Volando via

di Gyh


 

Alex scosse le spalle, cercando di togliersi di dosso più neve che poteva. Era insopportabile. Il suo mantello nero preferito, adesso era fradicio e rovinato. Ma chi gliel’aveva fatto fare di decidere che quella era la notte adatta? La sua irritazione si dilungò in fretta, sostituita da una nostalgia rabbiosa e dilaniante. Già. In fondo non si trattava di niente di importante… solo di vendicare la morte del fratello.

Il mio piccolo bambino angelo, si disse, con una nota di affetto e tristezza. Gli mancava, gli mancava così tanto che a volte si chiedeva se non fosse il caso di smettere di respirare. Che altro gli rimaneva? Quel bambino piccolo e dolce, che sembrava tanto una capricciosa bambola, come quelle di cui la madre, tanto tempo prima, faceva la collezione. Ma Charles, il suo fratellino, non era come una bambola. Le bambole non muoiono. Non hanno sangue con cui macchiare i muri dei vicoli bui e sporchi, né lacrima con cui bagnare i propri visi inespressivi, né una voglia di vivere tanto disperata, che spingeva a combattere e dibattersi tanto forsennatamente mente un pazzo dilania le proprie carni… contorcersi nel dolore… l’abbraccio della morte…

Le frasi come quelle gli vorticavano continuamente nella testa. Charles. L’avrebbe vendicato quella sera. Non c’era dubbio, non c’era via di scampo. Sapeva che l’avrebbe fatto non appena aveva visto il piccolo, familiare cadavere completamente sporco di sangue. Era una consapevolezza. Nient’altro, niente su cui stare a riflettere e rimuginare. Sapeva che l’avrebbe fatto. Non riusciva a vedere alternativa. Ed era anche piuttosto facile, compiere la sua vendetta, visto che non c’erano dubbi su chi fosse l’omicida. Il Conte Enrique De Channel. E sarebbe morto quella notte. La notte del suo compleanno. Perché era stato esattamente sei mesi e tre giorni prima che il conte aveva assassinato Charles, il giorno del suo decimo compleanno. E quella sera, al quarantaquattresimo compleanno del conte, lui l’avrebbe ucciso. Squartato, crudelmente. Se lo meritava. A quel che era venuto a sapere, Charles non era stata che l’ennesima di tante vittime. Quel violento, probabilmente, anzi, certamente psicopatico nobiluomo, aveva un certo vizietto, ovvero uccidere i suoi schiavi e, talvolta, i loro figli. Tutti sapevano che era lui il colpevole, non era certo una cosa strana. Ma nessuno se ne curava. Lui era un nobile e poteva uccidere tutti i plebei che voleva, no? Come Charles… Charles… quel dolce bambino, col quale aveva litigato solo una volta…

Era inverno inoltrato e la città era completamente coperta di neve candida e gelida. Il vento era sferzante e crudele, pareva voler spazzar via e ferire a morte chiunque incontrasse sul suo cammino. Alex stava leggendo, davanti al camino, il fuoco acceso, vivo, crepitante… caldo. Uscire di casa era fuori discussione. Se ne stava beato, ad un passo dall’addormentarsi, quando ad un certo punto un tornado vivente ben conosciuto l’aveva distolto dai suoi pensieri e dalla sua beatitudine.

-         Fratello! – gridava Charles, eccitato, un piccolo grumo di otto anni di amore e tenerezza, che saltellava per tutta la stanza, entusiasta – C’è la neve, c’è la neve! Andiamo a giocare!

-         Charles, non possiamo andare a giocare con la neve, né tantomeno uscire di casa, è troppo freddo, c’è vento, ci prenderemmo tutti e due un malanno e… - la spiegazione ragionevole e pacata di Alex fu interrotta da uno strillo acuto e indisponente:

-         No, no, no! Voglio andare a giocare! Ti prego, fratello, portami a giocare, c’è la neve!

-         Ho detto di no!

Aveva tuonato Alex, alzandosi in piedi, furente. Perché quel bambino non capiva che era troppo freddo per uscire di casa? perché sembrava essere deciso a fare di tutto pur di farlo sentire in colpa e inadeguato? Non era giusto. Però si rese conto di essere stato troppo duro con Charles. Era solo un bambino, in fondo e quella era solo una delle prime volte che vedeva la neve… non doveva essere così severo e urlante. Non poteva certo rimproverarlo se aveva voglia di giocare. Stava giusto pensando a come scusarsi quando il bambino cominciò a piangere e singhiozzare davanti a lui, tirando ripetutamente su col naso. Esterrefatto, Alex non riuscì a muovere un muscolo e continuò a fissare il bambino che, davanti a lui, continuava a comportarsi come se fosse successo chissà che cosa.

-         Sei cattivo! Non parlarmi più! – urlò il fratellino, in preda alla rabbia, fiondandosi fuori dalla stanza, per poi ritirarsi nella propria camera.

Alex non andò subito a parlargli. Decise che le parole non bastavano a rimediare al torto che aveva fatto al fratellino, quindi uscì di casa, a malapena ricordandosi di prendere il mantello pesante e di indossarlo.

Tornò quella sera, sul tardi. Le strade erano buie già da tempo e la neve continuava a scendere impietosa. Era completamente bagnato e aveva un freddo terribile. Senza nemmeno cambiarsi d’abito andò subito nella stanza del fratellino ed entrò senza bussare. Lo trovò addormentato, steso sul letto, con gli occhi gonfi e arrossati. Macchie e chiazze sul cuscino. Lacrime. Quanto aveva pianto? Sorrise, intenerito e andò a cambiarsi. Una volta vestito con abiti asciutti, tornò nella stanza del bambino, che si stava svegliando e si sdraiò accanto a lui.

-         Fratello… - mormorò il piccolo, aprendo gli occhi e trovandoselo vicino, che sorrideva dolcemente. Non sembrava più la stessa persona che l’aveva sgridato quel giorno.

-         Regalino. – disse Alex, porgendogli un pacchetto – scusami per oggi. Mi sono comportato male.

Charles fissò con gli occhi lucidi spalancati il pacchetto nelle mani del fratello maggiore.

-         Mi perdoni? – chiese quest’ultimo, con uno sguardo supplichevole.

Il bambino gli gettò le braccia al collo, dimentico del regalo del fratello, lasciando che cadesse, e che i suoi dolci preferiti si riversassero sul copriletto.

Già, quel dolce bambino, che Alex adorava tanto… avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, anche morire ed era proprio quello che probabilmente gli sarebbe successo, non appena avessero scoperto che era lui l’assassino del Conte. E l’avrebbe ucciso quella notte. Quel maledetto assassino, si sarebbe macchiato del suo sangue sporco e crudele, avrebbe saggiato la consistenza della sua carne marcia con la lama del coltello, avrebbe spaccato quella testa orribile, facendo schizzare ovunque quel cervello putrefatto. Perché quel conte non era altro. un cadavere. E lo era esattamente dal momento in cui aveva messo gli occhi addosso su Charles e aveva deciso di ucciderlo. E ucciderlo per cosa, poi? Per diletto personale, per un piacere illusorio, ingannevole… fuggevole… che cosa si provava a fare del male ad un innocente? Era dolce? Esaltante? Ci si sentiva meglio, potenti, più forti?

“Quella forza… l’avrò anch’io, non appena ti avrò ucciso, Conte!” pensò Alex, stringendo il pugnale affilato nella sua mano. Il manico era di legno, duro, gelido… gli dava sicurezza, ma lo metteva anche in soggezione. Dio, chi stava per diventare? Un criminale, un fuorilegge… un assassino. Ma questa consapevolezza non era niente in confronto a quella che lo portava sempre nella stessa direzione, alla stesso punto, quello di partenza. Doveva uccidere quello stronzo. Erano mesi che non sognava, non desiderava altro. All’inizio era una rabbia cieca, che lo guidava nell’abisso della disperazione, conducendolo alla risposta: devo ucciderlo. Ma adesso era una consapevolezza, anzi, di più, era la sua unica ragione di vita. Per che cos’altro doveva vivere? Solo per vendicare Charles… la sua voglia di vendetta si era tramutata lentamente, gradualmente in una specie di meta. Per lui, ormai, non esisteva nient’altro. era come se la sua intera vita ruotasse intorno a quell’esperienza sanguinosa e dannatamente comune. Sapeva che sarebbe diventato un assassino, che quello che stava per fare avrebbe fatto certamente soffrire delle persone. Nonostante fosse risaputo che il Conte fosse un assassino, i suoi figli parevano ignorare totalmente la cosa e sembravano nutrire un amore morboso per il padre, un affetto quasi religioso per lui. Quei bambini, quei ragazzi avrebbero pianto. Si sarebbero sentiti, forse, come si era sentito lui quando aveva visto il corpo di Charles. E probabilmente avrebbero giurato vendetta, per poi ucciderlo. Ma questo non gli importava. Certo, ovviamente gli dispiaceva, ma non poteva fare a meno di considerare come dettagli secondari le sofferenze che avrebbe comportato il suo gesto. Era… come se fosse predestinato. Come se fosse costretto a fare qualcosa del genere. Cosa poteva farci? Era Dio a creare i destini, a dare ad ognuno qualcosa da fare, uno scopo, no? Al conte aveva dato lo scopo di uccidere gli innocenti. A Charles quello di essere sacrificato per la gioia del conte. E ad Alex di vendicare il fratello Charles. Tutto era collegato, come se fosse stato studiato. Sarebbe andato all’inferno? Poco importava. L’unica cosa che poteva e doveva fare era uccidere il conte. Il resto l’avrebbe deciso poi.

Stava aspettando che tutti gli invitati alla festa di compleanno del Conte tornassero a casa. ormai se n’erano andati quasi tutti. Aveva aspettato quel momento per tanto, tanto tempo e adesso sembrava essere arrivato. Qualche tempo prima, aveva immaginato che si sarebbe sentito nervoso, impaurito, che non avrebbe saputo cosa fare e come fare e che magari non sarebbe stato in grado di portare a termine il suo compito. Ma adesso, dentro di lui c’erano solo calma, freddezza e consapevolezza. Avrebbe pugnalato il conte, dopo avergli rivelato chi era e perché voleva ucciderlo, con calma spettrale, per fargli assaporare bene il terrore, per fargli capire che cosa provava. E poi… poi non lo sapeva. Ci sarebbe poi stato un futuro? Oppure il sipario sarebbe calato e lui avrebbe cessato di esistere? Senza morire, niente di tutto questo. Né vita, né morte. Solo il nulla, qualcosa che non esiste e che non ha importanza. E lui non contava niente. Era solo… un qualcosa. Un corpo che si muoveva senza autonomia. Senza sentimenti. Solo… il nulla. Un burattino? Ma i burattini, le marionette, non erano delle bambole usate per far divertire i bambini, per farli sentire bene? E allora, lui che cos’era? Era il buono o il cattivo? Oppure il personaggio che, per quanto secondario e marginale, avrebbe totalmente cambiato il finale della storia? Che cosa lo aveva cambiato? La morte di Charles? Oppure quella parte di lui, spietata e fredda e noncurante si sarebbe manifestata comunque, prima o poi?

Sospirò, fissando la neve che scendeva tenue. Che poteva farci? Era il suo destino. Fissò apparentemente senza interesse l’ultima coppia che si congedava dalla dimora del Conte e, finalmente, decise di mettere in atto il suo piano. La finestra del primo piano era aperta. Sarebbe potuto comodamente entrare dalla porta, ma non intendeva correre rischi. Doveva assolutamente raggiungere il conte e parlargli e ammazzarlo. Salì su un albero, di ramo in ramo e alla fine raggiunse la finestra. Entrò. Probabilmente quello era lo studio del conte. Si nascose dietro la porta, aspettando, pazientemente. Dopo pochi minuti udì dei passi nel corridoio. Qualcuno stava avvicinandosi. Passi decisi, virili, di qualcuno che si trovava in casa sua… era il conte, probabilmente. E così fu. Aprì la porta, non vedendo Alex dietro questa e andò ad aprire un armadietto, chiuso a chiave. Ne estrasse una bottiglietta di vetro. Brandy. Bevette qualche sorso, quindi la tappò di nuovo e la rimise nell’armadietto, sospirando soddisfatto. Alex si chiese se il conte avesse ucciso qualcuno anche quella sera. Poi, decise di darsi una mossa. Non poteva esitare, né commettere errori. Chiuse la porta, intrappolandosi all’interno della stanza con il conte, che, sorpreso dal rumore della porta che si chiudeva, si voltò e lo vide.

-         Ti aspettavo. – lo accolse il conte, senza muovere un muscolo del volto né cambiare espressione – Siediti, Alex. Bevi con me. parliamo.

-         Non è per parlare che sono qui, conte. – ribattè Alex, calmo.

Non era sorpreso dalla reazione del conte, stranamente, ma si rendeva perfettamente conto che avrebbe dovuto esserlo. Era cambiato così tanto?

-         Lo so. Ma, se permetti, vorrei scambiare due parole con te, prima di essere accoltellato… userai un pugnale, vero? – disse pacato il conte.

-         Sì.

-         Spero che tu l’abbia affilato.

-         Certo.

-         Bene. Siediti, Alex. Vuoi del brandy? – gli chiese il conte, prendendo di nuovo la bottiglietta dall’armadietto.

-         No. Non bevo. – rispose Alex, sedendosi alla scrivania, di fronte al conte che si era seduto di fronte a lui.

-         Peccato, dovresti. – commentò il conte, con tono confidenziale ma estremamente calmo.

Freddo, pacato. Pareva non gli importasse di morire. Era così? Per Alex, non faceva comunque differenza. Lo avrebbe ucciso in ogni caso. Senza dubbio, senza rimorsi. Forse.

-         Sei qui per tuo fratello, non è vero? – gli chiese improvvisamente il conte, versandosi del brandy in un bicchiere di cristallo lucido e trasparente.

-         Già. – rispose Alex – Non mi temi?

-         No. Sfortunatamente, no. Da tempo, ho perso ogni emozione, ogni singolo brandello di… sentimento. Sono freddo, vuoto, un contenitore senza anima. – sospirò con decisione e freddezza il conte.

-         Perché? – gli domandò Alex. C’era qualcuno che riusciva a ricollegare alla descrizione appena fatta dal conte su sé stesso, ma non riusciva a capire chi…

-         Quando avevo circa la tua età… avevo un fratello minore. Alan, si chiamava. Era bellissimo, come un angelo. Sai, un po’ somigliava al tuo Charles. Ma c’era una sostanziale differenza. – cominciò a raccontare il conte, come se stesse narrando una semplice fiaba.

-         Quale? – chiese Alex, interessato.

-         Tu amavi Charles con affetto fraterno. Io no. Io amavo davvero Alan. – non una singola emozione trasparì su quel volto, mentre parlava del fratello.

Alex impiegò qualche secondo per comprendere appieno le parole del conte. Amore? Amava Alan? E se non era affetto fraterno, allora…

-         Lui era tutto, per me. Lo sognavo di notte. Sognavo di fare l’amore con lui. Sognavo che lui mi amasse come lo amavo io. E che il mondo non avesse motivo di odiarmi per questo. – continuò tranquillo il conte, con un sorriso pacato in volto – lo trovi strano?

-         Non lo so.

-         Ad ogni modo, non riuscivo ad andare avanti così. Quando lui aveva tredici anni e io venti, glielo confessai. Gli confessai che lo amavo e che se avesse voluto non mi sarei fatto più vedere.

-         E lui?

-         Mi abbracciò. Si mise quasi a piangere. Mi stringeva con forza, quasi con disperazione, come se temesse di lasciarmi andare più di ogni altra cosa al mondo. Non voleva separarsi da me. Mi disse che non sapeva che cosa voleva, ma che anche lui mi sognava, di notte, voleva stare con me, sempre, non faceva che pensarmi… e sapeva che era sbagliato, di essere ormai dannato, condannato all’inferno… ma non gli importava. Per lui c’ero solo io. E nient’altro. Niente etica, nessuna morale. Solo… l’amore.

-         E tu?

-         Lo baciai. Lui rispose. E dopo poco finimmo sul mio letto a fare l’amore.

-         Come…?

-         Oh, naturalmente io ero la parte attiva. Ciò che avevo sempre desiderato, possederlo, averlo tutto per me, sentirlo come nessun altro avrebbe mai potuto fare. Fui il più delicato possibile, con lui, ma gli fece un po’ male, naturalmente. Però, quando si abituò… allora gli piacque tanto quanto piaceva a me. Appena finito, volle ricominciare… continuammo in questo modo, amandoci in segreto per due anni. Due fantastici anni… e io lo amavo sempre di più e sapevo che per lui era lo stesso. Ero felice…

-         Che cosa successe?

-         Lui morì.

-         Lo uccisero, vero?

-         Un criminale, un pazzo… non so perché lo fece. Non ce n’era motivo. Dissero che era stato uno psicopatico. Non smisi mai di cercarlo, ma non lo trovai mai… mai. Da allora l’impulso di uccidere si fece sempre più forte, fino a rendermi ciò che sono adesso. Una macchina crudele e spietata che vive solo quando toglie la vita.

-         E i tuoi figli?

-         Ah, poveri ingenui… se solo sapessero… certo, provo affetto per loro. Non li ucciderò mai.

-         Perché uccidi?

-         E tu perché stai per uccidere me?

Silenzio. Che cosa poteva rispondere Alex? Perché sapeva che doveva farlo. Era quella la sua parte nel gioco di Dio, nella recita dei burattini.

-         Tu sai che io sono il colpevole. Io il colpevole dell’assassinio di Alan non l’ho mai trovato. Per questo… non ho saputo resistere… nessuno deve toccare Alan… quindi, ogni volta che io lo rivedo devo… ucciderlo. Sai… tu, un po’, gli somigli.

-         Vuoi uccidermi?

-         No. Gli somigli solo esteriormente. Dentro sei come me.

-         Perché?

-         Hai perso Charles. Tu amavi Charles. Era tutto per te. Il tuo angelo, la tua vita! Come puoi stare senza di lui? Il cuore ti è stato strappato, i sentimenti lacerati e adesso anche tu ti senti una bambola che danza tra le grinfie di un Dio che non ti ama!

Le frasi del conte erano sconnesse, crudeli, pazze, secondo alcuni criteri, ma vere. Mentre pronunciava quelle parole vere come il sangue che sgorga nelle vene, il suo viso prese vita, tornò umano, rosso di rabbia e dolore in volto, un’espressione di sofferenza. Aveva sofferto così tanto… perdere l’amante, il fratello in un solo colpo. Era sopportabile? Probabilmente no. Era questo che l’aveva reso un assassino vuoto e freddo. Eppure… adesso sembrava così vivo, così emozionato. Aveva cominciato a urlare, tutti i suoi pensieri nascosti, le sue ansie si riversavano sull’anima di Alex che lo fissava, impassibile. L’assassino di Charles… l’avrebbe ucciso comunque?

-         Tutta la luce si è spenta e dal paradiso passi al girone più cupo dell’inferno! C’è un Dio? No, è il diavolo che ti porta con sé nei meandri della più cupa disperazione, una galleria di sangue e ricordi e tu sai che non riuscirai mai a uscirne! E tu lo cerchi, lo cerchi, ma quand’è che lo troverai?! Quand’è che ti sarà data la grazia di seguirlo?!

Aveva finito. Ansante, si era alzato in piedi mentre urlava. Improvvisamente, il suo volto tornò gelido e impassibile, solo con una nota di malinconia. Si tirò indietro i capelli e tornò ad un tono pacato e normale.

-         Capisci? Il nostro dolore è stato il medesimo.

Alex parve riflettere un attimo. Si alzò in piedi. Adesso lui e il conte si fronteggiavano. Tra loro, la scrivania. Nient’altro. fu il conte a muoversi per primo. Aggirò il mobile, fermandosi davanti ad Alex. Erano alti uguali. Uguali erano i loro occhi. Nemmeno il conte sapeva che cosa stava facendo. Semplicemente, tra loro aveva sentito qualcosa di così simile, di così caldo che non aveva resistito… a malapena rendendosene conto, aveva attirato a sé la testa di Alex e l’aveva baciato, con dolcezza. Come se fosse Alan. Ma non era Alan. Era solo una statua di ghiaccio. Solo che… quelle labbra erano così calde e morbide, mentre rispondevano al bacio, così dolci e consolatorie, come se lo stessero abbracciando… e non gli importava se presto quelle labbra avrebbero inveito contro di lui, se quelle mani si sarebbero strette attorno al suo collo, stringendo, se avrebbero impugnato un coltello affilato e lo avrebbero squarciato. Contava solo il presente, quello che stavano vivendo… nient’altro. attorno a loro, il buio imperversava. Non c’era più niente da scoprire.

Senza che se ne rendessero conto, nella foga del bacio, o accecati dalla passione, erano finiti sdraiati sul pavimento, Alex con la schiena appoggiata sul pavimento gelido e il conte sopra di lui, che continuava a baciarlo, prendendo a slacciargli con calma la camicia. Le loro labbra non accennavano a separarsi, come se fossero incollate, come se fossero l’aria che permetteva loro di vivere. Quel calore era diventato il sangue che scorreva nelle loro vene. E niente era sbagliato in quello che stava accadendo. Era tutto… destinato. Il conte, dopo aver sfilato mantello, giacca e camicia ad Alex, che ancora non se n’era reso conto, distratto com’era da quelle labbra che lo baciavano con foga, da quella lingua che si muoveva ipnotica in lui, cominciò a slacciargli anche i pantaloni. Nel farlo, sfiorò il membro teso di Alex, che gemette nella bocca del conte, che abbandonò le sue labbra, lasciandole fredde e sole e cominciò una discesa lungo la linea della miscela, il collo, il torace, cospargendo Alex di tanti piccoli baci, facendolo fremere sotto di lui. Solo in quel momento Alex si riscosse e parve accorgersi di essere mezzo nudo. Subito si tirò a sedere, tornando a baciare sulle labbra il conte e strappandogli velocemente i vestiti. Non aveva intenzione di lasciar fare tutto a lui. Non doveva mica restare lui nudo e l’altro vestito! Dopo poco, erano rimasti entrambi completamente nudi, i vestiti, o ciò che ne rimaneva, abbandonati in un punto imprecisato accanto a loro, sul pavimento, mentre i due si fissavano negli occhi, ansanti.

-         Beh? – mormorò Alex, fissando il conte negli occhi, aspettandosi una qualche reazione da lui, che però non si mosse e si limitò a ricambiare lo sguardo, senza battere ciglio.

-         Sai cosa sta per succedere? – gli domandò l’uomo, dopo qualche istante di silenzio.

Alex riflettè per un po’.

-         Non proprio, sinceramente. – aveva ammesso, senza imbarazzo.

-         Lo immaginavo. – aveva commentato il conte, riprendendo a baciarlo.

Alex rispose al bacio, ma non era più molto concentrato su ciò che accadeva. Si stava chiedendo effettivamente che cosa stesse per succedere. Non che gli importasse molto, poi, ma si trattava certamente di un passatempo divertente e appassionante, quindi perché non continuare? Era a conoscenza del fatto che, dalla chiesa, ciò che stavano facendo era stato bollato come peccato. Ma non gli interessava neppure di questo. Perché preoccuparsene, quando se ne poteva benissimo fare a meno? Era così dolce tutto quello che il conte faceva, il modo in cui si muoveva sopra di lui, il modo in cui lo accarezzava, con le mani, con la lingua… gli piaceva. E sapeva che gli sarebbe piaciuto anche ciò che sarebbe accaduto dopo, qualsiasi cosa fosse. Quindi, perché non assecondarlo?

Il conte portò le mani sotto la schiena del ragazzo, accarezzandogliela dall’alto verso il basso, delicatamente ma con decisione, facendolo fremere, passando più volte sulla sua spina dorsale. Alex, sotto di lui, era così arrendevole e docile che sembrava una persona totalmente diversa dal ragazzo astioso e gelido che aveva proclamato di volerlo uccidere pochi minuti prima. Era così caldo, il ghiaccio attorno al suo cuore pareva essersi spezzato, sciolto dalla passione. Alex gemette quando una mano del conte cominciò ad accarezzargli piano l’inguine, con i polpastrelli. Il suo tocco era così delicato da sembrare il battito d’ali di una farfalla… gli sembrava di volare, si essere portato in alto, in alto, ma sapeva che prima o poi sarebbe dovuto scendere… non voleva… non voleva che finisse… perché tutto doveva morire? Perché tutto era destinato a finire, senza poter far niente per evitarlo? Si trattene dal chiederlo al conte, forse perché trovava la domanda fuori luogo o forse perché la sua mente fu totalmente distorta da quel pensiero dalle dita del conte che andarono a sfiorare languidamente il suo membro, cominciarlo a stimolarlo, come molteplici falene, donandogli sensazioni fuggevoli e dolci, potenti, come se un fiume di lava si stesse riversando nelle sue vene, nel suo corpo e lui non voleva nient’altro, solo che continuasse. Era sua la voce che gridava e gemeva? Erano del conte i sussurri al suo orecchio, la lingua che gli accarezzava dolcemente le labbra per poi discendere lungo il collo, poi più giù, raggiungendo un capezzolo e mordendolo piano, dolcemente, succhiandolo poi con più foga, quasi con violenza? Alla fine il conte si separò da Alex, che gemette una protesta, incapace di connettere il cervello alle labbra abbastanza bene per poter parlare con sicurezza. Deglutì, ansimando e riuscì dopo un po’ a mettere a fuoco la stanza e la situazione. Stava per venire, stava per raggiungere l’apice estremo, la soddisfazione, quando quell’odioso conte, così languido ed eccitante l’aveva lasciato al freddo, solo, sul freddo pavimento.

-         Cosa…? – mormorò, alzandosi, puntellandosi sui gomiti. L’altro lo osservava, come rapito.

-         Alan… - sussurrò il conte, con gli occhi velati di malinconia. Quindi tornò a baciare le labbra di Alex, con dolcezza, assaporandole come se fossero ciò che c’è di più buono al mondo, succhiandole come se volesse berle – Alex… Alan…

Alex non seppe come mai, ma non gli importava di chi chiamava quell’uomo. Voleva solo che finisse ciò che aveva iniziato, lasciandolo a metà, frustrato ed eccitato. Non c’era più nulla a cui pensare, nulla per cui continuare a vivere, solo quel piacere che lo uccideva così dolcemente. Non si chiese neanche per un attimo se fosse giusto o sbagliato. Se era tanto bello, voleva dire che non poteva assolutamente essere cattivo. Il conte ricominciò ad accarezzare il sesso pulsante di Alex, ma leggermente, quasi stesse sfiorando qualcosa di sacro e al quale non aveva intenzione di dare appagamento. Crudele e dolce. Un connubio perfetto. Quasi non si accorse del primo dito che cominciò a massaggiare la sua apertura, per poi affondare in lui, lentamente. Non gli fece male. Anche se un po’ di fastidio c’era. Nessun imbarazzo, naturalmente. Ma neanche… nient’altro. continuò ad aspettare, mentre quel dito entrava ed usciva, allargandolo, preparandolo a ciò che avrebbe poi preso il suo posto dentro di lui. Dopo un po’ un dito si aggiunse al primo, facendo sì che un lamento di dolore e protesta uscisse dalla labbra di Alex. Ma qualcosa, dopo un po’, cambiò. Quelle dita cercarono e trovarono un punto sensibile, facendolo urlare di piacere e inarcare. Il conte aumentò ancora il numero delle dita e dopo qualche altro affondo, estrasse le dita. Alex, che aveva cominciato a gradire quell’intrusione, mugolò in protesta. Il conte sostituì il proprio membro alle dita, facendo gridare Alex di dolore, che s’inarcò, aggrappandoglisi spasmodicamente alle spalle, lacrime di dolore che gli premevano contro le palpebre chiuse per uscire, per liberarsi… il conte passò una mano tra i capelli del ragazzo, rassicurandolo, con parole dolci. Rimase immobile dentro il ragazzo per qualche istante, per farlo abituare a quell’invasione, prima di cominciare a muoversi lentamente. Alex gemette di dolore, soffocando un singhiozzo. Il conte lo abbracciò, cullandolo, fermandosi ancora prima di cominciare a cercare, muovendosi con attenzione, l’angolazione giusta, prima di affondare nuovamente nel ragazzo sotto di lui. Di nuovo quel punto sensibile e dei fuochi d’artificio che brillavano ed esplodevano dentro di lui… erano così belli, quei fuochi, quelle scintille così splendenti… ne voleva ancora… si spinse contro i fianchi del conte, che cominciò ad entrare ed uscire sempre più velocemente e prepotentemente, continuando a massaggiare il membro dell’altro, fino a che entrambi non vennero con un grido rauco.

Si staccarono, ansimanti. Non sapevano bene che cosa e come fosse successo… ma era accaduto.

-         Perché? – chiese flebilmente Alex, con la voce ancora impastata e roca.

-         Non lo so. Ti ho fatto molto male? – domandò il conte, ritrovando il tono e la compostezza tanto freddi quanto calmi e indifferenti.

-         Abbastanza. Ma non è stato male. – commentò Alex, riacquistando il solito cipiglio gelido, che lo caratterizzava ormai da alcuni mesi.

-         Mi somigli. – sospirò il conte.

-         Tu dici? – chiese Alex, tirandosi a sedere a gambe incrociate.

-         Già. – il conte sembrava triste mentre lo diceva.

L’uomo si abbassò di nuovo su Alex, baciandogli e leccandogli le labbra, con dolcezza, con calma, non con la foga di poco prima. Alex rispose al bacio allo stesso modo, mugolando, tornando a sdraiarsi a terra, facendo appoggiare il conte sopra di sé.

Ma ci fu una mossa inaspettata. Il conte si era rialzato e, bloccandogli le gambe sedendosi sopra di lui, aveva portato le mani attorno al colo del giovane che, stupito, non si era opposto e aveva cominciato a stringere. Alex dapprima si dibatteva, poi il conte cominciò a parlargli, con dolcezza.

-         E’ come me che vuoi diventare? Una statua di ghiaccio senza sentimenti né emozioni? Non è bello… e si soffre perché non si ha più niente… liberati, Alex, finchè puoi… ed è perché non voglio che tu soffra che ti sto uccidendo, mi capisci?! – gli diceva il conte, con voce s0uadente e disperata, mentre, con gli occhi apparentemente impassibili, continuava ad interrompere il flusso d’aria nei polmoni dell’altro.

Ma Alex sembrava non ascoltarlo e continuava a dibattersi furiosamente, per via di quello strano istinto di sopravvivenza di cui tutte le creature viventi sono dotate, indistintamente dalla razza.

-         Non costringermi a farti più male, Alan! Oddio, Alex, lo faccio per te, questo… perché… tu… tu non immagini neanche quanto sia doloroso…

Alex parve riscuotersi. I suoi occhi, che prima teneva chiusi, si aprirono e videro il volto di quell’uomo, freddo e spietato, tanto dolce, tanto triste che gli venne quasi voglia di consolarlo. Si dimenticò del fatto che stava per ucciderlo e si concentrò unicamente nei suoi occhi… pensò che… forse aveva ragione lui… non valeva la pena di vivere, se la vita era così impassibile e vuota, vista solo attraverso uno schermo piatto, s’indifferenza… grigio. Il conte… lo stava salvando e lui… lui voleva essere salvato. E volare via.

Volando via, avrebbe dimenticato la sofferenza, Charles, tutto il dolore e le lacrime. Perché quando si muore non c’è niente che può farti triste… sofferente… quindi… perché non morire? Perché non mettere le ali?

Attorno a lui, tutto cominciò ad oscurarsi… e il buio lo avvolse, caldo, come un manto di tenebra che lo proteggeva dal mondo. Come la madre che non aveva mai avuto. Come il padre che non l’aveva mai amato. Come il fratello che non avrebbe più rivisto…

 

Il conte rimase immobile a fissare il corpo inerte sotto di sé. Gli aveva spezzato il collo. E adesso quel ragazzo era morto. Di lui rimaneva solo un cadavere, con una testa tenuta in un’angolazione impossibile… lo aveva ucciso. Non se n’era pentito. Come avrebbe potuto? Lo aveva salvato! Gli aveva risparmiato le sofferenze, i dubbi, le illusioni di quella vita, in cui non gli sarebbe più importato niente di niente. Sentì qualcosa di caldo su una guancia. Si sfiorò con un polpastrello la pelle del volto… acqua? Lacrime… aveva pianto. Per la prima volta, aveva versato lacrime per qualcuno che non fosse Alan. Non sapeva se esserne felice, contrito o se sentirsi in colpa verso il fratello defunto. Si alzò in piedi e andò alla finestra. Non lanciò più un solo sguardo al cadavere di Alex, mentre saliva sul davanzale e tornava verso di lui. Verso Alex. Verso Alan. Verso le sue vittime e i suoi carnefici. Verso un buio, una luce, che non l’avrebbero mai più lasciato…

Volando via, tra le tenebre…



 

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