disclaimer: I
personaggi sono di mia invenzione. Ho cominciato a scrivere questa fic
mentre ero a bordo di una nave nella baia di Panama. Spero che sia di vostro
gradimento.
Un
racconto di mare
di Hyoga
I pellicani passano radenti sul pelo dell'acqua, in stormi di
tre o quattro, un raro battito d'ala ogni tanto, e scivolano così vicino
alla murata che quasi si distinguono le sfumature di grigio del loro
piumaggio.
Le fregate, invece, sono eleganti sagome nere che si stagliano alte, contro
lo smalto del cielo tropicale.
Le grida acute degli uccelli tagliano il monotono sciacquio delle onde.
Di notte, il cielo e' come velluto nero, sul quale é appoggiato il gioiello
scintillante dei grattacieli della città.
Non c'e' molto altro da fare a bordo, se non seguire il volo degli uccelli o
contemplare gli altri vascelli alla fonda, che nella caligine del
mezzogiorno sono come navi dipinte su un
dipinto mare.
Il Pamir, cargo battente bandiera liberiana, é fermo nella baia di Panama,
in attesa del permesso per attraversare il canale.
Tarda ad arrivare il permesso, perché il Pamir e' una vecchia nave piena di
ruggine, che ormai tiene il mare a stento, e perché il suo carico é di
quelli che nessuno vorrebbe portare, anche se nondimeno qualcuno lo deve
fare.
Chi si imbarca su una nave del genere sta scappando da qualcosa, la miseria,
la giustizia o dio sa che altro.
Difficile dire da cosa stia scappando il Tedesco, perché è un tipo che non
dà confidenza. Se ne sta da solo nei momenti liberi, a prua a fissare il
mare, o magari seduto sul ponte ad intagliare una noce di tagua o un vecchio
pezzo d'osso.
Sempre comunque è una figura netta e severa che si staglia contro il cielo,
nobile e lontana come la fregata che volteggia allo Zenith.
Avrebbe anche un nome e un cognome, ma lo chiamano tutti il Tedesco, forse
perché è lo stereotipo di tedesco dell’immaginario collettivo. Una trentina
d’anni, alto, biondo, spalle larghe, lineamenti squadrati. La pelle
abbronzata dal sole dei tropici fa risaltare gli occhi chiari e acuti, dallo
sguardo di rapace.
È senza dubbio il marinaio più competente che abbia mai messo piede su
quella nave. Serio, rigoroso, esegue i suoi compiti con meticolosa
precisione. È fuori posto sul Pamir come un purosangue attaccato al carretto
di un rigattiere.
Olaf Svensson, norvegese, l'altro bianco dell'equipaggio, lo sa bene da cosa
sta fuggendo. Padre impiegato, madre casalinga, due fratelli. Chiesa alla
domenica e routine durante la settimana.
Olaf insegue la libertà con tutta la foga dei suoi vent'anni
Voleva andare per mare, cavalcare le onde spumose, sentire il vento gelido
sul viso.
Cosa ne pensi ora, Olaf, della navigazione? Sei ancora dello stesso parere
dopo sette mesi su un cargo rugginoso che arranca nelle acque tropicali? Hai
provato le ore di caldo torrido, il sole spietato, lo schiaffo duro delle
onde in piena faccia. E il capitano non è Lupo Larsen, ma un negro calvo e
grasso col sudore che gli imperla perennemente la faccia butterata.
Cosa ne pensi ora del mare, Olaf?
Olaf Svensson, o solo Olaf, è appena un ragazzo. Un po’ più alto del
Tedesco, meno robusto. Grandi occhi azzurri e capelli biondi lunghi fino
alle spalle, che tiene prevalentemente legati in una coda.
È al suo primo imbarco. Come diavolo abbia fatto a finire su quella dannata
bagnarola è un mistero che nessuno è ancora riuscito a chiarire.
Esegue gli ordini, osserva, impara se può, perché lì nessuno ti insegna
nulla.
Ha imparato sicuramente a sopportare, questo sì. Intemperie e umiliazioni.
Il Tedesco lo guarda con una vaga ombra di simpatia, perché è così simile a
com’era lui da giovane.
Da giovane.
Ci sono vite che ti rendono vecchio a trent’anni.
Gli insegna qualcosa ogni tanto, non troppo, perché il primo insegnamento
che gli vuole dare è che in mare puoi contare solo su te stesso.
Il resto dell’equipaggio è composto da un paio di orientali e da neri più o
meno scuri. Nigeriani, ugandesi, sudafricani, liberiani e un somalo
allampanato, mister Asad, il secondo di bordo.
Non si può abbandonare la nave, perché appena Flamenco dà l’OK il Pamir si
deve affannare verso il Ponte de Las Americas, l’entrata dello stretto di
Panama. Se per caso non potesse obbedire all’ordine, per qualsiasi motivo,
perderebbe il turno e sarebbe costretto a ripetere fila e pagamento. A
mister Mwake non piace perdere tempo e soldi. Ecco perché nessuno si muove
di lì.
Sono tanti a bordo, venti uomini compreso il capitano, ad aggirarsi sempre
più irrequieti.
La città con le sue lusinghe è uno snervante supplizio di Tantalo.
E il Pamir rolla mollemente, nell’attesa caparbia e rassegnata degli
africani. Nell’ombra che proietta sull’acqua vanno a giocare pesci d’argento
e i pennoni fanno da posatoio agli uccelli marini. Il cargo rugginoso si sta
lentamente disfacendo nell’ambiente. Se l’autorizzazione di Flamenco non
arriva diventerà una specie di scoglio, una forma immota e familiare
all’orizzonte.
Sul cargo gli uomini sono come ratti nella gabbia di Skinner. Stanno
diventando sempre più insofferenti ed aggressivi. Lo spazio non è mai parso
così angusto, i compiti mai così inutili. Il capitano fa fatica a mantenere
la disciplina.
Tutti sono esacerbati dal vedere la città, suadente promessa di piaceri,
senza poterla raggiungere.
Il Tedesco fa appello alla capacità di sopportazione che ha accumulato in
una vita di disciplina, ma a cosa possono fare appello gli altri marinai del
cargo? Loro non hanno un imperativo categorico di Kant nel DNA.
E allora succede questo: è notte, la luna piena fa luccicare il mare liscio
come l’olio. Il caldo umido stagna sul Pamir come una cappa greve.
Sdraiato nella sua cuccetta, indosso il meno possibile, Olaf sta cercando di
prendere sonno. Anela ad un soffio d’aria che gli rinfreschi le membra
sudate. Si rivolta sbuffando, le lenzuola che gli si appiccicano addosso, si
tira indietro i capelli incollati al viso.
La porta si spalanca di colpo, facendolo sussultare. Quattro uomini si
pigiano nel riquadro fosforescente di luce lunare, dilagano silenti nella
piccola cabina.
Olaf scatta in piedi, si fa indietro. Calcola infinite ipotesi in un
secondo.
L’azione diventa più rapida del pensiero. Ansiti, colpi, tramestio nel buio,
rumore di pugni sulla carne, gemiti soffocati.
Il norvegese si difende, ma viene infine sopraffatto.
Alcuni giri di nastro isolante intorno ai polsi gli bloccano le braccia
dietro la schiena, un pezzo sulla bocca dovrebbe impedirgli di urlare.
I quattro – sagome nere nel buio – comunicano fra loro in un linguaggio che
il ragazzo non conosce, ma non è difficile capire cosa vogliono. È chiaro da
come gli strappano i vestiti, dalla foga con cui lo palpano prima di
gettarlo sul materasso.
Mugola con rabbia cercando di sottrarsi, le mani e i respiri ansanti dei
quattro addosso. Il sangue che gli cola da un labbro spaccato scolla pian
piano il nastro che ha sulla faccia ed egli cerca di urlare, di chiamare
aiuto, mentre mani avide gli percorrono il corpo.
L’eccitazione, accumulata in mesi di navigazione ed esacerbata dalla
situazione contingente, domina le azioni dei quattro, travalica le loro
capacità di porsi dei limiti. Olaf è un corpo giovane, bianco, esotico per i
loro criteri, e promette gli stessi piaceri che si possono trarre da quello
di una qualsiasi prostituta.
Il ragazzo si divincola, grida.
All’urlo fa seguito una botta che gli strappa un gemito.
Poi lo afferrano, lo strattonano, legato com’è non riesce a mantenere
l’equilibrio e cade senza difese sulla cuccetta. Un uomo è alle sue spalle
mentre gli altri lo tengono fermo.
Lo sputo che gli cola nella fessura fra le natiche lo spinge ad un altro
parossismo di agitazione. Protesta, si divincola, tenta di liberarsi. Mentre
mani robuste lo trattengono, un dito saggia avido la sua apertura.
Si tende, Olaf, cerca ancora di sottrarsi e non sa se sia meglio
assecondarli per sentire meno dolore o resistere per mantenere intatta
almeno una parvenza di orgoglio.
La luce della cabina, accesa all’improvviso, è accecante.
Un colpo e l’uomo alle spalle di Svensson si accascia con un grugnito
rotolando pesantemente sul pavimento.
“Qualcun altro la vuole assaggiare?”
È il Tedesco e ha in mano una mazza da baseball di alluminio.
La domanda non presuppone una risposta, ovviamente. Gli altri tre rimangono
immobili per qualche secondo - occhi spalancati, volti sudati, un gonfiore
imbarazzante tra le gambe - poi si allontanano in silenzio, trascinando via
il compagno svenuto.
Il nuovo arrivato si dedica al ragazzo, gli toglie il nastro adesivo dalla
bocca, gli libera i polsi. Lo osserva sommariamente sotto la luce: non ha
danni gravi.
“Va a farti una doccia” gli dice asciutto. E si volta per andarsene.
“Aspetta.”
Il ragazzo lo ferma quando è già sulla porta. Il Tedesco si gira lentamente.
“Grazie,” gli dice Olaf, “grazie…” esita “non so neppure come ti chiami.”
“Christian Jensen.”
Ed esce.
La stiva è chiusa, non ci si può entrare. Nessuno può.
Mister Mwake tiene la chiave al collo anche quando dorme per impedire che
qualcuno ci vada a sua insaputa.
Cosa ci sia nella stiva non lo sa nessuno, neanche il Tedesco, che pure sa
sempre tutto. Forse ne ha un’idea il secondo di bordo, ma anche se ce l’ha
non parla.
Lo sanno invece, e molto bene, quelli di Flamenco, che proprio a causa di
quel carico stanno tenendo da giorni il Pamir alla fonda al largo del Ponte
de Las Americas. Qualcuno propone di farlo passare, in fondo sono otto ore
di navigazione, dieci per il Pamir, e poi il problema non è più loro.
Altri replicano: certo, ma se in quelle dieci ore si mette ad imbarcare
acqua? Se affonda col carico in una delle chiuse? Avete idea delle
conseguenze?
Tutti ne hanno idea. Un disastro di proporzioni difficilmente
quantificabili.
E nessuno si vuole prendere la responsabilità di dire un sì o un no
esplicito, per cui alle richieste di mister Mwake Flamenco risponde
invariabilmente da giorni nello stesso modo: “Stiamo valutando.”
Passa un altro giorno, la copia esatta di quello precedente e di quello
ancora prima, come se il Pamir fosse una nave stregata costretta a restare
in eterno ancorata al largo di Panama in un presente senza fine.
Gli uomini consumano ore e pazienza nell’attesa snervante, anime perse sulla
nave silenziosa, mentre lo stridere delle catene mosse dal rollio e lo
sciabordio delle onde pigre sono gli unici rumori che si sentono sul ponte
arroventato dal sole dei tropici.
La mensa diventa uno dei pochi diversivi delle giornate interminabili. Fanno
la fila, schiamazzando in quell’inglese sgrammaticato che è l’unica lingua
che dieci etnie diverse possono condividere, commentando sguaiatamente i
piatti. Una volta ricevuta la porzione si siedono ai tavoli di metallo,
aggregandosi secondo le rigidissime regole non scritte della gerarchia
all’interno dei gruppi.
Olaf Svensson è già seduto. Allo stesso tavolo siedono il meccanico e un
manovratore. Parlano poco, giusto due parole tra un boccone e l’altro.
Sopraggiunge il Tedesco, si muove col vassoio in mano come se stesse
portando la bandiera piegata da consegnare alla vedova di un caduto. Si
ferma un attimo alla vista di Svensson, lo saluta con un cenno del capo. I
due neri al tavolo, sincronizzati come se avessero fatto decine di prove, si
alzano e scompaiono per andare a sedersi altrove. Il Tedesco non batte
ciglio, non li segue neppure con lo sguardo. Intercetta la muta richiesta di
spiegazioni del norvegese.
“Scusa. È imbarazzante, ma dopo ieri sera loro pensano che…” si interrompe
cercando la parola. Non si capisce se sia la lingua – l’inglese
sgrammaticato – che lo rende incerto, oppure ciò che sta per dire. “Loro
pensano che tu sia mia proprietà.”
Si siede e si mette a mangiare senza aggiungere altro.
Il norvegese lo guarda in silenzio, guarda gli altri, infine torna a
concentrarsi sul vassoio. Il maschio dominante ha scacciato gli avversari.
Qualsiasi gruppo chiuso col tempo finisce per comportarsi secondo i criteri
ancestrali di un branco.
Solo che il Tedesco non ha agito per imporre la propria volontà agli altri,
l’ha solo difeso.
“È così? Sono la tua proprietà?”
La voce è ancora troppo stupita per avere altre connotazioni.
“Ora non ti daranno più fastidio.”
Una risposta trasversale. Insolita per uno come il Tedesco, abituato ad
essere diretto anche nelle situazioni in cui la linea retta tra A e B è
infinitamente più lunga di qualsiasi linea curva.
Il Tedesco se ne accorge quasi per caso. Sta buttando pezzetti di pane ai
pesci che guizzano nell’ombra del Pamir, un’altra idea per consumare qualche
minuto di quell’attesa snervante.
Lo sguardo si sposta dal brulicare argenteo alla fiancata rugginosa. Il
pescaggio è aumentato. In maniera impercettibile, ma è sicuro di non
sbagliarsi.
Stiamo imbarcando acqua.
Butta il resto delle briciole fuori bordo con un gesto brusco, va
sottocoperta, ispeziona le strutture accessibili col colpo d’occhio sicuro
di una vita passata a farlo.
Non tutte le stive sono chiuse. Solo quella del livello inferiore, appena
sopra la sentina, dove il caldo umido e greve di nafta stagna anche quando
fuori è fresco. Quella ha tutti i portelli sigillati.
Controlla, scruta, vi appoggia contro l’orecchio e rimane in ascolto come un
medico chino sul torace di un paziente. Nessun rumore.
Prova ad aprire la porta. Ci prova prima con mezzi leciti, poi con alcuni
sistemi illeciti imparati qua e là, ma la serratura gli resiste.
Allora va a parlare col capitano.
Mister Mwake è sdraiato nella sua cuccetta, accanto a lui un tavolino
ingombro di carte nautiche e strumenti di navigazione.
Una radiolina a transistor trasmette musica locale e di tanto in tanto la
voce concitata di uno speaker, un pigolio gracile su un sottofondo di
fruscii elettrostatici.
Il caldo sembra non disturbarlo minimamente, gronda imperturbabile di
sudore, tergendosi di tanto in tanto la fronte con un fazzoletto
appallottolato.
“Mister Mwake, credo che ci sia una falla. Imbarchiamo acqua.”
“Cosa? Ma che stai dicendo?”
“C’è una falla, è nella stiva inferiore. Mi faccia entrare a controllare.”
“In quella stiva non si può entrare.”
“Forse non ci siamo capiti,” ripete il Tedesco più lentamente, “ho il
sospetto che in quella stiva ci sia una falla.”
“Non si può entrare.” La risposta gli giunge con l’inflessibilità tribale
degli africani.
Insiste, il Tedesco, cerca di spiegarsi, arriva persino ad alzare la voce,
ma l’altro è inamovibile: nella stiva inferiore non si entra.
Il Tedesco esce, una gelida furia negli occhi.
“Verdammt” ringhia cupo, e risale in
coperta, dove si mette a sistemare la chiusura mezzo mangiata dalla ruggine
di un boccaporto.
Fantasmi del passato che tornano e gli vengono a presentare il conto. Puoi
scappare da tutto, ma non puoi scappare da te stesso.
“Flamenco dal Pamir. Flamenco dal Pamir.”
“Flamenco avanti.”
“Cargo Pamir, battente bandiera liberiana, tremila tonnellate di stazza
lorda, da Manila diretto a Kingston, chiede clearance per attraversare il
canale.”
“Stand-by.”
Lunghissimi secondi di silenzio, inquinati dalle comunicazioni di Flamenco
con altre navi. Il Lessing di Amburgo, container di cibo in scatola dalla
Cina, il Maersk Arun di Copenhagen, legname dall’Africa centrale, il Katrina
di Le Havre, nave passeggeri in crociera.
Tutti ricevono l’autorizzazione e si mettono in fila. Il Pamir resta fermo,
le uniche comunicazioni di Flamenco sono ordini di spostarsi sempre più al
largo per consentire la manovra alle altre navi.
Infine si fa udire ancora una volta la voce della stazione radio:
“Pamir da Flamenco.”
“Pamir avanti.”
“In attesa. Comunicheremo noi quando possibile l’ingresso al canale.”
E per quel giorno Flamenco ha cessato di interagire con il cargo liberiano.
Mister Mwake impreca nella sua lingua, poi si rivolge all’operatore radio e
impreca anche in inglese.
Tempo. Non ha tempo e quelli lo tengono lì da giorni.
Una falla, sì, plausibile che ci sia. La vecchia bagnarola ha uno scafo che
pare un solo blocco di ruggine. Ma se anche ci fosse progredirà allargandosi
lentamente; il Pamir avrebbe tutto il tempo di andarsene a morire nel
cimitero degli elefanti di un qualsiasi deposito di navi in disarmo.
E se quelli di Flamenco la piantassero di creargli problemi attraverserebbe,
consegnerebbe il carico e in pochi giorni la falla del Pamir non sarebbe più
un problema suo.
Notte di velluto al largo di Panama.
In alto le quattro stelle della Croce del Sud, in basso due luci bianche e
una verde, unità a motore superiore ai cinquanta metri che mostra il lato
dritto.
Costellazioni.
Il Tedesco è appoggiato alla murata e fuma in silenzio guardando il riflesso
della luna sull’acqua.
“Ciao, Jensen.”
È il norvegese. Si ferma a un metro da lui e si appoggia alla murata con gli
avambracci e la schiena. Si inarca all’indietro guardando il cielo
crivellato di stelle mentre l’altro risponde brevemente al saluto.
Poi si raddrizza, si gira, si mette anche lui a guardare l’acqua liscia come
olio. Passano alcuni minuti, percepisce un movimento del Tedesco. Si volta:
un pacchetto di sigarette teso verso di lui. Ne prende una.
“Mi fai accendere?”
Jensen gli porge un accendino, Svensson allunga la mano nel buio per
intercettarlo. Le dita incidentalmente si toccano, entrambi si ritraggono
come se avessero preso la scossa, per poco l’accendino non cade.
“Scusa,” mormora il ragazzo.
“Nessun problema.”
Passano altri minuti. Il silenzio è tale che quando il Tedesco butta il
mozzicone fuori bordo si sente lo sfrigolio lieve della brace che muore
toccando l’acqua.
“Jensen?”
La voce di Olaf suona quasi esitante.
“Sì?”
“Due luci rosse su due bianche sono un’unità superiore ai cinquanta metri
incagliata?”
Il Tedesco fa girare lo sguardo sui segnali luminosi delle navi ancorate.
Nessuna combinazione di due rosse e due bianche.
“Sì, è così.”
“Grazie.”
Finisce la sigaretta anche il norvegese, butta a sua volta il mozzicone
fuori bordo.
“Allora ci si vede, Jensen.”
“Ci si vede.”
Poi Olaf si allontana.
Per forza ci si vede, pensa il Tedesco. Dove te ne vuoi andare?
Si volta verso la direzione nella quale si è allontanato il ragazzo, rimane
così per un po’, poi torna a girarsi verso il mare silente.
Jensen.
Una volta era il primo ufficiale Jensen. Sì, era così che lo chiamavano.
“Ti va una birra, Jensen?”
“Jensen, veda se riesce a trovare qualcuno per sostituire l’aiuto
cambusiere.”
“Com’è andata ieri sera, Jensen?”
“CRISTO, JENSEN, FACCIA QUALCOSA!!”
A Flamenco c’è aria di tempesta, e non solo in senso figurato. Gli ultimi
bollettini meteo danno un tifone in avvicinamento da ovest.
Avanza rapido, spazzando la superficie dell’oceano con venti fino a ottanta
nodi, alzando onde di cinque metri.
Quando si abbatterà sulla baia di Panama non sarà un bello spettacolo.
Gli operatori considerano con impotente sconcerto il numero di navi alla
fonda. Tra meno di quarantotto ore si scatenerà l’inferno.
“Ne facciamo passare il più possibile poi chiudiamo tutto,” dice uno dei
coordinatori, “altrimenti le raffiche di vento sbattono le navi contro le
pareti delle chiuse e le sfasciano com’è successo l’ultima volta.”
“Questo è peggio di quello dell’ultima volta.” Precisa un altro, mostrando
agli astanti la criptica sequenza di cifre e acronimi dei METAR e dei TAF.
Tutti ne prendono visione ed annuiscono gravemente.
Cominciano le comunicazioni radio. Rapide, precise, niente sprechi di tempo.
Perdere cinque minuti significa mettere una o più navi a rischio di essere
danneggiate dalla tempesta o di affondare.
Nessuno si mette in contatto col Pamir. La vecchia nave non è stata
dimenticata però. Si è esaminato il suo caso e si è deciso di lasciarla
indietro, come si abbandonano i deboli ed i feriti durante una ritirata.
Prenderà il largo ed affronterà la furia degli elementi senza rischiare di
ostruire il canale morendovi dentro.
Il Tedesco è in coperta, una sagoma color indaco nel debole chiarore che
precede l’alba. Non riesce a dormire, è preoccupato. Sta valutando cosa
fare, perché il pescaggio, lentamente ma inesorabilmente, sta aumentando.
Le altre navi alla fonda cominciano a stagliarsi sulla linea più chiara che
va comparendo all’orizzonte. Passano alcuni minuti durante i quali contempla
assorto il mare, aspirando l’odore di salsedine nell’aria ancora fresca, poi
sente un debole squittio alle sue spalle. Si volta lentamente ed intravede
una forma grigia. È un ratto che si agita irresoluto, scivolando di anfratto
in anfratto senza apparente motivo, dimentico della circospezione tipica
della sua specie.
Il Tedesco segue per un po’ i movimenti frenetici dell’animale, poi alza gli
occhi all’orizzonte: nubi da ovest, cumuli torreggianti. Non promettono
niente di buono.
I ratti sono i primi ad abbandonare la nave quando le cose si mettono male.
Il giorno avanza, il sole si alza nel cielo, arroventando imperturbabile il
ponte scrostato del Pamir. La minaccia delle nubi da occidente è appena un
monito vago nel riverbero accecante dei raggi, gli uomini le rivolgono di
tanto in tanto un’occhiata distratta, ma nessuno vi si sofferma.
Pochi si rendono conto di cosa sia in agguato all’orizzonte.
Tra questi c’è sicuramente il Tedesco, ma non è l’unico. Nella cabina di
mister Mwake, lo stesso mister Mwake e il suo secondo mister Asad stanno
parlando.
Sul tavolino, oltre alle solite carte nautiche, ci sono i bollettini meteo,
una bottiglia piena a metà e un paio di bicchieri.
I due fanno uno strano contrasto, il nigeriano robusto e tarchiato e il
lungo somalo dalle membra ossute, ma lavorano insieme da un bel po’ di tempo
e si sono già presi le misure a vicenda. Parlano fra loro nell’inglese
semplificato che viene usato a bordo come lingua corrente, ma comunicano
sulla stessa lunghezza d’onda, per cui si capiscono al volo.
“Che bella situazione” brontola il capitano, “ci hanno lasciati qui a
marcire. Se ne fregano se affondiamo con questa bagnarola mezzo mangiata
dalla ruggine.”
“Noi non valiamo niente per loro,” ribadisce il secondo, “a quelli
interessano solo i piroscafi con i passeggeri, che pagano un sacco di soldi
per passare.”
Bevono cupamente un bicchiere di bourbon.
“Ti dico cosa farò,” prosegue poi mister Mwake, “se le cose si mettono male
io mollo tutto e mi salvo il culo.”
Silenzio da parte del somalo.
“Mi salvo il culo,” ripete l’altro, “non rischio la pelle per i quattro
soldi che mi danno.”
Mister Asad lo ascolta pensoso, infine chiede: “E il carico?”
“Una volta che ho messo piede a terra non è più un problema mio. Occupatene
tu se vuoi, oppure preparati a mollare questa carretta al suo destino.”
Si interrompe, beve un altro bicchiere.
“Chi ce lo fa fare di stare qui a rischiare la pelle?” insiste, asciugandosi
il sudore con il solito fazzoletto appallottolato.
Mister Asad ci pensa. Non glielo fa fare nessuno, in effetti.
Nel primo pomeriggio la nave sembra veramente un vascello fantasma. Il caldo
torrido ha spinto tutta la gente sottocoperta, alla ricerca dei ventilatori
cigolanti della mensa.
Sul ponte, solo sotto l'incrociarsi dei voli di uccelli, il Tedesco è seduto
in una chiazza d'ombra.
Sta dando gli ultimi ritocchi ad un oggetto che da tempo sta intagliando in
una noce di tagua. Lo tiene sempre in tasca e nei momenti liberi lo tira
fuori e lo scolpisce con il suo coltello.
Olaf Svensson si affaccia ad un boccaporto e lo vede seduto su una gomena
arrotolata, la testa china, intento al suo lavoro. Tra le dita ha un piccolo
oggetto liscio, di aspetto eburneo, che va rifinendo quasi con affetto.
È assorto, lontano. Sembra che invisibili pareti di vetro lo separino dal
resto del mondo.
Gli si avvicina risoluto, come se avesse qualcosa di importante da
comunicargli, e quando è lì rimane fermo, sospeso, catturato in quella bolla
di immobilità raccolta.
Ricami di uccelli nel cielo terso.
“Ciao Christian.”
La voce del ragazzo sembra incrinare l’atmosfera di cristallina sospensione.
Il Tedesco si volta verso di lui, lo guarda di sotto in su. È uno dei rari
momenti in cui Svensson ha i capelli sciolti, e la brezza glieli fa
ondeggiare appena intorno al viso. Ha occhi trasparenti, dello stesso colore
del cielo.
“Ciao, Svensson.”
“Olaf.”
“D’accordo, Olaf.” risponde l’altro accennando ad un sorriso.
Si guardano di nuovo in silenzio.
“Che stai facendo di bello?” si informa cauto il ragazzo.
L’altro gli porge senza parlare la figurina che sta intagliando. Olaf la
prende con delicatezza, la osserva attento: uno snello corpo di felino, il
cui movimento segue la rotondità del pezzo da cui è stato ricavato. I
particolari sono incisi mirabilmente, la bestia sembra pronta a balzare, le
fauci spalancate in un muto ruggito.
“Bello. È un giaguaro?”
“Una tigre.”
Gli occhi dei due si posano simultaneamente sulla scultura, ora fra le dita
del norvegese, poi il Tedesco spiega: “Secondo la tradizione giapponese la
tigre fa mille miglia, ma alla fine ritorna sempre a casa.”
Sospira, chiude il coltello a serramanico e lo ripone in tasca.
“Non so nemmeno perché l’ho fatta,” soggiunge poi, “a me non interessa
tornare a casa.”
Segue un lungo silenzio.
“Si prepara una burrasca,” constata dopo un po’, fissando il cielo con i
suoi occhi di rapace.
Il norvegese lo guarda senza parlare, in piedi, sul palmo della mano la
tigre ruggente.
L’altro distoglie lo sguardo dall’orizzonte, fissa il ragazzo, poi gli
prende la mano che regge la scultura e con un gesto di rude tenerezza gli
chiude le dita sul piccolo oggetto.
“Te la regalo,” gli dice, “Perché tu devi tornare a casa.”
La notte segue cupa. Particolarmente buia, perché i cumuli sono infine
giunti da occidente coprendo la luna e le stelle. Solo le luci della città
palpitano vaghe lontano. Navi che abbiano segnali luminosi ne sono rimaste
ben poche intorno al Pamir.
L’aria è paurosamente calma, afosa, pervasa da un’immobilità elettrica.
Svensson e Jensen sono a prua, appoggiati alla murata uno accanto all'altro.
Lasciano vagare lo sguardo nell’oscurità ascoltando i propri pensieri.
Pur se non espressa in modo chiaro, la sensazione che si percepisce a bordo
è quella della fine imminente. I doveri vengono trascurati, gli uomini fanno
ciò che vogliono. Alcuni hanno portato delle sedie in coperta e stanno
bevendo tutti insieme, ma l'oscurità è così densa che è come se ognuno fosse
solo con se stesso a fronteggiare quello che deve accadere.
Qualcuno ha collegato agli altoparlanti di bordo un registratore con i
successi di Elvis Presley, e la sua voce vellutata vibra nelle tenebre
spesse.
...Are you lonesome tonight...
Olaf si volta verso il Tedesco, che percepisce solo come una sagoma
vagamente più chiara nel buio.
...Do you miss me tonight...
"Christian, ti senti mai... solo?" azzarda con voce morbida.
L'altro rimane in silenzio, ma si avvicina impercettibilmente al ragazzo.
"Voglio dire... solo, senza nessuno?" Insiste Olaf.
Un altro lungo silenzio, le spalle giungono a sfiorarsi.
"Ich weiß nicht was soll es bedeuten daß ich so traurig bin..." dice infine
il Tedesco a bassa voce, come se parlasse a se stesso.
"Cosa vuol dire?" appena un sussurro, il contatto fra i due si fa più
deciso.
"È la Loreley, una leggenda tedesca. Il verso è di Heine."
Ma non significa niente, sta solo girando intorno alla risposta che vorrebbe
dare.
"Io non so perché sono così triste," si decide a dire.
Non è la traduzione letterale, perlomeno non di quel verso. Dei suoi
pensieri, piuttosto.
Le sue dita scivolano lente a sfiorare i capelli di Olaf. Questi si avvicina
ancora, inclinando la testa verso la mano che lo sta accarezzando.
"Sei triste, Christian?" un mormorio a fior di labbra.
"...A volte..."
La mano scivola dietro la nuca del ragazzo, i volti si avvicinano, le labbra
si uniscono socchiuse.
Si baciano. A lungo, appassionatamente. Stretti l’uno all’altro, strana
polena di un vascello morente che i ratti hanno cominciato ad abbandonare.
Il tumulto dei loro cuori li distoglie dal tonfo delle lance calate in acqua
col favore delle tenebre.
Il ventre schiacciato contro il materasso, l’uomo sopra di lui che si fa
strada nel suo corpo, Olaf getta la testa all’indietro, gemendo ad occhi
socchiusi, i capelli incollati al volto sudato.
Una mano di Christian scivola in avanti, il suo palmo contro il dorso di
quella del ragazzo, le dita che si intrecciano e si stringono mentre lui lo
bacia piano sul collo.
Si inarca, Olaf, si tende, il suo corpo snello contro quello robusto
dell’altro, geme più forte contraendosi intorno alla carne che lo sta
penetrando. Mormora il nome del Tedesco, Christian, come una preghiera.
Non hanno detto nulla, non si sono scambiati parole mentre crollavano sul
letto avvinghiati, i corpi madidi, i respiri ansanti. Eppure si sono capiti
al volo, come se quella fosse stata la scena di un copione già scritto per
loro.
La luce fioca della cabina è appena sufficiente ad allontanare l’oppressione
delle tenebre.
Fuori brontolano i tuoni mentre l’aria, ora non più immobile, comincia a
scherzare con le bandiere come la zampa morbida di un gatto.
Ma i due non se ne rendono conto, dimentichi per quella manciata di minuti
di ciò che sta succedendo al Pamir, trascinato sempre più a fondo dall’acqua
che gli sta infiltrando le stive come un cancro.
Christian circonda il corpo agile di Olaf con il braccio forte, lo stringe a
sé mentre le sue reni lo martellano con foga disperata.
Sono lontani ora, mille miglia da quel cargo perso nel buio, mille miglia
dagli uomini che si ammassano precipitosi sulle scialuppe mentre le onde
cominciano ad alzare creste di spuma.
Seguito a ruota da mister Asad, mister Mwake prende posto imprecando su una
lancia traballante.
In omaggio alle migliori tradizioni marinare, è l’ultimo ad abbandonare la
nave. Lascia tutto, documenti di bordo ed effetti personali. Il Pamir non è
più di sua competenza.
Le piccole imbarcazioni si allontanano con calma, c’è ancora tutto il tempo
per attraccare prima che la tempesta si scateni.
“E quei due?” chiede mister Asad.
“Chi se ne frega.”
“Una scialuppa è rimasta, se la vogliono.” Si sente in dovere di comunicare
il secondo. Una risposta ad una domanda che nessuno ha fatto, come a placare
inusitati sensi di colpa.
Jensen.
Primo ufficiale Jensen.
Eccezionalmente giovane per essere un primo ufficiale, ma anche
eccezionalmente competente. Brillante promessa della marina mercantile
tedesca. Diventerà presto capitano di lungo corso.
Ed è così affascinante, con la sua uniforme immacolata. Sembra nato per
stare sul ponte di un piroscafo da crociera.
Ma è facile essere primi ufficiali competenti e affascinanti quando le cose
vanno bene. È quando le cose vanno male che si vede la stoffa del vero
marinaio.
E il mare non tarda a metterlo alla prova. C'è una tempesta, un brutto
groppo di venti artici, selvaggi e mutevoli come cavalli imbizzarriti.
Ha avuto sfortuna, Jensen. La sua prima tempesta da secondo di bordo è
un'infida perturbazione primaverile al largo della Scandinavia, furiosa e
imprevedibile.
Tutto approssimativamente bene finché al comando della nave c'è il capitano.
Jensen applica le sue nozioni, è veloce ed efficiente. La tempesta sembra
sotto controllo, una belva presa al laccio, che si agita e ruggisce ma è
impotente.
Poi d'un tratto il capitano non c'è più. Un'ondata particolarmente violenta
spinge il piroscafo con la prua contro gli scogli e il capitano con la testa
contro uno spigolo. Nessuno dei due ne esce vivo.
Con un boato terrificante, la nave si inclina su un fianco mentre la carena
si disfa sulla pietra con lunghi gemiti di metallo straziato.
"Che facciamo, signor Jensen?"
Ora il capitano è lui.
Gli si fa il vuoto nella mente. Nozioni, competenze, consuetudini. Tutto
sparito chissà dove.
"Signor Jensen?"
Signor Jensen, che qualifica assurda
per un ragazzino con l'uniforme di un uomo.
Paralizzato dall'orrore, Jensen registra il progressivo inclinarsi della
nave.
Corre giù, nella stiva l'acqua sale gorgogliando. Fuori il vento spazza la
coperta gettando rovesci di pioggia gelida.
Gli uomini si agitano come formiche impazzite. Sono irresoluti, frenetici,
hanno bisogno di una guida sicura che li indirizzi verso la salvezza.
"Jensen!"
La nave si inclina ancora, con un muggito cupo da bestia ferita.
"Jensen!!"
Nubi di vapore scaturiscono dalla sala macchine invasa dall'acqua.
"CRISTO, JENSEN, FACCIA QUALCOSA!!"
La nave affondò. Forse prendendo in mano la
situazione da subito si sarebbe potuta salvare, ma questo non accadde e il
piroscafo Freya si inabissò dopo essersi fracassato la prua sugli scogli al
largo di Hammerfest.
Al processo furono eccezionalmente miti nei confronti di Jensen.
Considerarono la sua giovane età e la sua inesperienza. Ci fu un generale
clima di paterno compatimento nei suoi confronti. Alla fine lo lasciarono
andare quasi illeso. A parte il marchio indelebile della vergogna.
"CRISTO, JENSEN, FACCIA QUALCOSA!!"
Il Tedesco si sveglia di soprassalto. Inspira passandosi una mano sul viso,
ma non è particolarmente sconvolto. Sono anni che quasi ogni notte quel
grido gli echeggia nella testa svegliandolo di soprassalto, ormai ha
imparato a sopportarlo come il sintomo di una malattia cronica con la quale
si deve convivere.
Olaf apre gli occhi sentendolo muovere, si guarda intorno. Gli sorride
strusciando appena la testa contro il suo petto. Di nuovo fa girare uno
sguardo indagatore per la stanza, poi alza gli occhi su di lui.
"Qualcosa non va," conferma il Tedesco.
Il ragazzo non risponde. A parte il sibilo del vento, in coperta non ci sono
altri rumori. La nave sembra morta, già fantasma di se stessa.
Si alzano, si rivestono, escono. Nessuno in vista, oggetti vari disseminati
in giro. I loro passi risuonano con una sinistra eco metallica.
Una rapida occhiata d'insieme e i due notano l'assenza di tutte le scialuppe
tranne una. Non è difficile ricostruire quello che è successo.
Alzano lo sguardo sul cielo livido e tormentato, che sembra letteralmente
ribollire. Vi si indovinano all’opera forze immani.
Un possente vento di maestrale soffia teso a sollevare le onde.
Cominciano a guizzare i primi lampi, che crepitano secchi da una nube
all’altra.
“Aspetta qui,” dice il Tedesco, poi si dirige rapidamente verso la cabina
del capitano. Intanto sta valutando la loro situazione: la nave ha una
falla, l’equipaggio se n’è andato, si sta avvicinando una tempesta.
Entra nel piccolo vano, apre i cassetti, li rovista. In una congerie di
carte sgualcite trova le bolle di carico, le legge, soffoca un’imprecazione
poi le butta via come se scottassero.
Torna di corsa in coperta.
Se hai intenzione di fare qualcosa,
Jensen, questo è il momento, pensa.
Il norvegese è ritto in piedi, i capelli scompigliati dal vento sempre più
impetuoso, una vaga espressione di sfida sul volto quando si rivolge al
cielo cupo.
Il Tedesco si avvicina alla scialuppa, che dondola appesa ai suoi paranchi.
“Aiutami a calarla!”
“Vuoi abbandonare la nave?”
“Tu abbandoni la nave. Io cerco di
rientrare con il Pamir.”
Il norvegese lo fissa incredulo. Poi indietreggia turbato. Non vuole andare,
non vuole abbandonarlo.
Il Tedesco lo prende per le spalle, lo costringe a guardarlo negli occhi.
“Non fare il bambino. Prendi quella lancia e va a terra. Io me la caverò.”
Tu devi tornare, pensa, come la tigre. Io invece me la devo vedere con i
miei fantasmi, anche se questo significasse raggiungerli.
La scialuppa fila sobbalzando sulle onde spumose. Mare grosso, ma niente che
un marinaio norvegese non possa padroneggiare.
Il Tedesco lo guarda allontanarsi, distogliendo gli occhi solo quando lo
vede dirigersi con sicurezza verso la costa.
Ingoia un sospiro, adesso non ha il tempo di perdersi in sentimentalismi.
Scende in sala macchine, sul pavimento c’è già un centimetro d’acqua. I
vecchi diesel però partono subito e cominciano a girare a pieno regime. Per
quanto, non è dato saperlo. Intanto stanno funzionando. Chiude ermeticamente
tutti i portelli, rallenteranno la salita dell’acqua. Poi corre in plancia.
Ha un vago brivido nel varcarne la soglia. L’ultima volta che ha messo piede
in una plancia era il primo ufficiale Jensen.
Di nuovo, niente sentimentalismi. A denti stretti si colloca al timone. Si
sente come se intorno a lui ci fosse una corte di presenze diafane, che
scrutano ogni sua mossa silenziose e severe.
Guarda fuori attraverso le ampie vetrate: la tempesta si sta scatenando. Il
cielo è un ammasso contorto di nubi grevi; è giorno fatto, ma la luce è
quella cupa del crepuscolo. Le onde si ergono immense come minacciosi muri
liquidi, rimangono immobili per un attimo poi si abbattono con furia sul
ponte del Pamir, spazzando via ogni cosa. Sebbene appesantita dall’acqua che
sta imbarcando, la nave vibra sotto le raffiche di vento.
A Jensen basta un attimo per fare il punto. Si obbliga a non pensare a Olaf
e dirige verso la costa, che ormai può solo immaginare, perché la tempesta
ha ridotto la visibilità a meno di cento metri.
Sono poche miglia. Una distanza ridicola per una nave in buono stato. Quasi
insormontabile per il Pamir, che arranca ormai con le ultime forze.
“Flamenco dal Pamir. Flamenco dal Pamir”
Qualche secondo di esitazione, Jensen può quasi indovinare lo sconcertato
sbigottimento dell’operatore.
“Pamir avanti.”
“MAYDAY, MAYDAY, MAYDAY. Questa è una comunicazione di emergenza. Ripeto,
questa è una comunicazione di emergenza dal Pamir.”
Altra breve esitazione.
“Pamir avanti.”
Il Tedesco ha a sua volta un secondo di esitazione. Difficile esprimere
l’angoscia che lo sta attanagliando con il frasario asettico della fonia
standard.
“Cargo Pamir, battente bandiera liberiana, tremila tonnellate di stazza
lorda, da Manila diretto a Kingston, è in avaria. Imbarca acqua da una falla
nell’opera viva, di entità e posizione sconosciute.”
“Pamir da Flamenco: avevate ricevuto l’ordine di abbandonare la zona due
giorni fa.”
Il Tedesco stringe i denti contrariato. Non è per ascoltare rimbrotti che ha
contattato l’Ente.
“Flamenco da Pamir. L’equipaggio ha abbandonato la nave, sono solo a bordo.
Non è possibile abbandonare il carico, la nave dev’essere necessariamente
ricondotta in porto.”
Segue a questo punto un mezzo minuto di silenzio. Sanno anche loro cosa c’è
a bordo e probabilmente staranno cercando di valutare il da farsi.
“Pamir da Flamenco,” si fa udire infine la voce dell’operatore radio, non
scevra di un vago tremito.
“Pamir, avanti.”
“Pamir da Flamenco, vi mandiamo i rimorchiatori.”
“Negativo dal Pamir, ci sono onde di tre metri in aumento. I rimorchiatori
non riuscirebbero nemmeno ad avvicinarsi.”
Jensen si aggrappa al timone per non cadere: angariata dalla tempesta, la
nave si scuote e sobbalza come l’animale in agonia che è.
Gli giunge di nuovo la voce dall’etere: “Pamir da Flamenco: intenzioni?”
Il Tedesco, categorico, risponde: “Flamenco da Pamir, la riporto indietro.
Liberate il bacino di carenaggio, se ho fortuna riuscirò ad entrarci e così
il carico potrà essere recuperato intatto.”
Poi si disinteressa della radio. Ha già dedicato all’Ente anche troppo
tempo.
Guarda di nuovo fuori. Sono comparse le esili lingue azzurre dei fuochi di
Sant’Elmo, guizzano su tutta la nave.
Sorride appena. I vecchi lupi di mare dicono che sono le anime dei marinai
morti che vengono ad infondere coraggio ai loro compagni impegnati a lottare
contro una tempesta.
“Pari avanti tutta!” dice, come se davvero le anime dei marinai potessero
sentirlo.
La tempesta è adesso nel pieno del suo furore. Il fragore è assordante,
l’unica luce è quella livida dei lampi. Il vento spazza ogni cosa. La
pioggia si abbatte in scrosci violenti come nugoli di dardi.
Il Pamir scompare in voragini dalle pareti liquide per poi riapparire in
bilico su onde immani. Ad ogni movimento vibra e scricchiola in tutte le sue
giunture, tanto che il Tedesco si chiede com’è possibile che non sia ancora
finito con la chiglia all’aria o spezzato in due.
La falla si sta allargando. L’acqua nella stiva migliora appena la
stabilità, ma peggiora decisamente l’assetto: il Pamir procede arrancando
inclinato su un fianco, come un animale azzoppato.
È vitale tagliare le onde con la prua. Jensen si affanna al timone con una
perizia che credeva di non possedere più, immaginando, più che sentirlo, il
pulsare regolare dei motori giù nella sala macchine. Calcola mentalmente
quanto potrà essere alta l’acqua là sotto, e calcola di conseguenza la
propria autonomia.
Appena si spegneranno i motori il Pamir sarà inerme in balia dell’uragano e
la lotta da Olandese Volante contro gli elementi si trasformerà in una
degradante agonia da ratti.
Si guarda intorno silenzioso. Curioso, trova anche il tempo di pensare. Ho
mai creduto davvero di uscirne? si
domanda. O cerco solo la redenzione? Perché questo cambia radicalmente le
cose: nel primo caso sto lottando per riportare indietro questa bagnarola,
nel secondo sto solo cercando il modo di fare una fine che sia il più eroica
possibile.
I motori cominciano a perdere colpi.
Può darsi che qualcun altro abbia già scelto per me, pensa il Tedesco,
tendendo l’orecchio per cogliere i singulti dei diesel soffocati dall’acqua.
Quattro fischi brevi.
Sono vicinissimi, a dritta.
Il Tedesco si volta verso la provenienza del suono, ancora non del tutto
sicuro di averlo udito davvero.
Rimane in ascolto, cercando di filtrare il fragore dell’uragano, e li sente
di nuovo: quattro fischi brevi. Per qualche motivo a lui ignoto, vicino al
Pamir è spuntato un rimorchiatore pilota.
Subito dopo, il pennello di luce di un riflettore spazza la plancia,
facendogli sbattere gli occhi per un attimo.
“Ahoi!” chiama un altoparlante, “Ahoi! Ehi, del Pamir!”
Jensen blocca il timone, corre alle vetrate. I rimorchiatori sono tre, e
stanno ballonzolando attorno al cargo come cani che fanno le feste.
Uno dei tre si avvicina, si affianca, vengono lanciate alcune cime verso la
murata del Pamir e le due imbarcazioni cominciano a muoversi solidali,
separate solo dai parabordi del rimorchiatore.
Una figura avvolta in una cerata gialla sguscia fuori dalla cabina
dell’imbarcazione più piccola, barcolla, scivola ma resta fortunosamente in
piedi. Altre figure la seguono, sembra che la stiano richiamando, ma la
prima le ignora, si aggrappa alla murata, la scavalca, scivola di nuovo
rimanendo per un attimo appesa in bilico sul vuoto, poi si issa sulla
coperta del Pamir e sale su per la scala che conduce in plancia.
Jensen la segue con lo sguardo nelle sue evoluzioni – tensione quando
scompare alla vista, sollievo quando riappare – finché non se la trova
praticamente davanti, sulla porta del ponte di comando. La figura barcolla
di nuovo, si aggrappa per non cadere con un movimento precipitoso, si fa
scivolare all’indietro il cappuccio: capelli biondi lunghi fino alle spalle.
“Olaf Svensson,” constata il Tedesco.
“Ciao Christian,” dice l’altro, “te ne vai in giro tutto solo?”
Fa un sorriso tirato, è pallido di paura. Non aveva mai visto una tempesta
così. Soprattutto mai vista dal mare.
“Qui è troppo pericoloso, Olaf,” ribatte Jensen, “non dovresti essere qui.”
“Sciocchezze,” risponde il ragazzo, barcollando di nuovo sotto la spinta di
un’ondata, “i miei antenati andavano già per mare quando i tuoi non sapevano
nemmeno guadare i fiumi. Certe cose le ho nel sangue.”
“Stupido norvegese,” brontola il Tedesco, ma la voce ha una nota affettuosa
che non sfugge all’altro.
Non si scambiano effusioni. Si guardano negli occhi e non c’è bisogno di
altro.
“Reggi il timone,” dice in fretta Jensen, indossando una cerata, “Io vado in
coperta a vedere cosa c’è da fare. Cerca di tenere la rotta più che puoi.”
Scende giù, si assicura con un cavo d’acciaio in vita e comincia ad
inoltrarsi con sicurezza sul ponte squassato dalle onde. Una cateratta
particolarmente violenta lo investe in pieno, lo fa barcollare. Resiste, si
aggrappa al primo appiglio che trova, si rimette in piedi. Ne arrivano una
seconda e una terza, Jensen incespica, ma riesce a mantenere l’equilibrio.
Caparbio e determinato, giunge infine alla prora, che ad ogni ondata finisce
sott’acqua per poi impennarsi bruscamente subito dopo. Si è portato una
torcia, segnala ai rimorchiatori di affiancarsi e lanciare le gomene per il
traino. Ancora non sa come farà ad afferrare le cime che gli verranno
lanciate e a fissarle alle bitte senza finire fuori bordo, non ha idea di
come reggeranno le bitte del Pamir, vecchie e malandate al pari di tutto il
resto, una volta che i rimorchiatori cominceranno a trainare strattonando a
seconda della violenza delle onde.
Ma è inutile pensarci. Comunque non c’è altra scelta e la prima gomena si
sta già contorcendo sulla coperta come una specie di serpente marino. Jensen
l’afferra subito, ma uno scossone del Pamir gliela strappa letteralmente
dalle mani.
Una seconda cima raggiunge il ponte e rimbalza accanto ai suoi piedi.
Stavolta riesce a passarla intorno alla bitta. Fa un nodo parlato, lo
raddoppia per sicurezza. Si aggrappa a qualcosa per rimanere in piedi mentre
un’ondata lo investe in pieno, perde la presa, si sente trascinare fuori
bordo, ma il cavo d’acciaio che ha assicurato in vita lo trattiene.
Si rialza in un attimo, non è ancora il momento di riposarsi, il primo
rimorchiatore sta ancora cercando di lanciare la sua cima.
Dopo alcuni tentativi riesce a prenderla e a darle volta intorno ad una
bitta, e le due imbarcazioni cominciano a trainare il Pamir.
Arriva anche il terzo rimorchiatore mentre i primi due, portati
evidentemente da piloti esperti, lavorano in sinergia per evitare quanto
possibile strappi troppo bruschi.
Il Tedesco gli segnala di spostarsi dalla parte della falla, dove la nave
manovra meno. Anche qui, afferra la cima dopo alcuni tentativi e la fissa
con un doppio nodo parlato.
Poi si appoggia alla murata di prua, ansimando esausto. Si passa una mano
sul viso e la ritrae sporca di sangue. Lo vede per un istante alla luce di
un lampo, prima che un’ondata lavi via tutto.
Realizza di essere bagnato fradicio, stremato e ferito, non sa quanto
gravemente. Non gli importa. Purché il Pamir possa giungere a destinazione.
Non si renderà responsabile di un secondo disastro.
Rimane fermo dov’è a controllare che tutto proceda come deve. Getta appena
una fugace occhiata alle sue spalle, verso le vetrate buie della plancia.
Non vede Svensson, ovviamente, ma può immaginarlo al suo posto. Per un
attimo si sente anche assurdamente orgoglioso di come il ragazzo sta
portando il Pamir agonizzante. Non è facile stare al traino con queste onde,
gli viene da pensare.
Passa un tempo imprecisato. La tempesta sembra cedere leggermente. Un
chiarore livido comincia a delineare la forma delle nubi e lontano, soffusa,
indistinta, la linea irregolare della costa.
I rimorchiatori prendono a mandare un fischio lungo e due brevi, ad
intervalli di due minuti. Quell’ululare lugubre, che avverte gli altri
natanti di spostarsi in fretta, rende ancora più spettrale l’apparizione del
Pamir: una figura nera barcollante, con tre teste che latrano.
Cerbero uscito dall’Inferno.
Giungono infine al porto, che è deserto. Ci sono solo lance dei Pompieri,
rimorchiatori ed altri mezzi di soccorso, tutti immobili, appostati a
scrutare in attesa del disastro. Non una persona in giro, non una luce negli
edifici.
Jensen si sposta, si accorge di essere indolenzito ovunque. Dopo aver
controllato ancora una volta che i cavi da rimorchio siano ben sistemati si
dirige in plancia. Entrare in un bacino di carenaggio senza motore e con la
nave mezza affondata richiede una competenza che Svensson, nonostante il
coraggio e la buona volontà, non può avere.
Giunge al ponte di comando. Olaf lo vede, gli corre incontro. Stavolta si
abbracciano. Brevemente, virilmente, ma lo fanno. Ognuno dei due ha bisogno
di sentire concretamente che l’altro c’è ancora.
“Sei ferito!” esclama il ragazzo preoccupato.
“Solo un graffio,” risponde meccanicamente il Tedesco, senza neppure essersi
accertato dell’entità del danno, “ci penseremo dopo.”
Comunica ai rimorchiatori di fermarsi ai lati del bacino di carenaggio e di
lasciar sfilare lentamente i cavi di traino mentre il Pamir finirà dentro
sfruttando l’abbrivio.
Si mette al timone. Olaf lo vede mordersi il labbro inferiore, concentrato
nella delicata manovra. Le paratie stagne gli si spalancano davanti, il
branco di mezzi di soccorso lo segue da presso, alitandogli sul collo come
uno stormo di avvoltoi dietro a un bufalo morente. Dovrebbe sentirsi fiero
di quello che ha fatto, ma di nuovo non sa perché si sente così triste.
Forse è l’aria di morte che pervade tutto, l’aria di fine.
Se ci passi abbastanza anni, anche l'inferno può diventare un luogo
familiare.
Il Pamir per il Freya. Che ne dici, Jensen, può bastare? Il vecchio cargo
col suo carico maledetto per l'elegante piroscafo. È un cambio equo? Alla
pari?
Per anni il Tedesco ha vissuto trascinandosi dietro una colpa che non poteva
essere espiata. Per anni, chissà quanto consapevolmente, ha cercato la
redenzione: gli imbarchi peggiori, i viaggi più lunghi, i capitani più
severi, sempre sopportando tutto con l’angoscia di non riuscire ad ottenere
l'assoluzione, e quello che lui chiamava mettersi alla prova era in realtà
un punirsi senza fine, perché senza fine era la sua ansia di riparazione.
Guarda ancora una volta Olaf, impegnato a tenere d'occhio la manovra. Il
ragazzo si volta verso di lui, gli occhi limpidi, un sorriso appena
accennato.
Jensen fa a sua volta un pallido sorriso. Perché gli fa così paura pensare
che quel ragazzo diventerà un marinaio eccezionale?
"Ce l'hai fatta" gli dice l’altro, distogliendolo dalle sue meditazioni.
Ed è vero: la nave è ancora a galla – più o meno – e sta per essere
collocata al sicuro.
Non era facile riuscire nell’impresa.
"Ce l'abbiamo fatta" risponde Jensen,
poi si sposta verso di lui fino a che le loro spalle non si toccano.
La nostra storia
finisce col Pamir. La vecchia nave si inabissò esalando l’ultimo respiro nel
bacino di carenaggio. Morì silenziosa e dimessa com’era campata: un sospiro,
un ultimo cigolio e il vecchio somaro si accasciò su un fianco andando
quietamente all’altro mondo.
Che ne è stato di Jensen e Svensson una volta giunti a terra non lo
sappiamo. Ci piace pensare che stiano ancora navigando insieme da qualche
parte, anche se nessuno ha più avuto notizie di loro.
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