DISCLAIMER: niente
di tutto ciò è mio; Ru e Hana, oltre ad appartenersi reciprocamente, sono di
Inoue sensei.
Il titolo. “It ends
here tonight”, è stato da me abilmente fregato dalla fine del ritornello di:
“My last Breath” degli Evanescence. La canzone (bellissima), non centra una
mazza con il resto della trama, solo il titolo, e, com’è ovvio, non mi
appartiene…C’è anke una strofa di “Taking over me” alla fine, tra parentesi…
Se tutto ciò fosse
mio, temo che sarei in perpetua vacanza ai carabi …con chi, lascio ai più
immaginarlo….
Solo ,
permettetemelo,la madre e il padre di Ru, e la vecchia (che nn ha neanke 1
nome..) sono creazioni mie… anche se, diciamoci la verità, il padre di RuPucci
somiglia pericolosamente a qualcuno…
NOTE:
Fiuuuuu.... finalmente alla fine!!! Ok, qs capitolo è ancora triste
deprimente, ecc ecc, però si prospetta con una happy end dolce dolce,
promesso!! Devo ringraziare chi mi ha dato l’idea d un flash back sull’infanzia
d Ru, e ki mi ha fatto pensare al “padre” di Ru… grazie a tutte voi x
l’incoraggiamento e x nn avermi ancora squartato… sxo d meritarmi la vostra
clemenza!!!
DEDICO questo
capitolo a tutte le persone che mi sopportano…con la mia mente svagata, il mio
cervello in sciopero continuo, i miei ritardi colossali, la mia memoria di
palta…vi voglio un gran bene, sappiatelo…
OKKIO!! Violenza su un minore
XMAS’ ELEGY FOR TORTURED SOULS
Rinie
PT.3 – IT ENDS HERE TONIGHT
Natale
Finalmente
era Natale.
La vecchia
aprì la finestra che dava sul cortile fangoso, e stette a guardare un po’ il
cielo nero come catrame liquido.
Era
da poco passata la mezzanotte, e faceva anche freddo, quel freddo gelido,
secco, che accompagna sempre una bella nevicata come si deve. Eppure non aveva
sonno, e neanche voglia di rientrare nella stanza riscaldata dalla stufa a
legna. Stava bene così: si sentiva felice; nonostante fosse vecchia, sola e
molto, molto povera. Ma che importa tutto questo se si può passare la giornata
di Natale in compagnia?
Il
soggiorno era occupato, e di conseguenza il letto pure, ma che importava… erano
occupati da chi le avrebbe fatto compagnia per un bel po’… Per quella sera
avrebbe dormito su una sedia, in cucina, davanti alla stufa… o forse non
avrebbe dormito affatto. D’altra parte di là c’era qualcuno che poteva aver
bisogno di lei…
Si
strinse nello scialle di lana logora, e si riassettò i capelli bianco grigio
sporco che le erano usciti dalla crocchia improvvisata, tenuta insieme con lo
spago.
E mentre
abbassava la mano si soffermò ad osservarla; una mano rugosa, segnata dal
tempo… Eppure piena, e stranamente rosea. Avrebbe preferito mille volte che non
fosse così; avrebbe preferito che fosse secca e ingiallita come una mano
qualsiasi di una qualsiasi vecchietta…E invece così non era. Quella mano, anzi,
quelle mani, erano il segno del suo peccato… Se si può chiamar peccato quello
che aveva fatto per anni per campare, finché la vecchiaia e il disgusto non si
erano fatti strada, e aveva deciso di mollare… Al momento se ne era sentita
fiera; lasciare tutto, ricominciare da capo a sessant’anni passati non era
facile. Ma ora, dopo aver visto quel che aveva visto, aveva capito che forse se
fosse restata avrebbe potuto fare qualcosa… qualcosa di più per qualche povera
creatura… come lui…
Beh…
qualcosa l’aveva pur fatto… pensò mentre abbassava la mano… Non poteva dire che
fosse molto, però l’aveva fatto…
Ahi…
cominciavano a farle male le ossa… Non le faceva bene tutto quel freddo,
decisamente no…
Decise che sarebbe rientrata, e poi avrebbe
magari schiacciato un pisolino sulla sedia a dondolo… poi sarebbe tornata a
dare un occhio ai ragazzi.
L’aveva
riconosciuto dalle mani.
Ecco,
si era rimessa a pensare… e dire che voleva dormire.
Aveva
chiuso la finestra, serrato la porta, si era seduta sulla sedia con una coperta
sulle ginocchia… Per dormire… come no…
Tutto
cospirava per farle tornare in mente il ragazzo che giaceva in soggiorno… non
da solo…
Si,
l’aveva riconosciuto dalle mani.
Insomma,
non si sarebbe certo fermata , se non avesse visto le mani.
Di
gente che faceva pazzie come buttarsi in un lago gelato la vigilia di Natale ce
n’era…e lei di gente folle nella sua vita ne aveva conosciuta tanta… Quindi non
ci avrebbe dato un secondo sguardo, a quei due, anche se le intralciavano il
passo.
Si,
passeggiare in riva al laghetto del parco nel cuore della notte era una delle
pazzie che si concedeva anche lei… quel posto aveva un che di stranamente…
limpido, sereno… pacifico… inquietante… sogghignò a occhi chiusi. Molti lo
trovavano inquietante, con due o tre lampioni accesi a illuminare la distesa
nera… e per questo lo evitavano… e per questo lei ci andava…così, per
dimenticare un po’ delle brutture che aveva visto per tutta la vita, per vedere
qualcosa di bello ogni tanto… qualcuno andava ai musei, lei andava in riva al
laghetto…
Comunque…
dov’era rimasta? Ah, si, quei due la intralciavano. Però avrebbe potuto
passarci di fianco. Avrebbe potuto ignorarli… Anche se erano in due… uomini …
abbracciati e nudi… qualcuno li avrebbe addirittura guardati con disgusto.. lei
no, figuriamoci se una cosa del genere
avrebbe potuto disgustarla… erano ben
altre le cose a disgustarla.
Lei
avrebbe potuto guardarli con un filo, ma giusto un filo di curiosità, e poi
tirare dritta, per la sua strada, continuando le sue speculazioni da vecchietta
sola e triste la vigilia di Natale.
Però
aveva visto le mani… le mani di uno dei due ragazzi. Se non avesse visto quelle
mani, non l’avrebbe mai riconosciuto.
Le
mani del ragazzo dalla pelle livida… quello con i capelli neri. Quello che non
si capiva dove finisse la neve e dove cominciasse lui, per intendersi. Mani che
quasi scomparivano, mani tanto esili e fragili che non sembravano neanche mani
da uomo. Mani così belle, rosee, bianche, che potavano appartenere a una sola
persona..se persona si poteva chiamare chi era stato declassato al rango di
bestia dal suo padrone.
Mani
da prostituta.
Ma
non da normale puttana.
Solo
loro, gli eletti, quelle e quelli che lavoravano in case di un certo livello
avevano mani così.
E
solo un ragazzo che facesse quel tipo di lavoro in quel tipo di condizioni, con
quel tipo di trattamento, poteva permettersi di avere mani così.
In
particolare uno di loro…
Kaede non era certo la più bella; normali capelli
neri; normale pelle chiara; normale corpo esile, sottile, vagamente
aggraziato.Un corpo da normalissima orientale. Niente di che. E con gli occhi
quasi privi di luce. Occhi spenti, annebbiati, cerchiati di rosso, per il
freddo o per la mancanza di sonno… o per chissà cos’ altro… Delle belle mani.
La vecchia si ricordava quando l’aveva vista per la prima volta, aveva notato
subito le mani; l’aveva trovata agonizzante, nel buio di un vicolo. Era mattino
presto, e la ragazza aveva i vestiti stropicciati, puzzolenti di alcool, di
sudore, di fumo di sigaretta. Era una di quelle che lavoravano per strada. Lei
all’epoca se ne faceva un vanto. Era più bella di tutte le altre, e quindi
lavorava direttamente nella grande casa, nella lussuosissima casa del padrone.
Al contrario di quella disgraziata che stava rimettendo l’anima nel vicolo.
L’aveva abbordata e guardata con severità; quell’esile scarto di umanità le
aveva fatto pena. Erano anni che non provava più alcun tipo di sentimento, se
non la ansiosa attesa di ricevere lo stipendio mensile, e un senso di cinico
distacco da tutto; ma ora quella ragazza le aveva fatto tanta, troppa pena. Sapeva cosa voleva dire; incarnato
grigiastro, disperazione completa dipinta sul volto… nonché la pozza rancida
che stava lì ai suoi piedi… già… in quell’ambiente, poteva dire solo una cosa…
“ti sei messa nei guai…” le aveva detto, sollevandole una ciocca della frangia.
Kaede non le aveva risposto. Aveva ricominciato a piangere, anzi, a singhiozzare, a singultare come una condannata
al rogo. “piccola incosciente… “aveva sussurrato.
Caso
strano… era la prima volta che vedeva una di loro… Non una delle puttane di
strada (figuriamoci, c’era passata anche lei), ma che vedeva una di loro
…”appesantita”… di solito quelle che si facevano fregare, che si facevano
mettere incinte venivano obbligate ad abortire, immediatamente, oppure venivano
spedite in qualche ospedale a completare la gravidanza (e il bambino, poi,
chissà dove finiva…); oppure se ne andavano, per morire di stenti da qualche
altra parte, insieme alla loro creatura. Questa invece era rimasta, l’avevano
tenuta, ed era ancora “in servizio”… caso strano… aveva pensato lei… ma presto
avrebbe capito che più che strano, quel caso si poteva definire “eccezionale”.
Dopo aver dato una mano alla povera disgraziata, averla fatta sedere, averle
dato da bere, averla calmata (anche se il massimo che era riuscita a sfoderare
era stato un tono burbero e distaccato), la ragazza aveva attaccato a parlare.
Non erano diventate amiche. No, questo non poteva dirlo… nel suo campo ogni
collega era anche una rivale… Ogni ragazza che fosse di “rango” inferiore era
una sottoposta, una da guardare dall’alto al basso… da non avvicinare, da
ignorare o da schernire… al massimo da aiutare se proprio se ne era impietositi…
ma la pietà non serviva a una niente a ragazze come loro…ad ogni modo, avevano
parlato poco, e poi l’altra era sparita. Ma la era rimasta in mente, quella
donna che singhiozzava per un figlio che non avrebbe voluto… E le era anche
rimasto in mente che fosse decisamente un caso strano. Poi col tempo non ci
aveva più pensato. Finché, una notte aveva sentito un trambusto insolito. Era
strano anche quello. Di solito un silenzio ovattato regnava nella casa di
appuntamenti più rinomata di Kanagawa. Il fatto che tale silenzio fosse rotto
poteva voler dire una sola cosa: guai.
Aveva
gentilmente abbandonato il suo cliente alle braccia di Morfeo, si era levata
dal letto ed era andata a dare un’occhiata. Due uomini (che aveva riconosciuto
essere i sottoposti nonché sicari nonché fedelissime nonché guardie del corpo
del capo) portavano qualcosa. Uno un corpo. Di donna, probabilmente, a
giudicare dalle gambe nude macchiate di sangue che penzolavano dalle spalle del
primo; e l’altro un fagotto non meglio identificato.Erano entrati direttamente
nell’appartamento privato del capo. Solo lei, tra le tante, vi aveva accesso.
Era una delle preferite da lui. E sapeva tener la bocca chiusa, al contrario di
tante altre. Si era accomodata sul divano. Lui le aveva fatto cenno di
avvicinarsi. Le aveva cinto la vita con un braccio e aveva chiesto agli uomini
di buttare a terra la ragazza. Se era rimasta stupita, non lo aveva dato a
vedere. Perché la donna che giaceva a terra, morta probabilmente di
congelamento, durante le doglie del parto, o per il troppo sangue perso, o per
la fatica e lo stremo – non avrebbe saputo dirlo- era la stessa sventurata che
aveva raccattato quel giorno nel vicolo. Era morta durante il parto, dunque, o
poco dopo. Non l’avevano portata all’ospedale. Probabilmente neanche aiutata ad
arrivarci. Forse le avevano addirittura IMPEDITO di arrivare all’ospedale. La
visione era raccapricciante, ma questo non le impedì di provare, oltre che
pietà, anche tristezza, un filo di tristezza per quella donna. E per il suo
bambino. Chissà che fine aveva fatto, si era chiesta. La risposta le era
arrivata subito, troppo presto… L’altro uomo aveva svolto il fagottino che
teneva in braccio. Ne era comparso un bambino…Kami sama… un bellissimo,
delicatissimo, adorabile bambino… La cui purezza faceva a pugni con l’ambiente
che lo circondava…Le bastò un attimo, un solo, unico sguardo per capire tutto:
due fanali blu oltremare la guardavano pacifici e incuriositi dal mezzo di un
visino esile, delicato, con la pelle ancora arrossata. I pochi ma finissimi
capelli neri stavano appiccicati sulla fronte minuta. Il taglio degli occhi, e
il loro colore… Si era voltata verso il capo; lui aveva gli stessi occhi, lo
stesso taglio… Occhi blu… Rari, anzi, rarissimi in Giappone. La madre aveva gli
occhi color nocciola. Il capo guardava il bambino come avrebbe guardato
qualsiasi cosa gli potesse fruttare denaro; o meglio, cercava d capire come
quella piccola cosa avrebbe potuto tornargli utile;… Non lo guardava certo come
un padre avrebbe dovuto guardare suo figlio; ma d’altra parte era già stato
tutto programmato da tempo; Lei non si raccapezzava di come quell’uomo, ricco,
potente e bellissimo, avesse potuto cascare per una semplice prostituta tra le
tante che gestiva; Ma quando il danno era stato fatto, quell’essere che alcuni
si ostinavano a chiamare uomo, aveva evidentemente pensato che non tutto il
male potesse venire per nuocere; il bambino gli sarebbe servito; e lei che si
era chiesta come mai avessero tenuto la madre; era così semplice… La donna era
già predestinata; sarebbe morta per il parto, per gli stenti, per il freddo, o
forse non sarebbe morta affatto, ma che importava? Il bambino… quello si che
sarebbe tornato utile, il capo sapeva cosa avrebbe significato avere un figlio
clandestino; non avrebbe dovuto riconoscerlo; non avrebbe dovuto occuparsi
della madre; ma soprattutto avrebbe potuto fare del piccolo quel che voleva.
Così, eccolo lì, il figlio del capo. “Kaede” aveva sussurrato lui, quell’uomo
che viveva per i soldi, nei soldi, e con i soldi. Che con i soldi si era
sposato, e che non aveva un cuore, ma una calcolatrice, una cassa, una pistola.
Proprio quell’uomo aveva in quel momento scostato i pochi capelli dalla fronte
minuscola del figlio, come per accarezzarlo. Poi aveva sorriso.Un sorriso così
gelido, vuoto, raccapricciante che aveva accapponato la pelle pure a lei, che
alla crudeltà di quell’uomo ci era pure fin troppo abituata. Gli anni erano poi
passati di un soffio. Il bimbo era cresciuto nel lusso della casa principale.
Vezzeggiato ed educato per bene, tra i pizzi, le sete e i velluti. E da quella
casa non era mai uscito. In sette anni di vita non aveva mai conosciuto
nessuno. Mai. Al di fuori della cameriera che lo serviva e di un tutore che gli
insegnava. Non sapeva neanche che faccia avesse suo padre; forse non si era
neanche mai reso conto della necessità di avere un padre e una madre; aveva
vissuto in una torre d’avorio. Lei ogni tanto l’aveva intravisto. Ma
all’interno della casa, nessuno , oltre a lei, ai due più stretti collaboratori
del capo, e al capo stesso, sapeva del bambino che cresceva in grazia e
bellezza. Perché di bellezza, di sicuro si trattava. L’aveva visto ancora il
giorno in cui il piccolo aveva compiuto sette anni; lei ormai era…diciamo pure
sulla strada del declino; perché il capo la tenesse ancora tra le favorite non
l’aveva capito; forse perché lei un’anima ancora ce l’aveva, in fondo; e tutti
abbiamo bisogno di un’anima, che sia la propria o quella di chi ci sta vicino…
il capo, forse, aveva un disperato bisogno della sua. Sta di fatto che il
bambino era apparso da dietro la porta. Vestito con un pigiama di pura seta,
color perla. Lei si era meravigliata. Quel piccola essere non somigliava ne al
padre ne alla madre; era un tesoro di bellezza e di innocenza di per sé: Il
capo era seduto alla scrivania. Kaede si era avvicinato, già incuriosito per la
presenza contemporanea nella stanza di così tante facce nuove; Gli occhi blu
sgranati erano belli e allungati. I capelli erano lisci, neri, sottili. Il viso
regolare, il mento appuntito; il corpo esile, slanciato. Dimostrava più anni di
quanti effettivamente ne avesse. Il viso aveva un incarnato così pallido ed
etereo che lei si chiese se quel bambino avesse mai visto il sole. Poi, di
nuovo, aveva capito; capito come mai il capo l’avesse tenuto segregato per
sette anni nella casa, in un paradiso tutto suo. Un’innocenza, uno stupore, una
curiosità innaturale per chiunque si riflettevano nelle iridi color dei
lapislazzuli.Non aveva mai visto il mondo esterno… Il suo corso di pensieri era
stato interrotto dal capo. L’uomo aveva continuato a guardare il piccolo con un
aria ricolma di desiderio, di fame quasi, di rabbia e felicità così cattivi,
neri, sadici, che le aveva provocato un brivido. “preparalo” le aveva ordinato.Era
tornata nella stanza col piccolo, che non aveva a sua volta staccato gli occhi
dal capo un secondo,e sul letto del bambino aveva trovato una tunichetta
bianca.Non era strano che nella casa le prostitute indossassero abiti
occidentali. Solo il bambino aveva indossato fino a quel giorno abiti
orientali. Il cambiamento poteva significare solo una cosa… Non sapeva se al
momento era rimasta scandalizzata.O se semplicemente aveva provato pietà per la
creatura che guardava a tutto con così tanta innocenza. Però l’aveva aiutato a
vestirsi, e quando aveva finito, le erano salite le lacrime agli occhi. Si era
trovata con davanti, una ninfa; un elfo; un folletto. Era così bello e
sovrannaturale nella sua infantile androginia da non sembrare umano. Lascivo. Innocente.
Osceno. Ma non umano. La tunica non aveva fronzoli né oro. Era bianca, e basta.
E si apriva sul petto candido del giovane. Scendeva morbida sulla gambe snelle,
sottolineando in maniera più che provocante la forma dei glutei, la
sottigliezza del ventre. Era tutto così dannatamente chiaro… Quale uomo o donna
avrebbe potuto resistere a una visione di tale bellezza e innocenza? Non certo
uno dei clienti abituali della casa, che trovandosi davanti un tale miracolo di
bellezza, purezza, castità e innocenza, trovandosi come davanti a un essere da
un altro mondo, dall’età e dal sesso indefinito, completamente inesperta in
qualsiasi cosa, attività, sentimento, ecco, quel tipo di uomo non ci avrebbe
pensato due volte a fare di quel ritratto di candore osceno, il suo strumento
di piacere. Con questi pensieri in testa, aveva aiutato come un automa il
bambino a salire sul letto, e lì l’aveva lasciato; quando si era chiusa la
porta alle spalle,uscita dalla direzione opposta dalla quale era entrata, e si
era trovata sola in anticamera, una singola lacrima le era scesa sul volto. Ma
da lì non era riuscita a schiodarsi. Aveva sentito la porta da dov’era entrata
in precedenza aprirsi. Non aveva idea di chi fosse entrato, ma poteva
immaginare la scena. L’uomo, un cliente qualsiasi che si avvicinava al letto, e
rimaneva folgorato dalla visione che ci trovava. Un uomo di mezza età, aveva
pensato. Aveva visto con la mente l’espressione di quell’uomo qualunque farsi
ferale, affamata. L’aveva visto chinarsi sul letto … L’uomo rideva, il bambino
piangeva… lei si era ridotta ad un ammasso di carne piangente… Finito, l’uomo
aveva lasciato la stanza dalla porta da cui era entrato… soddisfatto,
probabilmente… lei si era precipitata dentro… sobbalzando quando aveva visto
quel che aveva visto. Kaede a pancia in giù sul letto. Le braccia aperte ad
angolo retto sul materasso…Sembrava un uccellino spiaccicato sulla
strada…Caduto dal nido… la testa nascosta in un cuscino.Le gambe allargate… Una
dritta, l’altra piegata all’insù…e in mezzo a loro, una piccola pozza di
sangue… che usciva dalle parti intime del bambino… I glutei erano tumefatti in
diversi punti. Le braccia presentavano lividi. La schiena e le spalle graffi
freschi. I capelli erano scarmigliati. Avvicinandosi notò che i polsi recavano
cerchi violacei… l’aveva legato… Ma lui era immobile, neanche un singhiozzo lo
squassava. Lo provò a toccare. La pelle era fredda, anzi, gelida, al punto che
aveva temuto il peggio. Lo aveva sollevato con cautela, temendo una risposta
violenta. Ma lui non aveva reagito…e questo l’aveva preoccupate anche di più…
Il bambino aveva gli occhi aperti… respirava… me in quegli occhi non c’era più
vita… sembravano quelli di un rettile… erano freddi, lontani, distaccati.
Non l’aveva più visto. Quello sguardo le aveva
fatto così paura che non l’aveva più cercato. Sapeva che il ragazzino aveva
cominciato a frequentare anche la scuola…il che era anche più crudele da parte
del padre, dato che sarebbe venuto a contatto con un mondo esterno non certo
compiacente… I bambini possono essere crudeli…i maestri e le maestre, fin
troppo accondiscendenti…Chissà se aveva mai più pianto dopo quella notte? Lei
non lo sapeva, ma temeva che la risposta fosse negativa…Aveva sentito solo urla
di dolore quando il bambino entrava nella stanza del padre… era l’unico che,
con la frusta o con gli schiaffi, riusciva ancora a farlo reagire… Perché Kaede
aveva, evidentemente, un animo indisciplinato… e la disciplina era alla base
delle regole della casa. Forse un giorno aveva capito che quell’uomo che lo
trattava e lo sfruttava come uno schiavo, era suo padre… Ma lei dubitava che
anche in quell’occasione avesse pianto…Totale mancanza di emozioni…
-Ma
ora qualcosa è cambiato…-
si
disse tra sé…Guardando i due giovani abbracciati davanti al camino… Ancora nel
sonno dell’incoscienza… -Si, forse qualcosa è davvero cambiato- E si permise un
altro sorriso… mentre socchiudeva la porta …
Aveva
posto un bacio sulla spalla del ragazzo di fianco a lui. Ed era rimasto così,
in quella posizione, per qualche secondo. La pelle sotto le sue labbra era
calda. Poteva quasi giurare che sapesse di fuoco, di brace di camino.
Era
piacevole.Decisamente piacevole tutto quello.
Come
era stato piacevole ritrovarsi vivo e vegeto sotto le coperte. In una camera
sconosciuta in una casa sconosciuta…Il che non gli importava un granché dato
che il corpo che gli giaceva a fianco non era quello di uno sconosciuto.
Tutt’altro.
Prima
ancora di pensare al motivo effettivo per cui si trovava lì, l’aveva baciato
sulla spalla. Troppo vicina, troppo calda e invitante per poter resistere alla
tentazione folle di poterla gustare.
La
sua scimmia dormiva. Pacifica. Abbandonata nel sonno tranquilla e beata con un
leggero broncio in faccia.
Dormiva
a pancia in giù, la testa voltata dalla sua parte.
Rukawa
giaceva sul fianco. E pensava. Dopo anni in cui pensare aveva avuto significato
equivalente a dolore, ora aveva significato equivalente a …a pace…
Perché
finalmente sentiva caldo.
Per
dieci anni non aveva sentito assolutamente nulla. Poi, da quando aveva
conosciuto Hanamichi, calore bollente. Poi, quando aveva deciso di morire, solo
freddo.
Adesso,
sentiva caldo. Non caldo bruciante. Un bel caldo avvolgente.
E per
questo gli riusciva di pensare. Pensare che gli sarebbe piaciuto baciare
qualcosa di più di quel pezzo misero di pelle scurata dalla luce del fuoco.
Dunque
gli baciò le labbra. Erano calde, come la spalla, ma molto più morbide, e
tumide.
Hanamichi
mormorò qualcosa nel sonno. Rukawa non si scompose, e passò a baciargli il
collo. Quel collo forte, vibrante di sangue, pulsazioni, rabbia repressa.
Succhiò
con violenza la giugulare, e godette di sentire la vita che scorreva sotto quel
sottile strato di pelle.
“Rukawa…”
Il
rosso aveva aperto gli occhi. Ma Rukawa non si scompose, né alzò la testa per
vederli aperti. Avrebbe avuto tempo dopo.
Non
si chiese se la sua vittima fosse consenziente o no su quello che stava per
fargli. Non gli importava. Lo sapeva. Se ne era reso conto. Gli aveva salvato
la vita, no? Doveva ringraziarlo, allora. E Kaede Rukawa, conosceva un solo
modo per ringraziare senza evitare di finire in galera.
Hanamichi
mugugnò qualcosa. E poi spostò le mani in modo che gli stringessero
convulsamente il capo. Tirandogli e schiacciandogli i capelli.
Il
giovane moro proseguì lungo il suo itinerario fino al petto. Era sudato, qua e
là. Gocce di sudore imperlavano muscoli tesi, che sembravano pronti a
scoppiare. La volpe mora passò la sua lingua lentamente e morbidamente su quei
pettorali e su entrambi i capezzoli, brevemente.
Hanamichi,
ansimante, dette un altro gemito soffuso.
Ruakawa
strinse con violenza le dita sulle braccia del ragazzo, lasciandogli quasi i
segni.
Poi,
con le unghie, tracciò il profilo di entrambe le braccia, passando quando
arrivò ai gomiti, ai fianchi, e infine alle anche del ragazzo.
Al
semi dolore, mischiato a una sottile nota di piacere, gli occhi di Hanmichi si
spalancarono.
Cosa
DIAVOLO stava facendo…O meglio…Cosa gli stava facendo quella volpe perversa??
Lo
aveva baciato. Ma non gli aveva dato il tempo di rispondere. Poi lo aveva
torturato. Lo aveva immobilizzato con le mani, trattenendogli a forza le
braccia, lasciandogli con molta probabilità pure dei lividi. Poi, mentre con la
bocca continuava a…ah…torturagli i capezzoli che ormai vivevano una vita
propria in un lontano paradiso terrestre, aveva cominciato a graffiargli le
braccia, i fianchi e le anche, andando sempre, più pericolosamente vicino a un
punto che pulsava facendogli quasi male.
Non che gli dispiacesse, questo trattamento…Però un po’ lo preoccupava…Desiderata l’aveva sempre desiderata, la maledetta volpaccia.
Quando
lo ignorava come se fosse un modulo di arredo. Quando lo guardava come un orso
siberiano guarda un baccalà essiccato. Quando gli vedeva le fiamme rotanti
negli occhi mentre correva verso il canestro e poi…zac…ci incastrava l’ennesimo
punto.
Ecco…in
quei momenti; l’avrebbe ucciso. O l’avrebbe preso e sbattuto sul parquet…non
per prenderlo a botte… (n.d.Rinie…uke riottoso…).
La
pelle di Hanamichi sapeva di tante cose. Di fuoco. Di chiuso. Di lana. Di
cannella. Di sale. Non male…decisamente niente male…
La
lingua volpina continuò a dipingere per un po’ il ventre del rosso, i contorni
delle anche, fino a infilarsi brevemente nell’ombelico.
E poi
scese, e arrivò nel punto dove era più desiderata.
Hanamichi provò un calore al basso ventre
come non l’aveva mai provato. La volpe…la volpe se lo stava succhiando come
fosse un lecca lecca…Lì…si, proprio lì…il cervello di Hanamichi andò in corto
circuito…arrossì…sentì le gote andare a fuoco…e scoprì che anche la stessa
immagine della volpe con il suo membro in bocca era straordinariamente erotica…
Dalla
bocca del rosso ormai, se usciva qualcosa, erano solo gemiti
inarticolati…ansimi..
Hanamichi
si scoprì incapace di tenere gli occhi aperti...la volpe lo leccava e carezzava
in tutta la sua lunghezza, ogni tanto anche sfiorandolo o grattandolo coi
denti… E lo guardava. Lo guardava con quegli occhi blublublu ormai così scuro
da sembrare nero. Le mani bianche poggiate a tenergli giù i fianchi che sennò
si muovevano troppo, in contrasto netto colla sua pelle olivastra, arrossata
dal caldo e dal piacere.
Il
rossino, nel frattempo, si era alzato a poggiarsi sui gomiti, per poter
osservare meglio ciò che al di sotto della sua cintola stava accadendo; ma
presto gettò convulsamente la testa all’indietro, sopraffatto ogni momento di
più dalle onde di piacere che lo riempivano.
E poi
sentì che la volpe gli si stava infilando colle dita in mezzo alle cosce….ehi
ehi ehi…spetta un attimo…Hanamichi fu preso dal panico, e cominciò a dimenarsi
per far capire il suo parziale dissenso alla volpaccia pervertita…cosa pensava
di fare??
Ru
notò l’agitazione del compagno e
abbandonò a se stesso il membro del rossino che ormai era lì lì per scoppiare.
E prese una delle mani di Hanamichi. Con un colpo inatteso e violento portò il
braccio del rosso dietro la di lui testa, e lo spine all’indietro in modo che
Hanamichi, con un gemito di dolore, fu costretto a chinarsi e a tornare supino.
Poi
scivolò lentamente lungo il corpo statuario della vittima, e raggiunse col capo
la parte appena sopra l’ascella del braccio che ancora teneva fissato a terra.
E
cominciò a leccare con lentezza e precisione, la parte interna dall’ascella al
gomito. La pelle lì era morbida, quasi
tenera, anche se il muscolo al di sotto era teso e vibrante. Ed era più chiara
che sul resto del corpo. Con l’altra mano, mentre Hanamichi si dimenava non più
per lo spavento o per il dolore, ma per ben altri motivi…(soffre il solletico
povero pu…hi hi hi), Ru liberava l’altra mano dal nido che s’era trovata tra i
glutei del rosso, e la portava alle labbra del suddetto. Il quale suddetto,
perso nella nebbia e nell’ebbrezza dei sensi, non poté fare a meno di aprire la
bocca alla gentile intrusione. Per un poco le dita del moro vagarono per la
cavità calda che era la bocca di Sakuragi, mentre Hanamichi, gli occhi sempre
socchiusi, le guance sempre a fuoco, il corpo completamente immobile, in balia
della volpe che da una parte gli stava leccando il braccio causandogli brividi
di piacere fino al collo, e dall’altra parte gli stuzzicava la bocca con tre
dita…
Essendo
ormai sconnesso col cervello dal mondo degli uomini, il rossino non si accorse
che la volpe aveva sfilato le dita dalla sua bocca, e le aveva spostate
altrove. In particolare questo altrove era il suo fondoschiena. Se ne accorse
quando entrò il primo dito…poi il secondo…poi il terzo…Rukawa, che aveva sempre
ammirato cotanta beltà di fondoschiena che occhieggiava da sotto i pantaloncini
da basket, non poté che essere una volpe molto soddisfatta dal trovare la sua
preda tutt’ora intatta, stretta e accogliente. Hanamichi se ne rese conto, si
diceva, solo in ritardo, ma non fece in tempo a lamentarsi, dacché le dita del
moro trovarono quasi subito il punto che, sfiorato e disfiorato, portò un paio
di volte Hanamichi a dimenarsi con ancora più convinzione.
Ok…la
volpe lo stava facendo andar via di testa…ma un po’ di autocontrollo…??
Ah…auto…auto…controllo…??
Cos’era l’auto controllo?? Dignità?? …troppo…troppo difficile pensare quando
hai qualcuno che ti lecca e ti fotte con le dita…s, decisamente…e il piacere
era troppo intenso…per permettergli di far appello a quell’orgoglio che aveva
sempre ostentato …
Si,
decisamente era tutto troppo…ma quel troppo non gli dispiaceva per
niente…d’altra parte era sempre stato un ragazzo esagerato…sempre al
limite…della follia, dell’agonismo, dell’egocentrismo…perché smentirsi?
E
così, non oppose resistenza neanche quando la volpe tolse le dita, lo voltò
sulla pancia, gli allargò le gambe e piano piano, in un’agonia di dolore
bruciante, lo penetrò, e si spinse dentro fino in fondo. E mentre faceva tutto
questo, si sdraiava sopra di lui, e gli abbracciava con violenza la vita. Come
se non lo volesse pi lasciare andare.Come se da lui dipendesse tutta la sua
vita, come se stesse affogando, e lui fosse la sua unica ancora al mondo dei
vivi. E si spingeva con ogni colpo più in giù, sempre più contro quel punto che
faceva andare in pappa i pochi neuroni rimanenti al rossino ad ogni botta.
Rossino
che, le braccia liberate, ora stringeva i pugni al coscino, e piegava la testa
da un lato, e poi da un altro, incapace di stare fermo, di placare quel fuoco
che gli divorava le membra.
Sentiva
il respiro rotto di Rukawa sul collo, il peso del suo corpo sopra, la seta dei
suoi capelli che gli sfiorava le spalle, e in un ultimo, poderoso colpo,
esplose, e contrasse i glutei, forte, in un ultimo spasimo e insieme a lui
esplose anche Rukawa.
Respirava.
Si…respirava ancora…riusciva a muovere ancora le braccia…si…ci riusciva…le
gambe…si, anche loro. Sopra di lui la volpe riprendeva fiato…la fronte poggiata
sul suo collo, le braccia ancora strette mollemente attorno alla sua vita.
Anche Hanamichi riprese fiato.
E
mentre tentava di far tornare a un battito regolare il suo cuore impazzito,
sentì le mani di Rukawa muoversi, e carezzando lievemente i suoi fianchi e il
profilo del suo petto, arrivare a poggiarsi sulle sue braccia.
E
vide, così, come in un sogno, come in lontananza, le mani bianche e diafane, e
perfette della volpe, prendere le sue, e vide le loro dita intrecciarsi, e
rimanere così, una contro l’altra. Come i loro corpi. E poi anche il capo della
volpe si mosse, e in un modo o nell’altro, le labbra del moro trovarono quelle
del rossino, e su queste si posarono di sbieco.
E lì
rimasero.
E
così si addormentarono.
Dopo
che Hanamichi si fu addormentato, un sussurro gli uscì dalle labbra:
“Suki
da…arigatou…”
Un
lacrima sola gli solcò il viso.
Rukawa
pianse per la seconda volta nella sua vita.
Ed
era felice.
Felice.
Felice…
and dream I do
Owari
Hiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii…non
ci posso credeeeeeee…l’ho finita veramente!!! Ormai
non ci sperava più nessuno…me compresa…e invece, eccola qui!!!
Bene,,,come
vedete alla fine ho optato per la soluzione più generosa, e ho lasciato vivere
insieme felici e contenti i due puccini!!
Bene…in
realtà avevo pensato anche a un finale alternativo in cui morivano tutti
miseramente…però nn saprete mai come avrebbe potuto finire …hi hi hi…me
perversa ...RinieCheSiCredeKaoriYuki
Bene…mi
spiace aver scomodato anke i sublimi Evanescence per ‘sta ciofeca…e nn so quale
sia il nesso dell’ultima frase qua sopra, scarrafata da “Taking over me”…però
ci stava,e quindi resta dov’è…
Bene…questo
è quanto…spero che la mia fatica e non fatica sia servita a
qualcosa…commenti…molto graditi, ovviamente!!!