Per Nausicaa, Ria, Calipso, Kamui, Angie e Kira.
Tutti i diritti della serie Weiss Kreuz sono del
Project Weiss e di Koyasu Takehito (altresì detto ‘il sorriso che uccide’).
Un ringraziamento particolare a Nausicaa e Kamui, per
sostegno, suggerimenti, correzioni.
Buona lettura.
Una nuova
vita
parte II
di
Greta
Quando tornò a casa,
Crawford si accorse che Nagi e Aya erano in cucina. Si soffermò sulla
soglia, godendosi lo spettacolo di quella scenetta intima: Abyssinian
stava aiutando il ragazzino con i compiti, e contemporaneamente armeggiava
intorno agli scaffali.
In quello strano gruppo
che mai si sarebbe potuto chiamare famiglia, questo era un quadro
assolutamente inedito. Dava un’idea di casa, di calore…
Entrò senza far troppo
rumore: si portò un dito alle labbra per far tacere Nagi, che gli stava di
fronte, poi si avvicinò ad Aya, poggiandogli da dietro le mani sui fianchi.
Si dovette ritrarre di
qualche centimetro, ma non lasciò la presa: Aya si era voltato di scatto, e
gli aveva puntato contro il petto il lungo coltello impugnato con entrambe
le mani.
Crawford non si ritrasse,
anzi, si spinse contro la lama… quasi subito sentì il coltello cadere a
terra, mentre Aya rimaneva immobile tra le sue braccia.
“Lasciami, Brad…”.
Allentò la morsa. Non
aveva intenzione di spingere troppo, ma sentiva un insopprimibile bisogno di
tenere stretto a sé quel ragazzo, e doveva muoversi in fretta, perché quella
presa sull’impugnatura del coltello della carne somigliava in modo
sconcertante alla presa sulla Katana.
Si sedette al tavolo,
scostando i quaderni di Nagi:
“E’ arrivato niente da
Tabase?” chiese con calma.
“Ho messo tutto nella
vostra stanza” rispose il ragazzino, cercando di recuperare i libri.
Crawford annuì,
allungando poi una mano verso il giornale.
Era contento, le cose
stavano procedendo come da programma. Appena terminata la pagina economica,
si alzò per andare a prendere le pillole mandate dal dottore. Il foglietto
riportava di dargliene una al giorno… bene, avrebbe cominciato subito.
<Bentornato Mein Führer,
abbiamo sentito la tua mancanza. Il gattino ha deciso di farci fare le
pulizie, visto che il nano deve studiare per il test di domani. Farfarello
ha fatto a pezzi le tende, per reazione>.
<Ogni tanto vi fa bene
fare qualcosa. Smetti di lamentarti come una donnetta>.
<Chissà se stanotte
riuscirai ad avvicinarti, Braddie, ho la vaga sensazione che il gattino
detti legge anche con te…> Schuldig notò con un ghigno, sapendo di colpire
l’Americano in un punto debole.
<E’ la tua gelosia che
parla, Mastermind?>
L’altro scoppiò in una
nuova risata, prima di raggiungere gli altri in cucina.
La visione di Farfarello
che apparecchiava, e del tedesco alle prese con la preparazione
dell’insalata, costrinse Crawford a sfilarsi gli occhiali e a ripulire le
lenti. Scosse la testa, non erano cambiamenti che gli dispiacevano, era la
prima volta che quell’accozzaglia di pazzi si comportava come un gruppo.
Si sedettero tutti per la
cena, con Schuldig che con un’espressione tra il rassegnato e l’ironico
serviva il riso, mentre il centro tavola girevole ruotava vorticosamente.
“Mangia un po’ di più,
sei dimagrito, Aya” notò l’Americano, senza distogliere lo sguardo dal
giornale della sera.
Poté avvertire sulla
pelle l’intensità dell’occhiata dell’altro, ma non si lasciò condizionare:
“Mi hai sentito?” ripeté
con lo stesso tono piano.
“Non si sta a tavola
leggendo il giornale, mettilo via” si sentì ribattere seccamente.
Piegò i fogli e poggiò il
quotidiano sul tavolino:
“Mangia” ribadì, fissando
lo sguardo in quello del ragazzo più giovane.
Non si aspettava una
risposta, e infatti non ne arrivò nessuna, però Aya si aggiunse una
cucchiaiata di riso. Crawford scosse la testa, Abyssinian era ostinato e
indisponente, ma alla fine avrebbe ceduto… pur non avendo avuto alcuna
premonizione, era sicurissimo nella sua previsione del rapporto che li
avrebbe legati.
Terminata la cena,
Farfarello dovette caricare la lavastoviglie, mentre gli altri si
distribuirono nelle diverse stanze della casa. Solo il nuovo arrivato era
rimasto seduto al tavolo della cucina, ad osservare quel ragazzo la cui
pelle chiara rivaleggiava con la sua, e con quegli strani tagli sul viso.
Quando l’irlandese si
accorse del suo sguardo insistito, gli rispose con un ghigno, passandosi la
lama del coltello sull’avambraccio. Aya non batté ciglio allo spettacolo
dell’espressione beata del compagno di stanza, e i suoi occhi continuarono a
seguire la scena.
“Questi capelli… sono il
segno del diavolo…” gli mormorò il ragazzo albino con la sua voce roca,
sfiorandogli le bande che gli scendevano ai lati del viso “…ricordo dei
bambini, quando andavo a scuola, avevano i capelli rossi, ma non così rossi.
I tuoi hanno il colore delle fiamme dell’inferno…”.
Lui continuò a rimanere
immobile, nonostante il fastidio fisico di quelle mani troppo vicine, e a
sostenere lo sguardo vivido di quell’unico occhio.
Farfarello allontanò le
mani, poggiò il coltello sul tavolo e gli voltò la schiena, lasciando la
stanza con una risata inquietante.
Una volta rimasto solo,
Aya si alzò in piedi. Non aveva avuto paura, gli sembrava solo di aver
assistito a qualcosa di incredibile… e di triste. Si avviò verso la porta
scura in fondo al corridoio. Bussò brevemente ed entrò senza aspettare
risposta.
Crawford sollevò lo
sguardo dal monitor, poi si sfilò gli occhiali, massaggiandosi lentamente il
naso indolenzito:
“Vieni qui” gli disse,
vedendolo fermo sulla porta.
L’altro non si spostò.
“Avvicinati, amore”
ripeté l’Americano.
Il leader dei Weiss
rimase immobile, ma cominciò a parlare:
“Perché Farfarello non
viene curato? Che razza di nome è il suo? Come puoi permettere che si
torturi in quel modo?”
Era forse la frase più
lunga che gli avesse sentito pronunciare.
Crawford si alzò in
piedi, lo raggiunse e gli afferrò un polso, trascinandolo a sedere sul
divano:
“Non è così semplice…
Farfarello non sta bene, ma noi cerchiamo di trattarlo come meglio
possiamo…”
“Non è abbastanza”.
L’americano strinse gli
occhi:
“L’Aya di prima non si
era mai lamentato…” notò con voce piatta.
“Non conosco la persona
di cui parli” gli ribadì l’altro, duro.
Era inutile cercare un
muro contro muro, o avrebbe perso tutto. Crawford si sporse verso il
compagno, scostandogli i capelli dal viso:
“Non dire così, il fatto
che non ricordi, non significa che tu non sia mai esistito. Sei perfetto ora
come prima… ma forse quest’incidente ti ha reso più sensibile, più
comprensivo…” lo stava provocando, gli stava facendo balenare una sorta di
debolezza, per costringerlo a rinchiudersi nel proprio orgoglio e ad essere
più malleabile, ma era davvero la cosa che desiderava?
“Non ci vuole sensibilità
per accorgersi che una persona che si intarsia la pelle è malata, Crawford,
credo che anche uno come te possa accorgersene”.
L’Americano si scansò:
non gli piaceva la piega che aveva preso la discussione, non gli piaceva il
tono astioso del suo prigioniero… e tutto questo per i giochi di Farfarello?
Non ne valeva la pena…
“Ok, Farfarello ha dei
problemi seri. E’ stato visitato da molti medici… se insisti, ne chiameremo
un altro, ma sono sicuro che ci verrà detta sempre la stessa cosa, che
tenerlo con noi è la soluzione migliore. Non credo che riuscirebbe ad
accettare di essere internato” si interruppe per un istante, lo sguardo
fermo di nuovo negli occhi del compagno “Se vuoi, puoi prenderti tu la
responsabilità della scelta…”.
Continuarono a fissarsi
per qualche secondo, poi Aya annuì lentamente.
Del resto… cosa ci si
poteva aspettare dall’impavido leader dei Weiss?
Quando Crawford entrò in
camera da letto, un paio d’ore dopo, Aya stava già dormendo. Si sedette sul
letto a guardarlo… lo stregava guardare quel ragazzo, pallido, ma finalmente
rilassato, con i capelli che gli cadevano morbidamente ai lati del viso.
Allungò una mano e gli allontanò una banda dal collo.
Si ritrasse appena in
tempo, l’acutezza dei sensi di Abyssinian era stata subito risvegliata da
quella carezza quasi impercettibile:
“Che stai facendo?” gli
sibilò il ragazzo, le mani serrate in pugni davanti al petto.
Lui scosse la testa, poi
si alzò, andando in bagno per cambiarsi. Quando tornò a letto, si accorse
immediatamente che il compagno era ancora sveglio:
“E’ più difficile di
quanto immaginassimo, eh?” notò, voltandosi su un lato, e guardando quei
capelli rossi brillare nella flebile luce notturna.
Non ebbe risposta,
allungò una mano, appoggiandola sulla spalla di Aya:
“So che per te è duro
stare qui con noi, senza ricordare chi siamo, senza ritrovare niente di te…
puoi chiedermi qualsiasi cosa, puoi presentarmi qualsiasi dubbio… io sono
qui, pronto a darti tutte le risposte che conosco”.
Per qualche istante, la
figura accanto a lui rimase immobile.
“Non ricordo nulla, ma
poi ritrovo delle conoscenze, dei movimenti…” Aya rabbrividì leggermente,
stringendosi la trapunta intorno alle spalle: “Oggi ho aiutato… Nagi - si
avvertiva chiaramente la titubanza nell’usare quei nomi poco familiari –
l’ho aiutato con lo studio, e mi sono reso conto di conoscere cose di
storia, di economia, di matematica… piano piano le regole, le date, le
statistiche venivano fuori. E’ stato strano”.
Crawford affondò la testa
nella mano:
“Hai seguito un collegio
prestigioso, a Sendai, avevi anche cominciato l’Università di Tokyo,
Economia, ma poi ci siamo conosciuti, e hai cominciato a darmi una mano con
il bilancio della mia società. Ti ricorda qualcosa?”
L’altro non rispose, ma
pose altre domande:
“Quando sei tornato a
casa… è stato strano, ho sentito il rumore dei passi alle spalle e mi sono
girato di scatto. Avevo un coltello in mano, mi è venuto spontaneo
impugnarlo con entrambe le mani… è sembrata una presa naturale. Perché?”
Non era la domanda
peggiore che potesse rivolgergli, tutto sommato gli era andata più che bene:
“Hai frequentato un dojo
per tantissimi anni, devo ammettere che non te la cavi molto male con la
katana! Qualche settimana fa il tuo maestro… beh… era molto anziano” fece
una pausa, prolungandola il giusto per aumentare il pathos delle parole non
pronunciate, poi riprese “La palestra ha chiuso, dopo questo evento. Ne
stavi ancora cercando un’altra… se vuoi, domani posso accompagnarti in
città, avevamo steso una lista di alternative”.
“Come… che incidente ho
avuto?”
Questo era un punto già
discusso anche con gli altri Schwarz, bisognava solo rendere la storia
credibile:
“Hai avuto un incidente
con la macchina, eri andato a prendere Nagi a scuola… probabilmente il nano
ha cominciato a raccontarti le sue vicende scolastiche, e poi un camion ha
invaso la vostra corsia. Nonostante tu abbia cercato di evitarlo, ti ha
preso di lato, la macchina ha sbandato, e siete andati a sbattere contro un
pilone della luce. Per fortuna che avevate cintura ed airbag… Nagi non si è
fatto nulla, tu hai sbattuto indietro contro il poggiatesta, e hai avuto un
trauma cranico”.
Rapido e conciso, del
resto erano particolari già stabiliti.
“E il conducente?”
“Era ubriaco, come hanno
stabilito le analisi. Non si è fatto quasi niente, solo una gamba rotta”.
Abyssinian, dopo quest’ultima
risposta, era rimasto in silenzio.
“Non c’è nient’altro che
vuoi sapere?”
“Hn…”
“Quando vuoi, io sono
qui”.
Crawford si allungò verso
il compagno, poggiandogli un bacio leggero sul collo:
“Buona notte, Aya”.
Nessuna risposta.
Il giorno seguente,
quando si svegliò, si accorse che il gattino non gli era più accanto. Si
alzò dal letto in un secondo, infilandosi lo yukata e precipitandosi, per
quanto gli consentisse la propria abituale dignità, fuori della stanza.
Lo vide immediatamente,
seduto sul davanzale della finestra del soggiorno, a guardare il grande
giardino pieno di alberi intorno alla casa. Gli si avvicinò lentamente, e,
quando gli giunse a pochi centimetri, si ritrovò addosso i suoi occhi
freddi.
“Ti sei svegliato presto”
gli mormorò, guardando anche lui il paesaggio esterno.
Rimasero per qualche
istante in silenzio. Le fredde giornate invernali si stavano approssimando,
ma in mattinate come quella, con il cielo azzurrissimo e un sole caldo,
sembrava quasi di poter sentire un anticipo della primavera ancora lontana.
“Cr… Brad… io non riesco
ad andare avanti così”.
Crawford si era sentito
il suo sguardo addosso per tutto quel tempo, nonostante avesse
intenzionalmente evitato di distogliere il proprio dal vetro della finestra.
“So che non riesci a
ricordare… so che questo ti fa star male. Io…” rispose come se stesse
cercando le parole giuste, e voltandosi a ricambiare lo sguardo diretto di
Aya “…ricominciamo da capo, facciamo finta che questi due anni non siano
esistiti – tutto sommato non era una cosa molto difficile – permettimi di
corteggiarti di nuovo, da capo. Accetterò qualsiasi tua decisione, ma voglio
che tu mi conceda del tempo… e un po’ di fiducia”.
L’altro riportò lo
sguardo oltre la finestra. Sembrava non aver neanche sentito le sue parole,
e solo dopo diversi minuti annuì lentamente.
Lui sorrise, in qualche
modo stava disfacendo quello che aveva meticolosamente costruito, ma voleva,
aveva bisogno di giocare più onestamente. La bugia che aveva raccontato non
sarebbe stata dimenticata, e in qualche modo avrebbe influenzato il nuovo
gioco, ma stavolta le regole sarebbero state più oneste.
Si avviò verso la cucina:
“Hai già fatto colazione?
Secondo i turni, credo che oggi toccherebbe a me preparare… toast, succhi di
frutta, uova e caffè… ma per te farò uno strappo, e preparerò del tè verde.
Vieni a farmi compagnia…”.
Aveva usato un tono
allegro, rassicurante, tutto sommato gli dava una certa energia pensare a
questa nuova sfida con l’ex leader dei Weiss…
Un raggio di luce si
riflesse sulle lenti dei suoi occhiali: ed era una sfida che lui non avrebbe
perso.
“Ora devo andare in
ufficio… cercherò di tornare per pranzo; per ogni necessità potrai
rivolgerti a Schuldig, visto che Nagi andrà a scuola, e che Farfarello… beh,
che Farfarello ha i suoi impegni. Ho deciso che mi prenderò il pomeriggio
libero, potremo andare insieme a cercare un dojo, oppure potremmo fare una
passeggiata. Non ti fa bene rimanere sempre dentro casa…”.
La porta della cucina si
aprì improvvisamente:
<Kitten in the house…>
notò ironicamente il tedesco, facendo il proprio ingresso fasciato in
vestiti ben più adatti per una serata in un club per uomini soli e disperati
che ad una mattinata casalinga <…o dovrei dire kittens? O-oh… come siamo
romantici, Romeo… hai preparato la colazione per la tua Giulietta?>
<Piantala con questi
giochetti, imbecille, e vedi di aprire le orecchie, altrimenti questo sarà
il tuo ultimo sorriso> gli replicò Crawford mentalmente, poi proseguì a voce
alta:
“Stavo proprio dicendo ad
Aya che tu potrai fargli un po’ di compagnia, stamattina…”
<Ma bene… penso proprio
che mi divertirò, solo soletto con il gattino…> replicò prontamente l’altro.
<Attento a quello che
fai, Mastermind, dovrebbe esserti chiaro che lui non è per te>.
“Sarò lieto di farti da
guida in città” rispose gentilmente il tedesco, ignorando l’ultimo pensiero
del suo leader e voltandosi invece a guardare il viso teso del suo piccolo
Abyssinian.
Lo sguardo che lo
ricambiò era serio e contrariato:
“Non ho bisogno di una
balia”.
Crawford scosse la testa:
“Non conosci la città,
non ricordi nulla… non vorrei che potesse accaderti qualcosa” spiegò,
afferrando il bricco del caffè.
“Dammi una mappa, credo
che possa bastarmi” fu la pronta replica.
Il leader degli Schwarz
non poté trattenere un piccolo sorriso… non c’era niente da fare, era
proprio Ran Fujimiya in tutto il suo fascino, il suo orgoglio, la sua
testardaggine. Una cosa non era completa senza le altre… ma lui alla fine lo
avrebbe domato.
“Fai come vuoi…” concesse
accomodante <…e tu non perderlo d’occhio per un solo istante> aggiunse
mentalmente all’indirizzo del tedesco.
<Ja, mein führer!>
rispose subito l’altro, battendo anche i tacchi e facendo sollevare lo
sguardo sorpreso di Abyssinian, al quale rispose strizzando un occhio.
Quando Crawford fu pronto
per uscire, si avvicinò ad Aya, rimasto seduto sulla poltrona accanto al
letto:
“Tornerò appena dopo
pranzo, non farmi stare in pena, vedi di distrarti e mangia qualcosa” si
interruppe, frugando nella tasca interna della giacca, estraendo il
portafoglio “Questi potranno esserti utili, se dovessi vedere qualcosa che
ti piace… ” gli porse un mazzetto di banconote “…ci vediamo più tardi”
Prima di uscire, si chinò
per depositargli un bacio sulla guancia, ma l’altro abbassò la testa,
impedendoglielo. Si limitò allora a sfiorargli la fronte, prima di afferrare
il cappotto e lasciare la villa.
Crawford era preoccupato,
il gioco stava richiedendo più energie del previsto, inoltre non aveva
neanche il conforto di una delle proprie premonizioni…
Quando la segretaria
entrò nel suo ufficio con la posta ed i giornali internazionali, lui si
limitò ad un’occhiata distratta. Voltata la poltrona verso l’ampia vetrata
che dominava la città, si chiese ancora una volta se lo sforzo fosse
giustificato.
Serrò i pugni, accidenti
se lo era! Solo averlo accanto, durante quelle notti, aveva scatenato in lui
emozioni che non credeva di possedere… cosa sarebbe stato conquistarlo
completamente, anima e corpo? Inoltre si stava anche accorgendo di essere
divorato da una cocente gelosia: pensare che Aya potesse essere di qualcun
altro gli faceva divampare una rabbia insopprimibile… per fortuna che almeno
quel minorato di Schuldig doveva aver capito che il leader dei Weiss era
caccia riservata…
Si forzò a concentrarsi
nel lavoro, non poteva permettersi di perdere tempo, e denaro, quando tutto
quello che poteva comunque fare era rodersi il fegato in solitudine.
La giornata gli sembrò
inspiegabilmente lunga, e sì che aveva anche deciso che il pomeriggio
sarebbe tornato a casa! Quando uscì dall’ufficio, pronto a lasciare la sede
dalla società che aveva rilevato dopo la morte di Reiji Takatori, le
segretarie lo guardarono stupite, abituate come erano a vederlo uscire dopo
tutti gli altri, e comunque mai prima della chiusura della Borsa.
Lui si limitò ad un cenno
con la testa. Non gli piaceva suscitare curiosità, inoltre non amava molto
quelle impiegate, ancora troppo legate al ricordo dell’uomo politico che per
breve tempo aveva assunto il controllo della città.
Salì sul taxi, che lo
aspettava all’uscita, e si sedette pronto a godersi la passeggiata verso
casa.
Fermo ad un semaforo, fu
assalito da uno dei suoi famosi mal di testa. Poggiò la testa contro lo
schienale del sedile… una premonizione, dopo tanto tempo.
Non furono che pochi
istanti, poi si riprese. Sollevò lo sguardo, incrociando nello specchietto
retrovisore quello del tassista:
“Passi per il parco ***,
per favore” ordinò deciso.
Non ci mise molto a
trovare quello che stava cercando.
Fece fermare l’automobile
e pagò la corsa, aggiungendovi una mancia generosa.
Si avviò, fermandosi solo
quando giunse in mezzo al vialetto che portava al parco, un leggero sorriso
dipinto sul volto, felice di leggere uno stupore puro sul viso del ragazzo
di fronte.
“Che ci fai qui?!” si
sentì chiedere, mentre i freni della bicicletta fischiavano a causa della
frenata decisa.
“Stavo tornando a casa e
ti ho visto dal finestrino del taxi. Ho deciso che forse avresti potuto
darmi un passaggio…”.
Notò lo sguardo
sospettoso nella persona che aveva di fronte, e fu improvvisamente assalito
da pensieri che fino a quel momento non lo avevano neanche sfiorato…
Perché Aya era uscito?
Dove era andato? Possibile che avesse incontrato qualcuno dei Weiss? E poi
la sua rabbia si focalizzò su colui che avrebbe dovuto evitare qualsiasi
problema…
<Mastermind! Non ti avevo
ordinato di tenere d’occhio Abyssinian?! Dove diavolo sei!>
Per qualche istante non
ebbe risposta, e questo non poté che accrescere la sua rabbia, ma poi la
voce nasale di Schuldig gli risuonò stranamente vicina:
<Dove vuoi che sia, my
captain, sull’acero dietro di te, a sorvegliare il nostro tesoro…> lo sentì
sibilare.
<Ci sono stati problemi?
Avete incontrato nessuno?> continuò a chiedere, sentendosi però rassicurato
dalla presenza del tedesco.
<Nessuno, Giulietta ha
deciso di fare una passeggiata da sola… e pare che sia proprio vero il detto
che andare in bicicletta non lo si scorda mai, ha cominciato a pedalare e
non si è più fermato. Sembra un po’ irrequieto> notò Schuldig.
Crawford riportò
l’attenzione su Aya:
“Che ne diresti di darmi
un passaggio fino a casa?” gli chiese, continuando a sorridere.
Lo sguardo che ricevette
gli ricordò molto da vicino quello ricevuto da Takatori Reiji il giorno del
gioco degli human chess.
Nonostante questo, non
sentì alcun desiderio di demordere:
“Fra l’altro, quella è la
mia bicicletta, non la tua…” rimarcò.
Vide l’altro scendere, e
appoggiare il mezzo alla staccionata di legno, per poi voltargli le spalle e
avviarsi a piedi verso l’uscita del parco.
L’Americano non si
scompose più di tanto, legò la cartella al portapacchi e salì sul mezzo
lasciatogli a disposizione, seguendo il compagno. Gli si affiancò sul
cancello di uscita, afferrandolo saldamente per il polso:
“Hai paura anche solo di
una passeggiata? Tu non vuoi darmi neanche una possibilità, in fondo, non è
vero?” gli chiese senza lasciargli il braccio.
Sostenne il lungo sguardo
del leader dei Weiss, avvertendo la stessa sensazione di quando Mastermind
tentava di sondargli la mente… sentiva quasi fisicamente l’altro cercare di
leggere i suoi pensieri.
Gli sorrise, allentando
la presa e facendo un gesto con la mano per invitarlo a sedere davanti a sé,
sulla canna della bicicletta.
Fujimiya si avvicinò
scrollando le spalle, e mostrando tutto il proprio scarso entusiasmo, però
stava facendo uno sforzo, Crawford lo sapeva benissimo. E qualsiasi cosa
potesse avvicinarli era importante, quindi lui continuò a sorridere,
seguendo i movimenti della figura che gli si sistemava davanti.
Riposizionò le mani sul
manubrio, accanto a quelle di Aya, e cominciò a pedalare.
Non erano lontani da
casa, ma decise di percorrere strade alternative, di allungare il percorso,
in modo da prolungare la loro vicinanza. Poi cominciò a sbandare, sbandate
assolutamente immotivate, ma che presto ebbero l’effetto di obbligare
Abyssinian ad appoggiarsi leggermente alla sua spalla per non cadere.
L’inverno era ancora agli
inizi, immerso in quella che, in America, era chiamata l’estate di San
Martino, per la temperatura mite e il cielo limpido che sembravano far
dimenticare gli alberi già spogli.
Si fermò quando
arrivarono sul lungomare. Non disse niente, si appoggiò alla spalletta di
mattoncini rossi a guardare il gioco ciclico delle onde.
Anche Aya sembrava
catturato dallo spettacolo, dal verso stridulo dei gabbiani, dagli scafi
tirati a secco e rovesciati in attesa dell’estate.
Non si dissero niente, e
non si guardarono, ma Oracle era sicuro che quello fosse il momento in cui
si erano sentiti più vicini.
Tornarono lentamente
verso il centro della città: i lampioni cominciavano ad accendersi, e la
temperatura, non più ingannata da quello strano sole caldo, ricominciò a
scendere.
“Se vuoi, possiamo andare
insieme a cercare un nuovo dojo… non riesco a vederti lontano dalla tua
katana”, che fra l’altro doveva giacere da qualche parte sul luogo
dell’incidente.
Crawford aveva pensato a
lungo se fosse il caso di permettere a Fujimiya di riprendere gli
allenamenti, se con questo non rischiasse di ritrovare ricordi inopportuni,
ma poi era arrivato alla conclusione che non poteva tenerlo in una campana
di vetro, avrebbe rischiato di farlo… sì, di farlo ‘morire’…
E poi c’era la sfida, il
rischio che tutto quello che stava costruendo crollasse come un castello di
carte, e non aveva saputo resistere, perché un fallimento avrebbe portato
con sé la verità, e in fondo sapeva che la verità era qualcosa che non
avrebbe potuto evitare per sempre. Rimandare sì, ma evitarla… evitarla no.
Vide gli occhi violetti
di Aya accendersi, lo sguardo farsi vivo mentre si posava su di lui.
Gli sorrise:
“E’ ancora presto,
potremmo andare a vedere un paio di posti che avevamo già selezionato.
Tornando, ci fermeremo a prendere un tè. Ti fa bene uscire un po’”
insistette, infilando la ruota della bicicletta nell’apposito fermo, nel
vialetto di ingresso della villa.
Vide l’altro annuire,
poi, per un attimo, tutto cominciò a girare forsennatamente, mentre dal
fondo del vortice emergeva l’immagine del ragazzo dai capelli rossi
ansimante, a petto nudo, le mani ferme sull’impugnatura della sua katana e
lo sguardo fisso su un ipotetico avversario…
Si riprese velocemente,
cercando di nascondere le emozioni che quella sola immagine aveva scatenato
in lui, e si accorse che il compagno lo stava aspettando, già pronto vicino
al cancello.
****
Crawford precedette Aya
lungo il vialetto che conduceva all'entrata. La palestra era un dojo per
kendo in stile classico: una costruzione su di un solo piano, interamente in
legno, e con un giardino in puro stile tradizionale all'entrata.
Poco prima di varcare la
soglia, l’Americano si voltò, accorgendosi che il compagno era fermo qualche
passo più indietro: “Che ti succede? Non vuoi entrare?"
Lo vide esitare un
istante, poi Aya ricominciò a camminare e lo raggiunse sulla porta; sembrava
catturato da tutto l'insieme, il giardino, il vialetto e la costruzione
stessa:
“Non so... E' strano, ma
mi sembra di essere già stato in un posto simile”.
Crawford si sentì correre
un brivido lungo la schiena, e poi un nome si formò nella sua mente: Sendai.
Probabilmente il dojo,
dove il suo primo maestro aveva introdotto Aya alla spada, doveva essere
molto simile a questo. Mentalmente depennò la città dalla carta del
Giappone; per nessun motivo al mondo lo avrebbe riportato in quella città.
Troppi ricordi per Aya, troppi pericoli per sé.
"Ma certo che sei già
stato in un posto simile; il dojo, che frequentavi fino a pochi giorni fa,
era quasi identico a questo..." gli spiegò tranquillamente, seguendolo
all'interno della palestra.
Già dall'anticamera, si
potevano sentire i passi dei piedi nudi degli allievi sul parquet, i colpi
dei bokken (1) di legno che si scontravano e le grida (2) dei ragazzi che si
affrontavano in finti duelli, cercando di studiare nuove tecniche di
combattimento.
Quando il giovane maestro
li scorse, li raggiunse subito: “Buona sera, prego… in cosa posso esservi
utile”.
Crawford portò lo sguardo
sull’uomo che si era fatto loro incontro, e anticipò Aya nella risposta: “Il
mio amico vorrebbe frequentare la vostra palestra” esordì, guadagnandosi
un'occhiataccia da parte del rossino.
“Molto bene.” Il waka
sensei (3) concentrò la propria attenzione sul secondo visitatore,
squadrandolo da capo a piedi nel tentativo di valutare le sue doti reali:
“Hai già provato a fare kendo, o per te questa è la prima volta?” chiese,
senza riuscire a trattenere una nota di curiosità che andava oltre il
semplice interesse per un nuovo allievo.
L’Americano fu di nuovo
più veloce del compagno:
“No, ha già frequentato
un altro dojo, che però ha chiuso recentemente” spiegò, poi aggiunse
lentamente: “Fujimiya ha avuto poco tempo fa un piccolo incidente, quindi
sarei più sollevato se potessi parlare del suo percorso formativo
direttamente col vostro sensei."
Aveva usato il tono
abituale di quando doveva trattare con dei sottoposti, e cioè, secondo la
sua concezione, il tono che usava con il 99% delle persone con cui
interagiva.
Il giovane insegnante si
voltò a guardarlo, evidentemente sorpreso dai suoi modi.
“Crawford!” gli sibilò
Aya, carico di rimprovero “Waka sensei la prego di scusarlo…”.
Dopo una ulteriore
occhiataccia, l’ex Weiss si impadronì della conversazione con il maestro:
“Purtroppo al momento non
ricordo quasi nulla a causa dell'incidente. Ma sarei lieto se voleste
accettarmi nel vostro dojo” disse, facendo un leggero inchino, come a
sottolineare la serietà e la sincerità della propria richiesta.
“Bene, il nostro sensei
si chiama Haraki Sojirou e nel nostro dojo pratichiamo le tecniche della
scuola Mu To*, cioè della spada non spada.
Prego, negli spogliatoi
dovresti trovare ciò che ti serve per prepararti. Appena sarai pronto, vieni
nella sala degli allenamenti, vorrei vedere come te la cavi. E, comunque”
aggiunse rivolgendosi all’Americano “il sensei Haraki presenzia sempre le
lezioni, non è poi così anziano.”
Negli spogliatoi, Aya
trovò il keikogi (4) e l'hakama (5) della sua taglia. Il tempo necessario
per cambiarsi non fu molto, ma Crawford assaporò quegli attimi come fossero
gli ultimi della sua vita. La sobrietà e la grazia dei movimenti del ragazzo
erano ipnotici, e quando Aya si voltò, appena finito di farsi il nodo a
farfallina sulla parte anteriore dell'hakama, lui non riuscì a trattenere un
sorriso:
"Sei bellissimo anche
così, lo sai vero? Sembri proprio un samurai..." gli disse, lasciando poi
che l’altro lo anticipasse nel raggiungere la palestra.
Quando Aya entrò, il waka
sensei battè le mani e immediatamente tutti i ragazzi si fermarono e si
andarono a sedere in ginocchio (in seiza) lungo la parete di destra.
L’Americano cercò di
entrare nello spirito di quello a cui stava per assistere, ma le arti
marziali non erano mai state il suo forte, aveva sempre preferito lo scontro
a mani nude, utilizzando le semplici e rigide regole della boxe. Non era mai
riuscito a vedere niente di filosofico in uno scontro fisico, e invece
tutti, in Giappone, sembravano considerare il combattimento quasi
un’esperienza mistica.
E poi non riusciva a
nascondere una certa preoccupazione, non gli piaceva neanche l’aspettativa
che poteva sentire intorno a quella che gli sembrava una esibizione
pericolosa e caricata di significati che non riusciva a comprendere
completamente.
"Bene Fujimiya, prendi un
bokken e vieni al centro."
Aya eseguì gli ordini del
giovane insegnante con fredda determinazione, fatto che non poteva essere
sfuggito all'uomo. Oltre le sue spalle, un signore sulla cinquantina stava
osservando la scena molto attentamente.
"Fujimiya, per questi
primi tre attacchi io sarò l'uke (6) e ti attaccherò, cerca di fare del tuo
meglio nel difenderti e non andarci leggero. Colpisci pure." e detto questo
il waka sensei ed Aya si fecero l'inchino prima di iniziare.
L'uomo assunse la posa di
attacco con fendente verticale (shomen), mentre Aya lasciò la sua spada
nella posizione iniziale, in estensione davanti a sé (seigan). C'era una
forte tensione nell'aria, ed il waka sensei lasciò che il suo sguardo
incrociasse quello del ragazzo: la forza e la minaccia che trovò in quegli
occhi erano impressionanti.
Nel viso dell’uomo erano
ben leggibili i suoi pensieri: si trovava di fronte un ragazzo diverso dagli
altri allievi, pronto a battersi per la propria vita come se fosse realmente
in pericolo di morte. Proprio come in un duello con spade vere...
Mentre era ancora immerso
nei propri pensieri, il suo avversario decise di attaccarlo, cogliendolo di
sorpresa: riuscì a parare il fendente alla tempia appena in tempo, ma Aya si
apprestava a colpire ancora.
Il giovane maestro
riuscì, nonostante tutto, a trovare un vuoto nella difesa del ragazzo più
giovane ed a colpirlo, facendogli perdere l’arma.
“Fujimiya, sbaglio o ero
io a dover attaccare!” la sua voce era tonante all'interno della sala, “Di
nuovo, ma attento, questa volta attaccherò io, e con molta decisione”.
Il tono di minaccia, la
voce tonante e il bokken sollevato contro il ragazzo fecero innervosire
Crawford, nessuno doveva permettersi di minacciare il SUO Aya, e soprattutto
in SUA presenza.
Vide i due tornare al
centro della sala, e riprendere la posizione di guardia.
Nuovamente la freddezza
di Fujimiya colpì l'insegnante… il ragazzo sembrava sfidarlo, e lui sembrava
non riuscire a resistere alla provocazione.
Gli sferrò il fendente al
ginocchio. Ci fu un forte suono di legno contro legno…
Crawford trattenne il
fiato, mentre osservava Aya schivare un attacco dopo l'altro.
****
L’Americano distolse per
un istante lo sguardo da quel viso pallido e concentrato, accorgendosi degli
occhi attenti degli altri allievi, dello sguardo ammirato del sensei Haraki,
del… se quel dannato maestro non la piantava di tenere gli occhi appiccicati
su Aya, con quell’aria estasiata e sbavante, lo avrebbe preso a pugni, e in
quelli era sicuro di battere questi stupidi buffoni armati di un bastone!!
Riportò l’attenzione su
Aya, il respiro era appena affannato, la concentrazione totale mentre
studiava i movimenti dell’avversario, infliggendo punti su punti… era bello,
e irraggiungibile.
Quando il confronto
terminò, gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla, come a
sostenerlo.
“Come ti senti?”
Il compagno si scansò,
prendendo un telo di spugna per asciugarsi il sudore, poi si voltò verso di
lui, rivolgendogli uno sguardo appena più amichevole:
“Sto bene. Grazie per
avermi portato qui, Cr.. Brad…” gli mormorò, distogliendo gli occhi.
Ecco, questa era la
strada giusta! L’Americano sorrise scuotendo la testa… non sarebbe stata che
la prima delle mille attenzioni con cui avrebbe conquistato il suo gattino,
anima e corpo.
Il maestro anziano si
avvicinò, sorridendo e ricambiando l’inchino con cui i due giovani lo
salutarono:
“Sarei felicissimo,
signor Fujimiya, se lei volesse allenarsi nella nostra palestra… talenti
come il suo sono piuttosto rari, e glielo dice un uomo con molta esperienza,
che ha visto molti ragazzi scontrarsi con le rigide regole della nostra
disciplina…”.
Quando uscirono
all’aperto, Crawford si incamminò verso una sala da tè in centro. Tokyo di
sera era piena di luci, vetrine sfavillanti, gente indaffarata e studenti
appena usciti da scuola… era una esperienza a cui lui era ormai abituato, ma
il viverla con Aya gliela faceva apparire nuova. Cercò di studiare le
reazioni negli occhi del compagno, ma non riuscì a leggere nulla, anni e
anni di auto imposizione delle rigide regole della scuola dei samurai
avevano creato una corazza invalicabile a difesa di qualsiasi emozione.
Quando entrarono nel
locale, la ragazza che li accolse all’ingresso si inchinò profondamente,
riconoscendo uno dei loro clienti più generosi, poi il proprietario li
accompagnò al tavolo d’angolo, quello con la migliore vista sulla città.
“Un tè verde, uno al
bergamotto, una fetta di torta al limone ed una al caffè” disse l’americano,
ordinando per entrambi.
Aya non obiettò, finché
la cameriera rimase a prendere l’ordine, ma appena furono soli rimarcò di
essere in grado di scegliere da solo.
Lui scosse la testa,
rilassandosi contro lo schienale del sedile. Si sentiva bene, per una volta
non c’erano ordini, clienti da accontentare… e anche il lavoro a capo della
sua società sembrava meno pressante, meno importante.
Il tè arrivò servito in
eleganti porcellane Wedgewood… strano, si stupiva sempre delle stranezze di
un paese ricco di tradizione come il Giappone, di questa abitudine di
abbandonare certe usanze per adottare le abitudini dei paesi occidentali…
perché servire il tè in elaborate tazze fiorate dipinte a mano quando la
cerimonia del tè in Giappone aveva regole ben determinate e radici molto più
profonde?
“Venivamo spesso qui?”
gli chiese Aya improvvisamente, distogliendolo dai suoi pensieri oziosi.
“Abbastanza… ma vengo
soprattutto da solo, è abbastanza vicino al mio ufficio, ed è un buon posto
per rilassarsi un po’”.
Il compagno rimase in
silenzio, come se stesse riflettendo sulle parole appena udite, poi domandò
con noncuranza:
“Ti piace il tuo lavoro?”
Crawford sorrise:
“Sono americano fino al
midollo, vivo per il mio lavoro: mi piace pianificare, organizzare, anche
rischiare. C’è una tensione nel mondo degli affari che si può trovare
difficilmente in altre attività… Direi che è la stessa tensione che vedo in
te quando ti alleni con la katana” terminò, rigirandosi la tazza tra le
mani.
“E io lavoro?”
Ah, aveva deciso che non
gli avrebbe più mentito, ma come fare? Ogni situazione lo forzava ad
aggiungere qualche nuovo particolare a quella farsa.
“No, non lavori, non
proprio. Spesso mi dai una mano alla società…” dal dossier sul leader dei
Weiss, aveva saputo che il padre di Aya lo aveva obbligato a studiare
duramente fin da piccolissimo, per poter un giorno seguire le sue orme nel
mondo dell’alta finanza “…e poi stai ancora frequentando i corsi di
economia”.
Ok, questa era un’altra
delle cose che costituivano la sfida di quella situazione: aveva intenzione
di fargli terminare gli studi, sapeva che Fujimiya era una persona in gamba
e che la morte dei genitori lo aveva privato di molte cose, adesso era
giunto il momento di recuperare una vita normale. Un po’ gli veniva da
ridere, una vita normale in un contesto completamente anomalo come quello
che potevano rappresentare quattro assassini prezzolati e dotati di poteri
paranormali, una vita normale dopo essere stato un assassino lui stesso, una
vita normale costruita su un cumulo di bugie…
Gli sorrise, tornando
alla realtà:
“Altre domande?”
Sapeva quale sarebbe
stata quella più ovvia, ma sapeva anche che Aya non gliela avrebbe rivolta,
era ancora presto per parlare di cose personali, e il fatto che fino ad
allora lui non gli avesse mai accennato l’esistenza di un qualche familiare
doveva aver dato più di un sospetto al compagno.
Dopo un momento di
silenzio, infatti, l’altro cambiò argomento:
“Mi piace questo posto,
capisco che tu ci venga spesso”.
Lui sorrise di nuovo, poi
si portò la tazza alle labbra. Avanzava piano, ma avanzava…
Quando tornarono a casa,
trovarono solo il piccolo Nagi ad aspettarli. Schuldig e Farfarello erano
usciti insieme, e Crawford temeva di sapere cosa fossero andati a fare. Dare
quegli sfoghi all’irlandese pazzo era l’unico modo per gestirlo…
fortunatamente in genere era il tedesco ad accompagnarlo.
“Come stai? Ti senti
meglio, Aya?” chiese Nagi, avvicinandosi incerto.
“Sta meglio. Abbiamo
trovato un nuovo dojo…”.
Naoe non aveva chiesto
nulla di particolare, eppure lui sentiva una strana necessità di costituire
l’unico contatto di Fujimiya con il mondo esterno.
Il piccolo giapponese
sorrise, poi voltò loro le spalle avviandosi verso il bancone della cucina:
“Cosa volete mangiare per
cena?” disse, improvvisamente di buonumore.
Eppure la voce che gli
rispose aveva un che di metallico:
“Qualsiasi cosa Crawford
vorrà prepararci” lo aveva bloccato gelidamente Aya.
L’americano si voltò
verso il compagno: ovviamente questa storia dei turni andava bene quando si
parlava degli altri, non aveva mai creduto di esserne coinvolto…
Rimase per un attimo
incerto tra il rimettere immediatamente a posto le cose, spiegando al
ragazzo le ‘regole della casa’, e l’abbozzare per amore di una giornata fino
a quel momento perfetta.
Scrollò le spalle,
espirando rumorosamente, poi si tolse la giacca, andando ad infilarsi il
grembiule. Per fortuna i piatti americani che sapeva cucinare erano tutti
piuttosto semplici, e se la cavò rapidamente. Mentre lui cucinava, Aya e il
nano apparecchiarono, e anche la cena trascorse tranquilla. Interrogare Nagi
sulle cose che faceva a scuola era di grande aiuto per tenere la
conversazione ad un livello più evoluto di un imbarazzato silenzio, e poi il
notiziario economico della sera completò l’opera, rapendolo finché non fu di
nuovo tutto in ordine.
Il ragazzino rimase un
po’ con loro, in soggiorno, girando i canali della televisione, mentre lui
era preso dal giornale e Aya dal Bushido, poi decise, finalmente, di
togliere il disturbo, dopo uno sbadiglio sin troppo plateale.
Dopo qualche minuto,
anche lui si alzò:
“Andiamo a dormire,
amore, è tardi” disse chiudendo il giornale, e appoggiandolo sul tavolino
basso.
Si fermò in piedi davanti
a Abyssinian, porgendogli un mano per aiutarlo ad alzarsi, ben sapendo,
comunque, che l’altro avrebbe rifiutato.
E infatti Aya si alzò da
solo, e si avviò verso la loro stanza senza guardarlo.
Lui decise di attardarsi
ancora qualche secondo nello studio, dandogli il tempo di prepararsi, senza
metterlo in imbarazzo con la propria presenza. Quando varcò la porta della
camera, vide che era accesa solo la luce dalla propria parte del letto,
mentre anche la testa rossa del compagno era quasi completamente nascosta
dalle coperte. Si sfilò gli occhiali, appoggiandoli sul comodino, e cominciò
a pensare se quella tattica avrebbe mai potuto portare dei risultati… finora
qualche passo avanti c’era stato, ma certamente la strada era ancora lunga.
Si alzò, andò in bagno
per lavarsi e prepararsi per la notte, poi tornò nella stanza da letto,
infilandosi sotto le coperte e scivolando al fianco di Aya.
Questo comportamento gli
era certo più congeniale dell’usuale arrendevolezza di quegli ultimi giorni:
gli avvicinò le mani alle pelle candida, poi delicatamente gli cinse la vita
con le braccia.
Sapeva che l’altro non
era addormentato, e sapeva di stare rischiando con quella mossa improvvisa,
ma era stanco di aspettare.
Sentì quel corpo
irrigidirsi, poi girarsi tra le sue braccia, cercando di allontanarlo
puntandogli i pugni contro il petto:
“Crawford! Cosa stai
facendo?!” gli sibilò infatti il compagno, cercando di liberarsi.
Ma lui gli serrò le mani
intorno ai polsi:
“Non voglio farti niente
di male, non allontanarmi ogni volta che cerco di starti vicino” replicò
tranquillamente, cercando di bilanciare la morsa in cui lo stringeva con la
dolcezza delle parole.
“Lasciami andare”
insistette Aya, continuando a divincolarsi.
Lui gli lasciò andare i
polsi, passandogli però le braccia intorno al petto:
“No. Abituati all’idea”
gli ribatté, senza allentare la presa.
Lo scontro fu lungo e
muto, e solo la stanchezza pose fine alla battaglia. L’abbraccio di Crawford
era troppo saldo per permettere ad uno stanco Aya di liberarsi, e così alla
fine si addormentarono uno nelle braccia dell’altro, proprio come
l’americano aveva previsto sin dal pomeriggio.
Quando Crawford si
svegliò, la mattina dopo, Aya era ancora tra le sue braccia, addormentato.
Nella pallida luce del
primo mattino, si lasciò andare alla contemplazione dei particolari perfetti
del volto del compagno: gli occhi chiusi, dalle lunghe ciglia morbide, le
sopracciglia sottili, rosso scuro, il naso aristocratico, leggermente
all’insù e appena spruzzato di lentiggini… la tentazione era forte, e ormai
aveva deciso che aveva resistito sin troppo a lungo. Scese lentamente su
quel viso, andando ad appoggiare le labbra su quelle appena socchiuse di Aya.
Quando si allontanò, si
trovò due occhi viola spalancati e fissi nei propri.
Sorrise, senza aggiungere
una parola. Poi gli passò le dita tra i capelli.
Aya voltò la testa,
chiudendo gli occhi:
“No” mormorò, cercando di
sottrarsi alle sue carezze. Sembrava più arrendevole, ma non era qualcosa di
positivo, sembrava un aver perso la speranza, una assenza totale di
partecipazione a quello che gli stava accadendo.
“Amore, la situazione sta
cominciando ad essere pesante, per me. Vorrei che tu cercassi di capire…”
gli sussurrò, sfiorandogli l’orecchio con la punta delle dita.
“Mi è bastato ieri sera!
Crawford… Brad… avevi detto che mi avresti dato tempo” stavolta lo sguardo
di Aya era fisso nel suo.
L’Americano scosse la
testa:
“E tu avevi detto che
avresti fatto uno sforzo, e invece sembri una tartaruga che si rinchiude nel
suo guscio… cerca di avere fiducia in me!” si ributtò con la schiena sul
materasso, abbandonandosi sui cuscini. Sicuramente il tono scoraggiato lo
avrebbe aiutato.
Il compagno si voltò
verso di lui, sollevandosi sull’avambraccio:
“Non ricordo niente,
neanche il minimo particolare…” disse piano “…la città, la casa, te… nulla!”
Lui si girò per guardarlo
meglio:
“E la katana? Hai
ricordato qualcosa oppure i movimenti sono venuti naturalmente e basta?”
provò ad indagare.
L’ex leader dei Weiss
scosse il capo:
“Niente” mormorò
abbassando gli occhi.
“Non preoccuparti, con il
tempo qualcosa ti tornerà alla memoria… per esempio…” Crawford si interruppe
per un istante, poi riprese sorridendo: “Stasera c’è un ricevimento
organizzato dall’associazione delle holding finanziarie. Vuoi venire con me?
Potresti incontrare qualcuno che conosci…” gli propose.
Lo sguardo serio di Aya
faceva chiaramente capire che quella proposta non gli era esattamente
gradita:
“Se non vuoi, non c’è
alcun problema. Però penso possa servirti per distrarti, e magari, in mezzo
ai discorsi barbosi delle persone che interverranno, potrai ricordare anche
qualcosa del lavoro.
In ogni caso, scegli tu”.
Era la tattica migliore,
pressare e poi fare un passo indietro, fingendo di lasciare la scelta alla
preda quando ormai era stretta in un angolo.
Aya non gli rispose,
affondò la testa nel cuscino richiudendo gli occhi. Ci avrebbe pensato,
questo era sicuro, e probabilmente avrebbe ceduto. In qualche modo era
sempre una questione di orgoglio, di rispondere ad una sfida.
Era giunto il momento di
alzarsi, quel giorno avrebbe dovuto lavorare fino al pomeriggio, e se tutto
andava come previsto, e lui era il migliore nel prevedere le cose, non ci
sarebbero stati intoppi.
Prima di lasciare la
stanza, perfettamente preparato per il lavoro, si avvicinò al letto,
sedendosi sul bordo. Passò ancora una volta le dita tra i capelli di Aya,
facendo poi scendere la mano fino ad accarezzargli la spalla. Si chinò per
baciargli la fronte, poi gli raccomandò di non dimenticare le medicine.
Tutto stava andando
abbastanza bene, ma non poteva permettersi un momento di distrazione.
Quando arrivò in ufficio,
le segretarie lo accolsero con il solito saluto formale. Lui rispose con un
rapido cenno del capo, prima di chiudersi nella propria stanza. Quel giorno
aveva più di un motivo per dover rimanere tutto il giorno negli uffici della
sua Società.
Per prima cosa chiamò il
cellulare dell’idiota, e quando sentì il familiare ‘Heil’ con cui Mastermind
aveva preso l’abitudine di salutarlo, pensò che prima o poi qualcuno gli
avrebbe dovuto spiegare perché un dono prezioso come quello di leggere nella
mente fosse stato dato ad uno scervellato come Schuldig.
“Ho bisogno che tu faccia
una cosa” gli disse senza neanche salutarlo.
“E’ sempre un piacere
accontentarti, Mein Führer, soprattutto quando mi chiedi aiuto con tanta
grazia…”.
Gli scherzi del tedesco
erano in quel momento una stupida perdita di tempo:
“Voglio che tu scandagli
le menti degli altri Weiss. Mi consegnerai il rapporto stasera” chiuse la
comunicazione senza neanche aspettare la risposta, ma lui era il leader e
gli altri dovevano solo ubbidire.
La prima cosa era fatta.
Sapeva bene che, nonostante l’accordo con il capo dei Kritiker, gli altri
tre stupidi non sarebbero rimasti con le mani in mano. La sua espressione si
indurì pensando ad uno di loro in particolare: sapeva che quella specie di
ex detective, quel fallito che non era stato in grado di proteggere la sua
fidanzata, era da tempo troppo affezionato ad Abyssinian, e che non
avrebbe rispettato gli ordini dei loro capi e fatto finta che Fujimiya non
fosse mai esistito. In qualche modo era una cosa comprensibile, anche lui
non era stato in grado, nonostante le argomentazioni più che convincenti, di
lasciarlo andare, di allentare la presa, ma stavolta non ci sarebbero stati
colpi di scena, Aya era suo, ormai, e sarebbe stato un gioco da ragazzi
liberarsi dello scomodo concorrente.
Si abbandonò contro lo
schienale della poltrona: mancava un’altra cosa, stavolta un compito più
semplice, che avrebbe richiesto poche telefonate e un po’ di soldi. Era un
sistema sicuro, lo aveva usato più volte in altri contesti. Lui lo chiamava
costruire uno sfondo.
Si collegò al sito
dell’agenzia da cui si riforniva in occasioni del genere. Non era necessario
il talento di Prodigy per non lasciare tracce del proprio passaggio. Scelse
dal catalogo le persone più rassicuranti: era buffo, sotto ad ogni immagine
era presente una descrizione ed il ruolo più adatto in cui poter utilizzare
il candidato. Selezionò i profili che davano più fiducia, e poi inviò una
descrizione dell’incarico, allegando una immagine di Aya Fujimiya.
Ok, non era un modo
pulito, ma forse non ne esisteva uno. E una volta che Aya fosse stato suo,
sarebbe stato più facile anche rivelargli, a poco a poco, la verità. Sì,
sarebbe stato divertente anche quello…
Chiuse il collegamento,
concentrandosi nel lavoro. Gli affari non aspettavano, e già si era
distratto troppo, negli ultimi giorni.
Quando arrivò il
pomeriggio, lasciò la sede della società con la consapevolezza che il suo
impero diventava ogni giorno più florido. In America aveva avuto fortuna,
lanciando la sua piccola start-up in un momento particolarmente propizio. Si
era buttato sulle nuove tecnologie nel periodo in cui il settore tirava di
più, ma aveva saputo uscirne, per buttarsi sul settore finanziario più
tradizionale, esattamente al momento giusto.
Sorrise, infilandosi
nella sua BMW: aveva sempre avuto fiuto per gli affari, e soprattutto era
riuscito a sfruttare ogni occasione a proprio vantaggio. Ogni lavoro in cui
si era lasciato coinvolgere aveva avuto un ritorno positivo. Se Reiji
Takatori era morto, era stata anche la conseguenza di un suo calcolo
sull’inutilità di rimanere legato ad un uomo che aveva i giorni contati.
Il traffico sembrava
scorrevole, nonostante fosse l’ora di chiusura degli uffici; avrebbe avuto
tutto il tempo di arrivare a casa, prepararsi, e uscire di nuovo con Aya per
andare al ricevimento.
Si sentiva stranamente
euforico, si aspettava molto da quella serata, nonostante ancora non gli
fosse giunta nessuna immagine a rassicurarlo sull’esito del proprio piano.
Imboccò il vialetto della
villa, senza parcheggiare l’automobile nel garage, non ce ne era alcuna
necessità, visto che sarebbero usciti presto.
Quando entrò in casa, si
accorse ancora una volta quanto la presenza del leader dei Weiss avesse
mutato le abitudini dei suoi occupanti: Farfarello stava disegnando,
certamente lo stile della tela sul cavalletto non avrebbe incontrato i gusti
del pubblico più tradizionalista, con quel rosso a farla da padrone e quei
visi segnati, scuri, ma era sempre meglio questo che dedicarsi alle
incisioni su pelle umana.
Poi c’era Nagi, impegnato
nei compiti, con la testa affondata nei libri ed uno sguardo assorto, non
sognante come lo trovava quasi ogni sera nei giorni precedenti, perso nel
ricordo di quella ragazzina deficiente con quel nome assurdo.
E poi Schuldig… Schuldig
continuava in qualche modo a preoccuparlo. Non perché pensasse che il
tedesco avrebbe mai azzardato qualcosa, però si era accorto che rimaneva
quanto più possibile in casa, e si divertiva a stuzzicare l’ultimo arrivato,
utilizzando un atteggiamento confidenziale che lo faceva andare in bestia… e
forse indulgendovi proprio per questo.
Si guardò intorno, e non
impiegò molto tempo a riconoscere nella forma stesa sul divano, coperta da
un plaid e immersa nella lettura di un libro, il suo Aya.
Si avvicinò fino a
sederglisi accanto, sull’alto bracciolo:
“Ciao” guardò per un
istante l’orologio “Non abbiamo molto tempo, dovremmo cominciare a
prepararci” disse lentamente, allungando una mano per allontanargli una
banda di capelli cremisi dal viso.
Lo sbuffo che ricevette
in risposta si rivelò di non semplice interpretazione, ma non era da lui
darsi per vinto. Si sollevò in piedi, riprendendo la ventiquattrore appena
appoggiata sul tavolo, e si diresse verso lo studio. Dopo una rapida
occhiata alla scrivania, sulla quale faceva bella mostra di sé il rapporto
di Schuldig, uscì rapidamente per infilarsi nella camera da letto, e quindi
nel bagno.
Non avevano pronunciato
altre parole, Abyssinian non era tipo con il quale servisse abbondare, in
questo senso. A questo punto doveva aver già deciso cosa fare, per la
serata, e un compagno pressante lo avrebbe solo infastidito.
Dopo la doccia, tornò in
camera da letto per scegliere cosa mettersi. Era un ricevimento importante,
con molta gente che contava nel mondo dell’alta finanza.
Non si distrasse dalla
contemplazione dei numerosi completi appesi nell’armadio neanche quando
sentì la porta aprirsi. Allungò il braccio per prendere lo smoking e una
camicia bianca. Da uno dei cassetti del tavolo estrasse il cofanetto con i
gemelli, e da una scatola prese la cravatta.
Si sedette sul letto,
finendo di asciugarsi i capelli con l’asciugamano. Non si voltò neanche
quando sentì Aya avvicinarglisi, fermarsi qualche secondo di fronte a lui e
poi dirigersi verso il bagno. Continuò a massaggiarsi la testa, e quando
sentì l’acqua scorrere nella doccia fu chiaro che ancora una volta la sua
tattica era stata vincente.
Stava abbottonandosi la
camicia quando il compagno tornò nella stanza. La pelle chiarissima appena
arrossata dal calore dell’acqua e i capelli ancora bagnati, Crawford avrebbe
voluto fare molte cose al leader dei Weiss, e il 99% di queste non prevedeva
neanche che i due lasciassero la stanza… ma non era ancora il momento.
“Penso che questo
dovrebbe andarti…” gli mormorò, indicandogli il vestito appoggiato sul
letto.
Non ebbe risposta,
neanche uno dei soliti sguardi inceneritori.
Finirono di vestirsi in
silenzio. Quando si voltò verso Fujimiya, per un momento trattenne il
respiro: la camicia bianca con lo jabot, la giacca di velluto nero e i
pantaloni dritti davano al ragazzo l’aspetto di un cavaliere settecentesco,
etereo e letale allo stesso tempo.
Perso nella
contemplazione, non si rese conto che l’altro gli si era avvicinato,
sollevando le braccia per annodargli la cravatta.
Non disse niente,
nonostante lo stupore per quel gesto così intimo, qualcosa che non aveva
motivo di esistere nella relazione che li legava. Si limitò a fissare gli
occhi in quelli viola del compagno, cercando di resistere alla tentazione di
fermare quelle mani sottili nelle proprie.
Quando furono pronti
entrambi, si scambiarono appena uno sguardo, prima di uscire dalla stanza e
avviarsi verso la porta per la loro prima uscita ufficiale.
Passarono davanti agli
altri Schwarz senza fermarsi, ma, anche così, Crawford non poté fare a meno
di avvertire il ghigno di Schuldig e le sue parole sarcastiche:
<Da quel che leggo nella
testolina arruffata del Kätzchen, non gli sembra difficile resistere al tuo
fascino. Preparati a un’altra notte in bianco mein führer…>
“Dai le pillole a
Farfarello e non permettere al ragazzino di stare davanti al computer tutta
la notte. Noi torneremo tardi” replicò lui, ignorando le battute derisorie
dell’altro.
Quando arrivarono di
fronte al Palazzo dei Congressi, nel centro di Tokyo, la piazza era
illuminata a giorno. Un cordone di polizia teneva a bada giornalisti e gente
comune, mentre una fila di macchine lussuose avanzava lentamente verso il
portone di ingresso.
Crawford si voltò verso
Aya, cercando di studiarne la reazione, ma quel che vide fu solo un viso
impassibile. In qualche modo aveva scelto quell’occasione anche per cercare
di abbagliarlo con la dimostrazione del proprio potere: forse era un
atteggiamento un po’ infantile, forse un demente come Schuldig lo avrebbe
definito un mezzuccio da ultima spiaggia, ma per lui era importante che Aya
capisse con chi aveva a che fare, che si rendesse conto della sua autorità,
riconoscendogli di averlo circondato di premure e attenzioni, come raramente
ci si potrebbe aspettare da una persona importante e abituata a comandare.
Quando arrivarono davanti
all’ingresso, l’uomo del servizio d’ordine non gli chiese neanche l’invito,
ma fece direttamente segno di varcare i cancelli che portavano al cortile
interno.
Parcheggiò l’automobile,
girando poi intorno al mezzo per aprire la portiera del compagno. Gli venne
un po’ da sorridere, vedendo la reazione prima incredula e poi gelida di
Fujimiya:
“Non sono una donna” si
sentì sibilare, dopo che la portiera dell’auto gli fu fatta sbattere contro
un braccio, ripagandolo del suo aiuto da prode cavaliere.
Andava bene anche così,
tutto meno l’indifferenza…
Entrarono fianco a fianco
nella grande sala già gremita di gente.
Crawford sorrise
leggermente avvertendo i commenti sussurrati al loro ingresso. Ovviamente la
maggior parte di quegli uomini d’affari era abituata a vederlo partecipare
da solo a queste riunioni. Non aveva mai fatto ricorso ad accompagnatrici, e
non gli era mai neanche passata per l’anticamera del cervello l’idea di
portare con sé qualcuno degli Schwarz, e questo bastava a giustificare la
curiosità di cui ora erano circondati.
Scesero i pochi gradini
che portavano nella sala vera e propria, e subito un cameriere si avvicinò
con un vassoio di coppe di champagne. Ne prese una per sé, e ne porse
un’altra ad Aya.
Il compagno continuava a
mantenere l’atteggiamento impassibile. Si guardava intorno, ma senza
eccessiva partecipazione.
“Spero che non ti
annoierai troppo…” gli mormorò, sperando di vederlo reagire.
L’altro si voltò verso di
lui scrollando le spalle, poi, come pentendosi di un atteggiamento così
distaccato, tentò di distendersi un po’:
“Per me si tratta di una
serata, sei tu che devi trascorrerci insieme la maggior parte del tempo…”.
Crawford gli sorrise,
dimostrandogli di apprezzare lo sforzo:
“Vieni, dobbiamo
mescolarci un po’ con gli altri. E’ lo scopo di questo tipo di riunioni”.
Conosceva, almeno di
vista, quasi tutti gli invitati. Molti facevano parte dei consigli di
amministrazione delle società più quotate del Giappone, ma ce ne erano
parecchi dagli Stati Uniti e dall’Europa. Un po’ gli veniva da ridere, a
vederli così omaggianti quando invece, all’inizio della carriera, non gli
avevano dato un minimo di fiducia! Eppure il suo comportamento non rivelava
in alcun modo il disprezzo che provava per loro, nel mondo degli affari non
era mai una buona mossa inimicarsi qualcuno… non si sapeva mai quanto potere
avrebbe potuto assumere, un giorno.
In quel momento un
distinto signore anziano, con il pince-nez, si fece loro incontro,
sorridendo:
“Mr Crawford, quanto
tempo! Sono molto felice di incontrarla…” si voltò poi verso Aya, senza
alterare il sorriso bonario “…non sapevo che sarebbe intervenuto anche lei,
Mr Fujimiya!”.
Gli occhi del ragazzo si
dilatarono appena, mentre ricambiava la stretta di mano dell’uomo che gli si
era fermato di fronte.
L’Americano osservò la
scena massaggiandosi il naso, in quello che sapeva stare diventando un gesto
abituale per lui. Il movimento gli permise però di nascondere una smorfia di
soddisfazione: non c’era niente da fare, l’agenzia da cui si serviva era la
migliore nel settore teatrale, e l’uomo che gli avevano procurato
corrispondeva esattamente alla parte.
“Buonasera Nakoma-san,
sono contento di rincontrarla…” mormorò, quando l’attore gli porse la mano
in un saluto all’occidentale.
L’uomo rise:
“Come potevo perdermi
questo raduno di dinosauri? E poi…” si voltò di nuovo verso l’ex leader dei
Weiss “…il solo fatto di aver potuto rivedere Mr Fujimiya mi ripaga dello
sforzo di essermi trascinato sin qui!”.
“Aya, non so se ricordi
Nakoma-san…” Crawford si era voltato verso il ragazzo più giovane, cercando
di apparire disinvolto “…ci ha aiutato nell’acquisizione della Tazuka Inc.,
l’anno scorso”, si girò poi di nuovo verso l’uomo anziano: “Fujimiya ha
avuto un piccolo incidente, soffre di alcuni vuoti di memoria…”.
L’attore esibì una
perfetta espressione di partecipazione e commiserazione, arrivando a
raccontare un caso analogo accaduto al nipote di terzo grado, il quale, a
causa del trauma subito, aveva poi conosciuto una pediatra della clinica
universitaria e adesso era marito e padre felice di tre pargoli.
Crawford finse di
prestare attenzione al racconto, palesemente improvvisato, ma con la coda
dell’occhio studiava la reazione di Aya. Neanche lui stava seguendo il
racconto dell’uomo, invece lo osservava attentamente, come se cercasse di
studiarlo in ogni particolare, tentando di ricordare qualcosa.
Quando Nakoma li lasciò,
sparendo nella folla, sui due scese un silenzio pesante. Solo dopo qualche
minuto, fu Aya a romperlo:
“Non ricordo nulla. E’
come se ci fossimo incontrati oggi per la prima volta…” mormorò, portandosi
poi il bicchiere alle labbra e vuotandolo d’un fiato.
“Il dottor Tabase ha
detto che è normale, che non devi avere fretta… l’importante è che ti
rilassi, e che tu non stia sempre a pensare di dover ricordare qualcosa…
sono sicuro che adesso che riprenderai gli allenamenti con la katana, le
lezioni all’Università, e che tornerai a darmi una mano con il lavoro, tutto
ti sembrerà meno pesante. Essere impegnati aiuta sempre a superare i
problemi”.
Non aveva parlato del
loro rapporto, anche lui sapeva quando era il caso di evitare di pressare
troppo.
“Hn”.
La risposta di Aya era
scontata, ma lui aveva imparato a leggere anche questi versi, e questo
mancava di tutti i parametri della convinzione.
Presto si trasferirono
tutti nell’Auditorium, per i brevi discorsi che avrebbero dovuto cementare i
legami dovuti al loro ruolo di guide per l’evoluzione economica del
Giappone.
La maggior parte dei
relatori non fece che ripetere banalità trite e ritrite, un condensato in
cui cinismo e buoni sentimenti riuscivano a sfidare l’impossibile,
coesistendo e amalgamandosi.
Quando il chair-man
chiamò l’intervento di Mr Brad Crawford, l’Americano notò il primo lampo di
sorpresa negli occhi del compagno.
Prima di alzarsi in
piedi, gli strinse una mano nella propria, in uno strano gesto, come se
volesse tranquillizzarlo che tutto stava andando bene, che non lo avrebbe
abbandonato in mezzo a quella folla di sconosciuti. E la cosa strana fu che
Aya non allontanò la mano, ma per un istante, forse senza pensare, agendo
solo d’istinto, intrecciò le dita alle sue.
Mentre percorreva il
corridoio con la guida rossa che portava al palco, si sentì carico come non
lo era mai stato.
Non tirò neanche fuori la
bozza che aveva buttato giù per quel discorso; parlò a braccio, distogliendo
raramente gli occhi da quelli di Aya, con un trasporto e una determinazione
in grado di catturare l’attenzione di ogni persona che affollava quell’auditorium
strapieno. Per una volta, statistiche, previsioni, analisi, trend sembrarono
animarsi di vita propria, colorandosi di un significato che travalicava
quello puramente finanziario, ma concorrendo alla descrizione di un quadro
del Giappone a tutto tondo, mescolando analisi sociali, storiche e culturali
a quella più prettamente economica.
Dietro il suo discorso si
leggeva ben altro, e la cosa fantastica era che ognuno, in quella sala,
poteva ritrovarvi una rassicurazione verso quelle che erano le proprie paure
del futuro. E una cosa del genere, causata dall’unica persona che il futuro
poteva prevederlo, acquisiva uno strano significato.
Quando terminò di
parlare, la sala rimase per una frazione di secondo in silenzio assoluto,
come era rimasta durante l’intero intervento, poi scrosciò un applauso
fragoroso. In mezzo alla folla che lo acclamava in piedi, Crawford cercò la
persona grazie alla quale si era realizzata quella magia.
Seminascosto in mezzo a
tutte quelle persone, la trovò: anche Aya era in piedi, non applaudiva, ma
lo guardava silenzioso, serio. Quando i loro sguardi si incrociarono, lui
gli sorrise, muovendosi verso i gradini che lo avrebbero fatto scendere dal
palco. Percorse il lungo corridoio senza distogliere gli occhi da quelli
dell’altro, e quando gli fu davanti si lasciò travolgere da quei sentimenti
che aveva continuato a reprimere per tutta la sera: lasciò scivolare le
braccia intorno alla vita di Aya, attirandoselo contro per un breve istante,
e liberandolo quasi immediatamente. Dall’esterno poteva essere sembrato
probabilmente un rapido abbraccio amichevole, qualcosa di giustificabile con
le strane abitudini attribuite agli occidentali. La reazione di Fujimiya non
era invece altrettanto facile da leggere; non aveva opposto resistenza, ma
la cosa era stata così veloce che probabilmente non ne avrebbe avuto nemmeno
modo, però anche adesso rimaneva impassibile, continuando a fissarlo negli
occhi, come se avesse bisogno di far rientrare gli ultimi avvenimenti nel
quadro che si era costruito del compagno.
Furono subito separati
dalle persone che venivano a complimentarsi per l’intervento, e Crawford,
neanche volendolo, sarebbe riuscito a tenersi Aya vicino, con la ressa che
gli era piombata addosso.
Presto, comunque, si
spostarono di nuovo nella sala del ricevimento: assolta la fase più
strettamente ‘professionale’ della serata, era giunto il momento della cena
e del divertimento, che, considerando l’età media dei partecipanti alla
serata, suonava più come una minaccia che come una promessa.
Vedendo Aya vicino ad una
delle grandi vetrate, che guardava il meraviglioso spettacolo di una Tokyo
notturna sotto di loro, Crawford gli si avvicinò, portando con sé un piatto
che raccoglieva le cose più invitanti del buffet:
“Da quello che mi ha
detto Nagi, hai saltato il pranzo. E’ il caso che mangi qualcosa…” gli
disse, porgendogli il cibo.
Rimasero in silenzio,
entrambi presi dalle luci che brillavano oltre il vetro.
“Mr Crawford… finalmente
riesco a farle i miei complimenti per il suo intervento!” una donna,
elegantemente fasciata in un abito lungo, grigio perla, di quelli che
sembrano tenersi su sfidando la forza di gravità, era arrivata alle loro
spalle, ondeggiando sui tacchi altissimi.
L’Americano di inchinò
leggermente, lasciando che un sorrisetto divertito gli si disegnasse sul
volto:
“Kyoko Morige… è un
piacere vederla dopo tanto tempo”.
La ragazza rise, buttando
indietro la testa per mostrare il collo sottile impreziosito da quella che
sembrava una collana di diamanti autentici.
“Aya, non so se ricordi
la figlia di Soichiro Morige, Kyoko…”.
Il compagno si chinò
educatamente, senza distogliere lo sguardo dalla donna che avevano di
fronte.
“E’ un piacere… Aya?”
disse lei, ridendo ancora, di nuovo senza motivo.
“Aya Fujimiya” spiegò
Crawford, asciutto.
Sperava ardentemente che
Kyoko se andasse il prima possibile, ma la testardaggine e l’orgoglio della
ragazza erano piuttosto famosi, e, nonostante fra loro le cose non fossero
andate oltre qualche invito a cena, sembrava proprio che quella sera non
fosse disposta ad accettare di essere ignorata.
“Dopo la cena si
comincerà a ballare, dopo tutto questo tempo in cui mi ha completamente
abbandonata, spero che saprà farsi perdonare…”.
Bene! Adesso aveva
addosso anche lo sguardo di Aya…
Sorrise senza rispondere,
portandosi il bicchiere alla bocca, e sperando di prendere tempo.
La donna si voltò poi
verso il ragazzo più giovane, guardandolo con apprezzamento:
“Ha dei capelli
bellissimi…” notò, rivolgendosi di nuovo a Crawford “…e che occhi!!” si
guardò intorno “Credo che metà di queste eleganti signore, stasera, lo stia
mangiando vivo…” improvvisamente si abbandonò ad una risatina “Peccato che
io preferisca qualcosa di… più maturo…”.
“Ho bisogno di andare a
prendere una boccata d’aria” mormorò Aya, allontanandosi.
“Il suo amico è piuttosto
timido, eh?! Sembra proprio che stia scappando…”.
L’Americano chiuse gli
occhi, se avesse avuto una delle sue famose premonizioni, quella serata
l’avrebbe trascorsa chiuso dentro casa.
Pochi minuti dopo, quando
si fu liberato della donna, raggiunse Aya sulla terrazza dell’edificio. Le
luci nascoste negli angoli, dietro enormi piante e vasi di fiori,
illuminavano fiocamente il punto in cui si trovava l’ex leader dei Weiss,
immobile appoggiato alla solida balaustra.
Gli si mise accanto,
portando anche lui lo sguardo sul panorama.
Le folate di aria gelida
si intrufolavano nei vestiti, e presto si accorse che il compagno
rabbrividiva, sebbene non accennasse a tornare dentro. Per un istante
Crawford meditò il gesto romanticamente premuroso di togliersi la giacca e
avvolgervelo teneramente, ma impiegò una frazione di secondo a capire che
così lui si sarebbe congelato, quindi optò per qualcosa di altrettanto
promettente: si mosse appena, portandosi alle spalle del compagno, quindi
gli avvolse le braccia intorno alla vita, addossandoselo contro il petto.
Per un momento l’altro si
irrigidì, poi tentò di voltarsi in quell’abbraccio forzato, sibilandogli:
“Lasciami! Che diavolo
stai facendo…” trattenendo a stento la rabbia.
Il Kätzchen, come lo
chiamava Schuldig, a volte tendeva a reagire d’istinto, e questo accadeva
sempre quando doveva stabilire un contatto fisico. Era testardo e duro, ma
anche lui era una persona determinata… strinse l’abbraccio, strofinando
contemporaneamente le braccia di Aya per scaldarlo:
“Ti amo…” gli mormorò,
stupendo se stesso per come queste parole gli fossero uscite naturalmente,
poi gli depositò un bacio sul collo, risalendo con la bocca fino
all’orecchio, rabbrividendo al contatto con il metallo freddo del lungo
orecchino.
Le mani del ragazzo
salirono fino a fermarsi sulle sue; non le scansarono, ma impedirono loro di
approfondire il contatto. Crawford rimase con il viso contro la pelle del
collo di Aya, beandosi di quella immobilità, e del silenzio che era sceso
tra loro. Si potevano leggere molte cose, in quel silenzio, così come
niente, eppure era chiaro che quello che era appena accaduto costituiva un
altro passo avanti.
Allentò leggermente la
presa, portandogli ora le mani sulle spalle e facendolo poi ruotare su se
stesso, fino a ritrovarselo di fronte: abbassò il viso fino a poggiargli la
fronte sulla sua, le dita che scivolavano lungo quelle braccia magre fino a
catturargli i polsi:
“Amore… voglio baciarti”.
Sapeva bene che in quella
situazione l’altro non glielo avrebbe impedito, ancora incapace com’era di
reagire a quello che stava accadendo… ma il fatto di avvertirlo gli dava un
vantaggio in più, dopo sarebbe stato più difficile per Abyssinian ritenersi
la vittima di una violenza.
Abbassò il volto, fino a
trovarsi con gli occhi a livello di quelle due gemme viola, portò la mano
sotto il mento del compagno, sollevandolo appena, e poi sorrise, appena
prima di annullare la distanza tra loro.
Lasciò quei polsi
sottili, e fece scivolare le braccia intorno alla vita dell’altro,
serrandoselo contro il petto. Percepiva fisicamente i brividi che
attraversavano la schiena di Aya, mentre le loro labbra erano unite e lui
tentava di forzare l’accesso alla sua bocca morbida. Non impiegò moltissimo
a conquistarla, inebriandosi del calore e del sapore che racchiudeva; giocò
un po’ per lasciare tempo al compagno per abituarsi all’intrusione, e poi
spinse più a fondo, costringendolo a rispondere allo stimolo.
Dovettero staccarsi
quando non ebbero più aria nei polmoni.
Lui non lasciò però la
presa sulla schiena di Aya, anzi, strinse l’abbraccio, quasi volesse che il
corpo dell’altro si fondesse con il proprio:
“Ti amo, Aya” gli ripeté,
e stavolta le parole gli uscirono senza premeditazione, senza secondi fini,
e in qualche modo molto più pericolose.
Sentì Fujimiya
irrigidirsi, e cercare di allontanarsi. Lo trattenne solo per qualche
secondo, il tempo di sfiorargli la tempia con un ultimo bacio, poi lo lasciò
libero, rimanendo solo sulla terrazza.
Quando tornò nella sala
della festa, vide che Aya era stato catturato ancora da Kyoko Morige. La
perseveranza di quella donna cominciava ad infastidirlo, ma in qualche modo
sapeva che il suo intervento aveva avuto qualche responsabilità
nell’atteggiamento più arrendevole che il suo gattino aveva avuto sulla
terrazza.
Non si avvicinò subito ai
due, passò prima a rifornirsi di champagne, prendendo due coppe.
Quando arrivò davanti
alla coppia, la donna gli rivolse uno dei suoi sorrisi ammaliatori, quelli
che secondo lei dovevano avere effetti fatali sull’uomo prescelto, proprio
mentre esclamava:
“Brad! Eccola finalmente…
sono ORE che la cerco!” si interruppe per un istante guardando i bicchieri
che lui teneva in mano “Non doveva disturbarsi… che cavaliere!” aggiunse
soddisfatta, allungando un braccio.
“Mi dispiace, miss Morige”
si scusò lui, con un tono tutt’altro che contrito “Non l’avevo vista, e ho
pensato solo ad Aya…” con questo, porse il bicchiere al ragazzo, passandogli
poi il braccio intorno alla vita, sapendo di metterlo in imbarazzo “…credevo
che avesse capito…”.
La metamorfosi sul viso
della donna fu qualcosa di stupefacente, il sorriso si era trasformato prima
in umiliazione, poi in rabbia, e infine in pura incredulità… Crawford, Brad
Crawford che abbracciava un uomo?!
“Oh… beh… certo Crawford…
avevo compreso perfettamente! Oh, è arrivato Watanabe-sensei… scusatemi”
riuscì a balbettare, allontanandosi ancora sconvolta.
L’Americano avrebbe
voluto scoppiare a ridere, ma si limitò ad un sorrisetto ironico, e ad
alzare il calice in un fantomatico brindisi.
“Lasciami… hai già
raggiunto il tuo scopo” sentì sibilargli la voce di Aya.
Lui si voltò lentamente,
senza cambiare espressione:
“Pensavo che mi
conoscessi meglio, amore… il mio scopo è completamente diverso!” fissò gli
occhi in quelli del compagno, senza permettergli di distogliere i propri, in
una specie di sfida.
Una Nuova Vita – capitolo
secondo THE END
NB Per gran parte della
scena nel dojo, per tutta la terminologia del combattimento, e per le note
che seguono, devo ringraziare Kamui, che si è impietosita delle mie
inesistenti conoscenze sul kendo, e ha deciso di rendere questo capitolo più
credibile!
(1) Bokken: spada di
legno usata per tecniche di spada senza armatura.
(2) Kiai: è il suono
simile ad un urlo emesso dai praticanti di arti marziali durante un attacco.
(3) Waka sensei:
letteralmente giovane sensei, normalmente è uno dei migliori studenti della
palestra, che il sensei designa come insegnante in vece sua, nonostante sia
presente alle lezioni.
(4) Keikogi:
letteralmente abito da allenamento, è simile alla divisa da judo o da karate.
(5) Hakama:
pantalone-gonna usato anticamente dai samurai sia per gli allenamenti che
per andare a cavallo. Deve riportare 7 pieghe davanti e 2 dietro.
(6) Per chi volesse
saperne di più a riguardo esiste un libro: "Lo Zen e a Spada (La vita del
maestro guerriero Tesshu)", di John Stevens, edito da Luni Editrice, euro
17.56.
(7) Uke: non è il termine
nella terminologia shounen-ai, in questo caso l'uke è colui che attacca e
subisce la 'difesa' e solitamente muore.
Vai all'Archivio Fan Fictions |
Vai all'Archivio Original
Fictions |
|