Ed eccovi
la fanfiction! Avete letto il prologo, vero?! Senza quello non capirete
nada!
Spero che vi piaccia!
A dopo per il siparietto
finale!!!
Marty
Dedico questa fanfiction,
per quanto decisamente triste (e quindi non so quanto apprezzeranno) alla
mia amika Sara (autrice delle notine…checcoraggio!^^) e a Yukari (ho dato il
tuo nome alla piccola Yukachan…perché ti voglio bene!)
Note: l’ispirazione, oltre
che dalla canzone, mi è venuta da un testo che ho tradotto per l’università
che parlava proprio di San Paolo e del Brasile.
Note2: ah, la storia è
tutta in terza persona, laddove ci sia un POV lo scriverò prima del
capoverso corrispondente.
Come sempre, in corsivo il
testo della canzone, tra parentesi la traduzione e tra asterischi i
flashback.
Non parlo più ^^
Un mundo mejor
parte I
di Marty
-Capitolo 1-
L’aereo sorvolava i verdi campi coltivati.
I giocatori dello Shohoku erano tutti addormentati, eccezion fatta per due
di loro: Hanamichi Sakuragi e (udite udite) Kaede Rukawa.
Sì, proprio lui.
L’unica persona al mondo che riesce a prendere sonno anche camminando, non
riusciva a dormire.
Non faceva altro che pensare a quello che aveva sentito appena una settimana
prima.
* “Sei sicuro di quello che fai, Hanamichi?”
Con voce affettuosa Kawaru Yatoba si era avvicinato al rossino,
accarezzandogli i capelli.
Le spalle del ragazzo erano scosse dai singhiozzi.
“Perché sei venuto, Kawaru?” aveva chiesto in un sussurro.
“Voglio evitare ad altri quello che hai sofferto tu”.
Rukawa era rimasto gelato da quelle parole.
Di cosa stava parlando quel matto?
Cosa poteva aver vissuto Hanamichi il cui ricordo lo faceva soffrire così?
“Ma…io…non…voglio ricordare…io…”
“Capisco. Ma so che il tuo cuore è forte, puoi farcela.
E sono sicuro che l’aiuto di qualcuno che può capire vale molto di più di
quello di qualcuno che lo fa cadere dall’alto” aveva detto le ultime parole
con disprezzo.
“Parli di Rukawa, vero Kawachan?” gli aveva chiesto il rossino.
“Tsk! Quel ragazzino borioso e viziato…ha tutto, vorrei sapere come si
permette di assumere quello sguardo, quella strafottenza…forse solo tu ne
avresti il diritto…tu che…”
Il volpino si avvicinò ancora, ma Sakuragi aveva chiuso le labbra dell’uomo
con la mano.
“Non dirlo, Kawachan.
Ti prego.
Io andrò e prego solo che la corazza che mi sono costruito in questi anni
regga.
Se dovesse andare in pezzi…non so come mi difenderei dall’amore che
nasconde…”
Gli occhi di Kaede si spalancarono.
Nascosto?
Amore nascosto?
Ma come!
I suoi sentimenti per la sorella del capitano erano noti a tutti…
A meno che…
I veri sentimenti fossero altri…
“E per dirla tutta, Rukawa non è come lo descrivi tu.
È una persona che ha sofferto. Quanto me.
E forse un giorno me ne parlerà.
Fino ad allora, ti prego, non giudicarlo”.
Kaede strinse i pugni e si alzò dall’erba per correre via.
Lo aveva difeso!
Quel do’hao…
Cosa poteva esserci, di così pesante, nel petto di quel ragazzo che
sorrideva sempre?
E soprattutto…
COME DIAVOLO SAPEVA TANTO DI LUI?!*
Abbassò la testa, fregandosi le tempie con le dita.
Accidenti!
Era meglio cercare di dormire un po’.
Dal lato opposto dell’aereo era seduto un ragazzo che somigliava ad
Hanamichi, ma che non poteva essere lui.
Aveva occhiaie profonde, una luce piena di paura negli occhi, la mascella
serrata, le spalle incurvate come a sostenere un peso invisibile, i pugni
così stretti che le nocche erano bianche come il volto di Rukawa…
Come invidiava quel maledetto volpino!
Dormiva sempre, non aveva un problema che lo opprimeva e gli impediva di
chiudere gli occhi.
Richiamò alla mente la conversazione avuta con Kawaru una settimana prima.
Come aveva potuto dire…
* “Lo ami?”
“Cosa?”
“Lo ami, vero?”
“Ma come ti viene in mente, Kawachan!
Io amo solo Harukina cara!”
“Hana, dimentichi che ti conosco da quando avevi tre anni…
non mi lascio raggirare dalle tue sciocche battutine e dagli occhi a cuore.
So che il tuo amore è qualcosa di immenso, qualcosa che travolge e che è
impossibile non ricambiare…”
Lo fissò negli occhi, e il ragazzo arrossì e distolse lo sguardo.
“Kawachan, è stato tanti anni fa.
Ero un bambino allora!”
“È per questo che credo che tu sia innamorato di lui…no, non dire niente” lo
fermò, vedendo che aveva aperto la bocca per parlare.
“Aspetta di tornare da questo viaggio.
E ne riparleremo”.
“Va bene, Kawachan”.*
Lui innamorato della kitsune?
E poi cosa?
Neve ad agosto?
Buio alle dieci del mattino?
Akagi con un tutù da ballerina che volteggia sulle punte?
L’ultimo pensiero fece spuntare un timido sorriso sulle sue labbra.
Hanamichi sospirò e poi chiuse gli occhi.
La voce della hostess li avvertì gentilmente di allacciare la cintura, dato
che stavano atterrando all’aeroporto di San Paolo.
Akagi abbassò lo sguardo sull’articolo di giornale che stava leggendo:
“Non
c’è città migliore di San Paolo se si tratta di spiegare il Brasile. Nulla
come un tragitto aereo per verificare con i propri occhi l’enorme disparità
di distribuzione della ricchezza di cui parlano i sondaggi: il reddito
accaparrato dal milione e mezzo di popolazione più ricca equivale alla somma
di quelli degli 85 milioni di cittadini più poveri. Dal cielo si vedono
tutti i paesaggi, come quello di un edificio con una piscina nella terrazza
di ogni piano vicino alla favela Paraisòpolis. Lusso ed allegria al fianco
della miseria. I contrasti di un paese gigantesco, dall’Amazzonia al Rio
Grande do Sul, si concentrano in questa città immensa. Rifugio dei più
ricchi e dei più poveri, della modernità e dell’arretratezza, della bellezza
e della migliore architettura e della bruttezza generata dal caos
urbanistico, San Paolo è il motore del paese, il polo principale di
ricchezza e sviluppo e allo stesso tempo la Babele del Brasile”.
Ora lo
avrebbero verificato.
-Capitolo 2-
El tiempo ha
pintado las calles del mismo color
(il tempo ha dipinto tutte le strade dello
stesso colore)
I ragazzi
erano usciti in fila indiana dall’aeroporto, ognuno col suo borsone a
tracolla.
C’era odore di
fumo, smog, sporco.
Le strade
erano piene di bambini e ragazzi laceri, scalzi, con i visini incrostati di
sudiciume, lacrime e sangue.
Già, sangue.
Sembrava che
fossero stati picchiati.
Rukawa si vide
passare accanto una bimba, che inciampò e cadde proprio davanti ai suoi
piedi.
y tú te
defiendes del hambre con una sonrisa y amor
(e tu ti difendi dalla fame con un sorriso e
l’amore)
La bimba però non pianse.
Si rialzò togliendosi la polvere dalle
ginocchia, senza fare caso al rivoletto rosso che le scendeva dal piccolo
palmo scuro.
Ormai neppure si vedeva il colore originario
della sua pelle.
L’ala piccola dello Shohoku la guardò per un
istante.
Era magra da far paura.
Aveva delle scarpette rotte, da cui uscivano
le dita, le gambe nude, un vestitino fatto a salopette pieno di macchie e
rattoppi, ma, nonostante la caduta, il visino sporco e i capelli ridotti ad
una foresta incolta, sorrideva.
Ed era il sorriso più bello e caldo che il
ragazzo avesse mai visto.
Quello che lui non era mai stato in grado di
fare a nessuno.
I grandi occhi scuri della bimba si fermarono
in quelli screziati di blu del volpino.
Poi la piccola corse via con una risata
argentina, chiamata a gran voce dai suoi amichetti.
Las casas
parece que miran pidiendo perdón
y todo comienza a bailar cuando ya no vigila el sol.
(le case sembrano guardarti chiedendo scusa
e tutto inizia a ballare quando tramonta il
sole)
Era ormai quasi sera, quando raggiunsero il
loro albergo.
Rimasero allibiti.
L’edificio era ultra moderno, tutto coperto di
specchi, così alto che non si vedeva la fine.
Camerieri e paggetti entravano ed uscivano
dall’albergo a frotte, per recuperare bagagli, auto, ospiti importanti e
così via.
Ma al fianco del loro albergo…
Una stamberga cadente, scurita dal tempo e
dallo smog.
Il tetto di lamiera, mal costruito, era tutto
ciò che riparava gli occupanti.
“Vi chiedo scusa per questo ignominioso
spettacolo” disse un ometto pelato dai baffi impomatati, così basso che
Ryota a confronto sembrava King Kong.
“Entro qualche giorno la faremo demolire, e
costruiremo la piscina termale dell’albergo” aggiunse con un ghigno.
“Ma…ci vive qualcuno?” chiese Hanamichi
titubante.
“Qualche straccione abusivo, sicuramente”
rispose l’uomo con evidente disprezzo nella voce.
Senza una parola, il rossino entrò in albergo
senza degnare di uno sguardo quell’uomo viscido, seguito a ruota da Rukawa
che ancora stentava a credere a quello che aveva udito.
Dopo un paio d’ore i ragazzi scesero per la
cena nella hall dell’albergo.
Evidentemente, anche loro erano considerati
ospiti di riguardo, dato il lauto pasto e la cerimoniosità del servizio.
“Potete andare a farvi un giro per i locali,
ragazzi” disse Kawaru.
“San Paolo è
il massimo, nel campo dei divertimenti notturni.
Si risveglia
solo dopo il tramonto.
Ma non tornate
dopo le due, è pericoloso girare per la città di notte, anche per ragazzoni
come voi!”
Rukawa ed
Hanamichi erano andati in camera per cambiarsi.
Ma nessuno dei
due aveva davvero voglia di uscire.
D’altra parte,
erano stati messi in camera insieme, e quindi non era la loro massima
aspirazione passare la serata in reciproca compagnia.
Stranamente,
nessuno dei due aveva protestato per la sistemazione.
Hanamichi
perché ancora arrabbiato per le parole del direttore (già, l’omino odioso
era proprio il direttore dell’albergo), Rukawa immerso ancora nei suoi
pensieri.
Ripensava alla
bimba dell’aeroporto.
Chissà dove
abitava.
Se aveva una
famiglia o era una disadattata che viveva per la strada.
Aveva una voce
così cristallina, una luce così pura negli occhi…
Il suo sguardo
si posò sulla casupola che si trovava accanto all’albergo.
Chissà chi
viveva lì.
Forse una
bambina come quella.
Quiero escuchar tu voz cantando en un mundo
mejor
Quiero encontrarte a ti sonriendo a la vida si no te sonríe ella a ti
(voglio
sentire la tua voce che canta in un mondo migliore
voglio
incontrarti di nuovo, mentre sorridi alla vita anche se lei non ti sorride)
Alla fine
Hanamichi si sdraiò sul letto con le braccia incrociate sotto la testa.
Che la
volpaccia facesse come voleva, lui aveva bisogno di stare un po’ solo.
Per una volta
si trovo ad apprezzare il silenzio della sua nemesi.
Quando se ne
ha bisogno, il silenzio può essere un buon amico.
A questo
pensava il rossino, mentre con gli occhi nel vuoto i ricordi lo assalivano.
E c’era un
viso, in quei ricordi.
Il viso di una
bimba.
Una bimba come
quella che avevano incontrato appena usciti dall’aeroporto.
Quella che
aveva sorriso a Rukawa.
Ma proprio per
quel sorriso, non poteva essere lei.
Yukari non
sorrideva mai.
Dime niña de
ojos tristes,
recuerdas aquel viejo barco que tanto quisiste
donde tú y el mar hablabais de libertad
de una escalera a la luna quizá
de un mundo que no deje nunca de hacernos soñar
(dimmi bambina dagli occhi tristi
ricordi quella vecchia barca che ti piaceva
tanto
dove tu e il mare parlavate di libertà
di una scala che arrivasse alla luna
di un mondo che non ci obbliga a smettere di
sognare)
quanti ricordi…
Sembrava passata una vita.
Sorrise al ricordo delle corse sull’erba, dei
pomeriggi al sole d’estate, delle corse dietro a una farfalla…
Yukari era sempre con lui.
Nelle cose belle, ma…
S’incupì.
Anche in quelle brutte.
-Capitolo 3-
* “Yukachan!
Vieni a vedere che cosa ho trovato!”
Un bambino dai
folti capelli rossi batteva le mani tutto contento, con gli occhi color
cioccolato striati d’oro che luccicavano, mentre chiamava l’amica.
“Cosa c’è,
Hana chan?”
La bimba si
affrettò a raggiungerlo sulla spiaggia.
“Guarda!”
disse fiero il bambino, indicando con l’indice una barchetta che ondeggiava
lentamente legata con una corda al pontile di legno.
“Non eri tu
quella che ha sempre voluto una barca? Beh, eccola! Te la regalo!”
“Ma non è
tua!” ribatté la bimba dai lunghi capelli neri, sbattendo le lunghe ciglia
che velavano gli occhi blu.
Arrossendo, il
piccolo Hana disse “Fa niente! È il pensiero che conta! Ora monta e facciamo
un giro!”
E così dicendo
la spinse verso l’imbarcazione.
Sedettero una
di fronte all’altro e prendendo a fatica in mano i remi, iniziarono a vogare
verso il largo.
Da quel
giorno, l’avrebbero fatto spesso.
E anche quando
per qualche motivo non potevano vedersi, prendevano la barca, che avevano
nascosto in una caletta segreta, e vi lasciavano qualche messaggio per
l’altro.
Per lo più,
erano messaggi di speranza…
I bambini,
infatti, erano orfani.
Vivevano
entrambi in orfanotrofio.
Le condizioni
di vita erano davvero misere.
I
maltrattamenti erano all’ordine del giorno, per non parlare poi delle
punizioni, spesso corporali, o dei digiuni forzati a cui erano obbligati.
Ma i due non
smettevano di sognare.
Appena
potevano, sgattaiolavano fuori, in cerca di quel piccolo spiraglio di
felicità, grazie al quale dimenticavano per un po’ il loro dolore.
Fino a quel
maledetto giorno…*
“Do’hao!
Ehi!
Do’hao!
Ma vuoi
svegliarti?!
Sakuragi!
Svegliati!”
La voce della
kitsune lo risvegliò bruscamente.
Balzò a sedere
tergendosi il sudore dalla fronte.
E il cuore
mancò un battito quando si trovò il viso di Rukawa a pochi centimetri dal
suo, che ancora lo scuoteva chiedendogli se stava bene.
“Ti agitavi,
gridavi, a un certo punto sei quasi caduto dal letto!
Kami Hanami…Sakuragi,
mi hai spaventato!”
Ma cosa gli
prendeva?
Stava per
chiamarlo per nome!
E perché si
era preoccupato tanto?
E soprattutto…
Perché non
riusciva a staccarsi da lui?
Le domande
vorticavano nella mente del volpino, ma anche la mente di Hanamichi non
stava certo schiacciando un pisolino…
‘Perché è così
agitato?
Cosa stavo
sognando?
Non lo
ricordo…
So solo che
ero terrorizzato…
Forse è per
questo che il cuore mi batte tanto forte…
Sì, sarà per
questo…
Ma perché mi
sta così vicino?
Kami…
I suoi occhi…
I suoi occhi
sono come quelli di…’
“Yukari…”
sussurrò Hanamichi a pochi centimetri da quelle labbra prima di avventarcisi
sopra.
Rukawa aprì la
bocca per lo stupore e così il rossino fece incontrare la sua lingua con
quella del volpino.
Il bacio
divenne rovente, passionale, nessuno dei due si aspettava il groviglio di
emozioni che si ritrovarono a fronteggiare in quel momento.
Si staccarono
pochi secondi per respirare e poi Hanamichi riprese a baciarlo, gettandolo
sul letto e infilandogli le mani sotto la camicia.
Aveva bisogno
di calore, calore umano, voleva dimenticare il freddo che gli serpeggiava
sotto la pelle, voleva cancellare le pupille vuote di quel giorno, voleva
liberarsi dell’acqua salata che gli entrava in bocca, negli occhi…la gola
gli bruciava, mentre nelle orecchie risuonavano ancora le grida di dolore,
ma…
Un momento…
Se voleva
dimenticare…
Perché sentiva
distintamente il sapore salato di quel maledetto giorno ancora sulle sue
labbra?
Il suo
cervello si ricollegò improvvisamente e Hanamichi aprì gli occhi.
Quello che
vide lo raggelò.
Si trovava a
cavalcioni su Kaede.
Ma non era
questa la cosa peggiore.
Kaede aveva la
camicia aperta, con tutti i bottoni strappati.
Dalla spalla
scendeva un rivoletto di sangue; doveva averlo morso lui.
Le guance
arrossate.
Le labbra
gonfie per i baci.
I capelli neri
appiccicati in ciocche scomposte sulla fronte pallida.
Gli occhi
spalancati da cui colavano lacrime silenziose.
Era davvero
bellissimo.
Ma allora…
Le grida di
dolore…
Era lui che
gridava!
Era lui che lo
pregava di fermarsi, di non fargli del male!
Cosa aveva
fatto…
La
consapevolezza dell’accaduto lo ferì come una pugnalata.
Nel frattempo
Kaede si era raggomitolato su un fianco, tremando.
Meno male che
si era fermato in tempo!
Hanamichi si
buttò a sedere sull’altro letto prendendosi la testa fra le mani.
Era scosso da
violenti tremiti, la mascella contratta, lo sguardo nel vuoto.
Era l’immagine
stessa della disperazione.
All’improvviso
sentì un calore che lo avvolgeva.
Senza che lui
se ne rendesse conto, il volpino gli si era seduto accanto e lo aveva preso
tra le braccia, cullandolo come un bambino piccolo.
Gli parlava a
bassa voce, cercando di calmarlo.
Il rossino non
capiva perché, ma gli faceva male.
Dopo pochi
secondi iniziò a singhiozzare.
Prima cercando
di contenersi, poi lasciandosi andare senza ritegno.
Si abbandonò
nell’abbraccio del ragazzo che, in risposta, iniziò ad accarezzargli i
capelli con tenerezza.
“Perché mi
aiuti? Dovresti odiarmi per quello che io…” Hanamichi si morse le labbra.
Kaede scosse
la testa.
“Voglio sapere
che cosa ti è successo.
Voglio sapere
perché l’hai fatto.
Perché mi hai
chiamato Yukari.
E voglio
saperlo perché ti amo”.
A quelle due
parole spontanee e dirette rispose un singulto spaventato, mentre gli occhi
color cioccolata dell’ala grande dello Shohoku s’infrangevano nella notte di
quelli del volpino.
“Sicuro di
volerlo sapere?” gli chiese, con voce tremante.
“Hn” rispose
Rukawa risoluto.
Con un
sospiro, Hanamichi iniziò a raccontare.
-Capitolo 4-
* Da qualche
giorno, avevano smesso di picchiarli.
Sia lui che
Yukari.
Anzi,
permettevano anche che mangiassero abbastanza bene.
I due bambini
erano felici.
Pensavano che
finalmente avessero capito che non erano cattivi, e che meritavano un poco
di felicità.
Le loro uscite
in barca s’intensificarono.
Tutto sembrava
perfetto.
Ma erano solo
due creature, non ci si poteva aspettare che capissero perché li trattavano
così tutt’a un tratto.
Per loro era
un miracolo.
E basta.
Ma da un
giorno all’altro, il fulmine a ciel sereno: Yukari aveva trovato una
famiglia.
Doveva essere
adottata.
La casa non
era molto distante da lì, e quindi avrebbero potuto continuare a vedersi, lo
rassicurò lei.
E così
decisero di darsi appuntamento una volta a settimana nella caletta dove
avevano ormeggiato la barca.
Quando il
nuovo papà di Yukari venne a prenderla, Hanamichi nascosto su un albero non
pianse.
Era un ometto,
ormai.
Doveva
dimostrare a Yukari che era forte.
La settimana
passò lentamente, ma finalmente giunse il giorno dell’appuntamento.
Il rossino
arrivò di prima mattina e aspettò con il cuore in subbuglio l’arrivo
dell’amica.
Lei arrivò in
ritardo, con le gote rosse per la gran corsa, e si abbracciarono felici.
Raccontò che
l’uomo con cui viveva era molto affettuoso con lei, la abbracciava e
coccolava sempre.
A volte quando
gli passava vicino la prendeva tra le braccia e la baciava.
Lei era così
contenta!
Non era
abituata ad essere al centro dell’attenzione.
Le brillavano
gli occhi mentre raccontava ad Hanamichi le tenerezze che lui aveva sempre
per lei.
Addirittura
dormiva con lei, abbracciandola, perché non avesse freddo, e faceva il bagno
con lei perché non si sentisse sola.
Tutti i suoi
sogni si erano realizzati, inoltre mangiava decisamente bene e sembrava
stesse mettendo un po’ di carne sui fianchi.
Il bimbo era
incantato da lei come non mai prima.
E così,
nonostante avesse solo quattro anni, le prese la mano e, con la massima
serietà, le chiese di sposarlo.
La bimba lo
squadrò gravemente, poi gli sorrise e gli disse
“Devo pensarci
un po’.
Ti darò la
risposta fra una settimana, va bene?
Ora devo
proprio andare, il mio papà si preoccupa se tardo troppo!”
E prima di
andare via gli scoccò un bacio sulla guancia e corse via, leggera come una
farfalla.
Ma la
settimana successiva Yukari non si fece viva.
Arrivò qualche
minuto prima del tramonto, per salutarlo, e gli disse che non avrebbe più
potuto venire a vederlo, almeno per un po’.
I suoi occhi
avevano una luce strana, e non sorrideva.
Hanamichi le
chiese di rispondere alla sua domanda, ma lei rispose che aveva ancora
bisogno di pensarci.
“È una cosa
seria” disse.
Rimasero
d’accordo che appena lei avesse potuto gli avrebbe lasciato un messaggio
nella barca con luogo ed ora dell’appuntamento.
Passarono le
settimane, e con loro i mesi.
I due bambini
si vedevano poco, e anche in quei rari incontri era chiaro che qualcosa non
andava.
La bimba era
cambiata, era sempre silenziosa e gli occhi erano come spenti, senza contare
che non sorrideva più.
Hanamichi era
angosciato, il sorriso di Yukari era quello che lo aveva sempre tirato fuori
dai guai e lo aveva consolato.
Anche un’altra
cosa era cambiata: la sua amica non si lasciava abbracciare, non lo baciava
più, non lo prendeva neppure per mano.
Era come se
volesse evitare ad ogni costo il contatto fisico.
Un giorno, il
rossino le propose di fare il bagno, dato che la giornata sembrava pitturata
e l’acqua era chiara e calma.
Inoltre la
bambina aveva sempre adorato l’acqua, e lui sperava che questo l’avrebbe
fatta riprendere.
Ma lei rifiutò
con energia.
“Cos’hai,
Yukachan?” le chiese preoccupato.
“Niente, non
preoccuparti.
Ora però devo
andare” e così dicendo si alzò e fece per allontanarsi, ma Hana la prese per
un braccio dicendo
“Ma come! Sei
appena arrivata…” ma al gemito di dolore che rispose al suo tocco la lasciò
subito andare.
La bimba si
accasciò a terra ed iniziò a piangere.
Lui le si
avvicinò e vide che stringeva convulsamente il braccio al petto.
Le spostò la
manica e…
Inorridì,
indietreggiando:
il braccino
pallido della bambina era livido, tumefatto, con piccole cicatrici simili a
bruciature di sigarette.
Il rossino
sentì le lacrime bagnargli le guance al vedere come fosse ridotta la sua
amica.
Cadde in
ginocchio di fianco a lei.
Yukari gli
rivolse uno sguardo vuoto e lui non resistette: la strinse fra le braccia,
incurante del suo divincolarsi.
Dopo qualche
istante, lei si calmò, ed abbandonandosi sul suo petto gli disse con voce
atona
“Ora non
vorrai più sposarmi…
Anche tu come
il papà pensi che io sia sporca…
Anche tu mi
odi…”
“No!” le
gridò in faccia Hanamichi sperando di scuoterla.
“Io voglio
sempre sposarti! Sei l’unica persona di cui m’importi! Ti prego…”
Al che Yukari
sorrise ed annuì.
“Allora
stasera vengo a prenderti.
Spiegami dov’è
casa tua, ed io verrò da te.
Prepara una
borsa con qualche vestito.
Scapperemo
insieme.
Qualcosa
faremo.
Io voglio
stare con te.
Sempre”.
La bambina gli
fece una carezza ed andò via, dopo avergli spiegato come arrivare a casa
sua.
Per tutto il
pomeriggio Hanamichi rimase a riflettere sull’accaduto.
Non era un
bambino stupido, sapeva che sarebbe stato molto difficile per loro restare
insieme.
Ma voleva bene
alla sua amica e non poteva vederla soffrire così.
Così, appena
calò il buio e vennero mandati a letto, lui scivolò dalla finestra del
dormitorio con la sua sacca, in cui aveva messo qualcosa da mangiare, i due
soldini che aveva messo da parte e qualche cambio.
Correva
leggero, senza accorgersi della strada che percorreva.
In men che non
si dica raggiunse il centro della città, che era dove viveva Yukari.
Los coches se arrastran dejando detrás un olor
que ahoga a turistas sin alma bebiendo en sus vasos de ron.
Un niño pregunta si la libertad es así
y suena una vieja habanera que le cuenta un cuento sin fin.
(le macchine
si mettono in moto lasciando dietro di sé un odore
che soffoca
turisti senz’anima che devono il loro bicchiere di rum
un bambino
chiede se la libertà è così
ed ascolta una
vecchia canzone che gli racconta una storia senza fine)
Traffico.
Rumore.
Risate.
Lacrime.
Un vecchio con
una scimmietta su una spalla che suonava con la sua chitarra una canzone che
da qualche parte, nella sua memoria, ricordava di aver già sentito.
Una di quelle
storie in cui lui ama lei, ma lei lo lascia…
Hanamichi non
si fermò ad ascoltare.
Sapeva già
come finiva.
Guardò con disprezzo una
coppia di stranieri che fotografavano un bimbo che giocava per strada con
gridolini di giubilo per aver trovato qualcosa di
“very tipical”
.
Avrebbero
dovuto vivere in un mondo simile, loro due?
No, si disse.
Avrebbe
trovato di meglio per la sua Yukachan.
Intanto aveva
raggiunto la casa della sua amica.
Non poteva
certo bussare alla porta!
Quindi fece il
giro della casa per entrare dalla porta sul retro.
Da una stanza
venivano degli strani rumori, come se una trave di legno stesse sbattendo
aritmicamente contro la parete.
Incuriosito,
si avvicinò.
Ma proprio
quando si trovava a pochi metri dalla porta della stanza da cui proveniva
quello strano suono, qualcuno bussò davvero all’ ingresso.
Sentì
un’imprecazione fatta da una voce maschile che riconobbe essere quella del
neo padre di Yukari e la porta si aprì.
L’uomo era
scarmigliato e sudato e mentre tentava di infilarsi i pantaloni con una mano
(nell’altra aveva una sigaretta accesa) imprecò nuovamente andando ad
aprire.
Hanamichi
infilò la testa nella stanza.
La sua mente
andò in black out.
Al centro
c’era un grande letto matrimoniale all’occidentale.
E su di esso
c’era Yukari.
O quella che
avrebbe dovuto essere lei.
Perché quella
sembrava una bambola.
Con la testa
penzolante da un lato del letto, gli occhi vuoti, un sottile rigagnolo
biancastro che le colava dalla bocca, le braccine tumefatte allargate come
un crocifisso, nuda, con segni rossi sul petto ed i piccoli capezzoli che
tremavano nell’aria fredda della stanza.
Ma la cosa più
terribile erano le lacrime.
Scendevano
dalle sue guance, ma lei non sembrava accorgersene.
Il rossino non
capiva.
Perché la sua
amica non scappava?
Perché
rimaneva lì?
La chiamò due,
tre, quattro volte.
Sembrava
morta.
Sempre
imprecando, l’uomo tornò.
Hana fece
appena in tempo a nascondersi, che lui rientrò nella stanza togliendosi
nuovamente i pantaloni.
Disse qualcosa
alla bambina.
E a quelle
parole il bimbo scappò via.
Corse, senza
accorgersi che aveva perso una scarpa e che i sassi della strada gli
ferivano la pelle abbronzata del piede.
Quell’uomo,
quello schifoso, quel porco che aveva distrutto l’anima di Yukachan…
Lui le aveva
detto “Ti amo”.
Come aveva
potuto!
Le lacrime si
rincorrevano sul suo volto.
Quelle parole
erano i diamanti che aveva regalato a Yukari!
Ora lui le
aveva sporcate, calpestate, annientate.
Come avrebbe
potuto chiamare quel sentimento se le parole erano morte?
Senza sapere
come, il piccolo Hanamichi era tornato all’orfanotrofio.
Si ritrovò nel
suo lettino, e nonostante avesse tre coperte di lana addosso e il sudore gli
scorresse copioso sulla fronte il freddo non voleva abbandonarlo.
Quelle
immagini continuavano a scorrergli dietro le palpebre.
La sua
luminosa Yukachan…
Doveva
sposarla.
Vivere per
sempre felice con lei.
Ma qualcosa
dentro di lui gli diceva che la sua amica non avrebbe sorriso mai più.
Così la
mattina seguente, mentre albeggiava, Hana si recò alla caletta.
Ma, con suo
immenso stupore, la barca non c’era più.
C’era un
foglio per terra.
Un cuore,
intrecciato ad un altro, e una frase.
“Avrei voluto
sposarti. Ma non sono forte come te. Promettimi che non amerai mai più
nessuno oltre a me e che vivrai fino a che sarai vecchio vecchio”.
Il foglio gli
cadde di mano.
Corse
disperatamente.
Ma era troppo
tardi.
La barchetta
si stava inabissando poco lontano dalla riva.
Yukari, con i
lunghi capelli neri al vento e i grandi occhi blu, il suo angelo dalla pelle
candida, agitava una manina in segno di saluto.*
-Capitolo 5-
Come svuotato,
Hanamichi crollò.
Kaede lo
strinse ancora un po’ tra le braccia, poi lo sdraiò con cautela sul letto.
Gli tolse i
vestiti, infilandogli il pigiama.
Poi si stese
sotto le coperte accanto a lui, cingendogli la vita con un braccio.
Come aveva
potuto convivere con un dolore tanto grande?
Come era
riuscito a sorridere ancora?
Rimase colpito
dall’incredibile forza d’animo del ragazzo.
Lui non ce
l’avrebbe mai fatta.
Sentì il
rossino muoversi e così sussurrò “Non dormi?”
Hanamichi
sussurrò, rendendosi conto che si trovava tra le braccia di Rukawa.
“No” rispose.
“Raccontare
quello che è successo ha riaperto la ferita.
Non sono forte
come lei avrebbe voluto.
Non posso
andare avanti così.
Non da solo.
Vedi, kitsune…
Io provo
qualcosa per te.
Qualcosa di
grande.
Ma non devo.
L’ho promesso
a Yukachan.
Le ho promesso
di non amare mai più nessuno.
Per questo ho
finto di odiarti, e forse un po’ ti ho odiato davvero.
Le somigli
troppo.
E poi, come
avrei potuto spiegarti una cosa simile?
Perciò ti
prego, fai finta che stanotte non sia successo nulla.
Torniamo a
comportarci come prima.
E perdonami
per quello che è successo”.
Ma Kaede gli
accarezzò una guancia.
“Non posso
dimenticare” disse.
“I miei
sentimenti per te hanno rotto gli argini, e morirei se non potessi stare con
te.
Soprattutto
sapendo che li ricambi.
Il passato è
passato, Hana.
Dobbiamo
riuscire a lasciarcelo alle spalle.
Yukari rimarrà
sempre nel tuo cuore, com’è giusto che sia, ma credi che sarebbe contenta
sapendoti infelice?
Non credi che
proprio perché ti voleva bene sarebbe lei la prima ad incoraggiarti?”
Vedendo che
Hanamichi voleva dire qualcosa, lo zittì con un bacio casto a fior di
labbra.
No digas nada,
sólo es un ángel jugando a vivir
Vuelve a sonreír por mí…
(non dire
niente, è solo un angelo che gioca alla vita
torna a
sorridere per me…)
Poi lo strinse
e gli disse “Dormi un po’, do’hao.
Io non ti
lascio un istante.
Andrà tutto
bene”.
E finalmente,
dopo tanto tempo, Hanamichi scivolò in un sonno sereno.
Non sarebbe
mai più stato solo.
Il suo ultimo
pensiero fu per Yukachan:
andava davvero
bene così?
-Capitolo 6-
Epilogo
Il ragazzo si
trovava seduto su una sabbia fine.
Il mare
luccicava alla luce della luna.
Non sapeva
com’era arrivato lì.
Ma stava bene.
Si sentiva in
pace con se stesso.
L’aria
salmastra gli scompigliò i capelli rossi.
Hanamichi
chiuse gli occhi.
Poi sentì una
presenza alle sue spalle.
Si voltò di
scatto.
Dapprima non
riconobbe quella figuretta snella dai lunghi capelli color dell’ebano, che
ondeggiavano coprendo a tratti i suoi grandi occhi screziati di blu, che gli
tendeva una mano nivea.
Poi la figura
sorrise, e lui immediatamente balzò in piedi.
“Yukachan!”
gridò, con tutto il dolore che aveva represso in quegli anni.
Ma lei sorrise
nuovamente.
Dime, niño de
ojos tristes,
recuerdas aquel viejo barco que tanto quisiste
donde tú y el mar, hablabais de libertad,
de una escalera a la luna quizá,
de un mundo que no deje nunca de hacernos soñar…
(dimmi, bambino dagli occhi tristi,
ricordi quella vecchia barca a cui tenevi
tanto,
dove tu e il mare parlavate di libertà,
di una scala che potesse raggiungere la luna,
e di un mondo
che non ti permettesse mai di smettere di sognare…)
“Devi tornare
a sorridere, Hanachan.
C’è qualcuno
che ha bisogno del tuo sorriso”.
“Ma io non
posso!
E poi…ho
promesso che avrei amato solo te!
Come posso ora
tradirti così?”
“Ma tu non mi
stai tradendo.
Perché pensi
che lui mi somigli tanto?
Ti è stata
data un’altra possibilità.
Un altro mare
con cui parlare,
un modo
diverso di raggiungere la luna…
E te li stai
perdendo così!
Io voglio solo
vederti felice!
E sappi che
non ti dimenticherò mai…”
E così dicendo
gli baciò teneramente le labbra.
“Apri gli
occhi, Hana…”
Il suo sguardo
di cioccolato fuso si aprì su quello del volpino, che si ritrasse.
Non avrebbe
dovuto baciarlo.
Ora sì che si
sarebbe arrabbiato.
Kaede chiuse
gli occhi aspettando un colpo che, però, non venne.
Li riaprì
cautamente.
Di fronte a
lui, Hanamichi sorrideva.
Nei suoi occhi
si erano accese di nuovo le pagliuzze d’oro.
“Ti amo” gli
disse dolcemente.
“Ti amo”
rispose Rukawa arrossendo.
Alzandosi, il
rossino gli tese la mano.
Si
avvicinarono abbracciati alla finestra, per vedere l’alba che tingeva di
rosa il cielo di San Paolo.
Niente siparietti, stavolta! Me commossa…alla
prossima!
Marty
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