peggiore di tutti i delinquenti che crescono lì dentro: l'unico futuro che si intravede per lui è quello di un boss della Yakuza. Io cerco di non dover dipendere da lui, ma sono troppo piccolo, ed il mio aspetto non mi aiuta: sembro proprio una vittima predestinata. Sono fragile, diverso, incapace di difendermi; ovviamente per questo non ho amici tra i bambini, che mi emarginano e mi disprezzano. Mi apprezzano molto invece quelli che vogliono sentirsi grandi pestando qualcuno più debole di loro: non mi lasciano in pace, riesco a respirare solo perché hanno paura di mio fratello. Ma tutto questo è niente a paragone di ciò che devo sopportare dagli adulti: ci sono due o tre depravati tra i nostri assistenti che mi trovano morbosamente interessante: mi chiamano bella bambina bianca, e a volte riescono a chiudersi in bagno con me, facendo delle cose che non capisco, ma che mi fanno terribilmente vergognare... Non oso raccontare a Ikki quelle esperienze scioccanti, già si è procurato un coltello e dice che lo userà su chi mi mette le mani addosso: se sapesse chi mi fa questo lo assalirebbe, e lo getterebbero di conseguenza in un carcere minorile, un altro giovane disadattato, lui che poteva essere il brillante erede delle industrie di papà... No, non posso fargli questo, dopo che ha già perso tutto per me. Così taccio, stringo i denti, e vivo faticosamente ogni giorno, isolandomi sempre più nel mio mondo di fantasie per non vedere, non sentire, non ricordare. Mi accorgo dai vestiti che sto crescendo, ma continuo a restare gracile. Alla notte sono sconvolto da incubi orrendi, mi metto a gridare inzuppato di sudore, finché non sento le braccia di mio fratello che mi stringono affettuosamente, la sua voce che mi sussurra: "Non è niente, Shun, non aver paura, sono qui con te." Mi accarezza i capelli rasati, come li abbiamo tutti perché qui è pieno di pidocchi, e mi ripete: "Sono qui con te." Se non ci fosse lui mi lascerei semplicemente morire. Finché un giorno il direttore ci porta tutti e due in una stanza appena imbiancata, con ampi divani, un tavolino con un portacenere pieno di mozziconi di sigarette. Un imponente signore anziano, vestito all'occidentale, ci squadra in silenzio. Poi la sua voce di basso esce, simile a un brontolio. "Avevo chiesto solo il ragazzo." Indica Ikki, poi me. "Chi è questo bambino?" "E' suo fratello, o almeno così dicono," dice il direttore con sussiego. "Mi spiace, stanno sempre assieme... è impossibile separarli." "Suo fratello?" Gli occhi del signore si aprono appena, nella consueta sorpresa. Ma stavolta niente battute. "Capisco," dice semplicemente. Mi squadra intensamente, ed io scopro che non riesco a sfuggire il suo sguardo... sento qualcosa dentro che si agita, qualcosa che non comprendo. Il signore assume un'espressione strana, sorride lievemente. "Ahhh... notevole. Davvero notevole." A Ikki non piace quello sguardo, interpreta male quelle parole, mi vede tremare lievemente e reagisce con la consueta irruenza. "Stai spaventando mio fratello, vecchio pederasta!" Il direttore diventa paonazzo, fa un passo avanti con la mano levata. "Silenzio, razza di delinquente! Comportati con rispetto o ti..." "La prego," dice il signore alzando una mano, e il direttore tace di colpo come se a parlare fosse stato il suo padrone. Lo sguardo del signore passa ad Ikki, lo squadra con la stessa intensità, a lungo. Mio fratello resta incatenato come me, vedo tremare anche lui e ne sono stupito... "Hai mai guardato le stelle, ragazzo?" Quella strana domanda mi turba. Vedo Ikki tentare di recuperare la sua aria spavalda, e non riuscirci. Anche lui è stranamente scosso. "Bene," dice il signore con aria definitiva. Si alza maestosamente. "Li prendo tutti e due. Si occupi lei dei documenti." "Si, signore," dice il direttore inchinandosi. "Ehi, che significa?!" chiede Ikki, facendo un passo avanti. "Significa che ve ne andate da qui. Questo signore è il duca Alman di Thule, il patrono della Grande Fondazione. Vi accoglie nella sua scuola speciale, la Saint George a Nuova Luxor. Ringraziatelo! Specialmente tu, teppista dalla lingua lunga, che forse così potrai scampare dalla strada che ti aspetta." "Ringrazierò quando avrò visto che razza di favore ci ha fatto," replica Ikki, "Questo posto schifoso mi ha insegnato che nessuno regala niente." Il direttore si volta verso il signore, esasperato. "Mi perdoni, milord... questo ragazzo è il peggiore che abbiamo, un tale insolente..." Il signore sorride appena. "Si, ma ha ragione quando dice che nessuno regala niente. Tutto ha un prezzo. Del resto io non sono un benefattore, ma solo uno strumento del destino." Per un attimo il suo sguardo ritorna a Ikki, che suo malgrado è rimasto colpito da quelle parole. Poi esce dalla stanza, accompagnato dal direttore. E così, in pochi minuti, quella tetra parte della nostra vita si chiude per sempre! *** Ci vengono a prendere con una grossa automobile, ci portano all'aeroporto dopo un viaggio di ore: lì ci prendono in consegna altri eleganti signori, che ci fanno salire su un aereo di linea per Nuova Luxor. E' la prima volta che io e Shun voliamo, lui non nasconde la sua eccitazione, io osservo tutto, faccio domande su domande ai nostri accompagnatori, cerco di rammentare nozioni scolastiche che sembrano lontane anni luce. Nuova Luxor è una città modernissima sorta come ponte ideale tra Est ed Ovest. E' stata voluta, patrocinata ed eretta dalle Cinque Stelle, cinque megagruppi industriali sorti dopo la Grande Crisi: enormi holdings multinazionali con sedi nelle più ricche città dell'Oriente e dell'Occidente. Vengo a sapere che tutte queste società fanno a capo in un modo o nell'altro al duca Alman di Thule: un gentiluomo occidentale che si è spostato da anni in Oriente per potenziare lì i suoi sterminati interessi. La Grande Fondazione è il braccio filantropico di questo ragguardevole potere economico. Possiede scuole, musei, ospedali, orfanotrofi, case di riposo. Non solo, ma è in grado di rivaleggiare con le Nazioni Unite nell'invio di aiuti umanitari a paesi disastrati, grazie ad una flotta aerea e mercantile degna di una nazione. Naturalmente per questo il nome del duca Alman è molto stimato, benché il gentiluomo sia molto schivo a mostrarsi in pubblico. Il viaggio in aereo ci sembra durare un attimo. Atterriamo in una città sfolgorante di luci ed edifici in vetrocemento. Il clima è temperato, l'aria sa del mare su cui Nuova Luxor si stende con i suoi enormi porti. Un'altra automobile ci aspetta: i nostri accompagnatori ci fanno salire e ci salutano indifferenti. Un autista taciturno ci porta fuori dal centro urbano, fino a una tenuta che definire faraonica è riduttivo. All'imponente cancello il nostro autista mostra dei documenti. Quindi svolta in una strada deserta che si addentra in un bosco. Intravediamo qua e là degli edifici dall'aspetto nuovo e splendente. Tutto intorno a noi è curato all'inverosimile, e noto parecchie pattuglie di sorveglianza interna. La nostra automobile va avanti, sempre più avanti... sembra non dover arrivare mai alla fine di quel regno privato. Finalmente giungiamo in un giardino dove sorge una magnifica costruzione in stile vittoriano. L'automobile si ferma, l'autista ci fa scendere e se ne va. Noi due restiamo lì immobili l'uno accanto all'altro, con le nostre sacche, guardandoci intorno come due sonnambuli. "Stiamo dormendo e questo è un sogno..." mormora Shun, con un filo di voce. "Non ci credo. Questa sarebbe la scuola Saint George?!" Mi gratto la testa, "Proprio come il nostro orfanotrofio, eh?" Dall'edificio escono tre energumeni in giacca, cravatta e occhiali neri. Quello di mezzo è calvo. Ci si avvicinano, si fermano ed il calvo esordisce: "Dunque siete voi i nuovi allievi? Benvenuti al Saint George." Consulta un notepad elettronico che cava dalla tasca. "Uhm... uno troppo vecchio e l'altro troppo giovane. Ma se lo dice il duca..." borbotta. E poi, a voce alta: "Tu, biondino, dovresti essere. .." "Shun Haneka..." Si interrompe, continua in tono più dimesso: "Shun Kieunemo, signore." "E tu, ragazzo, sei Ikki Hanekawa, giusto?" "Giusto." Metto una mano sulla spalla di Shun, e aggiungo a scanso equivoci: "Questo è mio fratello." Il calvo si toglie gli occhiali, ci squadra. "Cognomi diversi, razze diverse... e siete fratelli? Ma state scherzando!" "Kieunemo è il cognome di mia madre!" tuono io. "Finlandese?" Fa dello spirito, il pelato... non vede che sono un po' scuro per essere finlandese? "Isole Tuamotu, signore," risponde Shun per me. "Mamma era polinesiana." "Beh, se lo dite voi... si mette in dubbio il padre, a volte, ma almeno la propria madre si dovrebbe conoscerla." Ho voglia di spaccargli la faccia, a quello lì. "Se dite la verità..." consulta il notepad, "Uhm, e la state dicendo, il cognome della madre corrisponde... beh, costituite un'ulteriore eccezione. In genere non si prendono fratelli in questa scuola. Ma se lo dice il duca..." Se lo dice il duca! Sembra essere la sua religione. "Bene, vorrà dire che vi metterò insieme, così non dovrete perdere tempo a fraternizzare. Mollate quei sacchi ed entrate, ma innanzitutto filate ai bagni che i signori qui vi mostreranno. Mi sa che siete un po' pidocchiosi, voi due." "Beh, almeno lei non ha di questi problemi," dico io, sfacciatamente. I due gorilla si toccano gli occhiali, sogghignando. Il calvo digrigna i denti della sua vasta mascella. "Ehi, ragazzo, fa' meno lo spiritoso con me, chiaro?" "Posso sapere chi è lei?" "Io sono quello a cui tu devi obbedire a bacchetta e senza discussioni o battute di spirito. Chiaro?" L'ultima parola è un urlo militaresco. "Con calma, vecchio mio, con calma," dice una voce alle nostre spalle, "Non prendere di punta qualcuno con il carattere uguale al tuo." Ci voltiamo e vediamo il duca Alman che avanza solennemente, tenendo per mano una bambina europea dai lunghi capelli castani. Stavolta è vestito alla giapponese, con una casacca cerimoniale, hô, kosode e ampi hakama di seta blu. Sembra uno shogun uscito da un libro di storia, con la sua severa barba grigia ed il contegno dignitoso: gli mancano solo le spade. I tre energumeni si inchinano profondamente, ma egli non si degna di restituire il saluto. Si rivolge a me e dice: "Questo signore è Mylock, il mio uomo di fiducia: è lui che si occupa della maggioranza dei miei affari qua dentro. E' un tipo brusco ma efficiente, e non conviene farselo nemico. Questo è naturalmente un consiglio amichevole. Vi inizierà alle regole di questa scuola che devono essere rispettate. Naturalmente per oggi i vostri doveri sono sospesi..." "Doveri?" chiedo, sospettoso. "Ricorda le tue parole, Ikki: nessuno dà niente per niente. Tanto per cominciare sarete accuratamente visitati dalla nostra troupe medica e sulla base dei risultati sarà modellato il vostro programma di sviluppo. Data l'inadeguatezza dell'orfanotrofio dove eravate, sarete sottoposti ad un robusto recupero di studio. Inoltre sarà potenziata la vostra mente e rafforzato il vostro fisico." Com'è categorico, calmo e sicuro di sé... si vede che è abituato a comandare. "Non avrai paura di studiare, proprio tu che sei stato uno studente modello fino alla morte dei tuoi genitori..." "Come lo sa?" chiedo, e poi mi rispondo da solo: ma certo, ha tutti i documenti che mi riguardano, sa tutto della mia vita. Mi lancia appena un cenno di saluto e fa per andarsene. Di nuovo i tre cani da guardia si inchinano e mi lanciano occhiate velenose perché tardo a farlo anch'io. Ma sto guardando quella bambina. Che aria altezzosa! Mi fissa come se non esistessi, tutta avvolta in un vestitino dall'aria molto costosa. Non posso trattenermi. "Guarda, Shun! Non sarai solo qui, c'è un'altra bambina bianca con cui potrai giocare. Coraggio, presentati alla tua compagna di sventura." Lui arrossisce e mi guarda con rimprovero, il calvo fa un passo avanti e abbaia: "Quella è Lady Isabel Saori di Thule, la nipote del duca!..." Il gentiluomo non si scompone. "Hai ragione a chiamarla compagna di sventura: la mia piccola Isabel è orfana come voi, per questo ora vive con me. Mi spiace, ma non avrete compagne di gioco: il Saint George è una scuola maschile. Ci sono altri edifici per ospitare le ragazze, ma ben lontani da qui: non vogliamo distrazioni. In quanto al colore della pelle, troverete che qui certe distinzioni non hanno senso. Ci sono allievi che vengono dai posti più disparati del mondo. Qui ciò che conta è ben altro, e lo imparerete presto. Dimenticate la vostra vecchia esistenza, poiché da oggi comincia per voi una nuova vita." Quelle parole mi riecheggiano dentro, misteriosamente. Nuova vita... nuova vita... morire e poi rinascere... Di nuovo il duca accenna un saluto. "Buona fortuna." Non posso fare a meno di inchinarmi. Ma lo faccio da pari a pari, guardandolo negli occhi e pensando: Non mi fido di te, vecchio! Lui capisce perfettamente la sfumatura del mio inchino, sorride lievemente e se ne va. "Muovetevi," ringhia Mylock, di nuovo padrone della situazione, "Entrate!" Obbediamo. Dentro l'edificio è bellissimo, tutto letteralmente scintilla di pulizia impeccabile. Saliamo uno scalone, con Shun che mi tiene per mano, rischiando di inciampare ad ogni gradino da tanto si guarda intorno a bocca aperta. Povero piccolo! Sta credendo di vivere in un sogno, dopo quel che ha provato negli anni in orfanotrofio. Qualunque siano le mie riserve sulla generosità del duca Alman, devo accettarla per il bene di mio fratello. Non è mai stato particolarmente florido se non da lattante, ma ora è pallido da far paura, magro come uno scheletro, con quei capelli a spazzola e quegli occhi spalancati sembra un bimbo reduce dalla guerra. I bagni sono un'esperienza memorabile: ci portano in un luogo pulito, con una fila di lavandini, una fila di docce, una fila di gabinetti ognuno con la sua porticina... altroché i cessi puzzolenti dell'orfanotrofio! Ci sottoponiamo alla pulizia con piacere: non vediamo l'ora di toglierci di dosso l'odore di quel postaccio. Io sono abbastanza grande da lavarmi da solo, mentre Shun viene energicamente insaponato da un assistente, che lo caccia poi sotto il getto dell'acqua calda. Finisco di lavarmi i denti e lui è ancora lì, a occhi chiusi in totale beatitudine: bisogna fargli violenza per tirarlo fuori dalla doccia. Ci asciughiamo ridendo, ci vestiamo con delle tute pulite che ci hanno procurato: dei nostri sacchi non c'è più traccia. Mylock ci ha aspettato fuori e ora rogna: "Ce ne avete messo del tempo, eravate così sudici?!" "Ci scusi, signore, è stata colpa mia," dice Shun, con la sua vocetta gentile. Quell'energumeno fa una faccia imbronciata, ma l'espressione di mio fratello smonterebbe anche Belzebù in persona. "Al diavolo, in fin dei conti è il vostro primo giorno, bisogna fare delle concessioni." Mi lancia un'occhiataccia, "Educato il signorino, ma dubito che sia opera tua." "Infatti," dico io acidamente, "E' nato così." "Povero lui. Essere gentili non è sempre una fortuna." "Lei deve aver fatto spesso questa esperienza," ribatto, ironicamente. Ci porta in una piccola stanza fresca, con una finestra sul giardino, un letto a castello, due tavolini con sedie, un armadio. "Questa è la vostra stanza." Restiamo di sasso tutti e due. Una stanza tutta per noi!... Ci aspettavamo la solita camerata con i letti in fila. Per un attimo anch'io sono travolto dall'emozione. Non ho potuto stare da solo dal giorno in cui papà e mamma sono morti... "Quando sentirete una campanella potrete scendere in giardino a giocare con gli altri ragazzi. Vi spiegheranno loro o chi li sorveglia quali sono le regole di questa casa. Comportatevi bene e non gironzolate troppo in giro. Comunque da domani il tempo di gironzolare non lo avrete più, ve lo garantisco." Se ne va, chiudendo la porta alle sue spalle. Per un lungo momento io e mio fratello restiamo immobili. Poi ci mettiamo a saltare di gioia come due imbecilli. Shun corre alla finestra e la spalanca, stufo com'è delle sbarre da galera dell'orfanotrofio. Io mi arrampico sul letto più alto e ne provo la morbidezza e la pulizia. Nell'armadio troviamo tutto ciò che ci serve, preordinato con una cura scrupolosa: persino le taglie dei vestiti corrispondono. Shun guarda tutto con gli occhi sgranati, e poi, come al solito, si mette a piangere. "Beh, e che hai da frignare stavolta?" gli chiedo, stupito. "E' che tutto è così... così... bello," singhiozza, "Credo che mamma e papà ci abbiano mandati qua." "Lo spero, anche se quel pelato ci ha detto che tra poco non avremo tempo nemmeno per pisciare." "Ma io non ho potuto mai andare a scuola... a una scuola vera." Mi guarda, con i suoi occhioni lustri. "Ho tanta voglia di imparare cose nuove, di fare qualcosa di nuovo. Ho dormito anche troppo nell'orfanotrofio..." Mi incupisco, gli do una manata affettuosa in testa. "Hai ragione, bimbo. E spero che siano state proprio le anime dei nostri genitori a spedirci qui. Un po' di fortuna potremmo anche meritarcela ogni tanto. E se non sarà così... beh, ricorda sempre che ciò che non ci uccide ci rende più forti!" Gli asciugo le lacrime. "Buttati a letto e fatti un riposino, sei stanco morto." Lui fa come gli ho detto, ed effettivamente è stanco, la doccia bollente l'ha stroncato del tutto: in pochi minuti dorme come un angioletto. Io mi stendo a mia volta sul letto di sopra, ma non riesco a prendere sonno. Mi chiedo spaventato quale prezzo potrà mai chiedere Alman di Thule per quel trattamento da principi... Al diavolo! Mi chiedesse anche di baciargli il culo, lo farei! Da quanto tempo non sentivo più la risata di mio fratello? Io ormai sono grande, ho già quattordici anni e me ne sento addosso il doppio: mi piacciono le comodità ma ne posso anche fare a meno... No, non è vero, grida qualcosa in me. Ho solo quattordici anni, e ne ho vissuti undici avendo tutto e tre privato di tutto... un letto pulito e morbido, una stanza silenziosa e fresca, la pace di una casa circondata da alberi sono cose di cui avevo bisogno, un disperato bisogno. E siccome mio fratello dorme e non può vedermi, finalmente mi lascio andare e immagino di essere in grembo a mia mamma, infilo la faccia nel cuscino e piango in silenzio.
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