Per Nausicaa, Ria, Calipso, Kamui, Angie e Kira.
Tutti i diritti della serie Weiss Kreuz sono del
Project Weiss e di Koyasu Takehito (altresì detto ‘il sorriso che uccide’).
Un ringraziamento particolare a Nausicaa e Kamui, per
sostegno, suggerimenti, correzioni.
Buona lettura.
Una nuova
vita
parte IV
di
Greta
Era sembrata una serata
interminabile, ma finalmente era di nuovo a casa.
Si diresse subito verso
la camera da letto: aprendo la porta e vedendo Aya addormentato sotto le
coperte, sentì una strana pena. Si avvicinò lentamente, sedendoglisi poi
accanto, sul bordo del materasso.
L’altro scattò a sedere
non appena si accorse della sua presenza, gli occhi ancora addormentati ma
il corpo subito teso, in posizione di difesa:
“Sei tornato… che ore
sono?” mormorò, sbattendo ancora gli occhi nel tentativo di riacquistare
lucidità.
“Quasi le quattro. Non
volevo svegliarti” gli rispose lui, passandogli le dita tra i capelli.
Cominciò a spogliarsi,
rimanendogli seduto accanto: la giacca, la cravatta, la camicia. Presto si
ritrovò solo con la biancheria. Sapeva che il suo poteva sembrare un
comportamento minaccioso, ma questo non lo fermò. Scivolò al fianco di Aya,
passandogli le mani intorno alla vita:
“Stringimi, amore…”
mormorò, sapendo che presto non avrebbe più potuto chiederglielo.
Sentì quelle braccia
sottili salire fino a circondargli il collo, e la testa di Aya appoggiarsi
sul suo petto. Fu lui a sollevarlo, a baciarlo con un impeto, una passione
che aveva sempre contenuto per non spaventarlo. L’adrenalina salita con il
pericolo della missione di quella sera, si fece sentire. Presto si lasciò
trasportare dall’istinto: scavalcò il compagno fermandoglisi sopra, in un
movimento fluido effettuato senza staccargli la bocca dalle labbra morbide.
Nervosamente cominciò a
slacciare i bottoni di quel pigiama che si stava rivelando un intralcio, e
poi le sue mani scesero fino alla cordicella che teneva chiusi i pantaloni
di Aya.
Sentì quasi subito le sue
dita sottili sulle proprie mani bollenti. Sollevò lo sguardo su quel viso
pallido, a cercare di capire il perché di quella interruzione.
Aya non parlò, gli
sollevò le braccia fino a riportarsele intorno al petto e poi portò le
proprie a cingergli il collo.
“Amore…” provò a
sussurrargli lui, mettendo in quell’unica parola desiderio, rimprovero e
minaccia.
Ma il compagno chiuse gli
occhi, scuotendo la testa.
Sarebbe potuto andare
fino in fondo, ed era certo che, alla fine, all’altro non sarebbe
dispiaciuto, ma aveva imparato una cosa importante, in quei giorni che
avevano passato insieme: quel sentimento che provava per Aya non era
desiderio, non solo, come non era solo ammirazione e stima. Lui lo amava e
lo rispettava, e questo, oltre alla pericolosità della katana tra le sue
mani esperte, gli impediva di forzarlo a fare qualsiasi cosa.
Dormì male, ad
intervalli, svegliandosi di tanto in tanto, tranquillizzato solo dal rumore
del vento e di una pioggia sottile che doveva essere cominciata a cadere
verso l’alba, e dalla presenza confortevole del corpo di Aya stretto contro
il proprio.
Si svegliò
definitivamente verso le dieci, accorgendosi di essere rimasto solo, nel
letto.
Si dice che i problemi
che sembrano inaffrontabili di notte, la mattina risultino meno
insormontabili, come se il sonno avesse davvero la capacità di portare
consiglio. E invece, quella mattina a lui portò solo la consapevolezza di
stare per perdere la cosa più importante che avesse mai posseduto.
Quando entrò in cucina,
vide Aya seduto al tavolo, con la colazione quasi intatta, un’aria assorta e
lo sguardo distrattamente posato sui barattoli che ingombravano la credenza.
Gli si avvicinò
lentamente. Passandogli alle spalle per raggiungere uno scaffale, gli passò
le dita tra i capelli morbidi.
Con la tazza bollente di
caffè solubile, gli si sedette accanto. Quando vide il compagno allungare la
mano verso la boccetta di pillole prescritte dal dottor Tabase, gliela coprì
con la propria, per poi impossessarsi della medicina:
“Non ne hai bisogno” gli
disse, allontanando il finto farmaco.
Allo sguardo
interrogativo e sospettoso di Aya rispose scuotendo la testa:
“Anche questo fa parte
della spiegazione… prepariamoci, devo portarti in un posto, prima di
cominciare”.
Si vestirono con calma,
quasi entrambi volessero prolungare quel momento in cui sapevano ancora
quale fosse l’equilibrio che li legava, mentre dopo poche ore poteva essere
accaduto di tutto.
Crawford tirò fuori la
Porsche. Imboccarono la litoranea, verso nord.
Fecero il viaggio in
silenzio, il tempo grigio, piovoso, ispirava meditazioni solitarie, e loro
non scambiarono una parola per tutte le due ore del tragitto.
Era in qualche modo uno
spreco di tempo, Crawford contava i minuti, sperando si prolungassero, che
il tempo si dilatasse, allontanando quel confronto che, anche senza
premonizioni, sapeva bene avrebbe portato all’allontanamento di Aya.
Si fermarono di fronte ad
un alto cancello nero. L’Americano mormorò qualcosa nel citofono, e le ante
cominciarono ad aprirsi lentamente.
Entrarono. Il grande
parco, sotto la pioggerellina fitta, sembrava brillare di colori quasi
primaverili.
Parcheggiarono nell’ampio
spiazzo coperto di ghiaia, e finalmente Aya poté leggere nel cartello vicino
al portone principale che si trovavano all’interno del complesso della
Clinica Universitaria Mitsugumi.
Entrarono, i loro passi
che risuonavano sinistri sul pavimento lucido. Camminarono in silenzio,
entrambi ormai proiettati verso quello che sarebbe seguito, e quell’ultimo
tratto sembrava l’ultimo ostacolo da superare.
“Posso esservi utile?” li
apostrofò l’infermiera dell’accettazione.
Crawford si avvicinò
deciso:
“Dobbiamo far visita alla
stanza 402” scandì lentamente.
La donna controllò sul
monitor:
“Quarto piano, il
corridoio di destra. Volete mostrarmi un documento?”
L’americano tirò fuori il
portafoglio, sbrigando le pratiche burocratiche, poi si riavvicinò ad Aya:
“Vieni, siamo quasi
arrivati”.
Rimasero in silenzio
anche in ascensore. Perché erano andati in un ospedale? Cosa potevano
trovare laggiù di così importante relativamente alla sua vita passata?
Stanza 402. Entrarono
silenziosamente.
Nell’alto letto coperto
da una trapunta bianca giaceva una ragazza. Era stesa, immobile, con gli
occhi chiusi e una maschera per l’ossigeno a coprirle naso e bocca, e altri
tubicini che le uscivano dal braccio e dal pigiama giallo.
Aveva la carnagione
chiara e i capelli castani legati in due lunghe trecce.
Aya si avvicinò,
fissandola lungamente. Per un istante allungò una mano, quasi avesse avuto
la tentazione di sfiorarla, poi però si ritrasse, voltandosi per guardare il
compagno:
“Chi è?” chiese, una
piega tra gli occhi, a dimostrare la sua tensione.
Crawford si abbandonò su
una delle due poltroncine accanto al letto:
“Lei è Aya” rispose,
lasciandosi accogliere dallo schienale morbido “Aya Fujimiya… tua sorella”
aggiunse poi.
Portò gli occhi in quelli
affilati del compagno:
“Hai una sorella. E’ in
coma da quasi tre anni. C’è stato un incidente, i tuoi genitori sono morti,
lei è rimasta in questo stato. Tu sei stato l’unico a salvarti. Prima era in
un altro ospedale, l’ho fatta spostare io, qui. Ritengo che possa essere
seguita meglio, ma non è solo questo…”
Si prese una breve pausa
prima di ricominciare a parlare, ben consapevole dello sguardo sorpreso
dell’altro:
“Ritengo che tutto sia
cominciato con l’incidente. Il tuo vero nome è Ran, lo hai cambiato quando
sei entrato a far parte dei Weiss, una organizzazione di…” si interruppe,
cercando il viso di Aya “E’ difficile dirti tutto insieme” mormorò.
“Continua” gli sussurrò
l’altro, continuando a guardare la ragazza stesa sul letto.
“Volevi vendicare la tua
famiglia. Il responsabile dell’incidente si chiamava Reiji Takatori. Volevi
ucciderlo, era la tua ragione di vita. Sei stato reclutato da una
associazione che si vanta di sconfiggere le ‘bestie che operano nelle
tenebre’. Avevi bisogno di soldi, e avevi bisogno di qualcuno che ti
aiutasse a trovare Takatori. L’organizzazione Kritiker ti ha dato questo, o
per lo meno questo è ciò che ti ha promesso. Sei stato addestrato, e poi sei
approdato nel gruppo dei Weiss, di cui fa parte quel ragazzo che hai visto
ieri mattina, Kudoh Yohji…” pronunciò questo nome con disprezzo “…uccidete
le persone che si sono rese colpevoli di crimini, ma che non possono essere
catturate e punite secondo le usuali procedure. In qualche modo vi
considerate il braccio armato di una Giustizia quasi ultraterrena”.
Rimasero un momento in
silenzio, quasi a prendere coscienza di quelle parole che ancora
galleggiavano tra loro.
“Stai dicendo che… sono
un assassino?” Aya lo aveva chiesto con un tono metallico, freddo, quasi
stesse parlando di qualcun altro.
Lui annuì:
“La katana… la usi per
uccidere”.
Scorse un lampo di
disgusto in quel viso che appariva ancora più pallido del solito:
“E tu? Cosa hai a che
fare con tutto questo?!” si sentì poi chiedere a voce bassa.
Crawford scosse la testa:
“Nagi, Farfarello,
Schuldig ed io operavamo per un’altra organizzazione. Il nostro nome è
Schwarz”.
“Ma… e la tua società?”
il ragazzo aveva tradito per un istante la propria sorpresa, ma poi riprese
l’espressione seria: “Vuoi dire che tutto quello che ho visto non è vero? E’
tutta una facciata?”
“E’ tutto vero. Non siamo
solo dei sicari, anzi… non lo siamo quasi più” spiegò.
Aya lo guardò fisso negli
occhi:
“Quanto c’è di vero in
quello che mi hai raccontato della nostra vita?” gli chiese a bruciapelo.
L’Americano distolse lo
sguardo, sfilandosi gli occhiali:
“Quasi niente, Aya. Ti ho
costruito la vita che mi sarebbe piaciuto vivere con te” replicò
stancamente, quasi a difendersi dalle accuse dell’altro “Schwarz e Weiss
hanno sempre operato su fronti opposti. Noi eravamo le guardie del corpo di
Reiji Takatori. Ogni volta che io e te ci siamo incontrati, abbiamo
combattuto l’uno contro l’altro” ammise calmo.
Stavolta lo sguardo di
Fujimiya rivelò la sua incredulità:
“Le guardie del corpo
dell’uomo che ha sterminato la mia famiglia?! Come puoi dirlo con tanta
tranquillità!”
Crawford chiuse gli
occhi:
“Per noi era lavoro. Ha
significato soldi, sentirci accettati…” mormorò.
L’altro gli rivolse solo
una smorfia di disprezzo, poi insistette:
“Come ho perso la
memoria? Perché non mi hai ucciso, invece di umiliarmi?!”
“Non capisci! Ucciderti…
come se io potessi farlo.
Hai avuto un incidente
durante una missione con i Weiss. Schuldig ti ha trovato e ti ha portato a
casa. Non ti piacerà saperlo, ma ha sempre avuto un debole per te, e le sue
intenzioni non erano proprio innocenti…”
“Ma tu sei il loro
leader, e come si dice: ubi maior…” suggerì l’altro sarcasticamente.
“Ogni volta che ti ho
detto di amarti, l’ho fatto sinceramente” lo disse guardando Aya dritto
negli occhi, sfidando l’altro a leggere falsità nelle sue parole “Avevo
previsto il tuo arrivo, per me è stato un regalo, un’occasione inaspettata.
Potevamo cominciare tutto da zero, senza sangue, rivalità, combattimenti.
Per te diventavo solo Brad…”
L’altro sorrise ironico:
“Commovente davvero! E
quindi le foto, la nostra stanza, tutti i racconti… solo un’invenzione!”
“Volevo regalarti una
vita felice, normale”.
In risposta ebbe uno
sguardo rabbioso, e poi la domanda:
“Perché mi hai curato?
Non temevi che, con la memoria, avrei scoperto tutto?”
“Le pillole servivano
proprio per non farti ricordare nulla. Il medico fa parte della nostra
organizzazione”.
“E non avevi paura
neanche della reazione dei miei ‘padroni’?”
“Ti avevo riscattato”.
L’altro ci mise un po’
per afferrare il senso di quelle parole.
“Vuoi dire che hai
pagato?! Mi hai comprato?”
Crawford annuì:
“Era l’unico modo per
tenerli lontani, anche se poi i tuoi compagni hanno agito indipendentemente
dagli ordini che hanno ricevuto”.
Rimasero in silenzio.
L’unico rumore rappresentato dal respiratore che teneva in vita la ragazza
stesa sul lettino.
“Non riesco a crederti…
sembra tutto assurdo. E io non riesco a ricordare nulla!”
“Mi dispiace, Aya. Non
volevo che andasse così…” mormorò lui, appoggiandosi i gomiti sulle
ginocchia.
Anche il compagno si
sedette, quasi che quello che si erano detti fosse troppo anche per uno
scoppio di rabbia. Rimaneva una incredulità, una disperazione muta, e per
questo più straziante:
“Perché hai deciso di
dirmi tutto? Non potevi continuare con il tuo inganno? Non avrei scoperto
niente…”
Sembrava quasi che
nascosto molto in fondo ci fosse qualcosa di simile ad un rimpianto.
“Non era giusto”.
“A questo punto, sentirti
parlare di giustizia diventa quasi comico” ribatté il ragazzo più giovane,
pur senza essere sprezzante, solo triste.
“Aya…” gli si rivolse
lui, voltandosi a guardarlo negli occhi.
“Mi hai appena detto che
non è neanche il mio nome…”
“Aya, ti chiedo solo una
cosa: pensaci prima di prendere qualsiasi decisione. Ricordati questi giorni
che abbiamo passato insieme. Non buttare via tutto. Il contorno era falso,
ma quello che ci legava era autentico. Non spazzarlo via come se non valesse
niente” gli chiese. Ed era la prima volta che Brad Crawford chiedeva e non
ordinava.
“E’ troppo tardi”.
L’Americano rimase
immobile, come se desiderasse che quella non fosse la fine.
“Vai via” gli mormorò il
compagno, senza guardarlo.
“No, Aya… io…”
“Devo pregarti? E’ questo
che desideri?”
Non c’era speranza, in
quelle parole. Quante volte era stato tradito, ferito Ran Fujimiya nella sua
vita? E ogni volta doveva averlo lasciato più solo della precedente…
Crawford si alzò in
piedi, gli si portò di fronte, chinandosi davanti a lui. Allungò una mano
fino a catturargli le dita, ma Aya le liberò subito, fissando uno sguardo
freddo e vuoto nel suo.
“Vado via. Ma non esco
dalla tua vita: sei troppo importante per me, non posso perderti” gli
promise, o forse lo minacciò, lasciando la stanza con un ultimo sguardo alla
ragazza addormentata che aveva assistito a tutto senza un movimento.
Non poteva ancora
crederci. Tutto era andato in frantumi, davanti ai suoi occhi. Si sentiva
come se mille spilli gli fossero stati infilati nella pelle, sentiva di non
avere la forza di reagire, ma neanche di comprendere veramente quello che
gli era stato detto.
Era meglio non avere
una vita, che accettare ciò che quel bastardo gli aveva detto.
Perché gli aveva
ricostruito una vita normale, per poi buttargli addosso, senza pietà, nel
momento in cui era meno in grado di sopportarne l’urto, quelle parole
terribili?
Sollevò lo sguardo,
quel tanto da vedere la base del treppiede che sosteneva la flebo. Aveva una
sorella, ma neanche lei poteva essergli di aiuto, l’enorme peso doveva
portarlo da solo.
Quanto doveva essere
stato disperato per diventare assassino per vendicarla? Come doveva essere
stata la sua vita, alimentata solo da ansia di vendetta?
Odiava il ragazzo
descritto da Crawford… odiava Crawford per averlo illuso e poi rigettato nel
fango. Doveva essere stata una bella soddisfazione, dargli delle false
certezze e poi distruggerlo.
Aveva gli occhi
asciutti, aridi, eppure avrebbe desiderato il sollievo delle lacrime.
Evidentemente doveva essere abituato a portare pesi, a caricarsi di
responsabilità se neanche gli era concesso di potersi abbandonare alla
disperazione.
Un assassino… si
guardò le mani pallide, le dita lunghe, affusolate. A questo gli era servita
l’abilità nel kendo? Per togliere la vita? Per un’unica persona, aveva
deciso di macchiarsi del sangue di molti.
Sentiva gli occhi
bruciargli, ma erano asciutti, aridi. Si sentiva reso completamente
insensibile da come gli appariva la sua vita. Dolore, odio, vendetta e
sangue… ecco cos’era, un essere inumano.
Alzò lo sguardo sulla
ragazza immobile davanti a sé: allungò lentamente una mano, a sfiorarle il
braccio scoperto. La ritrasse subito, come se si fosse scottato; gli
sembrava di aver lasciato un’impronta infuocata su quell’anima pura. Si
accorse che tra le dita le brillava qualcosa di metallico. Un orecchino, un
orecchino uguale a quello che portava lui.
Ed ora cosa doveva
fare? Andare a riempire i buchi della propria memoria tornando a far parte
di quel gruppo di assassini che avevano soddisfatto la sua ansia di
vendetta? Ricominciare la vita di prima? Dimenticare di essere una persona,
e tornare una macchina di morte?
Si guardò ancora una
volta le mani… pallide, sottili. Un angelo, lo aveva definito una volta
Farfarello con uno dei suoi sguardi più invasati, e a lui era sembrato un
paragone inquietante.
Un angelo, un angelo
della morte.
Lo aveva scacciato, non
gli aveva dato neanche una possibilità… ma poteva davvero aspettarsi altro?
Lo aveva ingannato in ogni modo, ogni sua parola era stata una bugia, e
adesso pensava che tutto potesse finire con un ‘ti perdono’? Non era uno
squallido film sentimentale, e lui non avrebbe conquistato la persona amata,
contro ogni aspettativa.
Si avvicinò
all’automobile sollevando la testa per guardare ancora una volta quella
finestra aperta da cui si scorgevano fluttuare le tende bianche.
Tornò in fretta
all’interno dell’ospedale, fermandosi di fronte al banco della reception.
Sfilò la busta spessa che
teneva nella tasca interna dalla sera precedente, da quando aveva cominciato
a temere per il proprio futuro insieme ad Aya, e la porse all’infermiera.
Uscì velocemente, senza
più guardarsi indietro. Non poteva fare altro, ma sapeva che non avrebbe
lasciato le cose in quella situazione.
Aya sarebbe tornato con i
Weiss? Era molto probabile, e probabilmente avrebbe anche cercato di
vendicarsi delle illusioni che lui gli aveva dato… e questa era la sua
segreta speranza, che le loro strade si incrociassero di nuovo: a quel punto
avrebbe saputo dimostrare la sincerità dei propri sentimenti. E poi, in
fondo, cosa aveva fatto di tanto grave? Aveva sostituito una vita di
sofferenza e disperazione con qualcosa di infinitamente più tranquillo e
piacevole. E sapeva che in qualche modo era riuscito anche a conquistare un
po’ della fiducia di quel ragazzo che non concedeva nulla a nessuno. Quando
avevano dormito vicini, abbracciati, quando si erano baciati, quando avevano
ballato insieme, aveva sentito l’altro sciogliersi, rilassarsi. E come
dimenticare quei pochi sorrisi che era riuscito a strappargli? In quanti
potevano dire di aver avuto lo stesso successo?
Quanto c’era stato di
egoismo in quello che aveva fatto? Quanto del desiderio di rendere l’altro
felice costruendo quella farsa era dovuto al proprio desiderio di trovare
finalmente qualcuno a cui dedicarsi, qualcuno da amare, ammirare, esibire,
possedere? Lo aveva fatto star bene poter agire per qualcun altro, potersi
preoccupare, poterne conquistare la fiducia, doversi fare… amare. E tutto
questo senza sentire disgusto per se stesso, nonostante la malafede in cui
agiva. Aveva amato quel giocare alle persone normali che c’era stato, aveva
assaporato ogni istante della conquista del ragazzo da cui aveva sempre
ricevuto solo disprezzo. Non era stato un giocare con i sentimenti di Aya,
un volerlo ingannare per il gusto di sconfiggerlo psicologicamente, no, non
era stato questo, era stata la possibilità di potersi avvicinare come una
persona normalmente, senza pregiudizi. Era stata la possibilità di essere
amato dall’unica persona per la quale avrebbe rinunciato a tutto quello che
fino a quel momento aveva rappresentato lo scopo di ogni sua azione. Anche
l’esibizione del suo potere non era stata che un tentativo di mettere a
disposizione di Aya ogni sua ricchezza, di presentarsi nel suo aspetto
migliore.
Lo amava… lo amava
pazzamente.
Non gli avrebbe mai
raccontato la verità se non fosse stato così. Lo amava così tanto da non
poter sopportare più quelle menzogne che all’inizio erano state così comode.
Come poteva permettersi
di perdere tutto?
Frenò a secco, sbandando
in maniera pericolosa sull’asfalto viscido.
No, non poteva
permetterselo.
Voltò l’automobile, e
stavolta l’ago dell’indicatore di velocità salì vorticosamente. Presto la
Porsche raggiunse i 200 km/h… doveva arrivare in fretta, doveva spiegargli,
e se Aya non avesse voluto ascoltarlo, lo avrebbe obbligato a farlo, avrebbe
agito da bastardo, ma lo avrebbe costretto ad accettare i suoi sentimenti, a
cedergli una volta per tutte.
Fermò l’automobile con
una sgommata, sollevando la ghiaia che riempiva il piccolo parcheggio
dell’ospedale.
Lasciò lo sportello
aperto, imboccando rapidamente le scale che portavano ai piani superiori,
troppo ansioso di raggiungere il fretta la stanza di Aya-chan per attendere
l’ascensore.
Poggiò una mano sulla
maniglia, soffermandosi il tempo per regolarizzare il respiro affannato, poi
spinse la porta, entrando nella stanza che aveva lasciato neanche un’ora
prima…
Era vuota.
La ragazza era ancora sul
letto, stesa come se niente fosse accaduto, ma del fratello non c’era
alcuna traccia.
Con l’irrazionalità che
rimproverava ai comuni mortali, cercò all’interno della stanza, come se non
fosse palese già ad una prima occhiata che il ragazzo fosse andato via, poi
si precipitò all’esterno, entrando nelle stanze vicine, e poi fu di nuovo
nella hall.
L’infermiera gli sorrise
senza riuscire a nascondere un moto di sorpresa. Non doveva essersi accorta
che lui fosse rientrato, e adesso se lo trovava di fronte, sempre
impeccabile ma con gli occhi socchiusi, rabbiosi:
“Dov’è andato!” le
chiese, guardando quella sciocca ragazza sorridente come se fosse la causa
della sparizione del compagno.
“Signore?! Di chi sta
parlando?” chiese lei, mantenendo l’espressione di plastica.
“Il ragazzo con i capelli
rossi. Dov’è andato?!” ripeté lui, trattenendosi a stento dal desiderio di
sbatterla contro il muro.
“E’ uscito una ventina di
minuti fa…” mormorò lei, accorgendosi che non era il caso di perdere tempo.
“D-O-V-E - E’-A-N-D-A-T-O!”
scandì lui, stringendo i pugni.
Non era da Brad Crawford
perdere la pazienza, ma in quel momento stava rischiando di perdere qualcosa
di molto più importante.
“Non ha detto niente,
l’ho visto passare, l’ho chiamato per consegnargli la busta, l’ha presa ed è
uscito dal portone… non so nulla di più” rispose la donna spaventata.
Il suo sguardo avrebbe
potuto incenerirla. Si voltò in fretta, raggiungendo di nuovo l’automobile.
Venti minuti non erano un
vantaggio particolarmente rassicurante… Aya doveva essere ancora
relativamente vicino, sarebbe riuscito a trovarlo, e a quel punto non lo
avrebbe lasciato scappare.
Venti minuti, pensò
mentre la pioggia si infittiva. Chi può scomparire in soli venti minuti?
Erano passati quasi due
anni, due anni da quel giorno di pioggia che aveva inghiottito Aya Fujimiya.
Crawford lo aveva cercato
ovunque, aveva battuto ogni strada che potesse riportarglielo. Schuldig
aveva scandagliato le menti dei Weiss, ma Aya non si era mai fatto sentire
con loro, poi aveva provato con quella ragazza, Manx: chissà che i Kritiker
non avessero fatto il doppio gioco, reinserendolo in un altro gruppo… ma
neppure questa sembrava la strada giusta. E Aya-chan: l’ospedale era stato
presidiato, durante le prime settimane, ma non era servito a nulla… e poi
questa strada era stata chiusa dallo stesso Fujimiya, con l’unico segno di
vita che gli avesse dato.
Una breve e-mail in una
giornata solitaria come tutte le altre.
Prodigy aveva lavorato
duramente su quell’unico indizio, ma avevano a che fare con una persona che
sapeva come far perdere le proprie tracce: un indirizzo comune, formato da
lettere e numeri a caso, di quelli che si possono aprire senza alcun dato, e
poi un percorso di rete che faceva sembrare che la mail fosse stata inviata
da un server che non corrispondeva ad alcun indirizzo esistente. Una prova
da hacker… molto astuto, anche.
La mail… poteva recitarla
a memoria. Non che fosse molto lunga, appena due righe:
“Sei l’ultima persona
a cui desidererei chiederlo, ma anche l’unica a cui possa rivolgermi:
prenditi cura di Aya, assicurale quel poco di vita che le avete lasciato”.
Erano passati due anni, e
lui aveva mantenuto la sua promessa. Aveva continuato a mantenere Aya-chan
in ospedale, le aveva fatto avere le cure migliori che potessero essere
applicate al suo caso, e ogni tanto era anche andato a trovarla, quasi
desiderasse trovare nel suo volto qualcosa che gli ricordasse il fratello. E
poi, inconsciamente, sperava che Ran cedesse all’impulso di rivederla,
tradendosi e consentendogli di rintracciarlo.
Dopo sei mesi le nuove
cure avevano dato i loro frutti. L’attività cerebrale di Aya-chan aveva
cominciato a dare piccoli segni di ripresa, e dopo un altro mese la ragazza,
dopo quattro lunghi anni, quando ormai molti medici avevano espresso il
parere che non si sarebbe mai risvegliata, era uscita dal coma.
E si era ritrovata Brad
Crawford come unica famiglia.
Per qualche giorno,
quando ancora Aya-chan era in ospedale per gli accertamenti di rito, lui
aveva anche pensato di avvertire i Weiss e di affidarla a loro. Tutto
sommato erano quanto di più vicino a degli amici Fujimiya avesse mai avuto,
ma non era riuscito a separarsi dall’unico legame che avrebbe potuto
riportargli il ragazzo che amava, e poi riecheggiavano le parole di quel
messaggio. Aya aveva affidato la sorella a lui, a nessun altro, e quindi era
suo dovere occuparsi di lei.
La ragazza si era stupita
di non avere intorno la propria famiglia. All’inizio non ricordava neanche
la morte dei genitori… poi il sapere cosa fosse successo, quanto tempo fosse
passato l’aveva lasciata completamente incapace di reagire. I medici avevano
anche avuto paura che potesse avere una ricaduta, ma lei si era mostrata
forte.
Quando gli aveva chiesto
del fratello, sembrava quasi che si aspettasse un’altra tragedia, e invece
lui le aveva sorriso, e le aveva detto che Ran era vivo, che stava bene (era
sicuro che fosse così) e che presto sarebbe tornato da lei.
E quando le sue
rassicurazioni non bastarono più, le raccontò tutti i sacrifici che Ran
aveva fatto per lei, di come avesse lottato contro i medici, contro tutte le
difficoltà che cercavano di impedirgli di mantenerla in vita, di come avesse
vendicato la sua famiglia.
Non le disse cosa fossero
i Weiss, non le raccontò quanti morti la vendetta del fratello avesse
lasciato indietro, ma volle che almeno lei sapesse, si rendesse conto, di
cosa fosse stata la vita di Ran in quegli anni, di quanto si fosse
sacrificato e avesse sofferto. L’Americano, più o meno inconsciamente,
incolpava la ragazza per questo, e in qualche modo desiderava ferirla.
E ci riuscì. Eppure il
gusto di questa sciocca vittoria non gli fu di nessuna soddisfazione, le
lacrime silenziose di Aya-chan non restituirono a nessuno gli anni
trascorsi. E a lui non restituirono Aya.
Prendersi cura della
sorella di Ran viva non comportò molti più sforzi di prendersene cura quando
era in coma. Le diede un piccolo appartamento, dove lei potesse vivere
lontana dall’influenza degli Schwarz, un conto in banca, l’iscrizione ad un
collegio prestigioso e la onorò di visite periodiche. Lei lo considerava il
suo salvatore, lui la considerava un’esca, e non riusciva a sopportare che
il suo pesciolino rosso esitasse tanto ad abboccare.
Eppure doveva conoscerlo:
Abyssinian si sarebbe fatto trovare solo quando lo avesse voluto.
Due anni, ancora due mesi
e sarebbero stati due anni.
Era fine settembre, un
settembre caldo, eppure aveva sentito dei brividi gelidi quando Aya-chan gli
aveva telefonato, dicendogli di precipitarsi al suo collegio.
Era arrivato un messaggio
di Ran, le era arrivato direttamente nell’armadietto scolastico… lui non
aveva voluto ascoltare altro, si era precipitato nella sua Porsche, e adesso
correva verso la periferia della città.
Quando fu di fronte alla
ragazza, lei rimase a guardarlo stupita, dimenticando per un momento
l’eccitazione per quello che voleva dirgli.
Non aveva mai visto il
freddo e compassato Americano in quel modo. Prima di tutto senza i famosi e
costosi completi manageriali, ma con jeans neri e camicia, e poi con una
espressione tesa, vibrante che normalmente doveva tenere ben nascosta sotto
la sua maschera determinata ed autoritaria.
Gli porse la busta senza
parlare.
Un messaggio breve,
parole affettuose, una spiegazione, qualche giustificazione velata per
averla lasciata sola, e la promessa di tornarle presto accanto. Doveva
risolvere una questione sospesa, aveva scritto, e poi sarebbe stato di nuovo
con lei, ma non sono più il tuo Ran, aveva terminato.
Crawford scorse più volte
il foglio, ma non leggeva le parole; per quei brevi istanti sembrava essere
solo affascinato da come erano state tracciate le lettere, da quella prova
dell’esistenza di Aya.
Si infilò la lettera in
tasca, senza replicare al piccolo moto di sorpresa della ragazza e alla
breve, e poco insistita protesta, poi guardò con più attenzione la busta.
Il timbro era nitido.
Voltò le spalle ad
Aya-chan, pronto a partire a tutta velocità verso la località indicata, ma
la ragazza lo fermò appoggiandogli una mano sul braccio. Lui si voltò
infastidito, pronto ad allontanarla senza riguardo, ma lei lo lasciò
immediatamente, sorridendogli:
“Risolvete la questione,
Crawford-san… neanche tu puoi vivere così”.
Lui rimase a fissarla
sorpreso, ma lei sorrise ancora:
“Credi che sia stupida?
Vai e riportacelo! E, se conosco mio fratello, sii deciso: ricordati che
spesso con lui un no significa sì…”
Anche Aya-chan aveva
capito… Crawford scosse la testa, e ricambiò il suo sorriso, sollevando il
pollice mentre già si allontanava per raggiungere l’automobile.
Di nuovo un’autostrada,
di nuovo una corsa folle per ritrovarlo. Quasi due anni… stava diventando
pazzo.
Il posto era un piccolo
villaggio sul mare, poche case, un piccolo porticciolo, una comunità che
viveva sulla pesca.
Decise di proseguire a
piedi. Avrebbe facilmente trovato qualcuno che potesse dargli informazioni,
del resto una persona come Aya non si incontrava tutti i giorni, ma c’era
qualcosa che lo aveva tormentato durante quei due anni, un sogno ricorrente
in cui aveva riconosciuto i canoni di una premonizione, ma nel quale c’erano
troppo pochi particolari per costituire un appiglio per ritrovare Aya.
Prese la strada che
scendeva fino alla spiaggia. La costa era alta in quel tratto, anche
rocciosa in molti punti, però una lingua di spiaggia sabbiosa si ritagliava
il proprio spazio al termine del dirupo.
Scese in fretta, cercando
di evitare le rocce più appuntite, felice della scelta degli anfibi, e
finalmente raggiunse il mare. Camminò lungo la spiaggia, guardandosi
intorno. Si sentiva in un luogo già visto, eppure non riusciva ad anticipare
nessun particolare.
Non mancava moltissimo e
il sole sarebbe tramontato, esattamente come nei suoi sogni.
E fu allora che la vide…
la strana casa dallo spiovente tetto di lavagna, una costruzione bretone
trapiantata nel cuore del Giappone.
Fiori nel piccolo
giardino ritagliato a mezza costa, e poi lo stretto viottolo che scendeva
verso il mare.
Accelerò il passo: era
arrivato, lo sentiva.
Fece l’ultimo pezzo quasi
di corsa, e cominciò a inerpicarsi nuovamente tra le rocce. Eppure qualcosa
lo spingeva a guardare verso il mare.
E fu lì che lo vide…
Rimase immobile,
lasciandosi scorrere il vento caldo e dolce tra i capelli.
Era lì, bellissimo e
reale, nonostante tutto il resto sembrasse solo un sogno meraviglioso. Era
lì, seduto sulla spiaggia, a guardare il mare.
La pelle candida era
accarezzata dal sole gentile del tardo pomeriggio, e i capelli rossi
brillavano nel contrasto con i colori del mare e del cielo azzurro.
Rimase ad osservarlo
senza riuscire a muovere un passo: lo vide sollevarsi con la grazia di un
felino, e poi avvicinarsi all’acqua. Continuava a dargli le spalle, ma
qualcosa faceva capire a Crawford che il ragazzo era perfettamente cosciente
della sua presenza, che in qualche modo lo stesse aspettando. Era lui la
famosa questione in sospeso.
Lo vide entrare
nell’acqua, lentamente.
Sembrava che fosse in
corso uno strano gioco tra loro, quasi una sfida a distanza: Aya faceva
finta che lui non ci fosse, e lui rimaneva a guardarlo come se fosse solo
uno spettatore, come se stesse recuperando tutte le immagini che aveva perso
di quei due anni.
Una casa sul mare, una
strana casa per un ragazzo particolare, per il suo Aya.
Finalmente riuscì a
muoversi. Avanzò lentamente verso il bagnasciuga, si fermò vicino
all’asciugamano che l’altro aveva lasciato sulla spiaggia, e si sfilò gli
anfibi. I piedi nudi affondarono nella sabbia tiepida, quasi bevendo quel
senso di selvaggia soddisfazione che dà il liberarsi dai vincoli della
civiltà.
Aya continuava a dargli
le spalle, fermo nell’acqua che gli arrivava di poco sopra le ginocchia, i
pantaloncini rosso scuri appena lambiti dalle piccole onde.
Crawford non si fermò
quando il mare gli accarezzò la pianta dei piedi, e nemmeno quando gli
arrivò alle caviglie. Incurante dei pantaloni che gli si attaccavano alle
gambe, raggiunse l’esile figura immobile nel cono luccicante che il sole al
tramonto proiettava sulla distesa azzurra.
Gli si fermò alle spalle.
Lentamente gli passò le braccia intorno alla vita sottile, come per troppo
tempo aveva solo sognato, e lo strinse dolcemente.
Il corpo caldo e liscio
rabbrividì impercettibilmente al contatto, poi Aya si voltò.
Crawford non ebbe il
tempo di capire cosa stesse succedendo che si ritrovò completamente bagnato,
immerso nell’acqua fredda del mare, e con una guancia in fiamme per il pugno
ricevuto.
Lui, Oracle, famoso per
il combattimento a mani nude e per la capacità di non farsi mai cogliere di
sorpresa, seduto nell’acqua colpito da un diretto al volto… scosse la testa
cercando di riprendersi.
Sollevò lo sguardo sul
volto serio, sulle labbra tirate del ragazzo che aveva di fronte, come a
cercare di capire cosa fosse successo:
“Sei un bastardo,
Crawford, quello che hai fatto per Aya-chan non lo cancellerà mai!” si sentì
sibilare.
Lui si alzò a fatica,
lasciando che l’acqua gli scorresse in fiumiciattoli giù dai vestiti. Si
tolse gli occhiali, infilandoli lentamente nel taschino della camicia, come
se si preparasse all’ennesimo scontro con il leader dei Weiss.
Quante volte si erano
scontrati? Quante volte le carezze che si erano scambiati avevano solo
lasciato lividi sui loro visi?
Si avvicinò, chiaramente
minaccioso. Non si fermò finché non gli fu a pochi centimetri di distanza, e
allora gli afferrò le mani serrate a pugno. Lo guardò negli occhi,
stringendogli forte le dita sottili, ma non era finita: gli portò con
decisione le braccia dietro la schiena, bloccandolo tra le proprie e
stringendoselo contro il petto.
“Ti amo, stupido idiota!
Lo vuoi capire?!” gli sibilò, prima di annullare la distanza tra loro, ed
impedirgli una qualsiasi risposta.
Sentì l’altro scalciare,
agitarsi contro il suo corpo, acuendo il suo desiderio, morderlo per
resistere alla sua invasione. Ma era tutto inutile. Nel tentativo di
sfuggirgli, Aya aveva piegato la testa all’indietro, con l’unica conseguenza
di offrirglisi in una posa ancora più arrendevole e seducente.
Si spostò di un soffio:
“Prova a scapparmi di
nuovo e giuro che, quando ti ritrovo, ti chiudo in gabbia. Hai capito?” e
nelle sue parole era evidente soprattutto l’esasperazione per quei due anni
di lontananza, non la vuota minaccia.
“Non riuscirai mai a
legarmi, yankee…” si sentì ribattere gelidamente.
Un sorriso, forse un
ghigno, uno di quelli che da parecchio tempo non nascondevano più così tanto
divertimento:
“Se è una sfida, samurai,
preparati a perderla!” e di nuovo lasciò che fosse la propria passione a
parlare, anche se stavolta si permise di liberare le mani del compagno,
desiderando sentirgli addosso lo stesso trasporto.
E presto quelle braccia
sottili gli si strinsero intorno al collo, e i due si ritrovarono sdraiati
sul bagnasciuga, le onde che arrivavano ad accarezzarli gentili, mentre loro
non riuscivano a staccarsi, come se dovessero recuperare in pochi minuti
tutti i giorni perduti.
Quella strana casa che
lui aveva scelto di impulso, quando aveva deciso di nascondersi e cercare di
ricomporre la sua vita, era divenuta il loro regno nella settimana seguente.
Ed era stata testimone delle loro spiegazioni, delle giustificazioni, delle
scuse… e di tutti quei sentimenti che finalmente aveva deciso di smettere di
contrastare.
Eppure Aya non permise
altri racconti, nonostante non avesse più recuperato completamente la
memoria, dopo la cura di Tabase.
Aveva sprazzi di
ricordi, tanti pezzi di un puzzle che non sarebbe mai stato completo:
immagini che si riferivano alla sua infanzia, immagini della scuola a Sendai,
qualche incubo riguardante i Weiss, niente di più. Eppure era proprio questo
che Aya aveva difeso in quei due anni, il suo diritto a dimenticare tutte le
cose che avevano trasformato la sua vita in qualcosa di cui poteva solo
avere orrore. Gli ci era voluto tempo per accettare ciò che Crawford gli
aveva buttato in faccia di fronte al letto di ospedale di Aya-chan, gli ci
era voluto tempo per comprendere cosa gli rimanesse di importante, dopo che
la sua vita era andata di nuovo in frantumi, e in quelle giornate
interminabili passate sulla spiaggia, aveva capito che, forse, l’unica cosa
da salvare era proprio il rapporto con l’Americano.
Lo aveva odiato per
averlo ingannato, lo aveva odiato per avergli dato delle illusioni e per
essersele poi riprese senza pietà, ma aveva anche capito che i sentimenti di
Crawford erano sinceri: quanto sarebbe stato più facile continuare quella
farsa? Eppure il leader degli Schwarz non lo aveva fatto, e non per la gioia
di umiliarlo, quanto per provare a ricostruire delle basi ‘oneste’ tra loro.
Quei baci, quegli sguardi non potevano essere completamente falsi… e poi si
era preso cura di Aya-chan, l’aveva aiutata, e non aveva mai smesso di
cercarlo.
Quante volte aveva
pensato di bruciare quella lettera che aveva ricevuto nella reception
dell’ospedale, e quante volte aveva invece finito per rileggere quelle
righe, cercando di cogliere spunti di inganno e malafede, e inciampando
sempre in quelle ultime parole?
“Sono stato da sempre
abituato a pensare solo al risultato, in qualsiasi modo potessi ottenerlo.
Ho sempre riflettuto poco sulla necessità di usare dei mezzi onesti, leciti…
ho sempre considerato queste cose dei pensieri sentimentali, da sciocchi. E
non pensare che tornerei indietro: quello che desideravo era amarti e darti
una vita normale, e per farlo ti ingannerei ancora, ma questa volta ho
capito che a volte il mezzo porta umiliazione, e poi dolore, ed io non posso
sopportare che tu soffra.
Posso dirti che ti
amo, e potrebbe sembrarti una spiegazione che non conta nulla, eppure questo
amore è la cosa più importante che io abbia mai posseduto.
E’ bello amarti, Aya…
è bello amare.
Un giorno te ne
accorgerai, e io sarò lì”.
Aya aveva bisogno di
sentirsi amato, e aveva bisogno di amare. La bellezza di quel sentimento lo
aveva catturato in quella strana settimana che rappresentava il suo unico
ricordo completo.
A volte sentiva la
mancanza delle battute di Schuldig, a volte della serietà e solitudine di
Nagi, a volte anche delle frasi improvvise e definitive di Farfarello… e si
domandava cosa stessero facendo, senza di lui.
E poi davanti ai suoi
occhi si materializzava proprio l’immagine di Brad Crawford.
Un Brad Crawford che in
quel momento stava osservando il corpo addormentato di Aya, steso nel letto
accanto al proprio.
Non riusciva a credere di
averlo ritrovato, di averlo vicino, di aver appena fatto l’amore con lui.
No, sembrava impossibile.
Eppure…
Gli accarezzò la spalla
nuda, risalendo con il palmo sulla clavicola, sulla gola. Gli sfiorò le
labbra, poi raggiunse la piccola conchiglia da cui pendeva il lungo
orecchino d’oro:
“Finalmente ti sei
arreso, Weiss” gli mormorò, sostituendo le dita con le labbra, mentre la
mano affondava nella morbida massa cremisi. Era incantato da quei capelli
così cresciuti nei due anni di lontananza… il momento in cui aveva sciolto
la treccia che li imprigionava e vi aveva affondato le dita, pettinandoli,
aveva rappresentato il coronamento di un desiderio nato nel momento in cui
lo aveva scorto sulla spiaggia.
Aya aprì gli occhi
violetti, guardandolo corrucciato. Sembrava proprio che sfidarlo fosse un
metodo infallibile per farlo reagire.
“Sei sempre un bastardo”.
“Nella tua bocca anche
gli insulti si trasformano in fiori…” lo prese in giro, giocando anche sulla
precedente attività di fioraio.
Quelle braccia sottili
spesso ingannavano, visto che nascondevano muscoli d’acciaio, quei muscoli
che ora lo stavano spingendo via.
Riuscì a resistere
all’assalto, e, anzi, la lotta improvvisa gli permise di stringere
l’abbraccio:
“Non ho intenzione di
lasciarti più andare. Sei mio” gli mormorò, cominciando a baciargli il
collo.
Ma Aya si ritrasse,
cercando di ristabilire una distanza accettabile:
“Brad, non si è tutto
magicamente risolto, lo sai, vero?”
Lui non rispose, anzi,
tornò alla carica.
“Brad… BASTA!”
Si fermò, che diavolo
stava succedendo? Finalmente, dopo due anni, erano di nuovo insieme, perché
doveva interromperlo?!
Si tirò a sedere,
appoggiandosi con la schiena contro i cuscini. Poi, con un movimento fluido,
si portò l’altro in grembo, forzandolo ad appoggiarglisi contro il petto:
“Cosa c’è, non ti piace?”
Avrebbe quasi potuto
giurare di aver visto il compagno arrossire leggermente… e proseguì:
“Mi hai dato un pugno, mi
hai riempito di lividi e mi hai detto che sono un bastardo. Pensavo che le
questioni principali fossero sistemate…”.
“Piantala di fare
l’idiota! Pensi che possa dimenticare cosa sei… e cosa sono io?”
“Un Weiss e uno Schwarz.
Potremmo essere dei novelli Romeo e Giulietta… o forse Romeo e Romeo?”
Crawford sembrava animato
da un insospettabile senso dell’umorismo, quella sera.
“Due assassini, di cui
uno ha ucciso i genitori dell’altro” gli rispose Aya, gelido. C’era stata
una quasi impercettibile esitazione prima di pronunciare la parola
genitori.
Lui tornò serio,
continuando a passargli le dita tra i capelli che gli arrivavano quasi alla
vita:
“Non ho ucciso i tuoi
genitori, Aya, ma sono stato la guardia del corpo di chi lo ha fatto, lo sai
bene”.
“IO NON SO NIENTE! Non
ricordo niente, e…” si interruppe, abbassando la voce fino a trasformarla in
un sibilo “…non voglio più ascoltare bugie, Crawford”.
“E’ stata una missione
affidata agli Schwarz, hai ragione. Posso dirti che io non c’ero, ma ha poi
importanza? Non ho ucciso i tuoi genitori, ma ho ucciso molte altre persone,
era il mio mestiere. Chi uccide non può che lasciare vedove e orfani…”
“Stai dicendo che anche
io mi sono macchiato della stessa colpa?! Non provare a rovesciare su di me
le tue ignominie!”
“Non lo stavo facendo. Ho
detto solo che ho commesso una infinità di errori, che molte persone
innocenti hanno pagato per il nostro delirio di onnipotenza. Puoi farmi una
colpa a vita di quello che ho fatto, e puoi anche rimproverare te stesso per
avermi ceduto… ma questo non ti farà stare meglio. Ci è stata data una
possibilità, Aya, l’occasione di provare a ricominciare da capo. E’ il
momento di vivere, di cercare di riparare. Possiamo chiuderci in un eremo, e
scontare in solitudine i nostri peccati, ma possiamo anche cercare di
riprendere in mano la nostra vita, e tentare di fare qualcosa per riparare
il male che abbiamo commesso.
Il sentimento che provo
per te mi ha spinto più di qualsiasi senso di colpa sulla strada di una
rinascita... perché non provare a percorrerla, invece di scappare e sentirci
in colpa per il fatto di provare ancora dei sentimenti, per essere felici?
Vuoi che ti riveli quanto
siano grandi e gravi le mie colpe? Ci prenderà l’intera nottata, ma posso
farlo…”.
Crawford si interruppe,
vedendo gli occhi serrati di Aya, le mani strette a pugno:
“Aya… tua sorella sta
bene, nessuno di noi è più un assassino, tu sei di nuovo Ran…”
“No! Io non lo sarò mai
più!” lo sguardo rabbioso di quegli occhi gli riportò alla mente Abyssinian
in battaglia.
Rimasero in silenzio,
occhi negli occhi. E dopo un tempo che poteva essere stato lunghissimo o
anche brevissimo, Crawford parlò di nuovo:
“Vuoi che me ne vada, Aya?
Lo vuoi veramente?”
“Sei pronto? Possibile
che tu sia sempre l’ultimo?!” la voce di Aya-chan echeggiò nel corridoio,
allegra e un po’ querula. A volte le piaceva comportarsi da donna con il
fratello, le sembrava di tornare indietro negli anni, non di tanti, visto
che quattro erano passati senza che lei se ne accorgesse, ma comunque
ritornare ad un passato lontano, quando i suoi bronci e gli occhi riempiti
ad arte di lacrime riuscivano a convincere Ran a fare qualsiasi cosa.
Ran…
Era cambiato, non era
certamente più il ragazzo che la accompagnava alle feste estive al tempio,
aveva perso parte della propria allegria, della propria fiducia negli altri,
lo si leggeva nel suo sguardo duro, capace di intimorire chiunque.
Ma c’erano anche i
momenti in cui il vecchio adolescente gentile e un po’ timido tornava a
galla, ed erano momenti dolci e malinconici, che apparivano come
l’improvviso risveglio di uno spirito scomparso.
“Oniichan! E’ quasi ora!”
Le piaceva quando poteva
trascorrere qualche giorno a casa con il fratello: poteva accudirlo,
rimproverarlo dolcemente della sua scontrosità e silenziosità, poteva
scardinare il suo ordine perfetto, con il puro scopo di divertirsi nel
vedergli un’espressione falsamente adirata, per poi scoppiare a ridere
insieme.
Il campanello suonò, e
lei si precipitò verso la porta.
Quando tornava dal
collegio per rimanere qualche giorno con Ran, lui la raggiungeva nel piccolo
appartamento, valige alla mano, lasciando la grande villa del quartiere
residenziale. Era un’iniziativa che aveva preso da solo, senza chiederle
alcun parere, senza permetterle di opporvisi. E così, quando poi dovevano
uscire, l’altro doveva passare a prenderlo lì, come se non vivessero
insieme da mesi.
In qualche modo, rideva
lei, era come se fossero tornati fidanzati adolescenti, invece che giovani
conviventi.
Aprì la porta, e sorrise
raggiante:
“Entra! Sta ancora
finendo di prepararsi!! Non è meraviglioso che, dopo tanto tempo, abbia
ancora così tanta voglia di farsi bello per te?” disse ridendo, conducendo
il nuovo arrivato nel soggiorno.
Non fecero in tempo a
sedersi sul divano, che Ran scese le scale, in un elegante completo scuro.
I pantaloni neri dritti,
la maglietta di seta bianca a collo alto sotto la giacca corta, leggermente
avvitata, e poi il cappotto lungo da ufficiale russo piegato sotto il
braccio: Aya-chan batté le mani soddisfatta. Del resto non era stata una sua
idea farlo vestire così? E poi era un’occasione importante, una grande festa
di beneficenza alla Soichiro Honda – Foundation ... i giornali ne avrebbero
parlato per giorni!
Ran le restituì uno
sguardo seccato, mentre si dirigeva verso la porta, senza quasi guardare
l’uomo che era passato a prenderlo.
“Neanche un bacio,
fratellino?” gli disse lei, maliziosa.
Lui le si avvicinò,
premendole leggermente le labbra sulla fronte, e lei rise, divertita:
“Non a me!
A Bradley-san!”
Vide gli altri due far
finta di non averla sentita: era incredibile quanto Ran fosse pudico, come
rifuggisse qualsiasi scambio di effusioni con il compagno in sua presenza…
ma qualche soddisfazione lei se l’era presa, piombando nella loro casa nei
momenti più impensati. E allora aveva scoperto che il fratello sapeva anche
essere affettuoso e passionale.
Li guardò salire sulla
Porsche nera dalla finestra della camera da letto… sospirò, invidiava un po’
la loro vita: belli, felici, ricchi e famosi.
Con un altro sospiro si
buttò sulla poltrona, afferrando il telefono. Digitò il numero, e subito
sentì la voce del ragazzo che da quando si era svegliata dal coma aveva
riempito i suoi sogni, ma di cui non aveva ancora avuto il coraggio di
parlare a Ran:
“Sì, sono appena andati
via. Già, da sola tutta la notte… ti va di chiacchierare? L’ultima volta mi
stavi raccontando della tua infanzia…”.
Si rilassò contro il
divano, mentre la voce roca del ragazzo cominciava a cullarla:
“Odiavo il mio nome, come
tutti mi indicassero mormorandolo. Decisi di non essere più Jei, quel giorno
stabilii che mi sarei fatto chiamare Farfarello…” cominciò la persona
all’altro capo del filo.
“Quando torna in
collegio?”
Brad non aveva distolto
gli occhi dalla strada, ma aveva allungato una mano fino a stringergli la
sua.
Lui non rispose. Gli
arrivi di Aya-chan erano qualcosa che l’altro sopportava sempre più
malvolentieri. Diceva di odiare il fatto di dormire solo, ma lui sapeva che
non era solo questo. Quando, mesi prima, nella casa sulla spiaggia non era
riuscito a farlo andare via, aveva capito che avrebbe dovuto accettare anche
alcune sfaccettature del carattere dell’Americano tutt’altro che liete, e
tra queste possessività e gelosia.
E Brad era geloso di
tutti, indistintamente.
Nella villa, aveva diviso
la loro ala da quella occupata dagli altri Schwarz, perché non desiderava
averli sempre intorno, aveva detto, ma più probabilmente perché non
sopportava la presenza di Schuldig e il suo continuo giocare con i pensieri
altrui, soprattutto con quelli di Aya.
E poi, quando lui aveva
deciso di andare al Koneko per spiegare quello che era accaduto ai vecchi
compagni, aveva cercato in ogni modo di impedirgli di andare da solo.
Ma quella volta lui non
aveva ceduto, anche se in altre circostanze lo aveva fatto, per il solo
amore del quieto vivere.
“La prossima settimana,
dopo capodanno” gli rispose bruscamente, sperando di chiudere il discorso.
“Penso che a volte le
converrebbe rimanere alla scuola, durante le vacanze. Quest’anno si diploma
e deve capire che dovrà studiare parecchio, con tutto il tempo che ha
perso”.
Aya non replicò nemmeno.
Fiato sprecato…
“Come è andata la
riunione con la Kazuki? Hai mostrato la tua anima da squalo?” gli chiese
invece.
Da quando erano tornati
insieme, aveva cominciato ad aiutarlo negli affari, e piano piano aveva
cominciato ad appassionarsi… chissà, forse lo aveva nel sangue, una eredità
paterna gli diceva la sorella.
Crawford sfoderò uno dei
suoi ghigni:
“Hanno firmato. Ma non
c’erano dubbi, tra te e me non hanno avuto scampo! In borsa, oggi, era già
sulla bocca di tutti”.
Anche Aya sorrise. Aveva
seguito la trattativa, ma non gli piaceva assistere alla chiusura dei
contratti. Quando vedeva Brad in azione, gli sembrava sempre uno squalo
pronto ad affondare i denti nella carne viva del malcapitato di turno.
Non mancava molto al
palazzo che ospitava la Fondazione, ma Crawford accostò lungo il
marciapiede, voltandosi verso di lui; gli sollevò il viso prendendogli il
mento nella mano:
“Ti ho mai detto che ti
amo, Aya?” gli chiese sorridendo.
“Mpf…” rispose lui,
eppure non era proprio sincera come espressione di fastidio. E infatti,
quando l’altro si sporse su di lui per baciarlo, gli passò le braccia
intorno al collo, stringendolo forte.
“Possiamo anche saltare
questa noia mondana, e andare in un posto più appartato…” gli propose
l’Americano, accarezzandogli la banda di capelli al lato del viso, sfuggita
come sempre alla lunga treccia.
Lui sorrise, ma scosse la
testa:
“Vuoi per caso che il
grande Brad Crawford diserti per un giorno le prime pagine dei giornali?” lo
prese in giro.
Anche l’altro sorrise,
riavviando il motore.
“YOHJI!!! Sbrigati, c’è
Aya in televisione!!!”
La voce trapanante di Omi
riecheggiò in tutta la casa, non lasciando scampo a nessuno dei suoi
occupanti.
Kudoh si diresse verso il
soggiorno, appoggiandosi contro il muro. Non era certo la prima volta che
vedeva Aya sullo schermo. Spesso le pagine economiche dei telegiornali
riportavano le mirabolanti imprese di Brad Crawford, il mago della finanza.
E quindi, come tacere il nome di Ran/Aya Fujimiya, membro del consiglio di
amministrazione, suo braccio destro nonché fidanzato ufficiale?
Già, perché lo yankee non
lesinava dimostrazioni di affetto verso la sua conquista, esibendola come un
trofeo: Aya come poteva sopportarlo?
Li vide avanzare verso
l’ingresso della Fondazione Honda.
Aya indossava lo stesso
cappotto che aveva il giorno in cui era andato al Koneko no Sumu Ie, proprio
il giorno in cui aveva detto che, nonostante non ricordasse bene molti
avvenimenti, sapeva quanto loro tre fossero stati importanti per lui, e
aveva chiesto di comprendere la sua scelta di vivere con il leader
dell’organizzazione rivale.
Era stato il giorno in
cui aveva picchiato l’unica persona che avesse mai amato… già, gli aveva
dato un pugno e lo aveva chiamato ‘puttana’, per poi scappare dal negozio e
rifugiarsi a bere in un bar, e risvegliarsi in un letto di uno squallido
alberghetto, accanto ad una ragazza sciocca e volgare, ma che aveva l’unico
pregio di non ricordargli in alcun modo l’algido leader.
Li vide percorrere il
corridoio, aperto dal servizio d’ordine attraverso una folla di curiosi e
giornalisti, mano nella mano… Aya più indietro, quasi fosse leggermente
guidato dal compagno.
Alzò il bicchiere,
sorridendo ironico e suscitando una immediata occhiata di stupore e
disapprovazione nel piccolo Bombay. No, non avrebbe più picchiato Abyssinian…
non ne avrebbe più avuta l’occasione:
“The winner takes it all…”
mormorò prima di vuotare il primo bourbon della serata.
UNA NUOVA VITA –
The End
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