Per Nausicaa, Ria, Calipso, Kamui, Angie e Kira.

Tutti i diritti della serie Weiss Kreuz sono del Project Weiss e di Koyasu Takehito (altresì detto ‘il sorriso che uccide’).

Un ringraziamento particolare a Nausicaa e Kamui, per sostegno, suggerimenti, correzioni.

Buona lettura.

 


Una nuova vita

parte II

di Greta


 

Quando tornò a casa, Crawford si accorse che Nagi e Aya erano in cucina. Si soffermò sulla soglia, godendosi lo spettacolo di quella scenetta intima: Abyssinian stava aiutando il ragazzino con i compiti, e contemporaneamente armeggiava intorno agli scaffali.

In quello strano gruppo che mai si sarebbe potuto chiamare famiglia, questo era un quadro assolutamente inedito. Dava un’idea di casa, di calore…

Entrò senza far troppo rumore: si portò un dito alle labbra per far tacere Nagi, che gli stava di fronte, poi si avvicinò ad Aya, poggiandogli da dietro le mani sui fianchi.

Si dovette ritrarre di qualche centimetro, ma non lasciò la presa: Aya si era voltato di scatto, e gli aveva puntato contro il petto il lungo coltello impugnato con entrambe le mani.

Crawford non si ritrasse, anzi, si spinse contro la lama… quasi subito sentì il coltello cadere a terra, mentre Aya rimaneva immobile tra le sue braccia.

“Lasciami, Brad…”.

Allentò la morsa. Non aveva intenzione di spingere troppo, ma sentiva un insopprimibile bisogno di tenere stretto a sé quel ragazzo, e doveva muoversi in fretta, perché quella presa sull’impugnatura del coltello della carne somigliava in modo sconcertante alla presa sulla Katana.

Si sedette al tavolo, scostando i quaderni di Nagi:

“E’ arrivato niente da Tabase?” chiese con calma.

“Ho messo tutto nella vostra stanza” rispose il ragazzino, cercando di recuperare i libri.

Crawford annuì, allungando poi una mano verso il giornale.

Era contento, le cose stavano procedendo come da programma. Appena terminata la pagina economica, si alzò per andare a prendere le pillole mandate dal dottore. Il foglietto riportava di dargliene una al giorno… bene, avrebbe cominciato subito.

<Bentornato Mein Führer, abbiamo sentito la tua mancanza. Il gattino ha deciso di farci fare le pulizie, visto che il nano deve studiare per il test di domani. Farfarello ha fatto a pezzi le tende, per reazione>.

<Ogni tanto vi fa bene fare qualcosa. Smetti di lamentarti come una donnetta>.

<Chissà se stanotte riuscirai ad avvicinarti, Braddie, ho la vaga sensazione che il gattino detti legge anche con te…> Schuldig notò con un ghigno, sapendo di colpire l’Americano in un punto debole.

<E’ la tua gelosia che parla, Mastermind?>

L’altro scoppiò in una nuova risata, prima di raggiungere gli altri in cucina.

La visione di Farfarello che apparecchiava, e del tedesco alle prese con la preparazione dell’insalata, costrinse Crawford a sfilarsi gli occhiali e a ripulire le lenti. Scosse la testa, non erano cambiamenti che gli dispiacevano, era la prima volta che quell’accozzaglia di pazzi si comportava come un gruppo.

Si sedettero tutti per la cena, con Schuldig che con un’espressione tra il rassegnato e l’ironico serviva il riso, mentre il centro tavola girevole ruotava vorticosamente.

“Mangia un po’ di più, sei dimagrito, Aya” notò l’Americano, senza distogliere lo sguardo dal giornale della sera.

Poté avvertire sulla pelle l’intensità dell’occhiata dell’altro, ma non si lasciò condizionare:

“Mi hai sentito?” ripeté con lo stesso tono piano.

“Non si sta a tavola leggendo il giornale, mettilo via” si sentì ribattere seccamente.

Piegò i fogli e poggiò il quotidiano sul tavolino:

“Mangia” ribadì, fissando lo sguardo in quello del ragazzo più giovane.

Non si aspettava una risposta, e infatti non ne arrivò nessuna, però Aya si aggiunse una cucchiaiata di riso. Crawford scosse la testa, Abyssinian era ostinato e indisponente, ma alla fine avrebbe ceduto… pur non avendo avuto alcuna premonizione, era sicurissimo nella sua previsione del rapporto che li avrebbe legati.

Terminata la cena, Farfarello dovette caricare la lavastoviglie, mentre gli altri si distribuirono nelle diverse stanze della casa. Solo il nuovo arrivato era rimasto seduto al tavolo della cucina, ad osservare quel ragazzo la cui pelle chiara rivaleggiava con la sua, e con quegli strani tagli sul viso.

Quando l’irlandese si accorse del suo sguardo insistito, gli rispose con un ghigno, passandosi la lama del coltello sull’avambraccio. Aya non batté ciglio allo spettacolo dell’espressione beata del compagno di stanza, e i suoi occhi continuarono a seguire la scena.

“Questi capelli… sono il segno del diavolo…” gli mormorò il ragazzo albino con la sua voce roca, sfiorandogli le bande che gli scendevano ai lati del viso “…ricordo dei bambini, quando andavo a scuola, avevano i capelli rossi, ma non così rossi. I tuoi hanno il colore delle fiamme dell’inferno…”.

Lui continuò a rimanere immobile, nonostante il fastidio fisico di quelle mani troppo vicine, e a sostenere lo sguardo vivido di quell’unico occhio.

Farfarello allontanò le mani, poggiò il coltello sul tavolo e gli voltò la schiena, lasciando la stanza con una risata inquietante.

Una volta rimasto solo, Aya si alzò in piedi. Non aveva avuto paura, gli sembrava solo di aver assistito a qualcosa di incredibile… e di triste. Si avviò verso la porta scura in fondo al corridoio. Bussò brevemente ed entrò senza aspettare risposta.

Crawford sollevò lo sguardo dal monitor, poi si sfilò gli occhiali, massaggiandosi lentamente il naso indolenzito:

“Vieni qui” gli disse, vedendolo fermo sulla porta.

L’altro non si spostò.

“Avvicinati, amore” ripeté l’Americano.

Il leader dei Weiss rimase immobile, ma cominciò a parlare:

“Perché Farfarello non viene curato? Che razza di nome è il suo? Come puoi permettere che si torturi in quel modo?”

Era forse la frase più lunga che gli avesse sentito pronunciare.

Crawford si alzò in piedi, lo raggiunse e gli afferrò un polso, trascinandolo a sedere sul divano:

“Non è così semplice… Farfarello non sta bene, ma noi cerchiamo di trattarlo come meglio possiamo…”

“Non è abbastanza”.

L’americano strinse gli occhi:

“L’Aya di prima non si era mai lamentato…” notò con voce piatta.

“Non conosco la persona di cui parli” gli ribadì l’altro, duro.

Era inutile cercare un muro contro muro, o avrebbe perso tutto. Crawford si sporse verso il compagno, scostandogli i capelli dal viso:

“Non dire così, il fatto che non ricordi, non significa che tu non sia mai esistito. Sei perfetto ora come prima… ma forse quest’incidente ti ha reso più sensibile, più comprensivo…” lo stava provocando, gli stava facendo balenare una sorta di debolezza, per costringerlo a rinchiudersi nel proprio orgoglio e ad essere più malleabile, ma era davvero la cosa che desiderava?

“Non ci vuole sensibilità per accorgersi che una persona che si intarsia la pelle è malata, Crawford, credo che anche uno come te possa accorgersene”.

L’Americano si scansò: non gli piaceva la piega che aveva preso la discussione, non gli piaceva il tono astioso del suo prigioniero… e tutto questo per i giochi di Farfarello? Non ne valeva la pena…

“Ok, Farfarello ha dei problemi seri. E’ stato visitato da molti medici… se insisti, ne chiameremo un altro, ma sono sicuro che ci verrà detta sempre la stessa cosa, che tenerlo con noi è la soluzione migliore. Non credo che riuscirebbe ad accettare di essere internato” si interruppe per un istante, lo sguardo fermo di nuovo negli occhi del compagno “Se vuoi, puoi prenderti tu la responsabilità della scelta…”.

Continuarono a fissarsi per qualche secondo, poi Aya annuì lentamente.

Del resto… cosa ci si poteva aspettare dall’impavido leader dei Weiss?

 

Quando Crawford entrò in camera da letto, un paio d’ore dopo, Aya stava già dormendo. Si sedette sul letto a guardarlo… lo stregava guardare quel ragazzo, pallido, ma finalmente rilassato, con i capelli che gli cadevano morbidamente ai lati del viso. Allungò una mano e gli allontanò una banda dal collo.

Si ritrasse appena in tempo, l’acutezza dei sensi di Abyssinian era stata subito risvegliata da quella carezza quasi impercettibile:

“Che stai facendo?” gli sibilò il ragazzo, le mani serrate in pugni davanti al petto.

Lui scosse la testa, poi si alzò, andando in bagno per cambiarsi. Quando tornò a letto, si accorse immediatamente che il compagno era ancora sveglio:

“E’ più difficile di quanto immaginassimo, eh?” notò, voltandosi su un lato, e guardando quei capelli rossi brillare nella flebile luce notturna.

Non ebbe risposta, allungò una mano, appoggiandola sulla spalla di Aya:

“So che per te è duro stare qui con noi, senza ricordare chi siamo, senza ritrovare niente di te… puoi chiedermi qualsiasi cosa, puoi presentarmi qualsiasi dubbio… io sono qui, pronto a darti tutte le risposte che conosco”.

Per qualche istante, la figura accanto a lui rimase immobile.

“Non ricordo nulla, ma poi ritrovo delle conoscenze, dei movimenti…” Aya rabbrividì leggermente, stringendosi la trapunta intorno alle spalle: “Oggi ho aiutato… Nagi - si avvertiva chiaramente la titubanza nell’usare quei nomi poco familiari – l’ho aiutato con lo studio, e mi sono reso conto di conoscere cose di storia, di economia, di matematica… piano piano le regole, le date, le statistiche venivano fuori. E’ stato strano”.

Crawford affondò la testa nella mano:

“Hai seguito un collegio prestigioso, a Sendai, avevi anche cominciato l’Università di Tokyo, Economia, ma poi ci siamo conosciuti, e hai cominciato a darmi una mano con il bilancio della mia società. Ti ricorda qualcosa?”

L’altro non rispose, ma pose altre domande:

“Quando sei tornato a casa… è stato strano, ho sentito il rumore dei passi alle spalle e mi sono girato di scatto. Avevo un coltello in mano, mi è venuto spontaneo impugnarlo con entrambe le mani… è sembrata una presa naturale. Perché?”

Non era la domanda peggiore che potesse rivolgergli, tutto sommato gli era andata più che bene:

“Hai frequentato un dojo per tantissimi anni, devo ammettere che non te la cavi molto male con la katana! Qualche settimana fa il tuo maestro… beh… era molto anziano” fece una pausa, prolungandola il giusto per aumentare il pathos delle parole non pronunciate, poi riprese “La palestra ha chiuso, dopo questo evento. Ne stavi ancora cercando un’altra… se vuoi, domani posso accompagnarti in città, avevamo steso una lista di alternative”.

“Come… che incidente ho avuto?”

Questo era un punto già discusso anche con gli altri Schwarz, bisognava solo rendere la storia credibile:

“Hai avuto un incidente con la macchina, eri andato a prendere Nagi a scuola… probabilmente il nano ha cominciato a raccontarti le sue vicende scolastiche, e poi un camion ha invaso la vostra corsia. Nonostante tu abbia cercato di evitarlo, ti ha preso di lato, la macchina ha sbandato, e siete andati a sbattere contro un pilone della luce. Per fortuna che avevate cintura ed airbag… Nagi non si è fatto nulla, tu hai sbattuto indietro contro il poggiatesta, e hai avuto un trauma cranico”.

Rapido e conciso, del resto erano particolari già stabiliti.

“E il conducente?”

“Era ubriaco, come hanno stabilito le analisi. Non si è fatto quasi niente, solo una gamba rotta”.

Abyssinian, dopo quest’ultima risposta, era rimasto in silenzio.

“Non c’è nient’altro che vuoi sapere?”

“Hn…”

“Quando vuoi, io sono qui”.

Crawford si allungò verso il compagno, poggiandogli un bacio leggero sul collo:

“Buona notte, Aya”.

Nessuna risposta.

 

Il giorno seguente, quando si svegliò, si accorse che il gattino non gli era più accanto. Si alzò dal letto in un secondo, infilandosi lo yukata e precipitandosi, per quanto gli consentisse la propria abituale dignità, fuori della stanza.

Lo vide immediatamente, seduto sul davanzale della finestra del soggiorno, a guardare il grande giardino pieno di alberi intorno alla casa. Gli si avvicinò lentamente, e, quando gli giunse a pochi centimetri, si ritrovò addosso i suoi occhi freddi.

“Ti sei svegliato presto” gli mormorò, guardando anche lui il paesaggio esterno.

Rimasero per qualche istante in silenzio. Le fredde giornate invernali si stavano approssimando, ma in mattinate come quella, con il cielo azzurrissimo e un sole caldo, sembrava quasi di poter sentire un anticipo della primavera ancora lontana.

“Cr… Brad… io non riesco ad andare avanti così”.

Crawford si era sentito il suo sguardo addosso per tutto quel tempo, nonostante avesse intenzionalmente evitato di distogliere il proprio dal vetro della finestra.

“So che non riesci a ricordare… so che questo ti fa star male. Io…” rispose come se stesse cercando le parole giuste, e voltandosi a ricambiare lo sguardo diretto di Aya “…ricominciamo da capo, facciamo finta che questi due anni non siano esistiti – tutto sommato non era una cosa molto difficile – permettimi di corteggiarti di nuovo, da capo. Accetterò qualsiasi tua decisione, ma voglio che tu mi conceda del tempo… e un po’ di fiducia”.

L’altro riportò lo sguardo oltre la finestra. Sembrava non aver neanche sentito le sue parole, e solo dopo diversi minuti annuì lentamente.

Lui sorrise, in qualche modo stava disfacendo quello che aveva meticolosamente costruito, ma voleva, aveva bisogno di giocare più onestamente. La bugia che aveva raccontato non sarebbe stata dimenticata, e in qualche modo avrebbe influenzato il nuovo gioco, ma stavolta le regole sarebbero state più oneste.

Si avviò verso la cucina:

“Hai già fatto colazione? Secondo i turni, credo che oggi toccherebbe a me preparare… toast, succhi di frutta, uova e caffè… ma per te farò uno strappo, e preparerò del tè verde. Vieni a farmi compagnia…”.

Aveva usato un tono allegro, rassicurante, tutto sommato gli dava una certa energia pensare a questa nuova sfida con l’ex leader dei Weiss…

Un raggio di luce si riflesse sulle lenti dei suoi occhiali: ed era una sfida che lui non avrebbe perso.

“Ora devo andare in ufficio… cercherò di tornare per pranzo; per ogni necessità potrai rivolgerti a Schuldig, visto che Nagi andrà a scuola, e che Farfarello… beh, che Farfarello ha i suoi impegni. Ho deciso che mi prenderò il pomeriggio libero, potremo andare insieme a cercare un dojo, oppure potremmo fare una passeggiata. Non ti fa bene rimanere sempre dentro casa…”.

La porta della cucina si aprì improvvisamente:

<Kitten in the house…> notò ironicamente il tedesco, facendo il proprio ingresso fasciato in vestiti ben più adatti per una serata in un club per uomini soli e disperati che ad una mattinata casalinga <…o dovrei dire kittens? O-oh… come siamo romantici, Romeo… hai preparato la colazione per la tua Giulietta?>

<Piantala con questi giochetti, imbecille, e vedi di aprire le orecchie, altrimenti questo sarà il tuo ultimo sorriso> gli replicò Crawford mentalmente, poi proseguì a voce alta:

“Stavo proprio dicendo ad Aya che tu potrai fargli un po’ di compagnia, stamattina…”

<Ma bene… penso proprio che mi divertirò, solo soletto con il gattino…> replicò prontamente l’altro.

<Attento a quello che fai, Mastermind, dovrebbe esserti chiaro che lui non è per te>.

“Sarò lieto di farti da guida in città” rispose gentilmente il tedesco, ignorando l’ultimo pensiero del suo leader e voltandosi invece a guardare il viso teso del suo piccolo Abyssinian.

Lo sguardo che lo ricambiò era serio e contrariato:

“Non ho bisogno di una balia”.

Crawford scosse la testa:

“Non conosci la città, non ricordi nulla… non vorrei che potesse accaderti qualcosa” spiegò, afferrando il bricco del caffè.

“Dammi una mappa, credo che possa bastarmi” fu la pronta replica.

Il leader degli Schwarz non poté trattenere un piccolo sorriso… non c’era niente da fare, era proprio Ran Fujimiya in tutto il suo fascino, il suo orgoglio, la sua testardaggine. Una cosa non era completa senza le altre… ma lui alla fine lo avrebbe domato.

“Fai come vuoi…” concesse accomodante <…e tu non perderlo d’occhio per un solo istante> aggiunse mentalmente all’indirizzo del tedesco.

<Ja, mein führer!> rispose subito l’altro, battendo anche i tacchi e facendo sollevare lo sguardo sorpreso di Abyssinian, al quale rispose strizzando un occhio.

Quando Crawford fu pronto per uscire, si avvicinò ad Aya, rimasto seduto sulla poltrona accanto al letto:

“Tornerò appena dopo pranzo, non farmi stare in pena, vedi di distrarti e mangia qualcosa” si interruppe, frugando nella tasca interna della giacca, estraendo il portafoglio “Questi potranno esserti utili, se dovessi vedere qualcosa che ti piace… ” gli porse un mazzetto di banconote “…ci vediamo più tardi”

Prima di uscire, si chinò per depositargli un bacio sulla guancia, ma l’altro abbassò la testa, impedendoglielo. Si limitò allora a sfiorargli la fronte, prima di afferrare il cappotto e lasciare la villa.

 

Crawford era preoccupato, il gioco stava richiedendo più energie del previsto, inoltre non aveva neanche il conforto di una delle proprie premonizioni…

Quando la segretaria entrò nel suo ufficio con la posta ed i giornali internazionali, lui si limitò ad un’occhiata distratta. Voltata la poltrona verso l’ampia vetrata che dominava la città, si chiese ancora una volta se lo sforzo fosse giustificato.

Serrò i pugni, accidenti se lo era! Solo averlo accanto, durante quelle notti, aveva scatenato in lui emozioni che non credeva di possedere… cosa sarebbe stato conquistarlo completamente, anima e corpo? Inoltre si stava anche accorgendo di essere divorato da una cocente gelosia: pensare che Aya potesse essere di qualcun altro gli faceva divampare una rabbia insopprimibile… per fortuna che almeno quel minorato di Schuldig doveva aver capito che il leader dei Weiss era caccia riservata…

Si forzò a concentrarsi nel lavoro, non poteva permettersi di perdere tempo, e denaro, quando tutto quello che poteva comunque fare era rodersi il fegato in solitudine.

La giornata gli sembrò inspiegabilmente lunga, e sì che aveva anche deciso che il pomeriggio sarebbe tornato a casa! Quando uscì dall’ufficio, pronto a lasciare la sede dalla società che aveva rilevato dopo la morte di Reiji Takatori, le segretarie lo guardarono stupite, abituate come erano a vederlo uscire dopo tutti gli altri, e comunque mai prima della chiusura della Borsa.

Lui si limitò ad un cenno con la testa. Non gli piaceva suscitare curiosità, inoltre non amava molto quelle impiegate, ancora troppo legate al ricordo dell’uomo politico che per breve tempo aveva assunto il controllo della città.

Salì sul taxi, che lo aspettava all’uscita, e si sedette pronto a godersi la passeggiata verso casa.

Fermo ad un semaforo, fu assalito da uno dei suoi famosi mal di testa. Poggiò la testa contro lo schienale del sedile… una premonizione, dopo tanto tempo.

Non furono che pochi istanti, poi si riprese. Sollevò lo sguardo, incrociando nello specchietto retrovisore quello del tassista:

“Passi per il parco ***, per favore” ordinò deciso.

 

Non ci mise molto a trovare quello che stava cercando.

Fece fermare l’automobile e pagò la corsa, aggiungendovi una mancia generosa.

Si avviò, fermandosi solo quando giunse in mezzo al vialetto che portava al parco, un leggero sorriso dipinto sul volto, felice di leggere uno stupore puro sul viso del ragazzo di fronte.

“Che ci fai qui?!” si sentì chiedere, mentre i freni della bicicletta fischiavano a causa della frenata decisa.

“Stavo tornando a casa e ti ho visto dal finestrino del taxi. Ho deciso che forse avresti potuto darmi un passaggio…”.

Notò lo sguardo sospettoso nella persona che aveva di fronte, e fu improvvisamente assalito da pensieri che fino a quel momento non lo avevano neanche sfiorato…

Perché Aya era uscito? Dove era andato? Possibile che avesse incontrato qualcuno dei Weiss? E poi la sua rabbia si focalizzò su colui che avrebbe dovuto evitare qualsiasi problema…

<Mastermind! Non ti avevo ordinato di tenere d’occhio Abyssinian?! Dove diavolo sei!>

Per qualche istante non ebbe risposta, e questo non poté che accrescere la sua rabbia, ma poi la voce nasale di Schuldig gli risuonò stranamente vicina:

<Dove vuoi che sia, my captain, sull’acero dietro di te, a sorvegliare il nostro tesoro…> lo sentì sibilare.

<Ci sono stati problemi? Avete incontrato nessuno?> continuò a chiedere, sentendosi però rassicurato dalla presenza del tedesco.

<Nessuno, Giulietta ha deciso di fare una passeggiata da sola… e pare che sia proprio vero il detto che andare in bicicletta non lo si scorda mai, ha cominciato a pedalare e non si è più fermato. Sembra un po’ irrequieto> notò Schuldig.

Crawford riportò l’attenzione su Aya:

“Che ne diresti di darmi un passaggio fino a casa?” gli chiese, continuando a sorridere.

Lo sguardo che ricevette gli ricordò molto da vicino quello ricevuto da Takatori Reiji il giorno del gioco degli human chess.

Nonostante questo, non sentì alcun desiderio di demordere:

“Fra l’altro, quella è la mia bicicletta, non la tua…” rimarcò.

Vide l’altro scendere, e appoggiare il mezzo alla staccionata di legno, per poi voltargli le spalle e avviarsi a piedi verso l’uscita del parco.

L’Americano non si scompose più di tanto, legò la cartella al portapacchi e salì sul mezzo lasciatogli a disposizione, seguendo il compagno. Gli si affiancò sul cancello di uscita, afferrandolo saldamente per il polso:

“Hai paura anche solo di una passeggiata? Tu non vuoi darmi neanche una possibilità, in fondo, non è vero?” gli chiese senza lasciargli il braccio.

Sostenne il lungo sguardo del leader dei Weiss, avvertendo la stessa sensazione di quando Mastermind tentava di sondargli la mente… sentiva quasi fisicamente l’altro cercare di leggere i suoi pensieri.

Gli sorrise, allentando la presa e facendo un gesto con la mano per invitarlo a sedere davanti a sé, sulla canna della bicicletta.

Fujimiya si avvicinò scrollando le spalle, e mostrando tutto il proprio scarso entusiasmo, però stava facendo uno sforzo, Crawford lo sapeva benissimo. E qualsiasi cosa potesse avvicinarli era importante, quindi lui continuò a sorridere, seguendo i movimenti della figura che gli si sistemava davanti.

Riposizionò le mani sul manubrio, accanto a quelle di Aya, e cominciò a pedalare.

Non erano lontani da casa, ma decise di percorrere strade alternative, di allungare il percorso, in modo da prolungare la loro vicinanza. Poi cominciò a sbandare, sbandate assolutamente immotivate, ma che presto ebbero l’effetto di obbligare Abyssinian ad appoggiarsi leggermente alla sua spalla per non cadere.

L’inverno era ancora agli inizi, immerso in quella che, in America, era chiamata l’estate di San Martino, per la temperatura mite e il cielo limpido che sembravano far dimenticare gli alberi già spogli.

Si fermò quando arrivarono sul lungomare. Non disse niente, si appoggiò alla spalletta di mattoncini rossi a guardare il gioco ciclico delle onde.

Anche Aya sembrava catturato dallo spettacolo, dal verso stridulo dei gabbiani, dagli scafi tirati a secco e rovesciati in attesa dell’estate.

Non si dissero niente, e non si guardarono, ma Oracle era sicuro che quello fosse il momento in cui si erano sentiti più vicini.

Tornarono lentamente verso il centro della città: i lampioni cominciavano ad accendersi, e la temperatura, non più ingannata da quello strano sole caldo, ricominciò a scendere.

“Se vuoi, possiamo andare insieme a cercare un nuovo dojo… non riesco a vederti lontano dalla tua katana”, che fra l’altro doveva giacere da qualche parte sul luogo dell’incidente.

Crawford aveva pensato a lungo se fosse il caso di permettere a Fujimiya di riprendere gli allenamenti, se con questo non rischiasse di ritrovare ricordi inopportuni, ma poi era arrivato alla conclusione che non poteva tenerlo in una campana di vetro, avrebbe rischiato di farlo… sì, di farlo ‘morire’…

E poi c’era la sfida, il rischio che tutto quello che stava costruendo crollasse come un castello di carte, e non aveva saputo resistere, perché un fallimento avrebbe portato con sé la verità, e in fondo sapeva che la verità era qualcosa che non avrebbe potuto evitare per sempre. Rimandare sì, ma evitarla… evitarla no.

Vide gli occhi violetti di Aya accendersi, lo sguardo farsi vivo mentre si posava su di lui.

Gli sorrise:

“E’ ancora presto, potremmo andare a vedere un paio di posti che avevamo già selezionato. Tornando, ci fermeremo a prendere un tè. Ti fa bene uscire un po’” insistette, infilando la ruota della bicicletta nell’apposito fermo, nel vialetto di ingresso della villa.

Vide l’altro annuire, poi, per un attimo, tutto cominciò a girare forsennatamente, mentre dal fondo del vortice emergeva l’immagine del ragazzo dai capelli rossi ansimante, a petto nudo, le mani ferme sull’impugnatura della sua katana e lo sguardo fisso su un ipotetico avversario…

Si riprese velocemente, cercando di nascondere le emozioni che quella sola immagine aveva scatenato in lui, e si accorse che il compagno lo stava aspettando, già pronto vicino al cancello.

****

Crawford precedette Aya lungo il vialetto che conduceva all'entrata. La palestra era un dojo per kendo in stile classico: una costruzione su di un solo piano, interamente in legno, e con un giardino in puro stile tradizionale all'entrata.

Poco prima di varcare la soglia, l’Americano si voltò, accorgendosi che il compagno era fermo qualche passo più indietro: “Che ti succede? Non vuoi entrare?"

Lo vide esitare un istante, poi Aya ricominciò a camminare e lo raggiunse sulla porta; sembrava catturato da tutto l'insieme, il giardino, il vialetto e la costruzione stessa:

“Non so... E' strano, ma mi sembra di essere già stato in un posto simile”.

Crawford si sentì correre un brivido lungo la schiena, e poi un nome si formò nella sua mente: Sendai.

Probabilmente il dojo, dove il suo primo maestro aveva introdotto Aya alla spada, doveva essere molto simile a questo. Mentalmente depennò la città dalla carta del Giappone; per nessun motivo al mondo lo avrebbe riportato in quella città. Troppi ricordi per Aya, troppi pericoli per sé.

"Ma certo che sei già stato in un posto simile; il dojo, che frequentavi fino a pochi giorni fa, era quasi identico a questo..." gli spiegò tranquillamente, seguendolo all'interno della palestra.

Già dall'anticamera, si potevano sentire i passi dei piedi nudi degli allievi sul parquet, i colpi dei bokken (1) di legno che si scontravano e le grida (2) dei ragazzi che si affrontavano in finti duelli, cercando di studiare nuove tecniche di combattimento.

Quando il giovane maestro li scorse, li raggiunse subito: “Buona sera, prego… in cosa posso esservi utile”.

Crawford portò lo sguardo sull’uomo che si era fatto loro incontro, e anticipò Aya nella risposta: “Il mio amico vorrebbe frequentare la vostra palestra” esordì, guadagnandosi un'occhiataccia da parte del rossino.

“Molto bene.” Il waka sensei (3) concentrò la propria attenzione sul secondo visitatore, squadrandolo da capo a piedi nel tentativo di valutare le sue doti reali: “Hai già provato a fare kendo, o per te questa è la prima volta?” chiese, senza riuscire a trattenere una nota di curiosità che andava oltre il semplice interesse per un nuovo allievo.

L’Americano fu di nuovo più veloce del compagno:

“No, ha già frequentato un altro dojo, che però ha chiuso recentemente” spiegò, poi aggiunse lentamente: “Fujimiya ha avuto poco tempo fa un piccolo incidente, quindi sarei più sollevato se potessi parlare del suo percorso formativo direttamente col vostro sensei."

Aveva usato il tono abituale di quando doveva trattare con dei sottoposti, e cioè, secondo la sua concezione, il tono che usava con il 99% delle persone con cui interagiva.

Il giovane insegnante si voltò a guardarlo, evidentemente sorpreso dai suoi modi.

“Crawford!” gli sibilò Aya, carico di rimprovero “Waka sensei la prego di scusarlo…”.

Dopo una ulteriore occhiataccia, l’ex Weiss si impadronì della conversazione con il maestro:

“Purtroppo al momento non ricordo quasi nulla a causa dell'incidente. Ma sarei lieto se voleste accettarmi nel vostro dojo” disse, facendo un leggero inchino, come a sottolineare la serietà e la sincerità della propria richiesta.

“Bene, il nostro sensei si chiama Haraki Sojirou e nel nostro dojo pratichiamo le tecniche della scuola Mu To*, cioè della spada non spada.

Prego, negli spogliatoi dovresti trovare ciò che ti serve per prepararti. Appena sarai pronto, vieni nella sala degli allenamenti, vorrei vedere come te la cavi. E, comunque” aggiunse rivolgendosi all’Americano “il sensei Haraki presenzia sempre le lezioni, non è poi così anziano.”

Negli spogliatoi, Aya trovò il keikogi (4) e l'hakama (5) della sua taglia. Il tempo necessario per cambiarsi non fu molto, ma Crawford assaporò quegli attimi come fossero gli ultimi della sua vita. La sobrietà e la grazia dei movimenti del ragazzo erano ipnotici, e quando Aya si voltò, appena finito di farsi il nodo a farfallina sulla parte anteriore dell'hakama, lui non riuscì a trattenere un sorriso:

"Sei bellissimo anche così, lo sai vero? Sembri proprio un samurai..." gli disse, lasciando poi che l’altro lo anticipasse nel raggiungere la palestra.

Quando Aya entrò, il waka sensei battè le mani e immediatamente tutti i ragazzi si fermarono e si andarono a sedere in ginocchio (in seiza) lungo la parete di destra.

L’Americano cercò di entrare nello spirito di quello a cui stava per assistere, ma le arti marziali non erano mai state il suo forte, aveva sempre preferito lo scontro a mani nude, utilizzando le semplici e rigide regole della boxe. Non era mai riuscito a vedere niente di filosofico in uno scontro fisico, e invece tutti, in Giappone, sembravano considerare il combattimento quasi un’esperienza mistica.

E poi non riusciva a nascondere una certa preoccupazione, non gli piaceva neanche l’aspettativa che poteva sentire intorno a quella che gli sembrava una esibizione pericolosa e caricata di significati che non riusciva a comprendere completamente.

"Bene Fujimiya, prendi un bokken e vieni al centro."

Aya eseguì gli ordini del giovane insegnante con fredda determinazione, fatto che non poteva essere sfuggito all'uomo. Oltre le sue spalle, un signore sulla cinquantina stava osservando la scena molto attentamente.

"Fujimiya, per questi primi tre attacchi io sarò l'uke (6) e ti attaccherò, cerca di fare del tuo meglio nel difenderti e non andarci leggero. Colpisci pure." e detto questo il waka sensei ed Aya si fecero l'inchino prima di iniziare.

L'uomo assunse la posa di attacco con fendente verticale (shomen), mentre Aya lasciò la sua spada nella posizione iniziale, in estensione davanti a sé (seigan). C'era una forte tensione nell'aria, ed il waka sensei lasciò che il suo sguardo incrociasse quello del ragazzo: la forza e la minaccia che trovò in quegli occhi erano impressionanti.

Nel viso dell’uomo erano ben leggibili i suoi pensieri: si trovava di fronte un ragazzo diverso dagli altri allievi, pronto a battersi per la propria vita come se fosse realmente in pericolo di morte. Proprio come in un duello con spade vere...

Mentre era ancora immerso nei propri pensieri, il suo avversario decise di attaccarlo, cogliendolo di sorpresa: riuscì a parare il fendente alla tempia appena in tempo, ma Aya si apprestava a colpire ancora.

Il giovane maestro riuscì, nonostante tutto, a trovare un vuoto nella difesa del ragazzo più giovane ed a colpirlo, facendogli perdere l’arma.

“Fujimiya, sbaglio o ero io a dover attaccare!” la sua voce era tonante all'interno della sala, “Di nuovo, ma attento, questa volta attaccherò io, e con molta decisione”.

Il tono di minaccia, la voce tonante e il bokken sollevato contro il ragazzo fecero innervosire Crawford, nessuno doveva permettersi di minacciare il SUO Aya, e soprattutto in SUA presenza.

Vide i due tornare al centro della sala, e riprendere la posizione di guardia.

Nuovamente la freddezza di Fujimiya colpì l'insegnante… il ragazzo sembrava sfidarlo, e lui sembrava non riuscire a resistere alla provocazione.

Gli sferrò il fendente al ginocchio. Ci fu un forte suono di legno contro legno…

Crawford trattenne il fiato, mentre osservava Aya schivare un attacco dopo l'altro.

****

L’Americano distolse per un istante lo sguardo da quel viso pallido e concentrato, accorgendosi degli occhi attenti degli altri allievi, dello sguardo ammirato del sensei Haraki, del… se quel dannato maestro non la piantava di tenere gli occhi appiccicati su Aya, con quell’aria estasiata e sbavante, lo avrebbe preso a pugni, e in quelli era sicuro di battere questi stupidi buffoni armati di un bastone!!

Riportò l’attenzione su Aya, il respiro era appena affannato, la concentrazione totale mentre studiava i movimenti dell’avversario, infliggendo punti su punti… era bello, e irraggiungibile.

Quando il confronto terminò, gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla, come a sostenerlo.

“Come ti senti?”

Il compagno si scansò, prendendo un telo di spugna per asciugarsi il sudore, poi si voltò verso di lui, rivolgendogli uno sguardo appena più amichevole:

“Sto bene. Grazie per avermi portato qui, Cr.. Brad…” gli mormorò, distogliendo gli occhi.

Ecco, questa era la strada giusta! L’Americano sorrise scuotendo la testa… non sarebbe stata che la prima delle mille attenzioni con cui avrebbe conquistato il suo gattino, anima e corpo.

Il maestro anziano si avvicinò, sorridendo e ricambiando l’inchino con cui i due giovani lo salutarono:

“Sarei felicissimo, signor Fujimiya, se lei volesse allenarsi nella nostra palestra… talenti come il suo sono piuttosto rari, e glielo dice un uomo con molta esperienza, che ha visto molti ragazzi scontrarsi con le rigide regole della nostra disciplina…”.

 

Quando uscirono all’aperto, Crawford si incamminò verso una sala da tè in centro. Tokyo di sera era piena di luci, vetrine sfavillanti, gente indaffarata e studenti appena usciti da scuola… era una esperienza a cui lui era ormai abituato, ma il viverla con Aya gliela faceva apparire nuova. Cercò di studiare le reazioni negli occhi del compagno, ma non riuscì a leggere nulla, anni e anni di auto imposizione delle rigide regole della scuola dei samurai avevano creato una corazza invalicabile a difesa di qualsiasi emozione.

Quando entrarono nel locale, la ragazza che li accolse all’ingresso si inchinò profondamente, riconoscendo uno dei loro clienti più generosi, poi il proprietario li accompagnò al tavolo d’angolo, quello con la migliore vista sulla città.

“Un tè verde, uno al bergamotto, una fetta di torta al limone ed una al caffè” disse l’americano, ordinando per entrambi.

Aya non obiettò, finché la cameriera rimase a prendere l’ordine, ma appena furono soli rimarcò di essere in grado di scegliere da solo.

Lui scosse la testa, rilassandosi contro lo schienale del sedile. Si sentiva bene, per una volta non c’erano ordini, clienti da accontentare… e anche il lavoro a capo della sua società sembrava meno pressante, meno importante.

Il tè arrivò servito in eleganti porcellane Wedgewood… strano, si stupiva sempre delle stranezze di un paese ricco di tradizione come il Giappone, di questa abitudine di abbandonare certe usanze per adottare le abitudini dei paesi occidentali… perché servire il tè in elaborate tazze fiorate dipinte a mano quando la cerimonia del tè in Giappone aveva regole ben determinate e radici molto più profonde?

“Venivamo spesso qui?” gli chiese Aya improvvisamente, distogliendolo dai suoi pensieri oziosi.

“Abbastanza… ma vengo soprattutto da solo, è abbastanza vicino al mio ufficio, ed è un buon posto per rilassarsi un po’”.

Il compagno rimase in silenzio, come se stesse riflettendo sulle parole appena udite, poi domandò con noncuranza:

“Ti piace il tuo lavoro?”

Crawford sorrise:

“Sono americano fino al midollo, vivo per il mio lavoro: mi piace pianificare, organizzare, anche rischiare. C’è una tensione nel mondo degli affari che si può trovare difficilmente in altre attività… Direi che è la stessa tensione che vedo in te quando ti alleni con la katana” terminò, rigirandosi la tazza tra le mani.

“E io lavoro?”

Ah, aveva deciso che non gli avrebbe più mentito, ma come fare? Ogni situazione lo forzava ad aggiungere qualche nuovo particolare a quella farsa.

“No, non lavori, non proprio. Spesso mi dai una mano alla società…” dal dossier sul leader dei Weiss, aveva saputo che il padre di Aya lo aveva obbligato a studiare duramente fin da piccolissimo, per poter un giorno seguire le sue orme nel mondo dell’alta finanza “…e poi stai ancora frequentando i corsi di economia”.

Ok, questa era un’altra delle cose che costituivano la sfida di quella situazione: aveva intenzione di fargli terminare gli studi, sapeva che Fujimiya era una persona in gamba e che la morte dei genitori lo aveva privato di molte cose, adesso era giunto il momento di recuperare una vita normale. Un po’ gli veniva da ridere, una vita normale in un contesto completamente anomalo come quello che potevano rappresentare quattro assassini prezzolati e dotati di poteri paranormali, una vita normale dopo essere stato un assassino lui stesso, una vita normale costruita su un cumulo di bugie…

Gli sorrise, tornando alla realtà:

“Altre domande?”

Sapeva quale sarebbe stata quella più ovvia, ma sapeva anche che Aya non gliela avrebbe rivolta, era ancora presto per parlare di cose personali, e il fatto che fino ad allora lui non gli avesse mai accennato l’esistenza di un qualche familiare doveva aver dato più di un sospetto al compagno.

Dopo un momento di silenzio, infatti, l’altro cambiò argomento:

“Mi piace questo posto, capisco che tu ci venga spesso”.

Lui sorrise di nuovo, poi si portò la tazza alle labbra. Avanzava piano, ma avanzava…

 

Quando tornarono a casa, trovarono solo il piccolo Nagi ad aspettarli. Schuldig e Farfarello erano usciti insieme, e Crawford temeva di sapere cosa fossero andati a fare. Dare quegli sfoghi all’irlandese pazzo era l’unico modo per gestirlo… fortunatamente in genere era il tedesco ad accompagnarlo.

“Come stai? Ti senti meglio, Aya?” chiese Nagi, avvicinandosi incerto.

“Sta meglio. Abbiamo trovato un nuovo dojo…”.

Naoe non aveva chiesto nulla di particolare, eppure lui sentiva una strana necessità di costituire l’unico contatto di Fujimiya con il mondo esterno.

Il piccolo giapponese sorrise, poi voltò loro le spalle avviandosi verso il bancone della cucina:

“Cosa volete mangiare per cena?” disse, improvvisamente di buonumore.

Eppure la voce che gli rispose aveva un che di metallico:

“Qualsiasi cosa Crawford vorrà prepararci” lo aveva bloccato gelidamente Aya.

L’americano si voltò verso il compagno: ovviamente questa storia dei turni andava bene quando si parlava degli altri, non aveva mai creduto di esserne coinvolto…

Rimase per un attimo incerto tra il rimettere immediatamente a posto le cose, spiegando al ragazzo le ‘regole della casa’, e l’abbozzare per amore di una giornata fino a quel momento perfetta.

Scrollò le spalle, espirando rumorosamente, poi si tolse la giacca, andando ad infilarsi il grembiule. Per fortuna i piatti americani che sapeva cucinare erano tutti piuttosto semplici, e se la cavò rapidamente. Mentre lui cucinava, Aya e il nano apparecchiarono, e anche la cena trascorse tranquilla. Interrogare Nagi sulle cose che faceva a scuola era di grande aiuto per tenere la conversazione ad un livello più evoluto di un imbarazzato silenzio, e poi il notiziario economico della sera completò l’opera, rapendolo finché non fu di nuovo tutto in ordine.

Il ragazzino rimase un po’ con loro, in soggiorno, girando i canali della televisione, mentre lui era preso dal giornale e Aya dal Bushido, poi decise, finalmente, di togliere il disturbo, dopo uno sbadiglio sin troppo plateale.

Dopo qualche minuto, anche lui si alzò:

“Andiamo a dormire, amore, è tardi” disse chiudendo il giornale, e appoggiandolo sul tavolino basso.

Si fermò in piedi davanti a Abyssinian, porgendogli un mano per aiutarlo ad alzarsi, ben sapendo, comunque, che l’altro avrebbe rifiutato.

E infatti Aya si alzò da solo, e si avviò verso la loro stanza senza guardarlo.

Lui decise di attardarsi ancora qualche secondo nello studio, dandogli il tempo di prepararsi, senza metterlo in imbarazzo con la propria presenza. Quando varcò la porta della camera, vide che era accesa solo la luce dalla propria parte del letto, mentre anche la testa rossa del compagno era quasi completamente nascosta dalle coperte. Si sfilò gli occhiali, appoggiandoli sul comodino, e cominciò a pensare se quella tattica avrebbe mai potuto portare dei risultati… finora qualche passo avanti c’era stato, ma certamente la strada era ancora lunga.

Si alzò, andò in bagno per lavarsi e prepararsi per la notte, poi tornò nella stanza da letto, infilandosi sotto le coperte e scivolando al fianco di Aya.

Questo comportamento gli era certo più congeniale dell’usuale arrendevolezza di quegli ultimi giorni: gli avvicinò le mani alle pelle candida, poi delicatamente gli cinse la vita con le braccia.

Sapeva che l’altro non era addormentato, e sapeva di stare rischiando con quella mossa improvvisa, ma era stanco di aspettare.

Sentì quel corpo irrigidirsi, poi girarsi tra le sue braccia, cercando di allontanarlo puntandogli i pugni contro il petto:

“Crawford! Cosa stai facendo?!” gli sibilò infatti il compagno, cercando di liberarsi.

Ma lui gli serrò le mani intorno ai polsi:

“Non voglio farti niente di male, non allontanarmi ogni volta che cerco di starti vicino” replicò tranquillamente, cercando di bilanciare la morsa in cui lo stringeva con la dolcezza delle parole.

“Lasciami andare” insistette Aya, continuando a divincolarsi.

Lui gli lasciò andare i polsi, passandogli però le braccia intorno al petto:

“No. Abituati all’idea” gli ribatté, senza allentare la presa.

Lo scontro fu lungo e muto, e solo la stanchezza pose fine alla battaglia. L’abbraccio di Crawford era troppo saldo per permettere ad uno stanco Aya di liberarsi, e così alla fine si addormentarono uno nelle braccia dell’altro, proprio come l’americano aveva previsto sin dal pomeriggio.

 

Quando Crawford si svegliò, la mattina dopo, Aya era ancora tra le sue braccia, addormentato.

Nella pallida luce del primo mattino, si lasciò andare alla contemplazione dei particolari perfetti del volto del compagno: gli occhi chiusi, dalle lunghe ciglia morbide, le sopracciglia sottili, rosso scuro, il naso aristocratico, leggermente all’insù e appena spruzzato di lentiggini… la tentazione era forte, e ormai aveva deciso che aveva resistito sin troppo a lungo. Scese lentamente su quel viso, andando ad appoggiare le labbra su quelle appena socchiuse di Aya.

Quando si allontanò, si trovò due occhi viola spalancati e fissi nei propri.

Sorrise, senza aggiungere una parola. Poi gli passò le dita tra i capelli.

Aya voltò la testa, chiudendo gli occhi:

“No” mormorò, cercando di sottrarsi alle sue carezze. Sembrava più arrendevole, ma non era qualcosa di positivo, sembrava un aver perso la speranza, una assenza totale di partecipazione a quello che gli stava accadendo.

“Amore, la situazione sta cominciando ad essere pesante, per me. Vorrei che tu cercassi di capire…” gli sussurrò, sfiorandogli l’orecchio con la punta delle dita.

“Mi è bastato ieri sera! Crawford… Brad… avevi detto che mi avresti dato tempo” stavolta lo sguardo di Aya era fisso nel suo.

L’Americano scosse la testa:

“E tu avevi detto che avresti fatto uno sforzo, e invece sembri una tartaruga che si rinchiude nel suo guscio… cerca di avere fiducia in me!” si ributtò con la schiena sul materasso, abbandonandosi sui cuscini. Sicuramente il tono scoraggiato lo avrebbe aiutato.

Il compagno si voltò verso di lui, sollevandosi sull’avambraccio:

“Non ricordo niente, neanche il minimo particolare…” disse piano “…la città, la casa, te… nulla!”

Lui si girò per guardarlo meglio:

“E la katana? Hai ricordato qualcosa oppure i movimenti sono venuti naturalmente e basta?” provò ad indagare.

L’ex leader dei Weiss scosse il capo:

“Niente” mormorò abbassando gli occhi.

“Non preoccuparti, con il tempo qualcosa ti tornerà alla memoria… per esempio…” Crawford si interruppe per un istante, poi riprese sorridendo: “Stasera c’è un ricevimento organizzato dall’associazione delle holding finanziarie. Vuoi venire con me? Potresti incontrare qualcuno che conosci…” gli propose.

Lo sguardo serio di Aya faceva chiaramente capire che quella proposta non gli era esattamente gradita:

“Se non vuoi, non c’è alcun problema. Però penso possa servirti per distrarti, e magari, in mezzo ai discorsi barbosi delle persone che interverranno, potrai ricordare anche qualcosa del lavoro.

In ogni caso, scegli tu”.

Era la tattica migliore, pressare e poi fare un passo indietro, fingendo di lasciare la scelta alla preda quando ormai era stretta in un angolo.

Aya non gli rispose, affondò la testa nel cuscino richiudendo gli occhi. Ci avrebbe pensato, questo era sicuro, e probabilmente avrebbe ceduto. In qualche modo era sempre una questione di orgoglio, di rispondere ad una sfida.

Era giunto il momento di alzarsi, quel giorno avrebbe dovuto lavorare fino al pomeriggio, e se tutto andava come previsto, e lui era il migliore nel prevedere le cose, non ci sarebbero stati intoppi.

Prima di lasciare la stanza, perfettamente preparato per il lavoro, si avvicinò al letto, sedendosi sul bordo. Passò ancora una volta le dita tra i capelli di Aya, facendo poi scendere la mano fino ad accarezzargli la spalla. Si chinò per baciargli la fronte, poi gli raccomandò di non dimenticare le medicine.

Tutto stava andando abbastanza bene, ma non poteva permettersi un momento di distrazione.

Quando arrivò in ufficio, le segretarie lo accolsero con il solito saluto formale. Lui rispose con un rapido cenno del capo, prima di chiudersi nella propria stanza. Quel giorno aveva più di un motivo per dover rimanere tutto il giorno negli uffici della sua Società.

Per prima cosa chiamò il cellulare dell’idiota, e quando sentì il familiare ‘Heil’ con cui Mastermind aveva preso l’abitudine di salutarlo, pensò che prima o poi qualcuno gli avrebbe dovuto spiegare perché un dono prezioso come quello di leggere nella mente fosse stato dato ad uno scervellato come Schuldig.

“Ho bisogno che tu faccia una cosa” gli disse senza neanche salutarlo.

“E’ sempre un piacere accontentarti, Mein Führer, soprattutto quando mi chiedi aiuto con tanta grazia…”.

Gli scherzi del tedesco erano in quel momento una stupida perdita di tempo:

“Voglio che tu scandagli le menti degli altri Weiss. Mi consegnerai il rapporto stasera” chiuse la comunicazione senza neanche aspettare la risposta, ma lui era il leader e gli altri dovevano solo ubbidire.

La prima cosa era fatta. Sapeva bene che, nonostante l’accordo con il capo dei Kritiker, gli altri tre stupidi non sarebbero rimasti con le mani in mano. La sua espressione si indurì pensando ad uno di loro in particolare: sapeva che quella specie di ex detective, quel fallito che non era stato in grado di proteggere la sua fidanzata, era da tempo troppo affezionato ad Abyssinian, e che non avrebbe rispettato gli ordini dei loro capi e fatto finta che Fujimiya non fosse mai esistito. In qualche modo era una cosa comprensibile, anche lui non era stato in grado, nonostante le argomentazioni più che convincenti, di lasciarlo andare, di allentare la presa, ma stavolta non ci sarebbero stati colpi di scena, Aya era suo, ormai, e sarebbe stato un gioco da ragazzi liberarsi dello scomodo concorrente.

Si abbandonò contro lo schienale della poltrona: mancava un’altra cosa, stavolta un compito più semplice, che avrebbe richiesto poche telefonate e un po’ di soldi. Era un sistema sicuro, lo aveva usato più volte in altri contesti. Lui lo chiamava costruire uno sfondo.

Si collegò al sito dell’agenzia da cui si riforniva in occasioni del genere. Non era necessario il talento di Prodigy per non lasciare tracce del proprio passaggio. Scelse dal catalogo le persone più rassicuranti: era buffo, sotto ad ogni immagine era presente una descrizione ed il ruolo più adatto in cui poter utilizzare il candidato. Selezionò i profili che davano più fiducia, e poi inviò una descrizione dell’incarico, allegando una immagine di Aya Fujimiya.

Ok, non era un modo pulito, ma forse non ne esisteva uno. E una volta che Aya fosse stato suo, sarebbe stato più facile anche rivelargli, a poco a poco, la verità. Sì, sarebbe stato divertente anche quello…

Chiuse il collegamento, concentrandosi nel lavoro. Gli affari non aspettavano, e già si era distratto troppo, negli ultimi giorni.

Quando arrivò il pomeriggio, lasciò la sede della società con la consapevolezza che il suo impero diventava ogni giorno più florido. In America aveva avuto fortuna, lanciando la sua piccola start-up in un momento particolarmente propizio. Si era buttato sulle nuove tecnologie nel periodo in cui il settore tirava di più, ma aveva saputo uscirne, per buttarsi sul settore finanziario più tradizionale, esattamente al momento giusto.

Sorrise, infilandosi nella sua BMW: aveva sempre avuto fiuto per gli affari, e soprattutto era riuscito a sfruttare ogni occasione a proprio vantaggio. Ogni lavoro in cui si era lasciato coinvolgere aveva avuto un ritorno positivo. Se Reiji Takatori era morto, era stata anche la conseguenza di un suo calcolo sull’inutilità di rimanere legato ad un uomo che aveva i giorni contati.

Il traffico sembrava scorrevole, nonostante fosse l’ora di chiusura degli uffici; avrebbe avuto tutto il tempo di arrivare a casa, prepararsi, e uscire di nuovo con Aya per andare al ricevimento.

Si sentiva stranamente euforico, si aspettava molto da quella serata, nonostante ancora non gli fosse giunta nessuna immagine a rassicurarlo sull’esito del proprio piano.

Imboccò il vialetto della villa, senza parcheggiare l’automobile nel garage, non ce ne era alcuna necessità, visto che sarebbero usciti presto.

Quando entrò in casa, si accorse ancora una volta quanto la presenza del leader dei Weiss avesse mutato le abitudini dei suoi occupanti: Farfarello stava disegnando, certamente lo stile della tela sul cavalletto non avrebbe incontrato i gusti del pubblico più tradizionalista, con quel rosso a farla da padrone e quei visi segnati, scuri, ma era sempre meglio questo che dedicarsi alle incisioni su pelle umana.

Poi c’era Nagi, impegnato nei compiti, con la testa affondata nei libri ed uno sguardo assorto, non sognante come lo trovava quasi ogni sera nei giorni precedenti, perso nel ricordo di quella ragazzina deficiente con quel nome assurdo.

E poi Schuldig… Schuldig continuava in qualche modo a preoccuparlo. Non perché pensasse che il tedesco avrebbe mai azzardato qualcosa, però si era accorto che rimaneva quanto più possibile in casa, e si divertiva a stuzzicare l’ultimo arrivato, utilizzando un atteggiamento confidenziale che lo faceva andare in bestia… e forse indulgendovi proprio per questo.

Si guardò intorno, e non impiegò molto tempo a riconoscere nella forma stesa sul divano, coperta da un plaid e immersa nella lettura di un libro, il suo Aya.

Si avvicinò fino a sederglisi accanto, sull’alto bracciolo:

“Ciao” guardò per un istante l’orologio “Non abbiamo molto tempo, dovremmo cominciare a prepararci” disse lentamente, allungando una mano per allontanargli una banda di capelli cremisi dal viso.

Lo sbuffo che ricevette in risposta si rivelò di non semplice interpretazione, ma non era da lui darsi per vinto. Si sollevò in piedi, riprendendo la ventiquattrore appena appoggiata sul tavolo, e si diresse verso lo studio. Dopo una rapida occhiata alla scrivania, sulla quale faceva bella mostra di sé il rapporto di Schuldig, uscì rapidamente per infilarsi nella camera da letto, e quindi nel bagno.

Non avevano pronunciato altre parole, Abyssinian non era tipo con il quale servisse abbondare, in questo senso. A questo punto doveva aver già deciso cosa fare, per la serata, e un compagno pressante lo avrebbe solo infastidito.

Dopo la doccia, tornò in camera da letto per scegliere cosa mettersi. Era un ricevimento importante, con molta gente che contava nel mondo dell’alta finanza.

Non si distrasse dalla contemplazione dei numerosi completi appesi nell’armadio neanche quando sentì la porta aprirsi. Allungò il braccio per prendere lo smoking e una camicia bianca. Da uno dei cassetti del tavolo estrasse il cofanetto con i gemelli, e da una scatola prese la cravatta.

Si sedette sul letto, finendo di asciugarsi i capelli con l’asciugamano. Non si voltò neanche quando sentì Aya avvicinarglisi, fermarsi qualche secondo di fronte a lui e poi dirigersi verso il bagno. Continuò a massaggiarsi la testa, e quando sentì l’acqua scorrere nella doccia fu chiaro che ancora una volta la sua tattica era stata vincente.

Stava abbottonandosi la camicia quando il compagno tornò nella stanza. La pelle chiarissima appena arrossata dal calore dell’acqua e i capelli ancora bagnati, Crawford avrebbe voluto fare molte cose al leader dei Weiss, e il 99% di queste non prevedeva neanche che i due lasciassero la stanza… ma non era ancora il momento.

“Penso che questo dovrebbe andarti…” gli mormorò, indicandogli il vestito appoggiato sul letto.

Non ebbe risposta, neanche uno dei soliti sguardi inceneritori.

Finirono di vestirsi in silenzio. Quando si voltò verso Fujimiya, per un momento trattenne il respiro: la camicia bianca con lo jabot, la giacca di velluto nero e i pantaloni dritti davano al ragazzo l’aspetto di un cavaliere settecentesco, etereo e letale allo stesso tempo.

Perso nella contemplazione, non si rese conto che l’altro gli si era avvicinato, sollevando le braccia per annodargli la cravatta.

Non disse niente, nonostante lo stupore per quel gesto così intimo, qualcosa che non aveva motivo di esistere nella relazione che li legava. Si limitò a fissare gli occhi in quelli viola del compagno, cercando di resistere alla tentazione di fermare quelle mani sottili nelle proprie.

Quando furono pronti entrambi, si scambiarono appena uno sguardo, prima di uscire dalla stanza e avviarsi verso la porta per la loro prima uscita ufficiale.

Passarono davanti agli altri Schwarz senza fermarsi, ma, anche così, Crawford non poté fare a meno di avvertire il ghigno di Schuldig e le sue parole sarcastiche:

<Da quel che leggo nella testolina arruffata del Kätzchen, non gli sembra difficile resistere al tuo fascino. Preparati a un’altra notte in bianco mein führer…>

“Dai le pillole a Farfarello e non permettere al ragazzino di stare davanti al computer tutta la notte. Noi torneremo tardi” replicò lui, ignorando le battute derisorie dell’altro.

Quando arrivarono di fronte al Palazzo dei Congressi, nel centro di Tokyo, la piazza era illuminata a giorno. Un cordone di polizia teneva a bada giornalisti e gente comune, mentre una fila di macchine lussuose avanzava lentamente verso il portone di ingresso.

Crawford si voltò verso Aya, cercando di studiarne la reazione, ma quel che vide fu solo un viso impassibile. In qualche modo aveva scelto quell’occasione anche per cercare di abbagliarlo con la dimostrazione del proprio potere: forse era un atteggiamento un po’ infantile, forse un demente come Schuldig lo avrebbe definito un mezzuccio da ultima spiaggia, ma per lui era importante che Aya capisse con chi aveva a che fare, che si rendesse conto della sua autorità, riconoscendogli di averlo circondato di premure e attenzioni, come raramente ci si potrebbe aspettare da una persona importante e abituata a comandare.

Quando arrivarono davanti all’ingresso, l’uomo del servizio d’ordine non gli chiese neanche l’invito, ma fece direttamente segno di varcare i cancelli che portavano al cortile interno.

Parcheggiò l’automobile, girando poi intorno al mezzo per aprire la portiera del compagno. Gli venne un po’ da sorridere, vedendo la reazione prima incredula e poi gelida di Fujimiya:

“Non sono una donna” si sentì sibilare, dopo che la portiera dell’auto gli fu fatta sbattere contro un braccio, ripagandolo del suo aiuto da prode cavaliere.

Andava bene anche così, tutto meno l’indifferenza…

Entrarono fianco a fianco nella grande sala già gremita di gente.

Crawford sorrise leggermente avvertendo i commenti sussurrati al loro ingresso. Ovviamente la maggior parte di quegli uomini d’affari era abituata a vederlo partecipare da solo a queste riunioni. Non aveva mai fatto ricorso ad accompagnatrici, e non gli era mai neanche passata per l’anticamera del cervello l’idea di portare con sé qualcuno degli Schwarz, e questo bastava a giustificare la curiosità di cui ora erano circondati.

Scesero i pochi gradini che portavano nella sala vera e propria, e subito un cameriere si avvicinò con un vassoio di coppe di champagne. Ne prese una per sé, e ne porse un’altra ad Aya.

Il compagno continuava a mantenere l’atteggiamento impassibile. Si guardava intorno, ma senza eccessiva partecipazione.

“Spero che non ti annoierai troppo…” gli mormorò, sperando di vederlo reagire.

L’altro si voltò verso di lui scrollando le spalle, poi, come pentendosi di un atteggiamento così distaccato, tentò di distendersi un po’:

“Per me si tratta di una serata, sei tu che devi trascorrerci insieme la maggior parte del tempo…”.

Crawford gli sorrise, dimostrandogli di apprezzare lo sforzo:

“Vieni, dobbiamo mescolarci un po’ con gli altri. E’ lo scopo di questo tipo di riunioni”.

Conosceva, almeno di vista, quasi tutti gli invitati. Molti facevano parte dei consigli di amministrazione delle società più quotate del Giappone, ma ce ne erano parecchi dagli Stati Uniti e dall’Europa. Un po’ gli veniva da ridere, a vederli così omaggianti quando invece, all’inizio della carriera, non gli avevano dato un minimo di fiducia! Eppure il suo comportamento non rivelava in alcun modo il disprezzo che provava per loro, nel mondo degli affari non era mai una buona mossa inimicarsi qualcuno… non si sapeva mai quanto potere avrebbe potuto assumere, un giorno.

In quel momento un distinto signore anziano, con il pince-nez, si fece loro incontro, sorridendo:

“Mr Crawford, quanto tempo! Sono molto felice di incontrarla…” si voltò poi verso Aya, senza alterare il sorriso bonario “…non sapevo che sarebbe intervenuto anche lei, Mr Fujimiya!”.

Gli occhi del ragazzo si dilatarono appena, mentre ricambiava la stretta di mano dell’uomo che gli si era fermato di fronte.

L’Americano osservò la scena massaggiandosi il naso, in quello che sapeva stare diventando un gesto abituale per lui. Il movimento gli permise però di nascondere una smorfia di soddisfazione: non c’era niente da fare, l’agenzia da cui si serviva era la migliore nel settore teatrale, e l’uomo che gli avevano procurato corrispondeva esattamente alla parte.

“Buonasera Nakoma-san, sono contento di rincontrarla…” mormorò, quando l’attore gli porse la mano in un saluto all’occidentale.

L’uomo rise:

“Come potevo perdermi questo raduno di dinosauri? E poi…” si voltò di nuovo verso l’ex leader dei Weiss “…il solo fatto di aver potuto rivedere Mr Fujimiya mi ripaga dello sforzo di essermi trascinato sin qui!”.

“Aya, non so se ricordi Nakoma-san…” Crawford si era voltato verso il ragazzo più giovane, cercando di apparire disinvolto “…ci ha aiutato nell’acquisizione della Tazuka Inc., l’anno scorso”, si girò poi di nuovo verso l’uomo anziano: “Fujimiya ha avuto un piccolo incidente, soffre di alcuni vuoti di memoria…”.

L’attore esibì una perfetta espressione di partecipazione e commiserazione, arrivando a raccontare un caso analogo accaduto al nipote di terzo grado, il quale, a causa del trauma subito, aveva poi conosciuto una pediatra della clinica universitaria e adesso era marito e padre felice di tre pargoli.

Crawford finse di prestare attenzione al racconto, palesemente improvvisato, ma con la coda dell’occhio studiava la reazione di Aya. Neanche lui stava seguendo il racconto dell’uomo, invece lo osservava attentamente, come se cercasse di studiarlo in ogni particolare, tentando di ricordare qualcosa.

Quando Nakoma li lasciò, sparendo nella folla, sui due scese un silenzio pesante. Solo dopo qualche minuto, fu Aya a romperlo:

“Non ricordo nulla. E’ come se ci fossimo incontrati oggi per la prima volta…” mormorò, portandosi poi il bicchiere alle labbra e vuotandolo d’un fiato.

“Il dottor Tabase ha detto che è normale, che non devi avere fretta… l’importante è che ti rilassi, e che tu non stia sempre a pensare di dover ricordare qualcosa… sono sicuro che adesso che riprenderai gli allenamenti con la katana, le lezioni all’Università, e che tornerai a darmi una mano con il lavoro, tutto ti sembrerà meno pesante. Essere impegnati aiuta sempre a superare i problemi”.

Non aveva parlato del loro rapporto, anche lui sapeva quando era il caso di evitare di pressare troppo.

“Hn”.

La risposta di Aya era scontata, ma lui aveva imparato a leggere anche questi versi, e questo mancava di tutti i parametri della convinzione.

Presto si trasferirono tutti nell’Auditorium, per i brevi discorsi che avrebbero dovuto cementare i legami dovuti al loro ruolo di guide per l’evoluzione economica del Giappone.

La maggior parte dei relatori non fece che ripetere banalità trite e ritrite, un condensato in cui cinismo e buoni sentimenti riuscivano a sfidare l’impossibile, coesistendo e amalgamandosi.

Quando il chair-man chiamò l’intervento di Mr Brad Crawford, l’Americano notò il primo lampo di sorpresa negli occhi del compagno.

Prima di alzarsi in piedi, gli strinse una mano nella propria, in uno strano gesto, come se volesse tranquillizzarlo che tutto stava andando bene, che non lo avrebbe abbandonato in mezzo a quella folla di sconosciuti. E la cosa strana fu che Aya non allontanò la mano, ma per un istante, forse senza pensare, agendo solo d’istinto, intrecciò le dita alle sue.

Mentre percorreva il corridoio con la guida rossa che portava al palco, si sentì carico come non lo era mai stato.

Non tirò neanche fuori la bozza che aveva buttato giù per quel discorso; parlò a braccio, distogliendo raramente gli occhi da quelli di Aya, con un trasporto e una determinazione in grado di catturare l’attenzione di ogni persona che affollava quell’auditorium strapieno. Per una volta, statistiche, previsioni, analisi, trend sembrarono animarsi di vita propria, colorandosi di un significato che travalicava quello puramente finanziario, ma concorrendo alla descrizione di un quadro del Giappone a tutto tondo, mescolando analisi sociali, storiche e culturali a quella più prettamente economica.

Dietro il suo discorso si leggeva ben altro, e la cosa fantastica era che ognuno, in quella sala, poteva ritrovarvi una rassicurazione verso quelle che erano le proprie paure del futuro. E una cosa del genere, causata dall’unica persona che il futuro poteva prevederlo, acquisiva uno strano significato.

Quando terminò di parlare, la sala rimase per una frazione di secondo in silenzio assoluto, come era rimasta durante l’intero intervento, poi scrosciò un applauso fragoroso. In mezzo alla folla che lo acclamava in piedi, Crawford cercò la persona grazie alla quale si era realizzata quella magia.

Seminascosto in mezzo a tutte quelle persone, la trovò: anche Aya era in piedi, non applaudiva, ma lo guardava silenzioso, serio. Quando i loro sguardi si incrociarono, lui gli sorrise, muovendosi verso i gradini che lo avrebbero fatto scendere dal palco. Percorse il lungo corridoio senza distogliere gli occhi da quelli dell’altro, e quando gli fu davanti si lasciò travolgere da quei sentimenti che aveva continuato a reprimere per tutta la sera: lasciò scivolare le braccia intorno alla vita di Aya, attirandoselo contro per un breve istante, e liberandolo quasi immediatamente. Dall’esterno poteva essere sembrato probabilmente un rapido abbraccio amichevole, qualcosa di giustificabile con le strane abitudini attribuite agli occidentali. La reazione di Fujimiya non era invece altrettanto facile da leggere; non aveva opposto resistenza, ma la cosa era stata così veloce che probabilmente non ne avrebbe avuto nemmeno modo, però anche adesso rimaneva impassibile, continuando a fissarlo negli occhi, come se avesse bisogno di far rientrare gli ultimi avvenimenti nel quadro che si era costruito del compagno.

Furono subito separati dalle persone che venivano a complimentarsi per l’intervento, e Crawford, neanche volendolo, sarebbe riuscito a tenersi Aya vicino, con la ressa che gli era piombata addosso.

Presto, comunque, si spostarono di nuovo nella sala del ricevimento: assolta la fase più strettamente ‘professionale’ della serata, era giunto il momento della cena e del divertimento, che, considerando l’età media dei partecipanti alla serata, suonava più come una minaccia che come una promessa.

Vedendo Aya vicino ad una delle grandi vetrate, che guardava il meraviglioso spettacolo di una Tokyo notturna sotto di loro, Crawford gli si avvicinò, portando con sé un piatto che raccoglieva le cose più invitanti del buffet:

“Da quello che mi ha detto Nagi, hai saltato il pranzo. E’ il caso che mangi qualcosa…” gli disse, porgendogli il cibo.

Rimasero in silenzio, entrambi presi dalle luci che brillavano oltre il vetro.

“Mr Crawford… finalmente riesco a farle i miei complimenti per il suo intervento!” una donna, elegantemente fasciata in un abito lungo, grigio perla, di quelli che sembrano tenersi su sfidando la forza di gravità, era arrivata alle loro spalle, ondeggiando sui tacchi altissimi.

L’Americano di inchinò leggermente, lasciando che un sorrisetto divertito gli si disegnasse sul volto:

“Kyoko Morige… è un piacere vederla dopo tanto tempo”.

La ragazza rise, buttando indietro la testa per mostrare il collo sottile impreziosito da quella che sembrava una collana di diamanti autentici.

“Aya, non so se ricordi la figlia di Soichiro Morige, Kyoko…”.

Il compagno si chinò educatamente, senza distogliere lo sguardo dalla donna che avevano di fronte.

“E’ un piacere… Aya?” disse lei, ridendo ancora, di nuovo senza motivo.

“Aya Fujimiya” spiegò Crawford, asciutto.

Sperava ardentemente che Kyoko se andasse il prima possibile, ma la testardaggine e l’orgoglio della ragazza erano piuttosto famosi, e, nonostante fra loro le cose non fossero andate oltre qualche invito a cena, sembrava proprio che quella sera non fosse disposta ad accettare di essere ignorata.

“Dopo la cena si comincerà a ballare, dopo tutto questo tempo in cui mi ha completamente abbandonata, spero che saprà farsi perdonare…”.

Bene! Adesso aveva addosso anche lo sguardo di Aya…

Sorrise senza rispondere, portandosi il bicchiere alla bocca, e sperando di prendere tempo.

La donna si voltò poi verso il ragazzo più giovane, guardandolo con apprezzamento:

“Ha dei capelli bellissimi…” notò, rivolgendosi di nuovo a Crawford “…e che occhi!!” si guardò intorno “Credo che metà di queste eleganti signore, stasera, lo stia mangiando vivo…” improvvisamente si abbandonò ad una risatina “Peccato che io preferisca qualcosa di… più maturo…”.

“Ho bisogno di andare a prendere una boccata d’aria” mormorò Aya, allontanandosi.

“Il suo amico è piuttosto timido, eh?! Sembra proprio che stia scappando…”.

L’Americano chiuse gli occhi, se avesse avuto una delle sue famose premonizioni, quella serata l’avrebbe trascorsa chiuso dentro casa.

Pochi minuti dopo, quando si fu liberato della donna, raggiunse Aya sulla terrazza dell’edificio. Le luci nascoste negli angoli, dietro enormi piante e vasi di fiori, illuminavano fiocamente il punto in cui si trovava l’ex leader dei Weiss, immobile appoggiato alla solida balaustra.

Gli si mise accanto, portando anche lui lo sguardo sul panorama.

Le folate di aria gelida si intrufolavano nei vestiti, e presto si accorse che il compagno rabbrividiva, sebbene non accennasse a tornare dentro. Per un istante Crawford meditò il gesto romanticamente premuroso di togliersi la giacca e avvolgervelo teneramente, ma impiegò una frazione di secondo a capire che così lui si sarebbe congelato, quindi optò per qualcosa di altrettanto promettente: si mosse appena, portandosi alle spalle del compagno, quindi gli avvolse le braccia intorno alla vita, addossandoselo contro il petto.

Per un momento l’altro si irrigidì, poi tentò di voltarsi in quell’abbraccio forzato, sibilandogli:

“Lasciami! Che diavolo stai facendo…” trattenendo a stento la rabbia.

Il Kätzchen, come lo chiamava Schuldig, a volte tendeva a reagire d’istinto, e questo accadeva sempre quando doveva stabilire un contatto fisico. Era testardo e duro, ma anche lui era una persona determinata… strinse l’abbraccio, strofinando contemporaneamente le braccia di Aya per scaldarlo:

“Ti amo…” gli mormorò, stupendo se stesso per come queste parole gli fossero uscite naturalmente, poi gli depositò un bacio sul collo, risalendo con la bocca fino all’orecchio, rabbrividendo al contatto con il metallo freddo del lungo orecchino.

Le mani del ragazzo salirono fino a fermarsi sulle sue; non le scansarono, ma impedirono loro di approfondire il contatto. Crawford rimase con il viso contro la pelle del collo di Aya, beandosi di quella immobilità, e del silenzio che era sceso tra loro. Si potevano leggere molte cose, in quel silenzio, così come niente, eppure era chiaro che quello che era appena accaduto costituiva un altro passo avanti.

Allentò leggermente la presa, portandogli ora le mani sulle spalle e facendolo poi ruotare su se stesso, fino a ritrovarselo di fronte: abbassò il viso fino a poggiargli la fronte sulla sua, le dita che scivolavano lungo quelle braccia magre fino a catturargli i polsi:

“Amore… voglio baciarti”.

Sapeva bene che in quella situazione l’altro non glielo avrebbe impedito, ancora incapace com’era di reagire a quello che stava accadendo… ma il fatto di avvertirlo gli dava un vantaggio in più, dopo sarebbe stato più difficile per Abyssinian ritenersi la vittima di una violenza.

Abbassò il volto, fino a trovarsi con gli occhi a livello di quelle due gemme viola, portò la mano sotto il mento del compagno, sollevandolo appena, e poi sorrise, appena prima di annullare la distanza tra loro.

Lasciò quei polsi sottili, e fece scivolare le braccia intorno alla vita dell’altro, serrandoselo contro il petto. Percepiva fisicamente i brividi che attraversavano la schiena di Aya, mentre le loro labbra erano unite e lui tentava di forzare l’accesso alla sua bocca morbida. Non impiegò moltissimo a conquistarla, inebriandosi del calore e del sapore che racchiudeva; giocò un po’ per lasciare tempo al compagno per abituarsi all’intrusione, e poi spinse più a fondo, costringendolo a rispondere allo stimolo.

Dovettero staccarsi quando non ebbero più aria nei polmoni.

Lui non lasciò però la presa sulla schiena di Aya, anzi, strinse l’abbraccio, quasi volesse che il corpo dell’altro si fondesse con il proprio:

“Ti amo, Aya” gli ripeté, e stavolta le parole gli uscirono senza premeditazione, senza secondi fini, e in qualche modo molto più pericolose.

Sentì Fujimiya irrigidirsi, e cercare di allontanarsi. Lo trattenne solo per qualche secondo, il tempo di sfiorargli la tempia con un ultimo bacio, poi lo lasciò libero, rimanendo solo sulla terrazza.

Quando tornò nella sala della festa, vide che Aya era stato catturato ancora da Kyoko Morige. La perseveranza di quella donna cominciava ad infastidirlo, ma in qualche modo sapeva che il suo intervento aveva avuto qualche responsabilità nell’atteggiamento più arrendevole che il suo gattino aveva avuto sulla terrazza.

Non si avvicinò subito ai due, passò prima a rifornirsi di champagne, prendendo due coppe.

Quando arrivò davanti alla coppia, la donna gli rivolse uno dei suoi sorrisi ammaliatori, quelli che secondo lei dovevano avere effetti fatali sull’uomo prescelto, proprio mentre esclamava:

“Brad! Eccola finalmente… sono ORE che la cerco!” si interruppe per un istante guardando i bicchieri che lui teneva in mano “Non doveva disturbarsi… che cavaliere!” aggiunse soddisfatta, allungando un braccio.

“Mi dispiace, miss Morige” si scusò lui, con un tono tutt’altro che contrito “Non l’avevo vista, e ho pensato solo ad Aya…” con questo, porse il bicchiere al ragazzo, passandogli poi il braccio intorno alla vita, sapendo di metterlo in imbarazzo “…credevo che avesse capito…”.

La metamorfosi sul viso della donna fu qualcosa di stupefacente, il sorriso si era trasformato prima in umiliazione, poi in rabbia, e infine in pura incredulità… Crawford, Brad Crawford che abbracciava un uomo?!

“Oh… beh… certo Crawford… avevo compreso perfettamente! Oh, è arrivato Watanabe-sensei… scusatemi” riuscì a balbettare, allontanandosi ancora sconvolta.

L’Americano avrebbe voluto scoppiare a ridere, ma si limitò ad un sorrisetto ironico, e ad alzare il calice in un fantomatico brindisi.

“Lasciami… hai già raggiunto il tuo scopo” sentì sibilargli la voce di Aya.

Lui si voltò lentamente, senza cambiare espressione:

“Pensavo che mi conoscessi meglio, amore… il mio scopo è completamente diverso!” fissò gli occhi in quelli del compagno, senza permettergli di distogliere i propri, in una specie di sfida.

 

Una Nuova Vita – capitolo secondo THE END

NB Per gran parte della scena nel dojo, per tutta la terminologia del combattimento, e per le note che seguono, devo ringraziare Kamui, che si è impietosita delle mie inesistenti conoscenze sul kendo, e ha deciso di rendere questo capitolo più credibile!

 

(1) Bokken: spada di legno usata per tecniche di spada senza armatura.

(2) Kiai: è il suono simile ad un urlo emesso dai praticanti di arti marziali durante un attacco.

(3) Waka sensei: letteralmente giovane sensei, normalmente è uno dei migliori studenti della palestra, che il sensei designa come insegnante in vece sua, nonostante sia presente alle lezioni.

(4) Keikogi: letteralmente abito da allenamento, è simile alla divisa da judo o da karate.

(5) Hakama: pantalone-gonna usato anticamente dai samurai sia per gli allenamenti che per andare a cavallo. Deve riportare 7 pieghe davanti e 2 dietro.

(6) Per chi volesse saperne di più a riguardo esiste un libro: "Lo Zen e a Spada (La vita del maestro guerriero Tesshu)", di John Stevens, edito da Luni Editrice, euro 17.56.

(7) Uke: non è il termine nella terminologia shounen-ai, in questo caso l'uke è colui che attacca e subisce la 'difesa' e solitamente muore.


 



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