Per Nausicaa, Ria, Calipso, Kamui, Angie e Kira.

Tutti i diritti della serie Weiss Kreuz sono del Project Weiss e di Koyasu Takehito (altresì detto ‘il sorriso che uccide’).

Un ringraziamento particolare a Nausicaa e Kamui, per sostegno, suggerimenti, correzioni.

Buona lettura.

 


Una nuova vita

parte IV

di Greta


 

Era sembrata una serata interminabile, ma finalmente era di nuovo a casa.

Si diresse subito verso la camera da letto: aprendo la porta e vedendo Aya addormentato sotto le coperte, sentì una strana pena. Si avvicinò lentamente, sedendoglisi poi accanto, sul bordo del materasso.

L’altro scattò a sedere non appena si accorse della sua presenza, gli occhi ancora addormentati ma il corpo subito teso, in posizione di difesa:

“Sei tornato… che ore sono?” mormorò, sbattendo ancora gli occhi nel tentativo di riacquistare lucidità.

“Quasi le quattro. Non volevo svegliarti” gli rispose lui, passandogli le dita tra i capelli.

Cominciò a spogliarsi, rimanendogli seduto accanto: la giacca, la cravatta, la camicia. Presto si ritrovò solo con la biancheria. Sapeva che il suo poteva sembrare un comportamento minaccioso, ma questo non lo fermò. Scivolò al fianco di Aya, passandogli le mani intorno alla vita:

“Stringimi, amore…” mormorò, sapendo che presto non avrebbe più potuto chiederglielo.

Sentì quelle braccia sottili salire fino a circondargli il collo, e la testa di Aya appoggiarsi sul suo petto. Fu lui a sollevarlo, a baciarlo con un impeto, una passione che aveva sempre contenuto per non spaventarlo. L’adrenalina salita con il pericolo della missione di quella sera, si fece sentire. Presto si lasciò trasportare dall’istinto: scavalcò il compagno fermandoglisi sopra, in un movimento fluido effettuato senza staccargli la bocca dalle labbra morbide.

Nervosamente cominciò a slacciare i bottoni di quel pigiama che si stava rivelando un intralcio, e poi le sue mani scesero fino alla cordicella che teneva chiusi i pantaloni di Aya.

Sentì quasi subito le sue dita sottili sulle proprie mani bollenti. Sollevò lo sguardo su quel viso pallido, a cercare di capire il perché di quella interruzione.

Aya non parlò, gli sollevò le braccia fino a riportarsele intorno al petto e poi portò le proprie a cingergli il collo.

“Amore…” provò a sussurrargli lui, mettendo in quell’unica parola desiderio, rimprovero e minaccia.

Ma il compagno chiuse gli occhi, scuotendo la testa.

Sarebbe potuto andare fino in fondo, ed era certo che, alla fine, all’altro non sarebbe dispiaciuto, ma aveva imparato una cosa importante, in quei giorni che avevano passato insieme: quel sentimento che provava per Aya non era desiderio, non solo, come non era solo ammirazione e stima. Lui lo amava e lo rispettava, e questo, oltre alla pericolosità della katana tra le sue mani esperte, gli impediva di forzarlo a fare qualsiasi cosa.

 

Dormì male, ad intervalli, svegliandosi di tanto in tanto, tranquillizzato solo dal rumore del vento e di una pioggia sottile che doveva essere cominciata a cadere verso l’alba, e dalla presenza confortevole del corpo di Aya stretto contro il proprio.

Si svegliò definitivamente verso le dieci, accorgendosi di essere rimasto solo, nel letto.

Si dice che i problemi che sembrano inaffrontabili di notte, la mattina risultino meno insormontabili, come se il sonno avesse davvero la capacità di portare consiglio. E invece, quella mattina a lui portò solo la consapevolezza di stare per perdere la cosa più importante che avesse mai posseduto.

Quando entrò in cucina, vide Aya seduto al tavolo, con la colazione quasi intatta, un’aria assorta e lo sguardo distrattamente posato sui barattoli che ingombravano la credenza.

Gli si avvicinò lentamente. Passandogli alle spalle per raggiungere uno scaffale, gli passò le dita tra i capelli morbidi.

Con la tazza bollente di caffè solubile, gli si sedette accanto. Quando vide il compagno allungare la mano verso la boccetta di pillole prescritte dal dottor Tabase, gliela coprì con la propria, per poi impossessarsi della medicina:

“Non ne hai bisogno” gli disse, allontanando il finto farmaco.

Allo sguardo interrogativo e sospettoso di Aya rispose scuotendo la testa:

“Anche questo fa parte della spiegazione… prepariamoci, devo portarti in un posto, prima di cominciare”.

Si vestirono con calma, quasi entrambi volessero prolungare quel momento in cui sapevano ancora quale fosse l’equilibrio che li legava, mentre dopo poche ore poteva essere accaduto di tutto.

Crawford tirò fuori la Porsche. Imboccarono la litoranea, verso nord.

Fecero il viaggio in silenzio, il tempo grigio, piovoso, ispirava meditazioni solitarie, e loro non scambiarono una parola per tutte le due ore del tragitto.

Era in qualche modo uno spreco di tempo, Crawford contava i minuti, sperando si prolungassero, che il tempo si dilatasse, allontanando quel confronto che, anche senza premonizioni, sapeva bene avrebbe portato all’allontanamento di Aya.

Si fermarono di fronte ad un alto cancello nero. L’Americano mormorò qualcosa nel citofono, e le ante cominciarono ad aprirsi lentamente.

Entrarono. Il grande parco, sotto la pioggerellina fitta, sembrava brillare di colori quasi primaverili.

Parcheggiarono nell’ampio spiazzo coperto di ghiaia, e finalmente Aya poté leggere nel cartello vicino al portone principale che si trovavano all’interno del complesso della Clinica Universitaria Mitsugumi.

Entrarono, i loro passi che risuonavano sinistri sul pavimento lucido. Camminarono in silenzio, entrambi ormai proiettati verso quello che sarebbe seguito, e quell’ultimo tratto sembrava l’ultimo ostacolo da superare.

“Posso esservi utile?” li apostrofò l’infermiera dell’accettazione.

Crawford si avvicinò deciso:

“Dobbiamo far visita alla stanza 402” scandì lentamente.

La donna controllò sul monitor:

“Quarto piano, il corridoio di destra. Volete mostrarmi un documento?”

L’americano tirò fuori il portafoglio, sbrigando le pratiche burocratiche, poi si riavvicinò ad Aya:

“Vieni, siamo quasi arrivati”.

Rimasero in silenzio anche in ascensore. Perché erano andati in un ospedale? Cosa potevano trovare laggiù di così importante relativamente alla sua vita passata?

Stanza 402. Entrarono silenziosamente.

Nell’alto letto coperto da una trapunta bianca giaceva una ragazza. Era stesa, immobile, con gli occhi chiusi e una maschera per l’ossigeno a coprirle naso e bocca, e altri tubicini che le uscivano dal braccio e dal pigiama giallo.

Aveva la carnagione chiara e i capelli castani legati in due lunghe trecce.

Aya si avvicinò, fissandola lungamente. Per un istante allungò una mano, quasi avesse avuto la tentazione di sfiorarla, poi però si ritrasse, voltandosi per guardare il compagno:

“Chi è?” chiese, una piega tra gli occhi, a dimostrare la sua tensione.

Crawford si abbandonò su una delle due poltroncine accanto al letto:

“Lei è Aya” rispose, lasciandosi accogliere dallo schienale morbido “Aya Fujimiya… tua sorella” aggiunse poi.

Portò gli occhi in quelli affilati del compagno:

“Hai una sorella. E’ in coma da quasi tre anni. C’è stato un incidente, i tuoi genitori sono morti, lei è rimasta in questo stato. Tu sei stato l’unico a salvarti. Prima era in un altro ospedale, l’ho fatta spostare io, qui. Ritengo che possa essere seguita meglio, ma non è solo questo…”

Si prese una breve pausa prima di ricominciare a parlare, ben consapevole dello sguardo sorpreso dell’altro:

“Ritengo che tutto sia cominciato con l’incidente. Il tuo vero nome è Ran, lo hai cambiato quando sei entrato a far parte dei Weiss, una organizzazione di…” si interruppe, cercando il viso di Aya “E’ difficile dirti tutto insieme” mormorò.

“Continua” gli sussurrò l’altro, continuando a guardare la ragazza stesa sul letto.

“Volevi vendicare la tua famiglia. Il responsabile dell’incidente si chiamava Reiji Takatori. Volevi ucciderlo, era la tua ragione di vita. Sei stato reclutato da una associazione che si vanta di sconfiggere le ‘bestie che operano nelle tenebre’. Avevi bisogno di soldi, e avevi bisogno di qualcuno che ti aiutasse a trovare Takatori. L’organizzazione Kritiker ti ha dato questo, o per lo meno questo è ciò che ti ha promesso. Sei stato addestrato, e poi sei approdato nel gruppo dei Weiss, di cui fa parte quel ragazzo che hai visto ieri mattina, Kudoh Yohji…” pronunciò questo nome con disprezzo “…uccidete le persone che si sono rese colpevoli di crimini, ma che non possono essere catturate e punite secondo le usuali procedure. In qualche modo vi considerate il braccio armato di una Giustizia quasi ultraterrena”.

Rimasero un momento in silenzio, quasi a prendere coscienza di quelle parole che ancora galleggiavano tra loro.

“Stai dicendo che… sono un assassino?” Aya lo aveva chiesto con un tono metallico, freddo, quasi stesse parlando di qualcun altro.

Lui annuì:

“La katana… la usi per uccidere”.

Scorse un lampo di disgusto in quel viso che appariva ancora più pallido del solito:

“E tu? Cosa hai a che fare con tutto questo?!” si sentì poi chiedere a voce bassa.

Crawford scosse la testa:

“Nagi, Farfarello, Schuldig ed io operavamo per un’altra organizzazione. Il nostro nome è Schwarz”.

“Ma… e la tua società?” il ragazzo aveva tradito per un istante la propria sorpresa, ma poi riprese l’espressione seria: “Vuoi dire che tutto quello che ho visto non è vero? E’ tutta una facciata?”

“E’ tutto vero. Non siamo solo dei sicari, anzi… non lo siamo quasi più” spiegò.

Aya lo guardò fisso negli occhi:

“Quanto c’è di vero in quello che mi hai raccontato della nostra vita?” gli chiese a bruciapelo.

L’Americano distolse lo sguardo, sfilandosi gli occhiali:

“Quasi niente, Aya. Ti ho costruito la vita che mi sarebbe piaciuto vivere con te” replicò stancamente, quasi a difendersi dalle accuse dell’altro “Schwarz e Weiss hanno sempre operato su fronti opposti. Noi eravamo le guardie del corpo di Reiji Takatori. Ogni volta che io e te ci siamo incontrati, abbiamo combattuto l’uno contro l’altro” ammise calmo.

Stavolta lo sguardo di Fujimiya rivelò la sua incredulità:

“Le guardie del corpo dell’uomo che ha sterminato la mia famiglia?! Come puoi dirlo con tanta tranquillità!”

Crawford chiuse gli occhi:

“Per noi era lavoro. Ha significato soldi, sentirci accettati…” mormorò.

L’altro gli rivolse solo una smorfia di disprezzo, poi insistette:

“Come ho perso la memoria? Perché non mi hai ucciso, invece di umiliarmi?!”

“Non capisci! Ucciderti… come se io potessi farlo.

Hai avuto un incidente durante una missione con i Weiss. Schuldig ti ha trovato e ti ha portato a casa. Non ti piacerà saperlo, ma ha sempre avuto un debole per te, e le sue intenzioni non erano proprio innocenti…”

“Ma tu sei il loro leader, e come si dice: ubi maior…” suggerì l’altro sarcasticamente.

“Ogni volta che ti ho detto di amarti, l’ho fatto sinceramente” lo disse guardando Aya dritto negli occhi, sfidando l’altro a leggere falsità nelle sue parole “Avevo previsto il tuo arrivo, per me è stato un regalo, un’occasione inaspettata. Potevamo cominciare tutto da zero, senza sangue, rivalità, combattimenti. Per te diventavo solo Brad…”

L’altro sorrise ironico:

“Commovente davvero! E quindi le foto, la nostra stanza, tutti i racconti… solo un’invenzione!”

“Volevo regalarti una vita felice, normale”.

In risposta ebbe uno sguardo rabbioso, e poi la domanda:

“Perché mi hai curato? Non temevi che, con la memoria, avrei scoperto tutto?”

“Le pillole servivano proprio per non farti ricordare nulla. Il medico fa parte della nostra organizzazione”.

“E non avevi paura neanche della reazione dei miei ‘padroni’?”

“Ti avevo riscattato”.

L’altro ci mise un po’ per afferrare il senso di quelle parole.

“Vuoi dire che hai pagato?! Mi hai comprato?”

Crawford annuì:

“Era l’unico modo per tenerli lontani, anche se poi i tuoi compagni hanno agito indipendentemente dagli ordini che hanno ricevuto”.

Rimasero in silenzio. L’unico rumore rappresentato dal respiratore che teneva in vita la ragazza stesa sul lettino.

“Non riesco a crederti… sembra tutto assurdo. E io non riesco a ricordare nulla!”

“Mi dispiace, Aya. Non volevo che andasse così…” mormorò lui, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia.

Anche il compagno si sedette, quasi che quello che si erano detti fosse troppo anche per uno scoppio di rabbia. Rimaneva una incredulità, una disperazione muta, e per questo più straziante:

“Perché hai deciso di dirmi tutto? Non potevi continuare con il tuo inganno? Non avrei scoperto niente…”

Sembrava quasi che nascosto molto in fondo ci fosse qualcosa di simile ad un rimpianto.

“Non era giusto”.

“A questo punto, sentirti parlare di giustizia diventa quasi comico” ribatté il ragazzo più giovane, pur senza essere sprezzante, solo triste.

“Aya…” gli si rivolse lui, voltandosi a guardarlo negli occhi.

“Mi hai appena detto che non è neanche il mio nome…”

“Aya, ti chiedo solo una cosa: pensaci prima di prendere qualsiasi decisione. Ricordati questi giorni che abbiamo passato insieme. Non buttare via tutto. Il contorno era falso, ma quello che ci legava era autentico. Non spazzarlo via come se non valesse niente” gli chiese. Ed era la prima volta che Brad Crawford chiedeva e non ordinava.

“E’ troppo tardi”.

L’Americano rimase immobile, come se desiderasse che quella non fosse la fine.

“Vai via” gli mormorò il compagno, senza guardarlo.

“No, Aya… io…”

“Devo pregarti? E’ questo che desideri?”

Non c’era speranza, in quelle parole. Quante volte era stato tradito, ferito Ran Fujimiya nella sua vita? E ogni volta doveva averlo lasciato più solo della precedente…

Crawford si alzò in piedi, gli si portò di fronte, chinandosi davanti a lui. Allungò una mano fino a catturargli le dita, ma Aya le liberò subito, fissando uno sguardo freddo e vuoto nel suo.

“Vado via. Ma non esco dalla tua vita: sei troppo importante per me, non posso perderti” gli promise, o forse lo minacciò, lasciando la stanza con un ultimo sguardo alla ragazza addormentata che aveva assistito a tutto senza un movimento.

 

Non poteva ancora crederci. Tutto era andato in frantumi, davanti ai suoi occhi. Si sentiva come se mille spilli gli fossero stati infilati nella pelle, sentiva di non avere la forza di reagire, ma neanche di comprendere veramente quello che gli era stato detto.

Era meglio non avere una vita, che accettare ciò che quel bastardo gli aveva detto.

Perché gli aveva ricostruito una vita normale, per poi buttargli addosso, senza pietà, nel momento in cui era meno in grado di sopportarne l’urto, quelle parole terribili?

Sollevò lo sguardo, quel tanto da vedere la base del treppiede che sosteneva la flebo. Aveva una sorella, ma neanche lei poteva essergli di aiuto, l’enorme peso doveva portarlo da solo.

Quanto doveva essere stato disperato per diventare assassino per vendicarla? Come doveva essere stata la sua vita, alimentata solo da ansia di vendetta?

Odiava il ragazzo descritto da Crawford… odiava Crawford per averlo illuso e poi rigettato nel fango. Doveva essere stata una bella soddisfazione, dargli delle false certezze e poi distruggerlo.

Aveva gli occhi asciutti, aridi, eppure avrebbe desiderato il sollievo delle lacrime. Evidentemente doveva essere abituato a portare pesi, a caricarsi di responsabilità se neanche gli era concesso di potersi abbandonare alla disperazione.

Un assassino… si guardò le mani pallide, le dita lunghe, affusolate. A questo gli era servita l’abilità nel kendo? Per togliere la vita? Per un’unica persona, aveva deciso di macchiarsi del sangue di molti.

Sentiva gli occhi bruciargli, ma erano asciutti, aridi. Si sentiva reso completamente insensibile da come gli appariva la sua vita. Dolore, odio, vendetta e sangue… ecco cos’era, un essere inumano.

Alzò lo sguardo sulla ragazza immobile davanti a sé: allungò lentamente una mano, a sfiorarle il braccio scoperto. La ritrasse subito, come se si fosse scottato; gli sembrava di aver lasciato un’impronta infuocata su quell’anima pura. Si accorse che tra le dita le brillava qualcosa di metallico. Un orecchino, un orecchino uguale a quello che portava lui.

Ed ora cosa doveva fare? Andare a riempire i buchi della propria memoria tornando a far parte di quel gruppo di assassini che avevano soddisfatto la sua ansia di vendetta? Ricominciare la vita di prima? Dimenticare di essere una persona, e tornare una macchina di morte?

Si guardò ancora una volta le mani… pallide, sottili. Un angelo, lo aveva definito una volta Farfarello con uno dei suoi sguardi più invasati, e a lui era sembrato un paragone inquietante.

Un angelo, un angelo della morte.

 

Lo aveva scacciato, non gli aveva dato neanche una possibilità… ma poteva davvero aspettarsi altro? Lo aveva ingannato in ogni modo, ogni sua parola era stata una bugia, e adesso pensava che tutto potesse finire con un ‘ti perdono’? Non era uno squallido film sentimentale, e lui non avrebbe conquistato la persona amata, contro ogni aspettativa.

Si avvicinò all’automobile sollevando la testa per guardare ancora una volta quella finestra aperta da cui si scorgevano fluttuare le tende bianche.

Tornò in fretta all’interno dell’ospedale, fermandosi di fronte al banco della reception.

Sfilò la busta spessa che teneva nella tasca interna dalla sera precedente, da quando aveva cominciato a temere per il proprio futuro insieme ad Aya, e la porse all’infermiera.

Uscì velocemente, senza più guardarsi indietro. Non poteva fare altro, ma sapeva che non avrebbe lasciato le cose in quella situazione.

Aya sarebbe tornato con i Weiss? Era molto probabile, e probabilmente avrebbe anche cercato di vendicarsi delle illusioni che lui gli aveva dato… e questa era la sua segreta speranza, che le loro strade si incrociassero di nuovo: a quel punto avrebbe saputo dimostrare la sincerità dei propri sentimenti. E poi, in fondo, cosa aveva fatto di tanto grave? Aveva sostituito una vita di sofferenza e disperazione con qualcosa di infinitamente più tranquillo e piacevole. E sapeva che in qualche modo era riuscito anche a conquistare un po’ della fiducia di quel ragazzo che non concedeva nulla a nessuno. Quando avevano dormito vicini, abbracciati, quando si erano baciati, quando avevano ballato insieme, aveva sentito l’altro sciogliersi, rilassarsi. E come dimenticare quei pochi sorrisi che era riuscito a strappargli? In quanti potevano dire di aver avuto lo stesso successo?

Quanto c’era stato di egoismo in quello che aveva fatto? Quanto del desiderio di rendere l’altro felice costruendo quella farsa era dovuto al proprio desiderio di trovare finalmente qualcuno a cui dedicarsi, qualcuno da amare, ammirare, esibire, possedere? Lo aveva fatto star bene poter agire per qualcun altro, potersi preoccupare, poterne conquistare la fiducia, doversi fare… amare. E tutto questo senza sentire disgusto per se stesso, nonostante la malafede in cui agiva. Aveva amato quel giocare alle persone normali che c’era stato, aveva assaporato ogni istante della conquista del ragazzo da cui aveva sempre ricevuto solo disprezzo. Non era stato un giocare con i sentimenti di Aya, un volerlo ingannare per il gusto di sconfiggerlo psicologicamente, no, non era stato questo, era stata la possibilità di potersi avvicinare come una persona normalmente, senza pregiudizi. Era stata la possibilità di essere amato dall’unica persona per la quale avrebbe rinunciato a tutto quello che fino a quel momento aveva rappresentato lo scopo di ogni sua azione. Anche l’esibizione del suo potere non era stata che un tentativo di mettere a disposizione di Aya ogni sua ricchezza, di presentarsi nel suo aspetto migliore.

Lo amava… lo amava pazzamente.

Non gli avrebbe mai raccontato la verità se non fosse stato così. Lo amava così tanto da non poter sopportare più quelle menzogne che all’inizio erano state così comode.

Come poteva permettersi di perdere tutto?

Frenò a secco, sbandando in maniera pericolosa sull’asfalto viscido.

No, non poteva permetterselo.

Voltò l’automobile, e stavolta l’ago dell’indicatore di velocità salì vorticosamente. Presto la Porsche raggiunse i 200 km/h… doveva arrivare in fretta, doveva spiegargli, e se Aya non avesse voluto ascoltarlo, lo avrebbe obbligato a farlo, avrebbe agito da bastardo, ma lo avrebbe costretto ad accettare i suoi sentimenti, a cedergli una volta per tutte.

Fermò l’automobile con una sgommata, sollevando la ghiaia che riempiva il piccolo parcheggio dell’ospedale.

Lasciò lo sportello aperto, imboccando rapidamente le scale che portavano ai piani superiori, troppo ansioso di raggiungere il fretta la stanza di Aya-chan per attendere l’ascensore.

Poggiò una mano sulla maniglia, soffermandosi il tempo per regolarizzare il respiro affannato, poi spinse la porta, entrando nella stanza che aveva lasciato neanche un’ora prima…

Era vuota.

La ragazza era ancora sul letto, stesa  come se niente fosse accaduto, ma del fratello non c’era alcuna traccia.

Con l’irrazionalità che rimproverava ai comuni mortali, cercò all’interno della stanza, come se non fosse palese già ad una prima occhiata che il ragazzo fosse andato via, poi si precipitò all’esterno, entrando nelle stanze vicine, e poi fu di nuovo nella hall.

L’infermiera gli sorrise senza riuscire a nascondere un moto di sorpresa. Non doveva essersi accorta che lui fosse rientrato, e adesso se lo trovava di fronte, sempre impeccabile ma con gli occhi socchiusi, rabbiosi:

“Dov’è andato!” le chiese, guardando quella sciocca ragazza sorridente come se fosse la causa della sparizione del compagno.

“Signore?! Di chi sta parlando?” chiese lei, mantenendo l’espressione di plastica.

“Il ragazzo con i capelli rossi. Dov’è andato?!” ripeté lui, trattenendosi a stento dal desiderio di sbatterla contro il muro.

“E’ uscito una ventina di minuti fa…” mormorò lei, accorgendosi che non era il caso di perdere tempo.

“D-O-V-E - E’-A-N-D-A-T-O!” scandì lui, stringendo i pugni.

Non era da Brad Crawford perdere la pazienza, ma in quel momento stava rischiando di perdere qualcosa di molto più importante.

“Non ha detto niente, l’ho visto passare, l’ho chiamato per consegnargli la busta, l’ha presa ed è uscito dal portone… non so nulla di più” rispose la donna spaventata.

Il suo sguardo avrebbe potuto incenerirla. Si voltò in fretta, raggiungendo di nuovo l’automobile.

Venti minuti non erano un vantaggio particolarmente rassicurante… Aya doveva essere ancora relativamente vicino, sarebbe riuscito a trovarlo, e a quel punto non lo avrebbe lasciato scappare.

Venti minuti, pensò mentre la pioggia si infittiva. Chi può scomparire in soli venti minuti?

 

Erano passati quasi due anni, due anni da quel giorno di pioggia che aveva inghiottito Aya Fujimiya.

Crawford lo aveva cercato ovunque, aveva battuto ogni strada che potesse riportarglielo. Schuldig aveva scandagliato le menti dei Weiss, ma Aya non si era mai fatto sentire con loro, poi aveva provato con quella ragazza, Manx: chissà che i Kritiker non avessero fatto il doppio gioco, reinserendolo in un altro gruppo… ma neppure questa sembrava la strada giusta. E Aya-chan: l’ospedale era stato presidiato, durante le prime settimane, ma non era servito a nulla… e poi questa strada era stata chiusa dallo stesso Fujimiya, con l’unico segno di vita che gli avesse dato.

Una breve e-mail in una giornata solitaria come tutte le altre.

Prodigy aveva lavorato duramente su quell’unico indizio, ma avevano a che fare con una persona che sapeva come far perdere le proprie tracce: un indirizzo comune, formato da lettere e numeri a caso, di quelli che si possono aprire senza alcun dato, e poi  un percorso di rete che faceva sembrare che la mail fosse stata inviata da un server che non corrispondeva ad alcun indirizzo esistente. Una prova da hacker… molto astuto, anche.

La mail… poteva recitarla a memoria. Non che fosse molto lunga, appena due righe:

“Sei l’ultima persona a cui desidererei chiederlo, ma anche l’unica a cui possa rivolgermi: prenditi cura di Aya, assicurale quel poco di  vita che le avete lasciato”.

Erano passati due anni, e lui aveva mantenuto la sua promessa. Aveva continuato a mantenere Aya-chan in ospedale, le aveva fatto avere le cure migliori che potessero essere applicate al suo caso, e ogni tanto era anche andato a trovarla, quasi desiderasse trovare nel suo volto qualcosa che gli ricordasse il fratello. E poi, inconsciamente, sperava che Ran cedesse all’impulso di rivederla, tradendosi e consentendogli di rintracciarlo.

Dopo sei mesi le nuove cure avevano dato i loro frutti. L’attività cerebrale di Aya-chan aveva cominciato a dare piccoli segni di ripresa, e dopo un altro mese la ragazza, dopo quattro lunghi anni, quando ormai molti medici avevano espresso il parere che non si sarebbe mai risvegliata, era uscita dal coma.

E si era ritrovata Brad Crawford come unica famiglia.

Per qualche giorno, quando ancora Aya-chan era in ospedale per gli accertamenti di rito, lui aveva anche pensato di avvertire i Weiss e di affidarla a loro. Tutto sommato erano quanto di più vicino a degli amici Fujimiya avesse mai avuto, ma non era riuscito a separarsi dall’unico legame che avrebbe potuto riportargli il ragazzo che amava, e poi riecheggiavano le parole di quel messaggio. Aya aveva affidato la sorella a lui, a nessun altro, e quindi era suo dovere occuparsi di lei.

La ragazza si era stupita di non avere intorno la propria famiglia. All’inizio non ricordava neanche la morte dei genitori… poi il sapere cosa fosse successo, quanto tempo fosse passato l’aveva lasciata completamente incapace di reagire. I medici avevano anche avuto paura che potesse avere una ricaduta, ma lei si era mostrata forte.

Quando gli aveva chiesto del fratello, sembrava quasi che si aspettasse un’altra tragedia, e invece lui le aveva sorriso, e le aveva detto che Ran era vivo, che stava bene (era sicuro che fosse così) e che presto sarebbe tornato da lei.

E quando le sue rassicurazioni non bastarono più, le raccontò tutti i sacrifici che Ran aveva fatto per lei, di come avesse lottato contro i medici, contro tutte le difficoltà che cercavano di impedirgli di mantenerla in vita, di come avesse vendicato la sua famiglia.

Non le disse cosa fossero i Weiss, non le raccontò quanti morti la vendetta del fratello avesse lasciato indietro, ma volle che almeno lei sapesse, si rendesse conto, di cosa fosse stata la vita di Ran in quegli anni, di quanto si fosse sacrificato e avesse sofferto. L’Americano, più o meno inconsciamente, incolpava la ragazza per questo, e in qualche modo desiderava ferirla.

E ci riuscì. Eppure il gusto di questa sciocca vittoria non gli fu di nessuna soddisfazione, le lacrime silenziose di Aya-chan non restituirono a nessuno gli anni trascorsi. E a lui non restituirono Aya.

Prendersi cura della sorella di Ran viva non comportò molti più sforzi di prendersene cura quando era in coma. Le diede un piccolo appartamento, dove lei potesse vivere lontana dall’influenza degli Schwarz, un conto in banca, l’iscrizione ad un collegio prestigioso e la onorò di visite periodiche. Lei lo considerava il suo salvatore, lui la considerava un’esca, e non riusciva a sopportare che il suo pesciolino rosso esitasse tanto ad abboccare.

Eppure doveva conoscerlo: Abyssinian si sarebbe fatto trovare solo quando lo avesse voluto.

 

Due anni, ancora due mesi e sarebbero stati due anni.

Era fine settembre, un settembre caldo, eppure aveva sentito dei brividi gelidi quando Aya-chan gli aveva telefonato, dicendogli di precipitarsi al suo collegio.

Era arrivato un messaggio di Ran, le era arrivato direttamente nell’armadietto scolastico… lui non aveva voluto ascoltare altro, si era precipitato nella sua Porsche, e adesso correva verso la periferia della città.

Quando fu di fronte alla ragazza, lei rimase a guardarlo stupita, dimenticando per un momento l’eccitazione per quello che voleva dirgli.

Non aveva mai visto il freddo e compassato Americano in quel modo. Prima di tutto senza i famosi e costosi completi manageriali, ma con jeans neri e camicia, e poi con una espressione tesa, vibrante che normalmente doveva tenere ben nascosta sotto la sua maschera determinata ed autoritaria.

Gli porse la busta senza parlare.

Un messaggio breve, parole affettuose, una spiegazione, qualche giustificazione velata per averla lasciata sola, e la promessa di tornarle presto accanto. Doveva risolvere una questione sospesa, aveva scritto, e poi sarebbe stato di nuovo con lei, ma non sono più il tuo Ran, aveva terminato.

Crawford scorse più volte il foglio, ma non leggeva le parole; per quei brevi istanti sembrava essere solo affascinato da come erano state tracciate le lettere, da quella prova dell’esistenza di Aya.

Si infilò la lettera in tasca, senza replicare al piccolo moto di sorpresa della ragazza e alla breve, e poco insistita protesta, poi guardò con più attenzione la busta.

Il timbro era nitido.

Voltò le spalle ad Aya-chan, pronto a partire a tutta velocità verso la località indicata, ma la ragazza lo fermò appoggiandogli una mano sul braccio. Lui si voltò infastidito, pronto ad allontanarla senza riguardo, ma lei lo lasciò immediatamente, sorridendogli:

“Risolvete la questione, Crawford-san… neanche tu puoi vivere così”.

Lui rimase a fissarla sorpreso, ma lei sorrise ancora:

“Credi che sia stupida? Vai e riportacelo! E, se conosco mio fratello, sii deciso: ricordati che spesso con lui un no significa sì…”

Anche Aya-chan aveva capito… Crawford scosse la testa, e ricambiò il suo sorriso, sollevando il pollice mentre già si allontanava per raggiungere l’automobile.

Di nuovo un’autostrada, di nuovo una corsa folle per ritrovarlo. Quasi due anni… stava diventando pazzo.

Il posto era un piccolo villaggio sul mare, poche case, un piccolo porticciolo, una comunità che viveva sulla pesca.

Decise di proseguire a piedi. Avrebbe facilmente trovato qualcuno che potesse dargli informazioni, del resto una persona come Aya non si incontrava tutti i giorni, ma c’era qualcosa che lo aveva tormentato durante quei due anni, un sogno ricorrente in cui aveva riconosciuto i canoni di una premonizione, ma nel quale c’erano troppo pochi particolari per costituire un appiglio per ritrovare Aya.

Prese la strada che scendeva fino alla spiaggia. La costa era alta in quel tratto, anche rocciosa in molti punti, però una lingua di spiaggia sabbiosa si ritagliava il proprio spazio al termine del dirupo.

Scese in fretta, cercando di evitare le rocce più appuntite, felice della scelta degli anfibi, e finalmente raggiunse il mare. Camminò lungo la spiaggia, guardandosi intorno. Si sentiva in un luogo già visto, eppure non riusciva ad anticipare nessun particolare.

Non mancava moltissimo e il sole sarebbe tramontato, esattamente come nei suoi sogni.

E fu allora che la vide… la strana casa dallo spiovente tetto di lavagna, una costruzione bretone trapiantata nel cuore del Giappone.

Fiori nel piccolo giardino ritagliato a mezza costa, e poi lo stretto viottolo che scendeva verso il mare.

Accelerò il passo: era arrivato, lo sentiva.

Fece l’ultimo pezzo quasi di corsa, e cominciò a inerpicarsi nuovamente tra le rocce. Eppure qualcosa lo spingeva a guardare verso il mare.

E fu lì che lo vide…

Rimase immobile, lasciandosi scorrere il vento caldo e dolce tra i capelli.

Era lì, bellissimo e reale, nonostante tutto il resto sembrasse solo un sogno meraviglioso. Era lì, seduto sulla spiaggia, a guardare il mare.

La pelle candida era accarezzata dal sole gentile del tardo pomeriggio, e i capelli rossi brillavano nel contrasto con i colori del mare e del cielo azzurro.

Rimase ad osservarlo senza riuscire a muovere un passo: lo vide sollevarsi con la grazia di un felino, e poi avvicinarsi all’acqua. Continuava a dargli le spalle, ma qualcosa faceva capire a Crawford che il ragazzo era perfettamente cosciente della sua presenza, che in qualche modo lo stesse aspettando. Era lui la famosa questione in sospeso.

Lo vide entrare nell’acqua, lentamente.

Sembrava che fosse in corso uno strano gioco tra loro, quasi una sfida a distanza: Aya faceva finta che lui non ci fosse, e lui rimaneva a guardarlo come se fosse solo uno spettatore, come se stesse recuperando tutte le immagini che aveva perso di quei due anni.

Una casa sul mare, una strana casa per un ragazzo particolare, per il suo Aya.

Finalmente riuscì a muoversi. Avanzò lentamente verso il bagnasciuga, si fermò vicino all’asciugamano che l’altro aveva lasciato sulla spiaggia, e si sfilò gli anfibi. I piedi nudi affondarono nella sabbia tiepida, quasi bevendo quel senso di selvaggia soddisfazione che dà il liberarsi dai vincoli della civiltà.

Aya continuava a dargli le spalle, fermo nell’acqua che gli arrivava di poco sopra le ginocchia, i pantaloncini rosso scuri appena lambiti dalle piccole onde.

Crawford non si fermò quando il mare gli accarezzò la pianta dei piedi, e nemmeno quando gli arrivò alle caviglie. Incurante dei pantaloni che gli si attaccavano alle gambe, raggiunse l’esile figura immobile nel cono luccicante che il sole al tramonto proiettava sulla distesa azzurra.

Gli si fermò alle spalle. Lentamente gli passò le braccia intorno alla vita sottile, come per troppo tempo aveva solo sognato, e lo strinse dolcemente.

Il corpo caldo e liscio rabbrividì impercettibilmente al contatto, poi Aya si voltò.

Crawford non ebbe il tempo di capire cosa stesse succedendo che si ritrovò completamente bagnato, immerso nell’acqua fredda del mare, e con una guancia in fiamme per il pugno ricevuto.

Lui, Oracle, famoso per il combattimento a mani nude e per la capacità di non farsi mai cogliere di sorpresa, seduto nell’acqua colpito da un diretto al volto… scosse la testa cercando di riprendersi.

Sollevò lo sguardo sul volto serio, sulle labbra tirate del ragazzo che aveva di fronte, come a cercare di capire cosa fosse successo:

“Sei un bastardo, Crawford, quello che hai fatto per Aya-chan non lo cancellerà mai!” si sentì sibilare.

Lui si alzò a fatica, lasciando che l’acqua gli scorresse in fiumiciattoli giù dai vestiti. Si tolse gli occhiali, infilandoli lentamente nel taschino della camicia, come se si preparasse all’ennesimo scontro con il leader dei Weiss.

Quante volte si erano scontrati? Quante volte le carezze che si erano scambiati avevano solo lasciato lividi sui loro visi?

Si avvicinò, chiaramente minaccioso. Non si fermò finché non gli fu a pochi centimetri di distanza, e allora gli afferrò le mani serrate a pugno. Lo guardò negli occhi, stringendogli forte le dita sottili, ma non era finita: gli portò con decisione le braccia dietro la schiena, bloccandolo tra le proprie e stringendoselo contro il petto.

“Ti amo, stupido idiota! Lo vuoi capire?!” gli sibilò, prima di annullare la distanza tra loro, ed impedirgli una qualsiasi risposta.

Sentì l’altro scalciare, agitarsi contro il suo corpo, acuendo il suo desiderio, morderlo per resistere alla sua invasione. Ma era tutto inutile. Nel tentativo di sfuggirgli, Aya aveva piegato la testa all’indietro, con l’unica conseguenza di offrirglisi in una posa ancora più arrendevole e seducente.

Si spostò di un soffio:

“Prova a scapparmi di nuovo e giuro che, quando ti ritrovo, ti chiudo in gabbia. Hai capito?” e nelle sue parole era evidente soprattutto l’esasperazione per quei due anni di lontananza, non la vuota minaccia.

“Non riuscirai mai a legarmi, yankee…” si sentì ribattere gelidamente.

Un sorriso, forse un ghigno, uno di quelli che da parecchio tempo non nascondevano più così tanto divertimento:

“Se è una sfida, samurai, preparati a perderla!” e di nuovo lasciò che fosse la propria passione a parlare, anche se stavolta si permise di liberare le mani del compagno, desiderando sentirgli addosso lo stesso trasporto.

E presto quelle braccia sottili gli si strinsero intorno al collo, e i due si ritrovarono sdraiati sul bagnasciuga, le onde che arrivavano ad accarezzarli gentili, mentre loro non riuscivano a staccarsi, come se dovessero recuperare in pochi minuti tutti i giorni perduti.

 

Quella strana casa che lui aveva scelto di impulso, quando aveva deciso di nascondersi e cercare di ricomporre la sua vita, era divenuta il loro regno nella settimana seguente. Ed era stata testimone delle loro spiegazioni, delle giustificazioni, delle scuse… e di tutti quei sentimenti che finalmente aveva deciso di smettere di contrastare.

Eppure Aya non permise altri racconti, nonostante non avesse più recuperato completamente la memoria, dopo la cura di Tabase.

Aveva sprazzi di ricordi, tanti pezzi di un puzzle che non sarebbe mai stato completo: immagini che si riferivano alla sua infanzia, immagini della scuola a Sendai, qualche incubo riguardante i Weiss, niente di più. Eppure era proprio questo che Aya aveva difeso in quei due anni, il suo diritto a dimenticare tutte le cose che avevano trasformato la sua vita in qualcosa di cui poteva solo avere orrore. Gli ci era voluto tempo per accettare ciò che Crawford gli aveva buttato in faccia di fronte al letto di ospedale di Aya-chan, gli ci era voluto tempo per comprendere cosa gli rimanesse di importante, dopo che la sua vita era andata di nuovo in frantumi, e in quelle giornate interminabili passate sulla spiaggia, aveva capito che, forse, l’unica cosa da salvare era proprio il rapporto con l’Americano.

Lo aveva odiato per averlo ingannato, lo aveva odiato per avergli dato delle illusioni e per essersele poi riprese senza pietà, ma aveva anche capito che i sentimenti di Crawford erano sinceri: quanto sarebbe stato più facile continuare quella farsa? Eppure il leader degli Schwarz non lo aveva fatto, e non per la gioia di umiliarlo, quanto per provare a ricostruire delle basi ‘oneste’ tra loro. Quei baci, quegli sguardi non potevano essere completamente falsi… e poi si era preso cura di Aya-chan, l’aveva aiutata, e non aveva mai smesso di cercarlo.

Quante volte aveva pensato di bruciare quella lettera che aveva ricevuto nella reception dell’ospedale, e quante volte aveva invece finito per rileggere quelle righe, cercando di cogliere spunti di inganno e malafede, e inciampando sempre in quelle ultime parole?

“Sono stato da sempre abituato a pensare solo al risultato, in qualsiasi modo potessi ottenerlo. Ho sempre riflettuto poco sulla necessità di usare dei mezzi onesti, leciti… ho sempre considerato queste cose dei pensieri sentimentali, da sciocchi. E non pensare che tornerei indietro: quello che desideravo era amarti e darti una vita normale, e per farlo ti ingannerei ancora, ma questa volta ho capito che a volte il mezzo porta umiliazione, e poi dolore, ed io non posso sopportare che tu soffra.

Posso dirti che ti amo, e potrebbe sembrarti una spiegazione che non conta nulla, eppure questo amore è la cosa più importante che io abbia mai posseduto.

E’ bello amarti, Aya… è bello amare.

Un giorno te ne accorgerai, e io sarò lì”.

Aya aveva bisogno di sentirsi amato, e aveva bisogno di amare. La bellezza di quel sentimento lo aveva catturato in quella strana settimana che rappresentava il suo unico ricordo completo.

A volte sentiva la mancanza delle battute di Schuldig, a volte della serietà e solitudine di Nagi, a volte anche delle frasi improvvise e definitive di Farfarello… e si domandava cosa stessero facendo, senza di lui.

E poi davanti ai suoi occhi si materializzava proprio l’immagine di Brad Crawford.

 

Un Brad Crawford che in quel momento stava osservando il corpo addormentato di Aya, steso nel letto accanto al proprio.

Non riusciva a credere di averlo ritrovato, di averlo vicino, di aver appena fatto l’amore con lui.

No, sembrava impossibile. Eppure…

Gli accarezzò la spalla nuda, risalendo con il palmo sulla clavicola, sulla gola. Gli sfiorò le labbra, poi raggiunse la piccola conchiglia da cui pendeva il lungo orecchino d’oro:

“Finalmente ti sei arreso, Weiss” gli mormorò, sostituendo le dita con le labbra, mentre la mano affondava nella morbida massa cremisi. Era incantato da quei capelli così cresciuti nei due anni di lontananza… il momento in cui aveva sciolto la treccia che li imprigionava e vi aveva affondato le dita, pettinandoli, aveva rappresentato il coronamento di un desiderio nato nel momento in cui lo aveva scorto sulla spiaggia.

Aya aprì gli occhi violetti, guardandolo corrucciato. Sembrava proprio che sfidarlo fosse un metodo infallibile per farlo reagire.

“Sei sempre un bastardo”.

“Nella tua bocca anche gli insulti si trasformano in fiori…” lo prese in giro, giocando anche sulla precedente attività di fioraio.

Quelle braccia sottili spesso ingannavano, visto che nascondevano muscoli d’acciaio, quei muscoli che ora lo stavano spingendo via.

Riuscì a resistere all’assalto, e, anzi, la lotta improvvisa gli permise di stringere l’abbraccio:

“Non ho intenzione di lasciarti più andare. Sei mio” gli mormorò, cominciando a baciargli il collo.

Ma Aya si ritrasse, cercando di ristabilire una distanza accettabile:

“Brad, non si è tutto magicamente risolto, lo sai, vero?”

Lui non rispose, anzi, tornò alla carica.

“Brad… BASTA!”

Si fermò, che diavolo stava succedendo? Finalmente, dopo due anni, erano di nuovo insieme, perché doveva interromperlo?!

Si tirò a sedere, appoggiandosi con la schiena contro i cuscini. Poi, con un movimento fluido, si portò l’altro in grembo, forzandolo ad appoggiarglisi contro il petto:

“Cosa c’è, non ti piace?”

Avrebbe quasi potuto giurare di aver visto il compagno arrossire leggermente… e proseguì:

“Mi hai dato un pugno, mi hai riempito di lividi e mi hai detto che sono un bastardo. Pensavo che le questioni principali fossero sistemate…”.

“Piantala di fare l’idiota! Pensi che possa dimenticare cosa sei… e cosa sono io?”

“Un Weiss e uno Schwarz. Potremmo essere dei novelli Romeo e Giulietta… o forse Romeo e Romeo?”

Crawford sembrava animato da un insospettabile senso dell’umorismo, quella sera.

“Due assassini, di cui uno ha ucciso i genitori dell’altro” gli rispose Aya, gelido. C’era stata una quasi impercettibile esitazione prima di pronunciare la parola genitori.

Lui tornò serio, continuando a passargli le dita tra i capelli che gli arrivavano quasi alla vita:

“Non ho ucciso i tuoi genitori, Aya, ma sono stato la guardia del corpo di chi lo ha fatto, lo sai bene”.

“IO NON SO NIENTE! Non ricordo niente, e…” si interruppe, abbassando la voce fino a trasformarla in un sibilo “…non voglio più ascoltare bugie, Crawford”.

“E’ stata una missione affidata agli Schwarz, hai ragione. Posso dirti che io non c’ero, ma ha poi importanza? Non ho ucciso i tuoi genitori, ma ho ucciso molte altre persone, era il mio mestiere. Chi uccide non può che lasciare vedove e orfani…”

“Stai dicendo che anche io mi sono macchiato della stessa colpa?! Non provare a rovesciare su di me le tue ignominie!”

“Non lo stavo facendo. Ho detto solo che ho commesso una infinità di errori, che molte persone innocenti hanno pagato per il nostro delirio di onnipotenza. Puoi farmi una colpa a vita di quello che ho fatto, e puoi anche rimproverare te stesso per avermi ceduto… ma questo non ti farà stare meglio. Ci è stata data una possibilità, Aya, l’occasione di provare a ricominciare da capo. E’ il momento di vivere, di cercare di riparare. Possiamo chiuderci in un eremo, e scontare in solitudine i nostri peccati, ma possiamo anche cercare di riprendere in mano la nostra vita, e tentare di fare qualcosa per riparare il male che abbiamo commesso.

Il sentimento che provo per te mi ha spinto più di qualsiasi senso di colpa sulla strada di una rinascita... perché non provare a percorrerla, invece di scappare e sentirci in colpa per il fatto di provare ancora dei sentimenti, per essere felici?

Vuoi che ti riveli quanto siano grandi e gravi le mie colpe? Ci prenderà l’intera nottata, ma posso farlo…”.

Crawford si interruppe, vedendo gli occhi serrati di Aya, le mani strette a pugno:

“Aya… tua sorella sta bene, nessuno di noi è più un assassino, tu sei di nuovo Ran…”

“No! Io non lo sarò mai più!” lo sguardo rabbioso di quegli occhi gli riportò alla mente Abyssinian in battaglia.

Rimasero in silenzio, occhi negli occhi. E dopo un tempo che poteva essere stato lunghissimo o anche brevissimo, Crawford parlò di nuovo:

“Vuoi che me ne vada, Aya? Lo vuoi veramente?”

 

“Sei pronto? Possibile che tu sia sempre l’ultimo?!” la voce di Aya-chan echeggiò nel corridoio, allegra e un po’ querula. A volte le piaceva comportarsi da donna con il fratello, le sembrava di tornare indietro negli anni, non di tanti, visto che quattro erano passati senza che lei se ne accorgesse, ma comunque ritornare ad un passato lontano, quando i suoi bronci e gli occhi riempiti ad arte di lacrime riuscivano a convincere Ran a fare qualsiasi cosa.

Ran…

Era cambiato, non era certamente più il ragazzo che la accompagnava alle feste estive al tempio, aveva perso parte della propria allegria, della propria fiducia negli altri, lo si leggeva nel suo sguardo duro, capace di intimorire chiunque.

Ma c’erano anche i momenti in cui il vecchio adolescente gentile e un po’ timido tornava a galla, ed erano momenti dolci e malinconici, che apparivano come l’improvviso risveglio di uno spirito scomparso.

“Oniichan! E’ quasi ora!”

Le piaceva quando poteva trascorrere qualche giorno a casa con il fratello: poteva accudirlo, rimproverarlo dolcemente della sua scontrosità e silenziosità, poteva scardinare il suo ordine perfetto, con il puro scopo di divertirsi nel vedergli un’espressione falsamente adirata, per poi scoppiare a ridere insieme.

Il campanello suonò, e lei si precipitò verso la porta.

Quando tornava dal collegio per rimanere qualche giorno con Ran, lui la raggiungeva nel piccolo appartamento, valige alla mano, lasciando la grande villa del quartiere residenziale. Era un’iniziativa che aveva preso da solo, senza chiederle alcun parere, senza permetterle di opporvisi. E così, quando poi dovevano uscire, l’altro doveva passare a prenderlo lì, come se non vivessero insieme da mesi.

In qualche modo, rideva lei, era come se fossero tornati fidanzati adolescenti, invece che giovani conviventi.

Aprì la porta, e sorrise raggiante:

“Entra! Sta ancora finendo di prepararsi!! Non è meraviglioso che, dopo tanto tempo, abbia ancora così tanta voglia di farsi bello per te?” disse ridendo, conducendo il nuovo arrivato nel soggiorno.

Non fecero in tempo a sedersi sul divano, che Ran scese le scale, in un elegante completo scuro.

I pantaloni neri dritti, la maglietta di seta bianca a collo alto sotto la giacca corta, leggermente avvitata, e poi il cappotto lungo da ufficiale russo piegato sotto il braccio: Aya-chan batté le mani soddisfatta. Del resto non era stata una sua idea farlo vestire così? E poi era un’occasione importante, una grande festa di beneficenza alla Soichiro Honda – Foundation ... i giornali ne avrebbero parlato per giorni!

Ran le restituì uno sguardo seccato, mentre si dirigeva verso la porta, senza quasi guardare l’uomo che era passato a prenderlo.

“Neanche un bacio, fratellino?” gli disse lei, maliziosa.

Lui le si avvicinò, premendole leggermente le labbra sulla fronte, e lei rise, divertita:

“Non a me! A Bradley-san!”

Vide gli altri due far finta di non averla sentita: era incredibile quanto Ran fosse pudico, come rifuggisse qualsiasi scambio di effusioni con il compagno in sua presenza… ma qualche soddisfazione lei se l’era presa, piombando nella loro casa nei momenti più impensati. E allora aveva scoperto che il fratello sapeva anche essere affettuoso e passionale.

Li guardò salire sulla Porsche nera dalla finestra della camera da letto… sospirò, invidiava un po’ la loro vita: belli, felici, ricchi e famosi.

Con un altro sospiro si buttò sulla poltrona, afferrando il telefono. Digitò il numero, e subito sentì la voce del ragazzo che da quando si era svegliata dal coma aveva riempito i suoi sogni, ma di cui non aveva ancora avuto il coraggio di parlare a Ran:

“Sì, sono appena andati via. Già, da sola tutta la notte… ti va di chiacchierare? L’ultima volta mi stavi raccontando della tua infanzia…”.

Si rilassò contro il divano, mentre la voce roca del ragazzo cominciava a cullarla:

“Odiavo il mio nome, come tutti mi indicassero mormorandolo. Decisi di non essere più Jei, quel giorno stabilii che mi sarei fatto chiamare Farfarello…” cominciò la persona all’altro capo del filo.

 

“Quando torna in collegio?”

Brad non aveva distolto gli occhi dalla strada, ma aveva allungato una mano fino a stringergli la sua.

Lui non rispose. Gli arrivi di Aya-chan erano qualcosa che l’altro sopportava sempre più malvolentieri. Diceva di odiare il fatto di dormire solo, ma lui sapeva che non era solo questo. Quando, mesi prima, nella casa sulla spiaggia non era riuscito a farlo andare via, aveva capito che avrebbe dovuto accettare anche alcune sfaccettature del carattere dell’Americano tutt’altro che liete, e tra queste possessività e gelosia.

E Brad era geloso di tutti, indistintamente.

Nella villa, aveva diviso la loro ala da quella occupata dagli altri Schwarz, perché non desiderava averli sempre intorno, aveva detto, ma più probabilmente perché non sopportava la presenza di Schuldig e il suo continuo giocare con i pensieri altrui, soprattutto con quelli di Aya.

E poi, quando lui aveva deciso di andare al Koneko per spiegare quello che era accaduto ai vecchi compagni, aveva cercato in ogni modo di impedirgli di andare da solo.

Ma quella volta lui non aveva ceduto, anche se in altre circostanze lo aveva fatto, per il solo amore del quieto vivere.

“La prossima settimana, dopo capodanno” gli rispose bruscamente, sperando di chiudere il discorso.

“Penso che a volte le converrebbe rimanere alla scuola, durante le vacanze. Quest’anno si diploma e deve capire che dovrà studiare parecchio, con tutto il tempo che ha perso”.

Aya non replicò nemmeno. Fiato sprecato…

“Come è andata la riunione con la Kazuki? Hai mostrato la tua anima da squalo?” gli chiese invece.

Da quando erano tornati insieme, aveva cominciato ad aiutarlo negli affari, e piano piano aveva cominciato ad appassionarsi… chissà, forse lo aveva nel sangue, una eredità paterna gli diceva la sorella.

Crawford sfoderò uno dei suoi ghigni:

“Hanno firmato. Ma non c’erano dubbi, tra te e me non hanno avuto scampo! In borsa, oggi, era già sulla bocca di tutti”.

Anche Aya sorrise. Aveva seguito la trattativa, ma non gli piaceva assistere alla chiusura dei contratti. Quando vedeva Brad in azione, gli sembrava sempre uno squalo pronto ad affondare i denti nella carne viva del malcapitato di turno.

Non mancava molto al palazzo che ospitava la Fondazione, ma Crawford accostò lungo il marciapiede, voltandosi verso di lui; gli sollevò il viso prendendogli il mento nella mano:

“Ti ho mai detto che ti amo, Aya?” gli chiese sorridendo.

“Mpf…” rispose lui, eppure non era proprio sincera come espressione di fastidio. E infatti, quando l’altro si sporse su di lui per baciarlo, gli passò le braccia intorno al collo, stringendolo forte.

“Possiamo anche saltare questa noia mondana, e andare in un posto più appartato…” gli propose l’Americano, accarezzandogli la banda di capelli al lato del viso, sfuggita come sempre alla lunga treccia.

Lui sorrise, ma scosse la testa:

“Vuoi per caso che il grande Brad Crawford diserti per un giorno le prime pagine dei giornali?” lo prese in giro.

Anche l’altro sorrise, riavviando il motore.

 

“YOHJI!!! Sbrigati, c’è Aya in televisione!!!”

La voce trapanante di Omi riecheggiò in tutta la casa, non lasciando scampo a nessuno dei suoi occupanti.

Kudoh si diresse verso il soggiorno, appoggiandosi contro il muro. Non era certo la prima volta che vedeva Aya sullo schermo. Spesso le pagine economiche dei telegiornali riportavano le mirabolanti imprese di Brad Crawford, il mago della finanza. E quindi, come tacere il nome di Ran/Aya Fujimiya, membro del consiglio di amministrazione, suo braccio destro nonché fidanzato ufficiale?

Già, perché lo yankee non lesinava dimostrazioni di affetto verso la sua conquista, esibendola come un trofeo: Aya come poteva sopportarlo?

Li vide avanzare verso l’ingresso della Fondazione Honda.

Aya indossava lo stesso cappotto che aveva il giorno in cui era andato al Koneko no Sumu Ie, proprio il giorno in cui aveva detto che, nonostante non ricordasse bene molti avvenimenti, sapeva quanto loro tre fossero stati importanti per lui, e aveva chiesto di comprendere la sua scelta di vivere con il leader dell’organizzazione rivale.

Era stato il giorno in cui aveva picchiato l’unica persona che avesse mai amato… già, gli aveva dato un pugno e lo aveva chiamato ‘puttana’, per poi scappare dal negozio e rifugiarsi a bere in un bar, e risvegliarsi in un letto di uno squallido alberghetto, accanto ad una ragazza sciocca e volgare, ma che aveva l’unico pregio di non ricordargli in alcun modo l’algido leader.

Li vide percorrere il corridoio, aperto dal servizio d’ordine attraverso una folla di curiosi e giornalisti, mano nella mano… Aya più indietro, quasi fosse leggermente guidato dal compagno.

Alzò il bicchiere, sorridendo ironico e suscitando una immediata occhiata di stupore e disapprovazione nel piccolo Bombay. No, non avrebbe più picchiato Abyssinian… non ne avrebbe più avuta l’occasione:

“The winner takes it all…” mormorò prima di vuotare il primo bourbon della serata.

 

UNA NUOVA VITA – The End

 


 



Fictions Vai all'Archivio Fan Fictions Vai all'Archivio Original Fictions Original Fictions