Wings

parte I

di Saikaku


< Allora Giulio! Ti vuoi muovere?! Sei in ritardo! Possibile che a 30 anni suonati hai ancora paura di una siringa?>

<Ma come siamo spiritosi oggi… Si sincero e dì che ti interessa avere il bagno libero. E per la cronaca, io ho ancora 27 anni…>

(Ho 27 anni e una paura marcia delle siringhe… Ma perché il dottore mi ha ordinato di fare gli esami del sangue? Bastano dei ricostituenti, sono solo un po’ stressato, non c’è nessun motivo per fare quei maledetti esami e di vedere conficcato nel MIO braccio “mezzo metro” di acciaio sterile…)

In quel momento Giulio si vide rincorso da una siringa gigante che voleva infilzarlo da parte a parte come un pollo allo spiedo, ma venne riportato alla realtà dalla comparsa di Alessandro sulla soglia del bagno.

<Ma come, ti tiri indietro gli anni come fanno le donne? Dovresti vergognarti…> lo canzonò Alex in un tono misto tra lo scandalizzato ed il divertito, quindi aggiunse <E vedi anche di spicciarti che altrimenti faccio tardi per l’ora di matematica.>

<Sappi che un giorno di questi ti strapperò quella tua linguaccia…> rispose Giulio, allontanandosi in direzione dell’ingresso.

<Questa sarebbe una dimostrazione d’affetto? Che fratello degenere…>la voce di Alex si sentiva appena, dietro la porta del bagno.

<Guarda che ti ho sentito! Sono un fratello così degenere che ti ospita in casa sua per non dover fare avanti e indietro da casa di mamma. E scusa se ti sembra poco…>

< ”Ospita”?! Con quello che faccio qui, l’alloggio è pagato, anzi ti dirò di più, è STRA-pagato!!>

<Perché ti devi rifare il letto e pulire camera tua? Dovresti farle anche a casa queste cose, ma la mamma ti ha sempre viziato!>  

La porta del bagno si aprì di scatto e la testa arruffata di Alex si sporse dallo stipite in direzione dell’ingresso.

<Sai una cosa? Quando parli così, ti od…>

Ma le parole gli morirono in gola, trovandosi con il naso a 2 centimetri dalla figura del fratello, che essendo alto 1 metro e 90, da quella distanza incuteva un certo timore.

<Stavi dicendo?> disse Giulio con uno sguardo divertito negli occhi. Alex avrebbe avuto la faccia tosta di concludere la frase, con lui ad un passo?

<Ehm… che dicevo? …Ah! Ma che ti voglio “TAANNTOOO” bene!!> rispose, facendo lo sguardo da angelo immacolato.

<Che ruffiano…> disse Giulio quasi schifato  <Piuttosto, mangi a casa a mezzogiorno?> Giulio ritornò verso l’ingresso dell’appartamento. Alex tirò un sospiro di sollievo.

<Si, oggi mangio a casa. Questa mattina ho solo la lezione di mate, perché il prof. **** non c’è. Deve essere ad un meeting di fisici o una roba del genere…>

<Guarda che fai tardi. Sono già le 7. E sta per piovere…>

<Come se fosse colpa mia! Non sono stato IO in bagno fino ad ora a fare solo Dio sa co…> ma la voce di Giulio lo interruppe.

<Alex…Ci vediamo a pranzo, allora. Ciao>

Alex sentì la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi subito dopo.

<Uff, vuole sempre avere l’ultima parola…> Sbottò, richiudendo la porta del bagno.

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Giulio scese le scale, fino ad arrivare ai garage sotterranei. Anche se abitava al terzo piano, non amava prendere l’ascensore. Anzi, tutto il contrario. Era una delle sue piccole fobie. Quindi si avviò verso la sua macchina. Si fermò di fronte alla portiera, cercando le chiavi nelle tasche del soprabito, quando ripensò alle parole che aveva detto a suo fratello Alex.

(“..la mamma ti ha sempre viziato..” Non è proprio così. O per meglio dire, non è stata l’unica. Io stesso ho contribuito a viziarlo un po’. Quando papà se ne andò, decisi che Alex non ne avrebbe sentito la mancanza, che non avrebbe sofferto per l’egoismo di chi, al contrario, avrebbe dovuto curarlo ed amarlo. Non avrebbe sofferto quello che ho sofferto io. Mai…)

Trovò le chiavi nella tasca destra e sbloccò la portiera della berlina nera. Entrò, accese il motore ed uscì dalla rampa che fungeva sia da ingresso che da uscita per il garage sotterraneo, con destinazione l’ospedale. Solo allora, gli ritornò in mente la siringa gigante che voleva infilzarlo.

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Il cielo, in un giorno di metà novembre, era coperto di grosse nubi grigie, nuvole che non promettevano altro che un gran temporale. Ma questo non aveva certo fermato la solita vivacità della città. Giulio era fermo ad un semaforo quando squillò il cellulare. Attivò il vivavoce e dall’altra parte dell’apparecchio, sentì la voce familiare di sua madre.

<Ciao Giulio, sono mamma. Tutto bene?>

<Ciao mamma. Si tutto bene, sto andando all’ospedale per fare gli esami>

Il semaforo diventò verde e la berlina ripartì. La macchina si spostava dal centro della città, in direzione sud, verso la periferia, con destinazione l’ospedale.

<Finalmente! Oh, ma sei in macchina? Vuoi che ti richiami dopo?>

<No, non serve. Ho messo in vivavoce.>

<Allora va bene. Senti, ma da quanto tempo ti ha chiesto di farli? Un mese?>

<Uff… Sei la solita esagerata. E’ da solo da 2 settimane che ho l’ impegnativa per farli. E’ solo che prima ero impegnato, per via del lavoro…>

<…O per la tua fobia verso gli aghi?>

Anche se non la poteva vedere, Giulio era certo che la madre stesse sogghignando, nel pronunciare quella domanda.

<Ti prego…non infierire anche tu. Ci ha già pensato Alex…>

<A proposito di Alex, si comporta bene, vero? Segue sempre le lezioni?... Sai, un po’ mi manca non averlo più per casa. Quando hai deciso di trasferirti non ho obiettato, c’era di mezzo il tuo lavoro. Ma ora, anche senza Alex, mi sento un po’ sola…>

<Ma se sei stata tu a volere che venisse a stare da me, “che così non doveva perdere troppo tempo in viaggi per andare all’università e dedicarsi di più allo studio”> disse scimmiottando la voce della madre <E poi, sola? Dove le metti quella pletora di vecchie acide pettegole che hai per amiche?>

<Andiamo Giulio! Non essere così negativo… Non sono proprio pettegole, diciamo che a loro piace molto parlare… Uhm! Ok, hai ragione. Sono pettegole… ma acide è un’esagerazione.>

<Devo forse ricordarti di quando vennero a sapere che sono gay e di come la notizia fece il giro del paese in 2 secondi netti? Perfino il postino sapeva che ero un “culattone”.>

< Il paese è piccolo e una cosa del genere non potevi che aspettartela. Comunque le conosco da quando siamo arrivati qui, e quando tuo padre se ne andò, mi sono state molto vicine.>

La berlina nera entrò nell’ampio parcheggio dell’ospedale, ma si fermò lontano dall’entrata principale, i posti più vicini era no già tutti occupati.

<Questo è vero. Una cosa giusta l’hanno fatta… Ora ti devo lasciare, sono arrivato. Se mi perdo in chiacchiere, rischio di far andare a benedire il mio proposito di fare l’esame. Ci risentiamo questa sera, per decidere i preparativi della cena per il compleanno del nonno?>

<Oh cielo! Il nonno! Mi stavo dimenticando! Per fortuna che ci sei tu, tesoro. Va bene, ci risentiamo questa sera. Ti voglio bene. Ciao tesoro.>

<Ti voglio bene anch’io. Ciao ma’.>

Giulio spense il vivavoce. Tolse il cellulare dal suo scomparto e scelse la funzione vibrazione. Ancora si ricordava la figuraccia che aveva fatto qualche anno fa, quando in sala d’attesa, prese a squillare a tutto volume il suo cellulare. Un gruppo ben nutrito di persone si girarono a fissarlo. Un infermiera che in quel momento passava poco distante, senza dire una parola, ma con sguardo truce, indicò un cartello appeso alla parete, che raffigurava un cellulare con sopra un bel segno di divieto, come un cartello stradale. Giulio non poté far altro che scusarsi con un sorriso imbarazzato e spegnere il cellulare. Detestava attirare l’attenzione. Avere su di se lo sguardo di molte persone lo metteva a disagio. Ora metteva sempre la vibrazione prima di entrare in qualsiasi ambiente pubblico. La lezione era servita a qualcosa.

Quando fece per aprire la portiera, si accorse che delle piccole gocce cadevano sul parabrezza della macchina.

(Uhm, che fortuna! Proprio ora doveva iniziare a piovere? Non poteva aspettare che entrassi? Ci sono! E’ un messaggio divino che mi invita a non uscire dalla macchina e tornarmene a casa!)

Il suono di un tuono andò a coprire il rumore ritmico delle gocce di pioggia che cadevano sull’asfalto del parcheggio.

<No, eh? …Ho capito, vado, vado…>

Il suo senso del dovere vinse ancora una volta. Prese l’ombrello che stava in parte al sedile e si allontanò di corsa verso l’entrata, mentre la pioggia cadeva sempre più fitta e sempre più forte.

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L’infermiera vide arrivare di fronte allo sportello un uomo che, per i suoi parametri, era veramente alto. In effetti dal suo metro e sessanta, erano molte le cose che le apparivano DECISAMENTE troppo alte. La voce dell’alto sconosciuto la fece tornare dai suoi pensieri.

<Buongiorno. Ecco… Potrebbe dirmi dove devo andare per fare degli esami?>

(…fare degli esami… Non c’era domanda più evasiva di quella. Il termine esami comprende una serie infinita di analisi che partono dalle più semplici fino ad arrivare alla Tac. Ma perché non si limitano a far vedere la ricetta del medico?)

<Mi scusi, ma esami di che tipo? Specifici o generici?>

L’Alto, come la sua mente aveva deciso di battezzarlo, la stava guardando con aria un po’ persa.

<Specifici…generici…Guardi, devo fare le analisi del sangue.>

<Ah, poteva dirlo subito! Allora, deve andare prima alla cassa per pagare il ticket. Poi con l’impegnativa, si presenta al reparto ematologioco e aspetta il suo turno. Tutto chiaro?>

L’aria persa sul volto dell’Alto non aveva accennato ad andarsene. Le scappò un sospiro. Inizialmente era stato bello limitarsi a stare seduta su una sedia al banco informazioni e rispondere alle domande delle persone. Ma dopo due settimane passate a ripetere sempre le stesse cose, non la pensava più nella stessa maniera. E così quando si trovava a che fare con persone poco pratiche del posto, tendeva a perdere la pazienza. Ma negli occhi dell’Alto vide, per quanto stridesse con la sua figura, come un senso di smarrimento, che gli suscitò un moto di simpatia.

<E’ la prima volta che viene qui, vero?>

Il timbro di voce meno impersonale, fece nascere sulla bocca dell’Alto, un sorriso imbarazzato.

<Bhe…veramente no, ma ero in visita. Questa è la prima volta che vengo in veste di paziente. >

Sara si meravigliò di come quel sorriso facesse apparire quasi infantile, una persona tanto imponente. Solo allora si accorse che più che un uomo, era un ragazzo. Grande, ma pur sempre un ragazzo.

<Allora mi ascolti. Laggiù, dietro di lei, a sinistra, c’è la fila per la cassa. Si presenta con la ricetta che le ha dato il medico…l’ha portata con se, vero? …Perfetto! Stavo dicendo, si presenta con la ricetta e paga il ticket. Oltre alla ricevuta, le daranno anche l’impegnativa, un foglio dove sono segnati il suo numero e la stanza corrispondente dove deve presentarsi per fare il prelievo. Il reparto ematologico è al secondo piano. Gli ascensori sono laggiù, a destra. Vede?>

<Ehm, preferirei fare le scale…>

<Sono dietro il vano ascensori, subito dopo. Le vede?>

<Ah, si! E’ stata molto gentile. La ringrazio molto e buona giornata!>

<Si figuri, e buona giornata anche a lei!>

(Che strano ragazzo, grande e grosso, ma così gentile. Ma perché  poi non avrà voluto prendere l’ascensore?...)

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L’attesa per la cassa era stata interminabile. Ma alla fine era arrivato anche il suo turno. Pagato il ticket e preso l’impegnativa, aveva passato il vano ascensori guardandolo con diffidenza, diretto alle “solide e statiche” rampe di scale.

Si stava aggirando per i corridoi del secondo piano, alla ricerca del reparto, quando si scontrò con una persona, facendole perdere l’equilibrio.

<Oh santo cielo! Scusa! Ti sei fatta male? Stavo guardando i cartelli e non ti ho visto. Mi spiace…> così dicendo, si chinò, porgendo la mano, per aiutarla a rialzarsi.

La ragazza si rialzò, si sistemò le pieghe dei pantaloni e della felpa. Si chinò a raccogliere le carte che erano cadute a Giulio,  e mentre si scostava i lunghi capelli neri dal viso,  si girò verso di lui, porgendogli le carte cadute.

<Grazie…Ah!> Giulio rimase interdetto per un attimo. <Ma sei… cioè…si insomma… scusami…Oltre che farti cadere, ho anche sbagliato…>

<Non ti devi preoccupare, non mi sono fatto niente. E non essere imbarazzato… A causa dei capelli lunghi, sono in molti a scambiarmi per una ragazza. Non è piacevole, ma ci ho fatto l’abitudine.>

<Scusami ancora. Sai, sto cercando le stanze per i prelievi, e ogni cartello che trovo, mi fermo per leggerlo e così non mi sono accorto di te…> biascicò, prendendo le carte che gli porgeva.

<Tranquillo, è tutto ok. Secondo corridoio, in fondo a sinistra.>

<…Come scusa?>

<Le sale per i prelievi del sangue. Non è lì che devi andare? Questo è il corridoio di degenza dei pazienti.>

<Oh, si certo! Il prelievo…>

<Sei sicuro di stare bene? Mi sembri un po’ intontito…>

<No, no, sto benissimo. Bhe… Io allora vado… Grazie per l’informazione e scusami ancora!>

<Di nulla.>

Il saluto fu seguito da un breve sorriso, che illuminò il viso del ragazzo dai lunghi capelli neri. Solo allora, Giulio si accorse del colore dei suoi occhi: il grigio più intenso che avesse mai visto. E rimase ammutolito. Solo quando il ragazzo si girò per allontanarsi, si riprese.

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Con le nuove indicazioni, raggiungere il reparto non fu un problema. Il suo turno arrivò quasi subito, ma stranamente, non era spaventato.

<Salve! Si sieda qui e arrotoli la manica della camicia del braccio dove vuole fare il prelievo per favore. Molto bene. Adesso le metto il laccio…Perfetto.>

L’infermiera passò il cotone con il disinfettante e premurosamente disse <Ora le metto l’ago. Non si muova e vedrà che non sentirà nulla.>

Quando l’infermiera infilò l’ago nel braccio, Giulio non fece una mossa. Non disse neanche “Ahì”. In verità, non ci fece neanche caso. Tutta la sua fobia, di colpo, era sparita. La sua mente era altrove…