Pairing: AldebaranXMu (Sì, più o meno -.-)
Note: è una fic nata come
tematica di una ml del mese di Novembre... notare il ritardo -.- sulle note
di un bellissimo pezzo di Chopin, Notturno n.3.
Dediche: a tutti coloro che amo^*^
Disclaimer: i pg non mi appartengono etc etc ;P
Un giorno,
sotto la pioggia ... [Notturno]
di
Sakura
Il profumo di lenzuola pulite, l’aria frizzante
che penetra dagli anfratti più nascosti e la terra, un tempo secca, ora
nuovamente bagnata dalla prima pioggia d’autunno.
Mentre rimango in questo letto, come un infermo, penso all’estate che si è
nuovamente conclusa.
Penso a una durissima battaglia che ci ha visto protagonisti e ad una
nuova, forse ancora più pericolosa, che attende altri guerrieri.
Non oso mai pensare a cosa verrà dopo, a cosa sicuramente ci aspetta, a
cosa siamo da sempre preparati … sempre che un uomo possa mai dirsi
preparato ad accogliere la morte.
A volte mi dico che sono troppo giovane per questi pensieri negativi, ma …
ultimamente il pensiero di morte non può far altro che permeare ogni
momento che trascorro qui, ancora in vita.
A volte mi sento in colpa per essere rimasto.
E così mi rendo conto del mio egoismo e della gravità di questi malsani
pensieri: erano miei compagni e, in un modo o nell’altro, erano parte di
me.
Ma, la mia Dea … a lei io devo dedicare e dedicherò sempre tutto me
stesso: sono rimasto solo per lei … e per coloro che qui ancora giacciono,
in attesa.
Sospiro e mi alzo a sedere sul letto. La finestra è spalancata su una via
silenziosa del villaggio: intravedo scorci di mare azzurro, agitato in
dense volute, mentre su di esso incombe un vero e proprio muro dalle
tonalità di grigio e bianco. Esso si sposta, lentamente, trasportato da un
vento del nord, mentre zampilli d’acqua tornano a bagnare le strade;
l’odore della pioggia, mista alla polvere si alza a solleticarmi le narici
e, di tanto in tanto,viene a bagnare i piedi del letto.
Se non ci fosse, credo che ora potrei anche impazzire: non è il silenzio a
infastidirmi, neppure l’immobilità di questo luogo.
È l’attesa.
Attesa … lunga o infinitamente breve? Questo nessuno può dirlo: sappiamo
tutti che, prima o poi, il momento giungerà.
Della sua presenza ne sarà impregnata l’aria, il suolo fremerà e così i
nostri cosmi …
Ma il non sapere mai quando tutto ciò avverrà è terribile, forse ancor più
terrificante del pensiero della stessa battaglia, perché quando hai
davanti il tuo nemico non pensi a ciò che verrà dopo, né ai ‘se’ o ai
‘forse’.
No.
La tua mente fissa solo te e lui, i movimenti che state per fare, il tuo
prossimo attacco.
Non pensi alla morte, non ne hai il tempo. O forse è solo il mio
presuntuoso pensiero … perché, in fondo, Essa non mi ha mai nemmeno
sfiorato, ancora.
Per me è l’attesa. Quella stasi che ti divide dal momento finale, dalla
tua definitiva vittoria. O la tua ineluttabile morte.
È l’attesa che, con malcelata ironia, reca alla tua mente il pensiero di
ciò che vorresti fare e ancora non ti sei accinto a compiere.
Ciò che vorresti, ma non avrai mai la possibilità, oppure il tempo, di
fare.
E ciò che non farai mai perché sai, con estrema certezza, che nessuno ti
permetterà di fare.
La pioggia … il suo delicato rumore, quell’inconfondibile profumo di nuovo
che solo lei ha il potere di recare con sé, come un lieto dono … quel
dolce cullare, quella quiete che riesce a darmi, calmando ogni mio
turbamento, ogni pensiero negativo, ogni mia insicurezza.
Non temo la pioggia, né i suoi lampi o quelle grottesche nuvole nere che
coprono il violento sole del Mediterraneo.
Può essere forte e gentile, orgogliosa e sferzante, anche violenta, certo.
Ma non sarà per questo che ne avrò paura o l’odierò.
Come posso odiarla, se paragono te alla pioggia d’autunno?
Mi sorge spontaneo un sorriso: è un pensiero buffo, se vuoi.
Solitamente gli innamorati comparano il proprio compagno al sole,
all’arcobaleno … o un fiore appena sbocciato.
Ma non ho mai letto parole di poeta, pioggia e amore legate da un unico
forte vincolo.
Eppure per me resterai sempre la mia dolce pioggia d’autunno, così come ti
paragonai, nei miei pensieri, il giorno in cui c’incontrammo.
Perché d’autunno, ti chiederai, e non di primavera …
C’è una ragione.
La pioggia di primavera porterà sì vita, metterà fine all’inverno … ma
recherà con sé ancora molto di quel freddo che i credeva per sempre
abbandonato.
Pioggia di primavera ti chiude in casa, in attesa che il sole torni a
splendere sulla terra, portando con sé calore e fioritura.
Ma, la pioggia d’autunno …
Essa giunge ad aprire una nuova stagione, un nuovo ciclo.
Recherà con sé quella frescura a lungo bramata, dopo l’afosa estate, e
picchietterà sulle foglie ingiallite degli alberi, con un lento e dolce
bussare, in una timida richiesta ad entrare e farsi avanti infine.
Riporterà acqua a quel suolo assetato di vita, preparandola al lungo
inverno dove, sotto la terra, rimugineranno radici e bulbi addormentati.
Pioggia d’autunno ti spalanca le porte a lunghe passeggiate immerse nel
carminio paesaggio, ad assaporare la terra festante, imbevuta di forza,
pronta al suo ciclico riposo.
Per gustare fino a fondo la vista di lente danze di foglie, accompagnate
dal vento che, furtivo, s’infilerà tra gli abiti, ancor troppo leggeri,
portando brividi, recando abbracci di teneri amanti …
Ed ecco il pensiero che s’insinua nella mia mente, a solleticare ciò che
preferisco tenere nascosto, sotto una ben costruita maschera. Se solo,
ogni tanto, riuscissi a fermare il flusso dei miei pensieri … a volte mi
pare d’impazzire, la mente vaga da sola, contorcendosi su se stessa, così
come i pensieri che si legano, l’uno all’altro, in una lunga catena che
non sembra aver mai fine.
Se solo i pensieri si potessero arrestare …
Torno a sprofondare nel mio letto, cacciandomi scompostamente sotto le
lenzuola, e il tepore, a poco a poco, riesce a intrappolarmi.
Come secondo il mio desiderio, la mente s’acquieta e resta solo il rumore
della pioggia, in sottofondo … e, l’ultima immagine che affiora dentro di
me, è quella del tuo viso.
***
Le candide lenzuola si macchiavano, piano piano, lasciando svariati
piccoli aloni grigiastri, mentre, con un movimento repentino e quasi
goffo, la causa di quello strano accaduto si sistemava silenzioso al bordo
del letto, un sorriso velato di una malinconia che sembrava essere di casa
su quel viso dal giovane aspetto, eppure già con gli invisibili segni
della vita.
Occhi grandi, dolci, eppure capaci di lanciare terribili occhiate ai
nemici ch’ebbero mai la sfortuna di porsi davanti al suo passo; occhi
grandi, giovani e vecchi, nutriti di una saggezza d’antica stirpe,
perduta, dimenticata in anfratti lontani dal tempo, ben troppo vicini a
ciò che chiamano fantasia.
Occhi che osservavano la figura addormentata di un compagno dall’aria così
ingenua e pacifica, ch’era impossibile trattenere un sorriso alla sua
vista.
E sorrise, dando luce al suo viso, costellato di gocce di quella pioggia
che ancora batteva, lenta e imperturbabile, su quell’angolo nascosto di
Grecia.
La pioggia lo rendeva strano … sentiva che tutto ciò che ne è toccato
cambia, irrimediabilmente, e non tornava mai quello che è stato un tempo.
Era tutto un altro mondo … bagnato, rinvigorito … oppure sconvolto,
sfigurato, come se una maschera fosse stata spazzata via, per far posto ad
un’altra posta appena sotto quella decaduta.
E, come le cose, così le persone: quel giorno fatale era stato inizio e
fine di una maschera, una maschera che ormai giaceva su quel sacro luogo
da lunghi, lunghissimi anni.
Fu pioggia estiva allora, pioggia inattesa e fuori luogo, giunta come
avvisaglia di un ancor lontano autunno.
O forse era pioggia voluta dal cielo, lacrime versate per quei figli che
avevano a loro volta versato, lacrime e sangue.
Li aveva cambiati, anche lei … loro, quel luogo.
Lavato una maschera di sofferenza e ingiustizia per un’altra, di
struggente malinconia.
Di un passato ormai alle spalle.
Di persone, irrimediabilmente, perdute.
Di persone, rimaste ancora in quella terra, profondamente mutate, diverse
… mai più le stesse.
Egli è sempre stato consapevole, forse più di chiunque altro, di ciò che
attorno a lui aveva luogo, eppure anch’esso non si sentiva più lo stesso.
Aveva avuto il sentore dei grandi cambiamenti che sarebbero avvenuti … ma
il presentimento di un incerto futuro non è mai la sicurezza di un
irrimediabile presente.
E accettare il presente … poteva essere così semplice?
Con un fluido gesto della mano, tirò indietro un ciuffo di capelli chiari,
scostando lo sguardo, fisso su quella finestra spalancata: la pioggia
continuava a scorrere, con languida lentezza … accarezzava ogni cosa,
girando vorticosamente su se stessa, ogni qual volta il vento si univa a
lei in quello strano fenomeno chiamato tempesta.
Furtive gocce, di cui i suoi capelli sono impregnati, scendevano di tanto
in tanto, sfiorando leggere quella pelle infreddolita dallo sbuffo
autunnale, andando a posarsi al suolo, o sulle sue mani, chiuse a pugno.
Tremavano, leggermente, mentre egli tentava invano di calmare quegli
spasmi che riflettevano ben troppo chiaramente quello strano stato d’animo
che, quel mattino, l’aveva preso. Quando era venuto a conoscenza
dell’improvvisa sconfitta del compagno … improvvisa, quanto inaspettata …
quanto … temuta.
Non poteva nascondere a se stesso i suoi timori, sebbene con gli altri non
volesse farne parola … non era ironicamente insensato parlare di qualcosa
che avrebbe cambiato ogni cosa, ogni destino, ogni singola persona?
Parlare di qualcosa di cui, in fondo, tutti erano a conoscenza … ognuno di
loro era cresciuto con la stessa consapevolezza, con un destino che li
avrebbe legati tutti, nessuno escluso. Forse che il destino avesse scelto
di modificare i propri tempi, almeno con qualcuno di loro … non era
sconvolgente quanto, quella morte, di cui parlavano taciti sguardi, fosse
calata su di loro, su alcuni … sfiorando appena coloro che erano rimasti a
sopportare il peso di quell’attesa.
Aspettando e aspettando cosa sarebbe giunto … non senza paura, non senza
angoscia, non senza dolore.
Perché, nonostante ciò che la maggior parte della gente pensa, nessuno di
loro era Dio, nessuno di loro era perfetto.
Sentimenti forti, spesso contrastanti, nascevano in quei cuori giovani,
così giovani, nonostante quegli occhi di diversi colori siano specchi in
cui il cielo sembrava annegare, senza pietà. Profondi, troppo profondi e
malinconici.
Il giovane uomo si chinò a guardare quelle palpebre chiuse, una mano
assorta sotto il suo mento, mentre aguzzava lo sguardo e fissava nella sua
mente attenta il ricordo del colore e dell’intensità del compagno.
Semplici occhi scuri, insignificanti … ecco com’egli li giudicava. Eppure
il giovane uomo dai capelli chiari non poteva fare a meno di osservarli,
in gran segreto, attento a non farsi scorgere dall’altro: dov’era quella
banalità che lui afferma con tanto fervore? Dov’era quella semplicità,
quell’essere uguali a tutti gli altri che l’altro non smetteva di
ricordare a lui e a se stesso?
Possibile fosse così cieco da non vedere?
Eppure, bastava un solo, semplice, sguardo e in quegli occhi si poteva
leggere un intero mondo… di emozioni, esperienze, del carattere che così
tanto lo trascinavano per lunghi istanti, quando la consapevolezza di
essere osservato facava scostare all’altro gli occhi, che si posavano
lontani, di nuovo irraggiungibili.
Erano occhi speciali … occhi che tutto rivelavano, che tutto dicevano,
senza mai mentire, nè agli altri né a se stesso. Occhi limpidi e ingenui,
occhi di un’intensità quasi soffocante. Occhi che riuscivano a sorprendere
e a recare, nel giovane dai capelli castani, un imbarazzo che raramente
coglieva quelle gote.
Ma ora era così semplice osservare, sebbene quegli occhi, che tanta
curiosità destavano in lui, fossero irrimediabilmente chiusi.
Sospirò con aria mesta e scosse la testa, quando un pensiero perentorio e
raggelante attraversò la sua mente: scosse con ancora più fervore il capo.
Chi osservava dall’esterno poteva vedere in tutto questo un’azione
alquanto bizzarra. Se solo avesse saputo cosa quella mente instancabile
aveva appena formulato …
Abbassò gli occhi verdi sul proprio grembo e sorrise: accarezzò con un
indice la superficie liscia e tondeggiante di quell’elmo dorato. Si chiese
se il compagno, stavolta, gli avrebbe detto di sì … si chiese se ancora
avrebbe rifiutato quel suo piccolo aiuto, un gesto di semplice gentilezza,
così come era stato interpretato a quel tempo … quella famosa giornata,
trasformata da pioggia ed eventi.
Le loro parole scherzose si erano mescolate alle preoccupazioni, le ansie,
le paure … e la speranza. Che, immota, resisteva sempre.
Sorrise mesto e girò fra le proprie mani l’elmo robusto, non più solo
privo di uno dei corni, ma anche profondamente solcato da una lunga
voragine, che ne allargava l’espansione oltre la sua normale misura.
“Stavolta non potrà rifiutarsi …” mormorò tra sé. “Ne va della sua
sicurezza …”
“Ti preoccupi oltremodo …”
“Eh?!”
Il ragazzo dai capelli chiari sussultò, preso alla sprovvista
dall’inatteso risveglio dell’amico. Alzò il chiaro sguardo su di lui e lo
vide sorridere di quel sorriso furbesco, quello che aveva ogni volta che
era sull’orlo di una risata.
“Buongiorno, come stai?”
“Ammaccato, ma niente di che …” Il ragazzo bruno scostò lo sguardo dal
nuovo arrivato: troppo intento, deciso, penetrante.
Occhi troppo chiari e belli per essere guardati.
Scostò lo sguardo e lo poggiò al suo lato, alla finestra ancora spalancata
e l’aria fresca di pioggia che penetra da essa.
“Qualche notizia da loro?”
Ecco infine toccato quel tasto dolente… la sensazione che non si possa mai
evadere si fa forte, soprattutto in momenti difficili come quelli.
La sensazione che la tua mente sarà sempre tesa, preoccupata per ciò in
cui fermamente credi, per colei che ami e per la quale daresti e darai la
tua vita.
La sensazione di essere in bilico, su uno spaventoso e sottile filo nero,
costellato di preoccupazione e perdite e guerra, sangue … e speranza,
infine, e sempre quell’amore che ami e servi, sempre quella giustizia alla
quale giurasti e giuri eterna fedeltà.
“Frammentarie notizie …” la sua voce fendette il vento, la pioggia e il
pensiero. “Sono partiti subito dopo l’attacco subito e, ormai, a quest’ora
saranno giunti. Athena è con loro”.
Il moro spalancò gli occhi, un barlume di sorpresa, un fremito che lo
percorse per un attimo. Poi, scosse le spalle, un sorriso mesto sulle
labbra.
“Mi sorprende, eppure dovevo aspettarmelo. Non avrebbe agito diversamente
…”.
Il ragazzo dagli occhi verdi lo scrutò per un attimo, non visto, poi
abbassò nuovamente lo sguardo su ciò che aveva in grembo, accarezzando la
superficie lucida con aria assente, rimuginando sui pensieri che lo
catturavano, ogni giorno, mentre il tempo sembrava scorrere sempre più
veloce, sfuggendo tra le sue dita, come sottile sabbia rovente … mentre
quel momento si faceva sempre più vicino e un invisibile gelido fiato si
scomponeva su quel collo bianco.
“Tutto questo sembra un preludio. È come se il destino stesso ci stesse
incanalando sulla strada che, nel bene e nel male, sappiamo di dover
percorrere. Come se ci volesse ricordare di non … non dimenticare ciò per
cui siamo qui. Il nostro scopo, ciò cui la nostra stessa vita tende, da
sempre, come una freccia con il suo arco … e noi dobbiamo essere delle
frecce perfette. Il nostro arciere deve saperci scagliare con assoluta
precisione. Hai mai pensato al perché di quella guerra civile che ha
coinvolto questo luogo?”
Il moro sgranò ancor più gli occhi, se mai fosse possibile: era davvero
lui che stava parlando, lì davanti? Colui che era considerato, a detta di
tutti, una guida indispensabile, saggia e sicura, tra loro guerrieri in
attesa della loro dea… era stato il primo ad aver aperto gli occhi a tutti
loro, il primo a credere a un presunto traditore e per questo considerato
anch’esso traditore … in un forzato esilio per lunghi anni.
Era la stessa persona colei che ora fissava con quello sguardo non più
fermo, quasi brillante, sempre che non fosse un semplice scherzo di giochi
di luce … oppure la stessa pioggia che si rifletteva in quegli specchi
profondi?
Perché ora, quella sicurezza, quella maestosità che lo zittiva, ogni volta
che s’incantava a guardarlo, perché quell’aura, che normalmente animava il
suo corpo, parve opacizzarsi, quando la tristezza s’impossessava di lui?
Senza attendere una risposta, il giovane dai capelli chiari continuò il
suo discorso, tornando a tormentare, con un movimento tuttavia delicato,
la superficie dorata, soffermandosi con sempre più frequenza sulla
spaccatura, dai bordi particolarmente appuntiti.
“Forse era destino che tutto ciò accadesse… come se fossimo stati
sottoposti a una dura prova, prima della fine. Come Lei, anche noi. E
alcuni hanno fallito …” s’interruppe per un attimo, il pensiero volato a
quelle tombe che, premature ornavano una familiare distesa di fiori. “E
noi stessi abbiamo rischiato di fallire, gettando nel fuoco ogni speranza,
ogni sforzo … siamo stati preparati, abbiamo affrontato ciò che nessuno in
passato aveva mai affrontato … ora siamo davvero pronti?”
Indecisione, insicurezza … e, sotto tutto, paura.
Il giovane sdraiato sussultò ancora una volta, sempre più sconcertato da
ciò che sentiva, da ciò che vedeva e percepiva. Era ancora vittima del
sogno che l’aveva preso in quel breve sonno? Era ancora preda di quella
realtà che nulla aveva a che vedere con la realtà del suo mondo, con ciò
che conosceva forse più di se stesso?
Eppure quel vento fresco, l’odore che avvolgeva la stanza … la sua
inconfondibile presenza, il suo profumo dolce, era tutto troppo reale per
essere frutto di uno sciocco sogno.
“No-non è da te parlare in questo modo. Cosa ti è successo Mu?”
L’interpellato rialzò lo sguardo sul compagno: colto alla sprovvista da
quel cambiamento di tono, perse il controllo delle proprie mani che,
tremando, andarono a premere con troppa forza sulla fenditura, finendo per
ferirsi.
Quasi meravigliato da quel fatto, Mu tornò a guardare il proprio grembo,
alzando la mano ferita come se fosse qualcosa di indefinitamente strano e
unico, qualcosa che stentava a credere.
Ma, ciò che in lui non aveva provocato alcun moto, se non quello di una
lieve sorpresa, scatenò nel compagno una reazione quasi violenta, tale era
la preoccupazione che lo pervadeva. Si alzò di scatto e prese la mano
ferita tra le sue mani: essa, piccola e lattea, spiccava quasi di bagliore
su quei palmi grandi e abbronzati, tremanti e nervosi, intenti in un
impacciato tentativo di risanare quel taglio.
Il sangue colava lentamente, scarlatto e caldo, sulle lenzuola del letto,
ora poggiate a coprire scompostamente il ventre e le gambe del giovane
uomo bruno.
“Non avresti dovuto tenerlo in mano!” fece questo con un tono un poco
severo. Subito egli perse quella durezza, mentre un sottile senso di colpa
s’impadronì di lui. “Scusa” mormorò in un soffio, mentre le sue mani
riuscirono a ricoprire con una non troppo morbida fasciatura la ferita.
“Sei venuto a trovarmi e io ti rispondo male …”.
Una mano abbronzata sosteneva quella ferita, mentre il biancore della
fasciatura era violato da una chiazza che si allargava a vista d’occhio,
osservata attentamente da due paia di occhi, sorpresi da quello strano
gesto.
“Cosa ti è successo?” la domanda fu ripetuta, più dolcemente, in un
sussurro e, stavolta, nessun sobbalzo accolse quelle parole. "Non sembri
tu ... non è da te dire cose simili ...”
“Aldebaran...” un sospiro stanco, all'apparenza scocciato. In realtà era
impreparato ad una risposta: come poteva dargli una risposta, quando lui
stesso non riusciva a fare chiarezza dentro di sè ... almeno non del
tutto. “Dev'essere la pioggia. Mi provoca questi pensieri strani ... mi
rende vulnerabile e mi cambia ...” sembrava abbia parlato più a se stesso
che al compagno. E continuò in quello strano tono da confessione. "Non mi
è mai piaciuta questa pioggia ... non mi piace il modo in cui distorce
cose e persone ... nè il modo in cui mette fine all'estate, così tutto
d'un tratto, senza mai dare nemmeno la parvenza di un preavviso.”
Il silenzio seguì le parole, mentre, con sguardo affranto, Aldebaran
allentava la presa dalla sua mano, riportando le proprie sul grembo.
E lui l'aveva comparato ad una pioggia d'autunno.
Ad una dolce pioggia d'autunno che porta nuovi sapori, nuove cose ... che
prepara all'inverno, ma, nonostante tutto, riesce a trasmetterti un calore
che nulla ha dell'inverno.
“Capisco ...” dice, ma in realtà non riusciva a comprendere. Avrebbe
voluto confessargli che tutte quelle parole risuonavano distorte, come il
suono di un'arpa le cui corde sono lise e logore, scordate dal tempo e
dall'inattività. Eppure non era in grado di pronunciare quelle parole che
si facevano pesanti nella sua mente e nelle orecchie, come paralizzate,
rese sorde da parole senza senso.
“Come mai sei venuto? Dovevi parlarmi di qualcosa? Se è per ciò che è
successo, io-”
Un gesto della sua mano lo ammutolì, riportando nuovamente la sua
attenzione su di lui: quegli occhi verdi lo fissarono per lunghi istanti
in silenzio. Un velo di serietà e malinconia a tingerli, e poi … un
brillio di sincero dolore e tristezza calò con un manto scuro su quelle
iridi.
“A dire la verità, ero solo venuto a vedere come stavi”.
“Ah”.
Aldebaran rimase per un attimo a bocca aperta, per poi richiuderla
imbarazzato, mentre un leggero rossore si fece avanti sulla sua pelle già
scura.
Inutile dire quanto il ragazzo si sentisse in colpa con l’amico per aver
pronunciato parole così scortesi e indelicate … quanto da una parte si
sentisse male al ricordo di quegli occhi tremendamente tristi … e quanto,
d’altra parte, la gioia a stento contenuta, l’avesse lasciato senza
parole.
Colui che aveva di fronte non aveva idea di ciò che le sue parole sincere
avessero provocato in lui: Aldebaran si sarebbe messo a gridare ed
esultare, come forse nessuno l’aveva mai visto fare.
Ma non poteva.
Non davanti a lui.
Davanti a nessuno.
Non si può esultare per qualcosa di nascosto, qualcosa che non si può
svelare. Qualcosa che si comprende ma non si accetta.
In verità ciò che egli non accettava era se stesso, i propri sentimenti …
ciò che gli mancava era la fiducia, sommersa e soffocata dalla paura di
non essere accettato e amato come lui avrebbe voluto.
Ciò di cui egli aveva veramente terrore era Mu.
E la persona di cui egli aveva paura era la stessa che amava.
Scherzo del destino, o meglio, ingarbugliato complesso di sentimenti.
“Come proseguono le cose ai Templi?”
Ecco un buon modo per battere in ritirata e cancellare dalla testa quei
pensieri fastidiosi.
“Oh, tutto procede come sempre” fece Mu con tono quasi distaccato. “Aiolia
freme per partire e con lui Milo, ma gli ordini del maestro riescono
ancora a farli desistere: in realtà non sono gli unici che vorrebbero
partire. È solo che …” s’interruppe con un sospiro mesto e rassegnato.
Era strano come una persona, normalmente di buon umore, potesse scurirsi
così tanto, gettando nello sconforto anche coloro che su quel raggio di
sole contavano tantissimo della propria forza.
“Dobbiamo dargli fiducia” concluse il moro. “Dopo tutto ciò che è
successo, dovremmo sapere bene che la sua vita non è in mano a degli
stolti”. Accennò un sorriso, più per rincuorare se stesso che il compagno.
Inutile, il tormento rimaneva.
Il tormento di perderla prematuramente …
“Non è carino confortare gli altri quando tu stesso dovresti essere
confortato”.
Cos’era quella sottile nota di rimprovero nella voce?
Aldebaran alzò gli occhi per controbattere, ma invece di ricevere
un’occhiata stizzita finì per perdersi in due occhi che lo osservavano con
un’indefinibile espressione dolce. E quel flebile sorriso sulle labbra …
“Mu …”
“Sei incorreggibile”.
“Prego?”
“Guarda che ti si legge in faccia ogni cosa … è impossibile non capire
cosa tu stia pensando!”
Aldebaran spalancò gli occhi sorpreso e attonito, sentendo un
indecifrabile calore affiorare sul viso con violenza.
“Davvero?!”
E il panico lo prese.
Il solo pensiero che lui avesse potuto capire quella cosa lo faceva star
male: quei pensieri fastidiosi tornarono ad affollargli la mente, ancora
più forti di prima, e ogni dolore per la sua reale ferita fu cancellato,
sostituito da un dolore ben più grande, ben più forte e profondo.
E se lui non mi accettasse?
“Siamo tutti preoccupati, non devi nascondere questo tuo sentimento … è
normale quando si è in guerra”.
Ed ecco tornare, inevitabile, anche quell’argomento.
“Aldebaran, tu …” Mu s’interruppe a riflettere; le sue mani tormentarono
ancora una volta l’elmo, stringendosi quasi spasmodicamente sui due lati
intaccati di esso.
Stava per riaprire bocca, quando il bussare alla porta l’interruppe.
“E’ permesso?” la voce chiara e inconfondibile di Milo si fece avanti con
la comparsa della sua bionda testa ricciuta. “Interrompo qualcosa di
importante?” un strano sorriso sornione passò per un breve istante sulle
sue labbra, mentre gli occhi indugiarono nel nulla.
“No, niente” fece quasi bruscamente Aldebaran, pentendosi subito dopo di
quella risposta. Se c’era qualcuno che non meritava un trattamento simile
era proprio Milo.
“Come mai tutto solo? Aiolia non stava con te?” chiese Mu stupito: dal
giorno della battaglia, Milo, pur di non rimanere solo, scendeva fino al
quinto tempio per l’unica compagnia affina rimastagli.
Egli non aveva solo perduto Camus, ma ogn’altro amico che abitasse gli
ultimi templi: con Camus, anche Shura, Deathmask e Aphrodite avevano
lasciato definitivamente questo mondo. E, da tempo immemorabile, le mura
del settimo e del nono non risuonavano più di alcun suono umano.
Faceva venire i brividi il solo pensare a come, tutto d’un tratto, il
mondo intero – il loro mondo – fosse stato ribaltato, e deposto da
qualcosa di più … indefinitamente vuoto.
Non era un lamento per l’ordine e la giustizia ristabilite in quella
terra.
Né un lamento per il dolce e giusto ritrovo della loro Dea, perduta troppo
a lungo.
Non era nulla di tutto questo.
Era la solitudine, era la perdita, era la totale e netta consapevolezza
che, seppur guerrieri di alta casta, seppur baciati da un potere
inimmaginabile, essi erano e sarebbero rimasti, comunque, ancora semplici
esseri umani.
Vicini al peccato e all’imperfezione, così come alla morte. Spade di
Damocle sospese su cinque giovani vite, sole, le ultime poste a baluardo,
incontro a un potere che nemmeno loro stessi conoscevano bene.
“Comincia ad essere stufo della mia presenza …. Dice che sono troppo
rumoroso per i suoi gusti!” e Milo esplose in una risata che risuonò come
un fantasma di allegria perduta. Falso apparve alle orecchie di tutti, per
prima alle sue.
E, così com’era nata, la risata s’interruppe, lasciando un vuoto difficile
da colmare.
“In fondo lo capisco … ultimamente sono davvero insopportabile” inclinò il
capo, come se stesse pensando, ma di nuovo i suoi occhi si persero.
Avrebbe voluto usare altre parole, avrebbe voluto dire ‘dalla sua morte …
dalla morte di Camus’.
Eppure non ci riusciva.
Non riusciva a pronunciare quel nome, se non nelle notti di sogni agitati,
quando la solitudine la faceva da padrone, quando nemmeno gli amici
potevano consolare.
E, men che meno, la parola morte affiorava dalle sue labbra.
Non poteva, non riusciva a pronunciarla senza che il nome di quella
persona gli si affiancasse, inevitabilmente.
Eppure, in cuor suo, sapeva che ripetere quelle parole avrebbe infine
portato a qualcosa di nuovo … forse sarebbe stato un modo per demonizzare
ciò che era successo.
Quei sentimenti di rabbia, frustrazione e disperazione sarebbero usciti in
un terribile sfogo, come un’esplosione.
Ma uno sfogo era pur sempre meglio di un silenzio lungo mesi.
Un modo per iniziare … o per concludere …
Si chiedeva continuamente cosa. Forse il nulla, forse la sua intera
esistenza.
Non aveva più risposte alle domande di quei giorni fatali.
Non aveva più parole, né risate, né lacrime …
Aveva la sua Dea, i suoi compagni, gli ideali e un’unica importante
missione.
Tutto quello che gli rimaneva ora.
Quel silenzio, quelle parole non dette … Mu non potè non avvertire quella
nota stonata nel discorso, nell’espressione e nei gesti stessi dell’amico.
Milo, per quanto potesse impegnarsi, non era bravo a nascondere i propri
sentimenti.
“Milo … sei sicuro di stare bene?”
Non era riuscito a pronunciare ciò che turbinava nella sua mente, la vera
domanda che avrebbe voluto porgli. Ma era così dannatamente difficile …
Non poteva forzare i suoi sentimenti ad uscire da quella prigione di
cristallo che si era creata … non ne aveva il cuore, non se l’amico aveva
intimamente deciso che ancora non era tempo, perché la sofferenza venisse
fuori, con le lacrime, forse.
Non poteva e non aveva le parole adatte … per la prima volta non giunsero
in suo aiuto, lui che sempre sapeva ammaestrare il potere delle lettere,
riuscendo in tutto ciò che molta gente riteneva impossibile. Si sentì
svuotato e impotente di fronte a quel dolore.
“A dire la verità …” riprese qualche attimo dopo Milo, ignorando la
domanda che gli era stata posta. “A dire la verità, ero venuto perché mi
avevano informato che eravate soli. Mi sembrava l’occasione migliore”.
Infine, giunse un pallido e sincero sorriso, timido come il primo fiore di
primavera: un pallido sorriso che riuscì, almeno un poco, a rischiarare
quel volto oscurato dal dolore.
“Occasione … migliore? Per cosa?” balbettò Aldebaran con un’espressione
dubbiosa e curiosa allo stesso tempo.
Il problema con Milo era che non sapevi mai cosa dovevi aspettarti; se
qualcosa di allegro, spaventoso … o semplicemente esplosivo. Da piccolo
era considerato un pericolo costante, ma, in realtà, ciò che dava più a
pensare gli adulti, era la loro stessa incapacità a capire cosa si celasse
dietro quel sorriso così enigmatico.
Rimasero a fissarlo per qualche secondo, con aria vagamente preoccupata,
fino a trasalire, sorpresi, quando si appoggiò d’un tratto con le mani ai
piedi del letto.
Alzò la testa di scatto, facendo ondulare la chioma bionda che ricadde a
ciocche sulle lenzuola.
Gli occhi azzurri si fissarono intensamente sui due compagni, che
decisero, così, di scartare ogni tentativo di replica.
“C’è qualcosa di molto importante che vi devo dire”.
La sua voce risuonava chiara e distinta, proprio come un tempo, ma vi
erano una passione, un ardore che nessuno gli aveva mai sentito usare.
Nessuno, tranne Camus.
“Io … voi …” tentennò per un attimo, come se volesse cercare le parole
adatte, come se quel discorso fosse talmente importante che una parola di
troppo, oppure troppo ardita avrebbe rovinato ogni cosa. “C’è una cosa,
qualcosa a cui ho pensato a lungo. C’è una persona che ami …” e iniziarono
così a sfociare delle parole. Uno strano discorso, in terza persona, come
se volesse estraniarsi da tutto, come se volesse rendere chiaro al mondo,
alle due persone che lo stavano ascoltando che la cosa non lo riguardava,
non in prima persona. Voleva rendere chiaro a tutti, in primo luogo a se
stesso, che tutto ciò che stava facendo era impartire una specie di
lezione, niente di più. Desiderava ardentemente che tutto quello fosse
soltanto una lezione dettata dal cuore, dall’amicizia che lo legava a quei
due ragazzi. E nulla, nulla … che riguardasse la sua storia.
“Sai che non è nel suo carattere l’espansività … ed egli non è abituato ad
esprimere a parole i suoi sentimenti. Non è da lui, l’hai sempre saputo e
non ti sei mai lamentato con lui, però …” sospirò, per prendere coraggio.
Piano piano, senza volerlo, stava dando sfogo ai propri sentimenti. Si era
ripromesso di trattenersi, di aspettare, eppure quelle parole gli uscivano
di bocca con tale facilità … “Poi ci si rende conto che non aver mai
sentito delle semplici parole dalla sua bocca, sembra essere una cosa
insensata, quasi crudele. È solamente dopo, quando ti trovi da solo e …
sai.”
All’improvviso la pressione sul letto si fece meno e la figura del greco
si spostò lentamente, con passi quasi studiati, ma forse solo guidati da
un improvviso istinto di difesa. Si ritrovò in un angolo della stanza, la
schiena rivolta al muro, il viso e gli occhi perduti sul paesaggio
esterno, attenti a contare ogni goccia di pioggia che si posasse sul vetro
della finestra.
E quei capelli prontamente scesi a coprire ogni cosa, ogni spicchio di
viso che potesse mostrare al restante del mondo cosa veramente si stesse
scatenando dentro di lui.
“Sai.” Riprese infine: la voce si era fatta un sussurro, un sussurrò che
risuonò distintamente nel silenzio. Nel sottofondo sempre la pioggia che
tamburellava, forte e costante sul tetto e sulle mura bianche della casa.
“Sai che lui non ci sarà più. Sai che lui non ti parlerà più. Sai che …
sai che non avrai più la possibilità di sentirgli dire quelle parole che
agognavi così tanto, quelle che sognavi anche di notte, ma non avevi il
coraggio di chiedergli. E solo allora, quando le tue possibilità si sono
definitivamente dissolte nel vento, ti rendi conto che quel coraggio che
desideravi è lì nelle tue mani. Ma è troppo tardi. Troppo tardi perché …”.
La voce si spezzò e un singhiozzo, seppur soffocato si fece sentire. Il
corpo del ragazzo si tese in spasimo, ma non pensò, nemmeno per un
momento, di abbandonare quella stanza e lasciare quel discorso a metà …
sentiva dentro di sé che tutto quello che stava facendo era giusto, in
qualche modo. Anche se crudele.
“Quelle orecchie che dovevano prestarti ascolto sono ormai sorde a
qualunque rumore … e quella bocca che avrebbe dovuto rispondere … quella
che avrebbe dovuto dirti quelle parole … è e rimarrà muta, per sempre. Non
sentirai mai più la sua risposta, né quelle parole … e non sentirai più il
suono di quella voce. E saprai che la tua unica, l’ultima possibilità, che
il tempo ti aveva gentilmente donato, se n’è andata. E non tornerà più.”
Si voltò completamente verso la finestra, dando completamente le spalle ai
compagni. Poggiò i polpastrelli della mano destra alla finestra e
rabbrividì: il freddo di quel vetro e il freddo che ora regnava nel suo
cuore. Erano così simili, così maledettamente simili da spaventarlo.
I due compagni lo fissavano, sorpresi e addolorati … immersi nei propri
pensieri, nemmeno lontanamente consapevoli di quanto quei pensieri fossero
simili, quanto essi si potessero intrecciare, andando a combaciare l’un
con l’altro.
A quel punto, come se un muto segnale avesse risuonato dentro di lui, Milo
si volse verso di loro: negli occhi un brillare intenso, pronto a sfogare,
ma non di fronte a loro. Era il suo dolore, era sua quella perdita e di
nessun altro. E non voleva condividerla con nessuno che non fosse se
stesso … e il suo spirito che, forte, ancora aleggiava in quella casa così
vicina al cielo.
Guardò intensamente i due, che ricambiarono lo sguardo e, per un istante,
quegli occhi brillanti di lacrime splendettero pericolosamente, come in
avvertimento. Ultimo obbligato passo, ultima lezione, prima di andarsene
definitivamente.
Poi, gli occhi si richiusero ed egli si voltò verso la porta, afferrando
con decisione la maniglia, aprendo l’uscio e richiudendolo dietro le
proprie spalle.
La pioggia cadeva e cadeva ancora, incurante dei passanti che in fretta
liberavano le strade, ultimi avventati all’imbrunire di quella serata
solitaria. E continuò a cadere sul giovane capo di un uomo che, a passi
sicuri ma lenti, avanzava, coprendosi d’innocue gocce di pioggia. E lente,
assieme a quel freddo scrosciare, lacrime calde e salate.
***
Dopo la dipartita dell’amico, nella casa non era più stata detta una sola
parola: quel discorso, all’apparenza quasi campato in aria, aveva creato
nell’atmosfera qualcosa di elettrico. Qualcosa di più forte della tensione
che aveva aleggiato, prima dell’arrivo del greco: qualcosa di
indefinitamente più intenso.
Era il chiaro significato, il vero senso di quel discorso ad atterrirli:
Mu per primo sentì che ogni parola la sua mente aveva formulato, quel
giorno di tormenti, risultava inutile ora. Tutto ciò che desiderava dire
era già stato detto … ogni frase, ogni singola parola era impressa non
solo nella sua, ma anche nella mente del compagno.
Possibile che quelle parole fossero così difficili da pronunciare?
Nonostante l’accorata richiesta del compagno, un amico che su di sé aveva
vissuto le pene di un innaturale mutismo … nonostante quelle parole e le
lacrime e il dolore … nonostante tutto questo rimaneva quell’inspiegabile
testardaggine, dettata dall’unico terrore di vedersi rifiutati.
Aldebaran strinse le lenzuola con forza, chiaramente conscio di quello
sbaglio che lo stava già ora avvelenando. Eppure, come poteva vivere in
pace proprio lui la cui sicurezza nei confronti del giovane vacillava
pericolosamente ogni giorno – non era fiducia in se stesso, non era il
vacillare di propri sentimenti, così saldi e forti da lunghi anni; era
l’estrema sicurezza che il ragazzo non avrebbe mai accettato le sue
parole, i suoi sentimenti, quelli di un amore dal sapore e dai costumi
così antichi, che non sapeva quanto di quell’antica tolleranza fosse
rimasta.
Era la natura di quel suo amore a spaventarlo … eppure, come poteva una
creatura talmente vicina alla perfezione, come quel giovane dai natali
sconosciuti, come poteva … essere stato inconsapevole creatore di un amore
simile?
C’era un senso a tutto quello?
“Avrai bisogno di riposare…”.
Aldebaran si riscosse dai suoi pensieri assillanti, rendendosi subito
conto che la presenza al suo fianco era scomparsa. Con un moto di dolorosa
sorpresa si volse a cercare con gli occhi la figura dell’amico; già si
stagliava sulla porta, spalancata sulla pioggia.
Gocce e rivoletti di acqua torbida colavano dalle estremità del tetto,
cadendo sul capo del ragazzo che li lasciava fare incurante.
Era di schiena, ma Aldebaran poteva intravedere un quarto di quel viso
particolarmente pallido: gli occhi erano socchiusi, vaganti su quello
spettacolo che, per lui, ora non era altro che l’ennesima fitta in un
cuore già turbato, già dolorante.
Le parole di Milo non erano passate lasciandolo indenne, ma nel suo cuore
la consapevolezza dura e implacabile si era fatta forte, ormai certezza.
Era giusto far parlare il proprio cuore a chi del tuo cuore era già
padrone … ma che senso aveva donare parole d’amore a chi aveva orecchie
solo per quelle di tenero affetto?
“Ma …” il ragazzo moro allungò la mano, un gesto solo per fermare
un’insensata dipartita; ma il ragazzo biondo non poteva vederlo. I suoi
occhi non avevano il coraggio di volgersi, né le sue gambe di cambiar
direzione.
Voleva solo uscire, uscire e dimenticare.
Se era vero che la pioggia poteva lavare via dolori, lacrime, cattivi
pensieri … allora che lo travolgesse, estirpando da lui ogni sciocco
sentimento … stupido … inutile … profondo … ma così … maledettamente non
ricambiato.
Quando finalmente Aldebaran si alzò dal letto, Mu era già diventato facile
preda dei fiotti di quel pomeriggio di pioggia.
Alzò il viso al cielo, senza minimamente avvertire quelle gocce che
lambivano occhi di mare e ciglia di fuliggine, guance di gelido marmo,
bocca stretta tra denti rabbiosi.
Guardava eppure non vedeva il grigio di lassù, quel grigio impastato a
bianco sporco di nero, colori accecanti e soffocanti come un abito troppo
pesante per una stagione ancora tiepida.
Caldo … il vento che trasportava quella pioggia era caldo …
Fu questo pensiero a distoglierlo da quell’immobilità e quel vuoto che si
stavano facendo strada in lui.
Che strano … per la prima volta che, in quel gelido abbraccio autunnale
sentiva un tale calore. Era così raro e … stranamente piacevole.
Era tutto ciò che quella giornata era riuscita ad offrirgli, l’unica,
seppur piccola, consolazione.
Si allungò verso il cielo, un inconsulto gesto di preghiera o
ringraziamento.
Ma sui suoi occhi si stese un bianco accecante. Avvolse la sua vista e un
calore tutto nuovo, unito a un dolce profumo familiare, lo sorpresero alle
spalle.
“Non saresti dovuto uscire … così … sotto la pioggia …” la voce tremante
di Aldebaran giunse a lui come un suono brillante, che tutto, in quel
grigiore, illuminava.
Si accorse così che quel biancore non era mero frutto di un’allucinazione,
bensì il bizzarro espediente dell’amico: un espediente fatto di un
lenzuolo, sostenuto dolcemente da due braccia forti, ripiegato su entrambi
i ragazzi, per proteggerli dalla pioggia.
“Aldeba-”.
“No, ascoltami.” Lo interruppe lui, con tono al quale era impossibile
replicare. “Te ne sei andato prima che potessi parlarti … e non voglio
perdere quest’occasione. Milo aveva ragione …”.
Il nominare l’amico mise in subbuglio la mente di Mu, che, dimenticando la
richiesta di Aldebaran, non solo tentò di parlare, ma tentò, in vano, di
voltarsi verso il ragazzo.
Non riuscì a fare né l’una né l’altra cosa.
Un braccio lo aveva circondato all’altezza del torace e l’emozione
provocata da quell’inatteso contatto gli fece morire ogni parola, ogni
volontà.
“Rimani così, ancora un momento. Altrimenti non avrò più il coraggio di
dirtelo.” gli sussurrò con voce roca e ancor più tremante. Così vicino,
quasi incollato alle sue spalle, alla sua schiena: Mu rabbrividì e poco
mancò perché le gambe lo abbandonassero.
“Io non amo la pioggia qualsiasi. Io amo la pioggia d’autunno … essa è
differente, unica e, a dispetto di tutte le altre, sa essere desiderata.
Quella candida delicatezza che sa infondere col suo tocco … il sollievo
che sa donare dopo la calura estiva e il suono rincuorante e familiare che
riempie la mia anima e mi sussurra lentamente che non sarò mai solo …
adoro la sua dolcezza, ma anche la forza e il timore che spesso incute
agli altri, ma non a me. Io l’adoro … io l’amo e-”.
La voce s’interruppe, lasciando il silenzio e un’aria d’attesa.
A cosa stava mirando? Mu era sempre più confuso, ma quel discorso non
poteva far altro che attrarlo … desiderava sapere quale conclusione
volesse avere tutto ciò. Cosa voleva davvero dirgli l’amico? Per cosa era
corso inerme sotto la pioggia, senza alcun riparo se non un semplice
lenzuolo candido?
“Cosa?”
Aldebaran sembrò prendere il respiro: fu un lungo istante, mentre il cuore
del ragazzo biondo palpitava e il moro, terrorizzato dalle sue stesse
parole, affondava il viso nei morbidi capelli davanti a lui.
“Tu sei la mia pioggia d’autunno…”.
Così, chiara e solenne, eppure semplice.
Era giunta la risposta a quelle domande … era giunta a lui, risvegliandolo
da un torpore.
Un lungo sonno provocato da una stagione estiva troppo lunga, lunga quasi
quanto un’intera vita.
Pioggia, pioggia … pioggia d’autunno.
La pioggia che aveva creduto di odiare lui l’amava.
E, a quella stessa pioggia, lui l’aveva comparato.
D’improvviso, si ritrovò libero da quella stretta, libero da quel calore …
e il freddo della pioggia era lì, pronto a risvegliarlo del tutto.
La pioggia che tutto cancellava sapeva anche risvegliare i sensi e
riportare menti assonnate sulla retta via.
Cancellare paure e indecisioni, recando con sé il coraggio di tutto fare e
tutto dire … aprire il proprio cuore e permettere a quelle parole di
uscire, semplici da pronunciare come fossero aria.
Si voltò, trovando davanti ai propri occhi confusi e bagnati altri occhi,
incerti, spaventati … supplicanti.
Se mai vi era stato accenno di vergogna esso era scomparso per la pioggia
fresca. O semplicemente perché non aveva più ragione di essere.
Cosa doveva fare? Quali erano le giuste parole da offrirgli, dopo quelle
che l’avevano tacciato? Aprì una, due, tre volte la bocca, ma ogni parola
risultava alla sua mente logora, sciocca e banale.
E, più la sue mente tentennava, più in quegli occhi l’oscurità di faceva
profonda.
Perché la pioggia non poteva parlare? Perché non poteva sussurrargli le
parole, quei gesti che l’avrebbero spinto verso di lui, invece di
lasciarlo lì, inerme, ad accoglierla senza alcuna difesa?
Si morse le labbra ed infine capì.
Era lì la risposta, era lì quel sussurro, era sempre stato accanto a lui,
fin da quando era uscito da quella casa.
Ma era ancora troppo sordo per comprendere subito cosa quello strano
spirito d’autunno volesse suggerirgli.
Era dovuto giungere a un sottile limite, a un pericoloso punto che lo
avrebbe potuto portare alla perdita completa, oppure alla conquista.
Avrebbe visto sgretolare davanti ai suoi occhi ogni cosa … o sarebbe
riuscito ad afferrare quell’unico istante di pura perfezione che lei gli
offriva?
Furono i suoi passi a decidere.
Solo due passi, decisi e frementi.
E quel tenue chiarore lo avvolse di nuovo e il profumo che ben conosceva
si fece ancor vivo.
Fu lieve e dolce e fresco … bacio baciato da odori di bosco e mare e di
estate ormai terminata.
Fu bacio rubato e bacio ricambiato.
Furono parole mai dette, così dichiarate.
Un giorno, sotto la pioggia …
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