Per Nausicaa, Ria, Calipso, Kamui, Angie e Kira.

Tutti i diritti della serie Weiss Kreuz sono del Project Weiss e di Koyasu Takehito (altresì detto ‘il sorriso che uccide’).

Un ringraziamento particolare a Nausicaa e Kamui, per sostegno, suggerimenti, correzioni.

Buona lettura.

 


Una nuova vita

parte I

di Greta



 

“Siberian?”

“In posizione!”.

“Balinese?”

“Ci sono!”.

“Abyssinian?”

Bombay modificò la frequenza nel microfono.

“Abyssinian?”

Armeggiò ancora, le dita ormai gelate.

“ABYSSINIAN!!”

“Rispondi, AYA!!”

Solo silenzio.

 

Sentiva un dolore insopportabile alla base del collo, tra nuca e spalle. La testa sembrava scoppiargli, mentre non avvertiva alcuna sensibilità nelle braccia e nelle gambe.

L’esplosione era stata violentissima, e proprio quando stava per lasciare l’edificio aveva incontrato quelle guardie che lo avevano impegnato in un ultimo, troppo lungo, combattimento.

E ora? Dove si trovava?

Quel dolore era insopportabile… non riusciva a resistere…

 

“Oh, ooh… guarda cosa abbiamo qui!”

Nagi seguì lo sguardo del compagno.

Con gli occhi spalancati dalla sorpresa, accelerò il passo verso quell’angolo remoto del giardino e si chinò sull’erba, poggiando due dita sul collo delle persona immobile a terra.

“E’ vivo…” disse piano, infastidito dal ghigno che continuava ad aleggiare sul viso di Schuldig.

“Era tempo che sognavo di rivederlo…” replicò il tedesco, ignorando le parole del ragazzino, troppo intento ad osservare la pelle chiara, i capelli morbidi e insoliti, le ciglia lunghe che accarezzavano le guance pallide della figura stesa nell’erba.

“Che facciamo? Non possiamo certo lasciarlo qui. Potremmo chiamare un’ambulanza…” gli suggerì il compagno.

Per qualche istante non rispose, poi sibilò:

“E’ un’occasione troppo ghiotta per sprecarla. Portiamolo a casa”.

“Vuoi dire dagli altri Weiss?!” Nagi era sorpreso, addirittura il servizio a domicilio?

Schuldig scosse la testa:

“Non hai capito, intendo a casa nostra”.

Si chinò sul corpo disteso a terra, passandogli un braccio intorno a quelle spalle magre e l’altro sotto le ginocchia, poi lo sollevò, trasportandolo fino alla macchina:

“Mein Kätzchen… ora non puoi più sfuggirmi!” sussurrò, soffiando nell’orecchio dal quale pendeva un lungo orecchino.

 

“Io non credo che sia una buona idea” continuava a ripetere il ragazzo più giovane, scuotendo la testa. Loro dovevano combattere i Weiss in missione, non raccoglierli feriti e portarseli a casa! E poi sapeva benissimo che Crawford non sarebbe stato contento. Ma ragionare con quel tedesco decerebrato era assolutamente impossibile!

<Decerebrato? Parla per te, chibi!>

“Piantala di leggermi nella mente! Ti ha mai detto nessuno che è maleducazione?!”

Mastermind scoppiò a ridere alle parole arrabbiate del compagno più giovane: entrare nella testa degli altri era per lui non solo naturale, ma anche qualcosa che lo caricava di soddisfazione.

“Il gelido merluzzo ci disapproverà ma non dirà nulla: anche per quell’impassibile yankee è una tentazione irresistibile poter studiare da vicino il nemico” lui lo sapeva, e infatti aveva intenzione di studiarlo da molto vicino…

Parcheggiarono la macchina in garage, quindi Schuldig si allungò sul sedile posteriore per raccogliere quel corpo ancora privo di sensi.

Era una sensazione davvero particolare tenerselo stretto addosso, sentire quel tenue calore trasmettersi al suo petto. Una sensazione strana, piacevole... Scosse la testa, sfoderando nuovamente il suo ghigno: sarebbe stato davvero interessante studiare le reazioni del gattino rosso, una volta che avesse capito in quale situazione era andato a cacciarsi!

“Dove intendi metterlo? Non possiamo rischiare che si svegli e ci uccida nel sonno, oppure che scappi chiamando in aiuto gli altri tre Weiss!”

Nagi stava cominciando a diventare fastidioso, con quella mania di immedesimarsi nel Grillo Parlante. Era chiaro dove Abyssinian avrebbe dormito, no? Ovviamente ci avrebbe pensato lui a ‘vegliarlo’…

Chi diavolo aveva piazzato il tavolino davanti  alla porta?! Entrando Schuldig ci era finito contro, facendolo cadere con un frastuono che echeggiò come un tuono improvviso nella casa avvolta dal silenzio.

Ci mancava solo che quell’irlandese pazzo come un cavallo e The Ice-man si svegliassero per venire a vedere cosa fosse successo! Avanzò con maggiore attenzione, tastando il terreno prima di compiere ogni passo.

Proprio quando era finalmente riuscito a raggiungere la maniglia della propria stanza, la luce del soggiorno si accese improvvisamente.

Esitò un istante prima di girarsi, un senso di gelo gli aveva improvvisamente avvolto la testa, non aveva bisogno di voltarsi per sapere quale figura si sarebbe ritrovato davanti.

Crawford avanzò verso di loro con passo deciso. Era più che evidente che la sua espressione non fosse propriamente felice, e che vampate di disprezzo stessero avvolgendo sia il tedesco che il piccolo giapponese.

“Ancora sveglio a quest’ora?!” provò a chiedere Schuldig, sfoderando il proprio sorrisetto più irritante. Non avrebbe mai permesso all’algido americano di vederlo agitato.

“Vi aspettavo”.

Due parole, sibilate mentre gli occhi erano presi dall’osservazione del leader dei Weiss, ancora incosciente tra le braccia del tedesco.

Nagi scosse la testa, era sicuro che Crawford non avrebbe apprezzato la loro iniziativa! E poi, perché portarsi a casa Abyssinian? Avrebbe scatenato un putiferio… già si immaginava gli altri tre Weiss pronti ad ucciderli per recuperare il loro capo.

“Da quanto tempo è privo di conoscenza?”

La voce dell’Americano continuava ad essere tagliente, eppure non era la domanda che gli altri due si aspettavano di sentirsi rivolgere.

“Un paio d’ore, credo…” rispose Schuldig, per poi interrompersi per una delle sue risate secche, nasali: “E’ ora che lo porti a letto…” accentuò con intenzione la parola, divertendosi a provocare il loro leader: sapeva che avrebbe colto benissimo il senso della frase, fiato sprecato invece con quel bamboccio di Nagi “…domani potremo giocarci tutti insieme”.

Crawford alzò lo sguardo accigliato su di lui, la luce delle lampade a provocare un riflesso sinistro sulle lenti dei suoi occhiali:

<Sei un idiota…> pensò, lasciando leggere all’altro le parole dalla propria mente <…i tuoi desideri si riducono sempre ad istinti animaleschi, mai che tu riesca a guardare più in là del tuo naso… Puoi anche scordarti di violentartelo tutta la notte, non è per te>.

“Mi stai sfidando?” ribatté il tedesco, pronunciando le parole a voce alta.

Crawford si limitò a sostenere quello sguardo adirato, vincendo il confronto e obbligando il compagno a distogliere gli occhi, poi fece un cenno deciso verso la propria stanza da letto:

“Portatelo di là, io dormirò nello studio”.

Non poteva fare altro che ubbidire: un tentativo di contrastare il loro leader sarebbe stato fatto passare come ammutinamento, e i loro capi non avrebbero tardato a sbarazzarsi di lui, come fosse solo spazzatura.

Depositando Aya sul letto matrimoniale di Crawford, Schuldig continuò a mormorare tra i denti i peggiori improperi. C’erano giorni in cui l’arroganza e la sicurezza del capo degli Schwarz lo facevano impazzire di rabbia. Anche adesso… era stata sua l’idea di portare il gattino a casa, era stata una sua iniziativa studiare il nemico da vicino, e invece tutto gli era stato rubato dalle mani, con la stessa facilità con cui si ruba una caramella ad un bambino.

“Schu, se non gli togli gli anfibi non riusciremo mai a sfilargli i pantaloni…”.

Non ci mancava che la voce lamentosa di Nagi, anzi che per una volta non aveva aggiunto i suoi vezzeggiativi dolciastri…

Stava già per scuotere quel corpo ancora privo di sensi, quando sentì di nuovo dietro di sé la presenza gelida di Crawford:

“Vattene, finiamo di pensarci io e Nagi”.

Come al solito non era stato un suggerimento, solo un ordine.

Il tedesco allentò la presa sulle spalle del leader dei Weiss, lasciandolo cadere malamente sulla schiena, e voltandosi poi per rivolgere all’americano un ultimo sguardo di fuoco:

“Ja… mein führer”.

 

Crawford trasferì un po’ della propria roba nello studio, lo stretto necessario per un paio di giorni.

Nel pomeriggio aveva sofferto un terribile mal di testa, e le visioni si erano succedute a breve distanza una dall’altra.

Sapeva che i compagni avrebbero portato a casa Abyssinian, aveva ‘visto’ tutto l’incidente, e sapeva anche qualcosa che i compagni non sospettavano ancora… qualcosa che lo aveva tenuto occupato l’intero pomeriggio, concentrato nel trovare un modo per sfruttare la situazione a proprio vantaggio.

Si rilassò contro lo schienale della sedia, sfilandosi  gli occhiali a massaggiandosi gli occhi.

Poteva essere un gioco rischioso, poteva portarlo alla rovina, poteva coinvolgere anche gli altri Schwarz, eppure era qualcosa che aveva sognato da lungo tempo, dal giorno in cui aveva incontrato per la prima volta Aya Fujimiya, al gioco degli human chess.

Chiuse gli occhi, cercando di rilasciare la tensione del corpo.

Era andato come guardia del corpo di Takatori, una missione normale, che doveva anche nascondere il sadico divertimento di vedere uccidersi, su una scacchiera che riempiva il centro della grande sala, dei disgraziati che combattevano per soldi. Ma del resto, non era quello che faceva anche lui? Però loro non avevano stile, non avevano grazia, la necessità che li aveva portati in quell’arena era leggibile a chiare lettere sui loro visi disperati.

E poi era entrato in gara un nuovo concorrente… ed era stata un’altra cosa.

La prima immagine del leader dei Weiss era stata quella: un ragazzo dai capelli rossi, molti avrebbero potuto dire come il sangue, ma a lui avevano invece ricordato il colore delle foglie autunnali, con gli occhi che emanavano i lampi violacei di un cielo al tramonto, e con una pelle che aveva il candore dei bambini, una innocenza che contrastava con la determinazione con cui quello sconosciuto maneggiava la katana per eliminare un avversario dopo l’altro.

Ricordava benissimo come quella visione lo avesse fatto distrarre dal suo incarico: per la prima volta aveva rischiato di fallire una missione, quando Aya Fujimiya aveva attaccato Takatori coperto da quella lunga giacca nera che riusciva solo a renderlo più sensuale.

Mai aveva faticato tanto per recuperare il controllo di sé, e forse non ci era neanche riuscito… aveva agito solo seguendo l’abitudine, lasciandosi guidare dagli anni di addestramento.

Non aveva detto a nessuno cosa gli fosse successo quella notte, ma non ne aveva dimenticato un solo istante. Aveva fatto ricerche, lo aveva seguito senza farsi mai scorgere, aveva fatto in modo che in qualsiasi loro scontro, fosse lui il suo avversario, combattendolo pur non avendo altro desiderio che tenerlo stretto a sé… sì, perché Aya Fujimiya era suo, di nessun altro.

Si versò una dose generosa di whisky: sulla superficie ambrata il suo cervello stanco fece apparire i visi di Yohji Kudoh e di quel malato di mente di Schuldig… sorrise, ma era più che altro una smorfia di superiorità… nessuno avrebbe mai avuto il suo gattino.

Si spogliò lentamente, indossò il pigiama di seta scura e si infilò nel letto di fortuna arrangiato nell’angolo dello studio: doveva riposare, lo aspettava una giornata dura.

 

Quando aprì gli occhi, la luce tenue che filtrava dalle persiane accostate faceva strani giochi sui disegni della trapunta.

Non sapeva dove si trovava, non riconosceva nulla, nessun particolare… sollevò le mani, portandosele davanti agli occhi per guardarle bene, prima il dorso, poi il palmo. Era affascinante perdersi nella perfezione delle dita, delle unghie, della pelle sottile, così chiara da non sembrare umana.

 

<Il nostro bell’addormentato è sveglio… andiamo a giocare?>

La voce inopportuna di Schuldig si fece spazio nei suoi sogni, risvegliandolo dal sonno leggero e disturbato.

Allungò il braccio per raggiungere gli occhiali, poi respinse il nuovo attacco del tedesco, imponendogli di non fare nulla, e di dargli il tempo per prepararsi.

Si vestì in fretta, in maniera meno formale del solito. Inconsciamente desiderava avere un’aria più rassicurante.

Schuldig lo attendeva nel soggiorno, abbandonato sul divano e con quel ghigno irritante che non lo abbandonava mai. Gli fece un grugnito di saluto, prima di dirigersi deciso verso la stanza in cui si trovava il leader dei Weiss.

Bussò piano, ed entrò senza attendere risposta.

Il suo sguardo cercò la figura sepolta sotto le coperte. Si avvicinò lentamente alla sponda del letto, sedendosi sul bordo. Pur sapendo cosa lo attendeva, doveva essere cauto.

Gli occhi di Fujimiya si fissarono nei suoi, sembrava… smarrito.

“Come ti senti?” gli chiese, cercando di mantenere un tono neutro.

L’altro continuò a guardarlo, sembrava cercare di collocarlo, sembrava cercare di dare un senso a quella situazione.

“Hai preso un bel colpo, ma non è nulla di grave. Ti faremo visitare da un medico, ma è tutto sotto controllo…”.

Schuldig tossì, con l’intenzione di attirarne l’attenzione:

<Cosa gli è successo… sembra completamente spaesato, e non credo sia solo per il fatto di ritrovarsi davanti le nostre facce>.

Crawford non gli rispose, aveva un compito più importante da portare a termine:

“Puoi continuare a dormire, se vuoi” mormorò con la stessa voce tranquilla, aspettando finalmente qualche parola. Poco dopo ebbe infatti la soddisfazione di una replica:

“Dove sono?!” la voce era impastata, eppure si avvertiva ugualmente quella nota metallica tipica del leader dei Weiss.

“Dove pensi di essere? A casa…”

Schuldig si voltò sorpreso verso il proprio capo… che diavolo stava dicendo il ghiacciolo umano?

“Casa? Questa è la mia casa? Non capisco…”.

Crawford si voltò verso l’altro Schwarz, i due si scambiarono uno sguardo intenso, mentre le loro menti si scambiavano domande e risposte.

Schuldig non poteva crederci: il gattino aveva perso completamente la memoria! Ecco perché nel suo cervello non riusciva a leggere nulla, e ritrovare niente del leader dei Weiss!

<Lo sapevi!> accusò subito Oracle, impaziente di capire quale fosse il piano del suo capo.

<Non ne ero certo. In ogni caso, la cosa non ti riguarda, mi occuperò io di lui>.

“Lo so, è colpa della botta che hai preso, ma probabilmente ricorderai tutto molto presto” continuò poi l’Americano a voce alta “Sei a casa, non ti succederà nulla”.

Lo sguardo di Aya continuava ad essere vacuo, ogni tanto però si scorgevano bagliori di sospetto, come se non sapesse se fidarsi o meno di quello che gli veniva detto:

“Chi sono? Come mi chiamo?” chiese, la voce che usciva con difficoltà.

“Aya, ti chiami Aya. Ma adesso basta parlare… devi dormire un altro po’. Tornerò più tardi”.

Detto questo, Crawford fece un cenno a Schuldig, e i due lasciarono la stanza.

Appena la porta si chiuse dietro le loro spalle, il tedesco poté dar libero sfogo alla propria rabbia:

“Che diavolo sta succedendo??!! Abyssinian è totalmente inutile, in questo modo! Non ci darà nessuna informazione sui piani dei Weiss… Perché gli hai detto che questa è casa sua? CRAWFORD, RISPONDI!!!”

Lo sguardo gelido che ricevette in risposta lo obbligò a cercare di controllarsi.

Mentre seguiva il suo leader in cucina, non poté non sibilare:

“Ci devi delle spiegazioni, Oracle. Questa cosa coinvolge tutti noi”.

L’altro neanche si voltò, disse solo, con la solita voce decisa:

“Chiama gli altri, immediatamente”.

Nagi e Farfarello arrivarono subito. Nagi era stupito, non si aspettava di venire svegliato così presto, e poi per una ‘riunione’ d’urgenza, mentre Farfarello era in uno dei suoi momenti di apatia, con la testa ciondolante e le braccia distese sul tavolo.

“Come sapete, da ieri sera abbiamo in casa il leader dei Weiss, Abyssinian” il tono dell’Americano era tranquillo, aveva tutto molto chiaro, e quella si sarebbe solo rivelata una noiosa spiegazione “Ha perso completamente la memoria, non ricorda chi sia, chi siamo noi… nulla”.

“Quindi è inutile trattenerlo…” sibilò Schuldig, astioso.

Nagi sollevò stupito la testa verso il compagno: perché Mastermind sembrava così arrabbiato? Di solito riusciva ad affrontare qualsiasi situazione con ironia, spesso anche infastidendo gli altri con battute inopportune.

<Lascia che Mr Iceberg prosegua… capirai anche tu> si sentì rispondere mentalmente. Lo sguardo gli si incupì: quella situazione non preannunciava nulla di buono.

“No, non è inutile trattenerlo” Crawford ribatté, continuando con il suo tono piatto “Abyssinian è la mente e il braccio dei Weiss, gli altri non sono che pallide controfigure. Senza di lui saranno inoffensivi, proprio come i gattini di cui portano i nomi”.

“Vuoi dire che possiamo tenerlo qui con noi?!”

Il piccolo giapponese non riusciva a trattenere la propria eccitazione: l’idea che il leader dei Weiss si unisse a loro significava tantissimo per lui… era come se avesse un nuovo fratello da accudire, da vegliare, con cui confrontarsi. E Aya sembrava una persona normale, almeno in confronto a quelle che in genere gravitavano intorno agli Schwarz…

“Voglio che lui rimanga qui, che diventi un membro della nostra squadra” pronunciò chiaramente il loro capo, muovendo appena il viso, in modo che le lenti riflettessero la luce rendendo i suoi occhi invisibili.

Nagi stava già per battere le mani dalla contentezza, quando Schuldig si intromise di nuovo, la sua voce nasale carica di disgusto:

“E pensi che lui rimarrà con noi?! Sei un ingenuo… è un Weiss fino al midollo. Va bene per giocarci un po’, come intendo fare io, ma poi sarà solo un problema…” No, non voleva che Abyssinian rimanesse con loro: era ancora incosciente e già li metteva uno contro l’altro, e le sensazioni che quel ragazzo era in grado di scatenare nelle persone che gli si avvicinavano erano qualcosa di cui non si poteva valutare le conseguenze… Non avevano bisogno di altri guai, e invece la decisione di Crawford gli dava la sensazione che qualcosa di pericoloso fosse già accaduto, qualcosa che si nascondeva sotto il desiderio del loro leader di indebolire i Weiss.

“Ti ricordo che ha perso la memoria. Sarà nostra cura fare in modo che non la recuperi. Per lui non deve esserci mai stata altra vita: intendo ricostruirgli un passato, dei ricordi, delle sensazioni, e per questo vi voglio tutti operativi, da oggi, senza pause”.

“…non ha avuto altra vita… it hurts God…”.

Crawford sorrise: ecco, anche Farfarello aveva capito.

<Vuoi farne uno Schwarz, oppure… il ‘tuo’ Schwarz?>

<Una cosa non esclude l’altra, Mastermind, se può servire a legarlo a noi> replicò mentalmente, senza neanche alzare lo sguardo sul suo sottoposto.

“Cosa dobbiamo fare? Hai già un piano?” Nagi sembrava sempre più impaziente di cominciare.

“Non si sveglierà prima del tardo pomeriggio, per allora alcune cose dovranno essere pronte.

Schuldig: tu e Farfarello andrete a comprargli dei vestiti e tutto quello che può essergli necessario. Voglio anche che compriate dei libri, dei quaderni, qualsiasi cosa possa farlo sentire appartenente alla casa…”

<Anche un guinzaglio?> replicò il tedesco sarcasticamente.

L’Americano non rispose, e continuò a parlare come se non avesse sentito:

“…e per favore, desidererei che gli compraste qualcosa che possa mettersi senza essere arrestato per oltraggio al pubblico pudore: a metterci in imbarazzo bastano i tuoi di vestiti, Mastermind. E poi un compito per te, Prodigy: devi ricostruire al pc una intera vita di fotografie. Prendi i campioni dal nostro archivio, e adattali a vacanze, scuola, tutto quanto. Che siano credibili e che siano pronte per le quattro”.

Il ragazzino lo guardò attonito:

“Una vita? Ma se non sappiamo niente di lui…” obiettò.

Crawford gli rivolse uno sguardo gelido:

“Lui saprà solo di essere uno di noi, non avrà ricordi per contrastare alcuna nostra invenzione”.

“Ma allora dobbiamo costruirgli una storia…” balbettò ancora il ragazzino.

“Non sa cosa facciamo per vivere, voglio immagini rassicuranti, scene familiari” si alzò, facendo capire che la riunione era terminata.

Mentre gli altri tre erano ancora seduti, aggiunse:

“Come suggeriva Mastermind, è il caso di creargli un legame, per trattenerlo. Niente sorelle in coma, ovviamente. Quando si sveglierà, gli comunicherò che è il mio amante da due anni”.

Senza aggiungere altro, lasciò la stanza.

Le tre persone in cucina rimasero immobili, incapaci di reagire a quello che avevano appena sentito.

 

Non era possibile! Ma che diavolo gli era venuto in mente a quel gelido yankee arrogante?! Perché aveva detto quella cosa… non era possibile che dicesse sul serio, quell’omofobo certificato come poteva accettare di spacciarsi per il fidanzato di Abyssinian? Possibile che avesse sempre frainteso le preferenze del loro leader? Rise piano… come se l’iceberg potesse avere una vita sentimentale! I suoi momenti di estasi potevano essere solo legati ai colpi in borsa o ai dati di fatturato… Crawford era assolutamente incapace di qualsiasi passione.

L’unica alternativa era che il leader dei Weiss gli avesse scatenato un desiderio di predominio… certo, doveva essere questo, probabilmente Oracle si sarebbe sentito onnipotente controllando e dominando quello che era il loro principale avversario, e se a questo poteva accompagnarsi anche uno sfogo dei suoi pochi impulsi animaleschi, non poteva che approfittarne…

Già, ma lui questo non poteva accettarlo, era inconcepibile che il lavoro che lo stava tenendo occupato da tre anni, lo studio dei punti deboli, delle preferenze, del carattere di Aya, andasse vanificato in quel modo.

Si fermò di fronte ad una vetrina, trascinandosi dietro Farfarello. I suoi occhi furono catturati da un maglione arancione… no, mai e poi mai avrebbe comprato un obbrobrio simile! Solo una persona assolutamente priva di buongusto poteva pensare di indossare vestiti arancioni avendo i capelli rossi!

Strinse la presa sul braccio del compagno e proseguì… gli avrebbero comprato qualcosa di sportivo, e poi qualche vestito più elegante, per fare il paio con quel manichino di Crawford, e poi lui si sarebbe occupato del reparto ‘serate nei club notturni’… sì, aveva già qualche idea su come sarebbe stato Abyssinian in pantaloni di pelle nera a vita bassa e micro-maglietta all’americana. Un angolo della bocca gli guizzò verso l’alto: nonostante le premesse non fossero delle migliori, la permanenza del gattino nel loro gruppo poteva portare dei cambiamenti più che piacevoli!

Quando tornarono a casa, la Mercedes era piena di pacchi e buste. Dopo i negozi di abbigliamento, erano passati nel settore profumeria del Centro Commerciale per shampoo e i saponi alla vaniglia, e poi avevano pensato all’accappatoio, alle spazzole, a tutti quei piccoli accessori personali che dovevano rendere credibile la storia inventata da Crawford. E infine erano andati in libreria: gli avevano comprato i grandi classici della letteratura giapponese, e poi Schuldig non aveva resistito alla tentazione di arruffare un po’ il pelo del gattino, regalandogli ‘Musashi’ e ‘Hagakure’, e poi libri di storia, di musica, di economia, e qualcosa sull’ikebana, sì… tutto pur di far volume. Per convincere l’irlandese albino a collaborare, oltre a rassicurarlo sul fatto che i libri erano qualcosa di empio, che attirava le ire divine, si era trovato anche dovergli regalare due mattoni sui serial killer americani specializzati in armi da taglio, e un manuale di origami.

Quando entrarono in casa, Crawford era seduto alla scrivania del suo studio, intento a studiare gli ultimi indici della borsa, mentre, dalla stanza di Nagi, si sentiva provenire un ticchettio forsennato da tasti del computer.

Schuldig fece cadere rumorosamente le borse sul divano, avviandosi poi in cucina per bersi una bella birra tedesca. Guardò l’orologio appeso alla parete: le quattro meno cinque, cinque minuti esatti e l’iceberg si sarebbe alzato dalla sedia per la riunione prevista.

Prese l’intera confezione di lattine, e la portò nel soggiorno, appoggiandola sul tavolo basso davanti al divano.

Farfarello era andato come sempre a giocare con il ghiaccio, ad intagliare forme mostruose nei grossi blocchi prelevati dal freezer, l’unico modo che avevano trovato per evitare che utilizzasse qualsiasi cosa tagliente per ricamarsi eleganti figure direttamente sulla pelle.

Qualche secondo e il nano li raggiunse, con un cartellina strapiena e un paio di album blu da riempire di fotografie.

Si sentì l’orologio nell’ingresso battere le ore: contemporaneamente Crawford entrò, chiudendosi la porta dello studio dietro le spalle.

Si sedette nella poltrona, a capo di una immaginaria tavola che aveva il tedesco su un lato, e Nagi e Farfarello sull’altro.

Il loro leader sembrava molto assorto, chissà… forse per una volta le previsioni che gli consentivano di guadagnare milioni giocando in borsa si erano rivelate sbagliate.

“Cominciamo” disse dopo poco, sollevando lo sguardo sui tre compagni.

Schuldig decise di liberarsi il prima possibile di quel compito che non gli piaceva per niente, e cominciò a parlare:

“Abbiamo comprato vestiti, libri, saponi… il nostro gattino si sentirà felice, caldo e amato nella sua nuova cuccia. No…” aggiunse interpretando il sopracciglio sollevato del loro capo “…abbiamo preso cose rassicuranti, bei vestiti, ma niente orecchie e coda… a quelli dovrai pensare tu”.

L’Americano fece finta di nulla, guardò solo la giacca di pelle nera, lunga fino ai piedi, e il cappotto grigio scuro a doppio petto, con il colletto alto e rigido, che assomigliava a quello degli ufficiali russi. Una smorfia quasi impercettibile di approvazione si disegnò sul suo viso, ma non si permise di rivelare di più.

“Dobbiamo mettere tutto negli armadi di là, possibilmente togliendo i cartellini, per favore” si voltò poi verso il piccolo giapponese “E tu cosa hai portato?”

Il ragazzino tese la cartellina con un po’ di titubanza, tutti sapevano quanto Crawford fosse esigente e come le sue punizioni fossero sempre qualcosa di sottile e inesorabile.

La prima foto rappresentava un Aya dall’espressione molto seria, con la sua lunga giacca di battaglia, e sullo sfondo i Campi Elisi, a Parigi. Poteva sembrare credibile, anche se faceva sospettare che quella vacanza non dovesse essere stata molto felice per il leader dei Weiss; poi altre foto di Parigi: con i programmi di grafica, Nagi aveva cambiato i vestiti e aveva variato gli sfondi.

Improvvisamente Crawford sorrise: il fotomontaggio li ritraeva insieme davanti a Notre Dame, poi seduti su una panchina nei giardini di Versailles, abbracciati sulla torre Eiffel.

Sì, questo era esattamente quello che voleva!

“Pensavo che potesse essere il vostro primo viaggio insieme…” provò a spiegare il piccolo giapponese, notando l’insistenza con cui il loro leader osservava quelle immagini.

Per qualche secondo non ci fu risposta, poi Crawford mormorò:

“Molto… molto bene. Era esattamente quello che desideravo; ora mostraci le altre”.

La vacanza sulla neve, le passeggiate nel parco, poche immagini di infanzia, e poi foto con fantomatici compagni di scuola, facce sconosciute scaricate dalla Rete, diplomi, competizioni sportive, tutta la vita completamente falsa di un ragazzo dall’espressione perennemente seria passò in pochi minuti sotto i loro occhi.

Dopo che se le furono girate tutte, Crawford ordinò di incorniciare la foto di loro due sulla Torre Eiffel e di metterla sul comodino accanto al letto.

Poi si alzò, guardando l’orologio:

“Tra pochi minuti si sveglierà, terminate in fretta i vostri compiti, Schwarz, e dopo tornate alle vostre normali attività. Vi ho chiesto di concentrarvi su questa missione, ma non voglio che la nostra vita sia completamente sconvolta dalla presenza del nostro ‘ospite’…” si interruppe un momento, come colpito da un pensiero improvviso “…a proposito, lui è Aya, niente nomignoli, niente Weiss, niente Abyssinian in sua presenza, e nessun accenno ai suoi compagni di lavoro. Sono stato chiaro?”

Farfarello sollevò la testa dal tavolo, poi richiuse l’occhio appoggiando il mento sulla mano, Nagi sbatté le palpebre, annuendo, mentre Schuldig si limitò ad alzare un sopracciglio.

Riempirono l’armadio e sistemarono le fotografie. Crawford liberò un po’ di spazio sulla libreria, infilando i libri appena comprati.

In pochi minuti fu tutto a posto. Fece cenno agli altri di lasciare la stanza, poi si sedette sulla poltrona accanto a letto, aspettando che Aya si svegliasse.

Sapeva che sarebbe successo a minuti, lo aveva ‘visto’, ma non sapeva cosa altro aspettarsi, le sue visioni spesso si confondevano quando riguardavano cose che toccavano la sua vita privata.

Si accorse che il ragazzo si stava agitando nel letto, risvegliandosi dal torpore in cui era rimasto per l’intera giornata. Lo vide voltarsi su un fianco, sollevare un braccio, portarsi la mano sugli occhi per poi stropicciarseli, un po’ come fanno i bambini. Gli venne da sorridere: aveva sempre sognato vedere in quegli occhi una espressione diversa, che non portasse così chiaro il segno dei lutti e della vendetta.

Per un breve istante sorrise fra sé: aveva già pensato anche a quello che era rimasto della famiglia del ragazzo. Aumentava i rischi aver portato via la ragazza dal Magic Bus Hospital, ma non poteva permettere che la nuova vita di Aya avesse punti deboli, e grazie al suo intervento preventivo non ne avrebbe avuti… inoltre aveva sempre pensato che quell’ospedale fosse pieno di incompetenti, chissà che tutto questo non si rivelasse una evoluzione positiva anche per la bella addormentata.

Sorrise, vedendo che finalmente le ciglia di Aya si sollevavano, scoprendogli i begli occhi color lavanda. Vide quello sguardo fissarsi sugli oggetti nella stanza, passare sui quadri alle pareti, sulla massiccia porta di quercia, sugli scaffali zeppi di libri, e poi sul comodino, tornando più volte sulla foto che li ritraeva insieme. Alla fine quegli occhi lo raggiunsero, ponendo fine ai lunghi attimi in cui avevano cercato in ogni modo di evitarlo.

“Sei sempre tu…” era appena un mormorio, la voce ancora arrochita per non essere stata usata per un lungo periodo.

Crawford annuì, abbozzando un sorriso di soddisfazione.

“Dove mi trovo?”

“A casa” gli ripeté, abbandonandosi contro lo schienale.

Interpretò facilmente la domanda nascosta in quegli occhi violetti:

“Non ricordi neanche me, vero? Brad… Brad Crawford”.

Vide Aya chiudere gli occhi e scuotere la testa:

“Non mi ricordo. Non ricordo niente”.

Si sollevò dalla poltrona, avvicinandosi. L’altro aveva spalancato gli occhi, cercando di puntellarsi sulle braccia senza riuscirci.

“Non voglio farti del male…” gli sussurrò “…non potrei mai farlo” aggiunse con voce ancora più bassa.

Un lampo di preoccupazione passò in quegli occhi viola, poi, di nuovo decido e freddo, quello sguardo cadde sulla fotografia appoggiata sul tavolino accanto al letto.

Crawford annuì:

“Siamo noi, ti ricordi qual è il tuo aspetto?” gli chiese cercando di usare un tono rassicurante.

L’altro scosse la testa.

Si chinò su di lui, scostandogli le coperte lentamente, per non spaventarlo, poi si avvicinò a quel corpo ancora dolorante e indebolito:

“Non aver paura, voglio solo che tu possa vederti, e magari ricordare qualcosa…”

<Bastardo…>

Crawford sbatté gli occhi, per una volta preso di sorpresa dall’intervento del tedesco.

<Vattene, imbecille> replicò, usando il suo tono più gelido.

Sentì la pressione che indicava la presenza del tedesco diminuire, e tornò a concentrarsi sul leader dei Weiss. Gli passò un braccio intorno alle spalle e l’altro sotto le ginocchia, stringendo la presa sentendo quel corpo rabbrividire leggermente a contatto con il proprio.

Si avvicinò al grande specchio dell’armadio, fermandosi a pochi passi:

“Eccoti qui” gli mormorò, curioso di studiarne l’espressione.

Vide il braccio sottile sollevarsi, le dita sfiorare le ciocche rosse, gli occhi leggermente dilatati.

Gli poggiò una mano su una delle due bande che gli scendevano ai lati del viso:

“Sono belli, particolari ma belli…” gli sussurrò nell’orecchio, facendolo sussultare.

Lo sentì cercare di scansarsi, ma non allentò la presa.

“Voglio tornare a letto…” gli ribatté Aya, la voce tesa, come se non riuscisse ancora a capire cosa stesse succedendo.

Quando Abyssinian fu di nuovo sotto le coperte, Crawford si risedette sulla poltrona, stranamente incantato da quelle dita che non si allontanavano dai morbidi capelli rossi: era come se la cosa avesse stupito il suo compagno, come se quel particolare così stravagante lo avesse sconvolto, quasi non si riconoscesse in quell’aspetto così fuori del comune… così meraviglioso, avrebbe aggiunto lui.

“Cosa significa questa foto, Crawford?”

Si vedeva che era una domanda che gli era costata molto, ma lui non poteva perdere l’occasione che gli avrebbe permesso di fare un bel passo avanti.

“Risale al nostro primo viaggio insieme” mentì, così come deciso “Non so come dirtelo…” abbassò la testa, a mimare una contrizione perfetta “…insomma, forse dovremmo aspettare…”.

“Aspettare per cosa?” lo sguardo di Aya ora era gelido, fisso su di lui.

Scosse la testa, poi parlò con dolcezza, allungando una mano per scansargli una ciocca dagli occhi:

“Questa è la nostra casa, Aya… e questa è la nostra stanza. Sono due anni, ormai…” non proseguì, desiderava che gli ultimi passaggi li aggiungesse direttamente Abyssinian.

Gli occhi violetti si spalancarono, ma si ridussero a fessura poco dopo, e la voce uscì ferma, decisa:

“Non è vero”.

Crawford si alzò in piedi. Sapeva che questa sarebbe stata la parte più difficile, e, nonostante la decisione nel portarla a termine, c’era qualcosa che gli faceva odiare quella recita, forse perché gli sarebbe piaciuto far innamorare Aya senza bisogno di sotterfugi, senza inganni. In qualche modo avrebbe significato sentirsi accettato, sentirsi considerato ‘umano’, nonostante quello che era il suo ruolo, e quello che erano gli Schwarz; e invece ciò che stava facendo era cercare di scavalcare questa fase, di eliminare il momento più difficile facendo affondare l’altro in una situazione definitiva e vischiosa.

“Mi dispiace, Aya: speravo che riuscissi a ricordarti di me, di noi... credo che tu sia stato felice con me, eppure ora vedo disgusto nei tuoi occhi. Non ti forzerò, capisco che tu abbia bisogno di stare da solo, di chiarirti le idee…” mormorò a bassa voce, con un tono di orgoglio ferito che strappava la sua stessa ammirazione… eppure quel qualcosa nel petto continuava a fargli male.

Si avviò verso la porta, le spalle dritte di chi sta reagendo con dignità ad un colpo inaspettato, in grado di uccidere. Aveva appena appoggiato la mano sulla maniglia quando arrivarono quelle parole che sapeva sarebbero arrivate, che sapeva, dopo tutti i rapporti che aveva letto su Ran Fujimiya, sarebbero state la diretta conseguenza di un abbandono. Perché era quello il punto debole di Aya, no? Era quello, lo stesso per tutti loro: il pensare di non poter essere amati, di non meritarlo. E anche nell’oblio dell’amnesia, qualcosa doveva essere filtrato, un desiderio sottile e tenace di non essere rifiutati, di avere accanto qualcuno.

“Io… fermati! E’ solo che… non ricordo, mi sembra tutto nuovo… strano”.

Avrebbe fatto bastare quelle parole. Si voltò con un tenue sorriso, si avvicinò di nuovo al letto, chinandosi su quegli occhi di nuovo guardinghi:

“Dacci una possibilità, Aya… saremo felici di nuovo” gli mormorò, avvicinandosi fino a posargli un bacio leggero sulla fronte.

 

Uscì dalla stanza non completamente soddisfatto. Tutto era andato bene, più o meno come aveva previsto: Abyssinian non aveva sospettato nulla, aveva chiesto del tempo, di non affrettare le cose, e lui aveva magnanimamente accettato ogni condizione.

Eppure non si sentiva molto felice. Per quanto quel rapido bacio sulla fronte gli avesse fatto venire una voglia incontenibile di prendersi velocemente quello che desiderava, non era riuscito a non provare pena per l’espressione spaesata della sua vittima.

Doveva assolutamente fare in modo che la memoria non gli tornasse mai più, perché sentiva che non avrebbe mai sopportato lo sguardo di Aya una volta che avesse scoperto il suo inganno. Sapeva che non sarebbe mai riuscito a convincerlo dell’onestà dei propri sentimenti.

Quando entrò nel soggiorno, incontrò subito lo sguardo beffardo di Schuldig:

“Tutto bene con mein Kätzchen? Gli hai già rivelato che è un assassino e che ora è a servizio della squadra fondata dall’uomo che gli ha ucciso i genitori e mandato in coma la sorella?”

Non gli rispose neanche. Non aveva bisogno del dono di Mastermind per sapere quanto il compagno fosse geloso. Ma questa cosa non avrebbe costituito un problema, la gerarchia, all’interno degli Schwarz, non era una cosa che si potesse mettere in discussione.

Quella sera gli portò la cena in camera: Aya era ancora troppo dolorante per alzarsi, e poi, sinceramente, non aveva tutta questa fretta di metterlo in contatto con quell’assurda famiglia di sbandati.

Nagi si era sforzato di cucinare qualcosa di tradizionale e leggero, invece di cedere alle insistenze di Farfarello per gli hamburger e di Schuldig per wurstel e crauti.

Bussò piano, e quando aprì la porta vide che Fujimiya si stava svegliando in quel momento.

“Hai dormito ancora… sono contento, può solo farti bene” gli fece notare, poggiando il vassoio sul letto.

Mangiarono insieme. Per la maggior parte del tempo, tra loro rimase un silenzio teso. Crawford poteva sentirle tutte quelle domande che Aya avrebbe desiderato rivolgergli ma di cui aveva paura di affrontare le risposte.

Una volta terminata la cena, portò via il vassoio, poi andò nel loro bagno, per riempire la vasca, usando il bagnoschiuma alla vaniglia portato da Schuldig.

“Ti ho preparato il bagno” disse, tornando nella camera da letto.

Aya sollevò lo sguardo stupito su di lui, sembrava incredulo:

“Il bagno?”

“Vieni” Crawford lo prese di nuovo in braccio. Gli piaceva tantissimo sollevarlo e addossarselo contro il petto, era un modo per riuscire a toccarlo, per creare un contatto tra loro.

“Lasciami!” gli replicò l’altro, dibattendosi tra le sue braccia.

“Stai calmo, Aya” rispose lui, con voce tranquilla. Era ovvio che il ragazzo si stesse rimettendo in forze, e che stesse recuperando molto del carattere e della testardaggine propri di Abyssinian.

Lo portò in bagno, facendolo sedere sulla sponda della vasca e cominciando a slacciargli la giacca del pigiama.

“Lasciami, Crawford! Sono in grado di fare da solo”.

L’americano si fermò, le mani ancora sulla stoffa del pigiama del ragazzo più giovane. Lo guardò come se ci fosse qualcosa al di là della sua comprensione, poi si sporse in avanti, sfiorandogli delicatamente il collo con la punta delle dita:

“Brad… mi hai sempre chiamato per nome... continua... mi è sempre piaciuto come lo pronunci...”

La reazione fu quella attesa, Aya si tirò indietro, cercando di allontanarsi da quel tocco, un lieve rossore diffuso sul suo viso.

“Ti prego, vai via…” mormorò, con un tono meno deciso.

Crawford si raddrizzò, allontanandosi dopo essersi accertato che l’altro fosse in grado di reggersi in equilibrio:

“Come vuoi, scusami per aver cercato di aiutarti” disse poi, avviandosi verso la porta “ti ho visto nudo così tante volte che non credevo ci fossero problemi” stava giocando d’azzardo, forse rischiava di forzare le cose, ma non poteva perdere tempo, considerando che non aveva ancora parlato con il dottor Tabase per sapere cosa doveva fare per non far tornare la memoria al suo gattino.

Non ebbe risposta, ma sapeva di averlo sbilanciato ancora una volta.

Si sedette sul letto, appoggiandosi con la schiena contro la testata e cominciando a leggere il giornale della sera. Cercò di concentrarsi, pur tenendo l’orecchio teso verso i rumori, o verso la loro assenza, provenienti dal bagno.

Pochi minuti dopo sentì un botto e poi un lieve lamento, come un grido trattenuto. Rimase seduto, questa volta toccava all’altro chiedere il suo aiuto, cercare un legame con lui.

I minuti passavano, e c’era ancora silenzio: cominciò ad agitarsi, ma si forzò a rimanere immobile.

Improvvisamente sentì Aya mormorare qualcosa che all’inizio non riuscì a distinguere, poi la voce si levò più chiara:

“Crawford…”.

Si sollevò in piedi, gettò il giornale sulla poltrona e camminò deciso verso il bagno, bussando prima di entrare.

Aya era ancora nella grande vasca, una mano a massaggiarsi la spalla arrossata.

“Cos’è successo?” gli chiese.

L’altro sbuffò, poi rispose tra i denti di aver cercato di alzarsi ed aver perso l’equilibrio.

I capelli umidi erano di un rosso ancora più scuro, in un meraviglioso gioco di contrasti con la pelle chiara.

Crawford prese un asciugamano, poi gli passò l’altro braccio intorno alle spalle, aiutandolo a sollevarsi e nello stesso tempo offrendogli quel riparo che il pudore del leader dei Weiss non poteva non desiderare. Si forzò anche a guardare altrove, nel breve istante in cui il corpo di Aya usciva dall’acqua e questi si circondava la vita con l’asciugamano.

Ci sarebbe stato tempo per tutto, l’ultimo suo desiderio era affrettare le cose, almeno da quel punto di vista. Adesso era il momento per conquistare la fiducia, anche la vicinanza, certo, ma solo come supporto, come aiuto, pensare adesso a qualcos’altro era da stupidi.

Sollevò di nuovo il compagno, portandolo sul letto. Tirò fuori da un cassetto un nuovo pigiama, uno di quelli che avevano comprato Schuldig e Farfarello, e glielo poggiò vicino. Poi rientrò in bagno per la doccia.

Quando tornò nella stanza, vide che Aya era già sotto le coperte, ma non stava dormendo.

Si sedette sul letto, dalla parte libera:

“Posso tornare a dormire nel nostro letto, o devo passare un’altra notte sul divano?” gli chiese con un lieve sorriso.

Abyssinian allungò una mano per spengere la lampada, emettendo una specie di grugnito.

Lui sorrise.

Aveva deciso di prenderlo per un sì.

Scivolò sotto le coperte. Sapeva benissimo che in quel momento il compagno stava rabbrividendo e facendosi piccolo sulla sponda opposta del letto.

“So che non ti senti ancora pronto, Aya, quindi sta’ tranquillo, ti ho già detto che desidero quasi quanto te che le cose procedano con calma” mormorò, soffocando a stento uno sbadiglio.

L’altro non rispose, ma lui non intendeva preoccuparsi: era stata una giornata stancante, ed ora non aveva altro desiderio che dormire per almeno dodici ore… e risvegliarsi magari con le braccia di Aya intorno al corpo… sorrise al pensiero: non ci sarebbe voluto molto per raggiungere il suo obiettivo, il piano era semplicemente perfetto.

 

Non sapeva cosa pensare: si ritrovava in un mondo che non riconosceva, senza ricordi, senza una identità, accanto ad una persona che ancora non era riuscito a comprendere.

Nello specchio aveva visto un viso che non poteva credere fosse il suo, quei capelli rossi erano qualcosa di semplicemente inumano, e poi il colore degli occhi, della pelle… possibile che non avesse il minimo ricordo neanche di se stesso?

Si voltò sull’altro fianco. La luce della luna illuminava il volto addormentato di Cr…Brad. Che strano poter chiamare con il nome proprio una persona totalmente sconosciuta, uno straniero, per giunta! Il suo viso sembrava rassicurante, sebbene ogni tanto qualcosa nell’espressione di quegli occhi scuri lo spaventasse. Ora, senza occhiali, il compagno sembrava anche più giovane. Quanti anni potevano avere di differenza, cinque? Dieci? Ed erano stati insieme per due anni.

Scosse la testa, non ricordava né un tocco, né una carezza, neanche il sapore di un bacio. Si sentiva impotente di fronte a quel cedimento della sua memoria… possibile che avesse perso tutto?

Si voltò di nuovo verso la fotografia accanto al letto: l’aveva guardata per tutto il giorno. Era l’unica traccia del passato che avesse a disposizione. Negli occhi del ragazzo dai capelli rossi c’era determinazione, concentrazione… sembrava che qualcosa lo tormentasse.

Forse anche con Brad le cose non andavano poi così bene, eppure…

Chiuse gli occhi. Non sarebbe arrivato da nessuna parte, lasciandosi catturare da quei pensieri.

Si raggomitolò su se stesso, in cerca di calore. L’indomani avrebbe cominciato a fare le domande che quel giorno non aveva avuto il coraggio di porre, e chissà che qualcosa non gli tornasse alla memoria…

 

Quando Crawford si svegliò, Aya era ancora tutto raggomitolato, con le braccia strette intorno al corpo.

Quella mattina sarebbe venuto il dottor Tabase, prima di tutto per dare qualche medicina per far diminuire il dolore, e poi lui gli avrebbe parlato del piccolo problema che avevano. Il dottor Tabase era una persona fidata, il medico di fiducia di Esset da anni: probabilmente fornire qualche rimedio per non far tornare la memoria ad una persona sarebbe stata l’azione più innocua della sua intera carriera.

Per un momento pensò di alzarsi e andare a fare colazione, ma poi decise che sarebbe stato molto più interessante aspettare che Aya si svegliasse, per vedere la sua reazione.

Si avvicinò di qualche centimetro alla palla ricoperta dal pigiama blu, ma mantenne tra loro sempre una certa distanza.

Chiuse di nuovo gli occhi: ogni tanto poter oziare un po’ non era poi tanto male.

Non servì molto tempo per sentire il suo vicino cominciare ad agitarsi, poi, inaspettatamente, l’altro si girò, finendogli addosso. Crawford sorrise alla casualità di quel movimento che aveva portato le cose esattamente dove voleva lui.

Quando Aya aprì gli occhi, ci fu il movimento contrario, e quel corpo premuto contro il suo si allontanò fino a trovarsi in bilico sulla sponda del letto.

“Buongiorno…” gli disse lui, sorridendo.

“Hn…” fu la risposta, poi però Aya cominciò a guardarlo con attenzione, tanto che, se non fosse stato il grande, inattaccabile Brad Crawford, forse si sarebbe sentito a disagio sotto quello sguardo.

“Sei diverso senza occhiali” si sentì dire, alla fine della lunga indagine.

Spalancò gli occhi, poi non poté trattenersi dal dare libero sfogo ad una risata, come non faceva da anni.

Vide che l’altro lo guardava con un’espressione tra lo stupito e l’arrabbiato.

Lui gli si avvicinò, giocando sul fattore sorpresa, e gli posò un bacio leggero sulla fronte:

“Scusa amore, sei così buffo!” gli disse. Ed era vero, era buffo, incantevole: non gli importava il cumulo di menzogne su cui aveva costruito quella situazione. Non avrebbe più rinunciato ad avere Aya vicino, per nessuna cosa al mondo.

Il compagno aveva reagito con imbarazzo a questo secondo bacio. Si vedeva che questi gesti lo mettevano a disagio, ma era chiaro che temeva anche di sembrare assurdo a respingere qualcuno con cui doveva aver diviso tutto per ben due anni.

“Te la senti di alzarti? Potremmo andare a fare colazione con gli altri. Immagino che tu ancora non ricordi nulla, e forse è il caso che si rifacciano le presentazioni”.

Crawford si preparò per primo: perfettamente rasato, i capelli in ordine, gli occhiali nuovamente arruolati, si vestì mantenendo quello stile sportivo-elegante del giorno precedente.

“Ce la fai, da solo?”

Fujimiya sembrava sempre in difficoltà quando doveva muoversi, e tutto sommato lui gli avrebbe dato più che volentieri una mano per prepararsi.

Ma l’altro scosse la testa, del resto non si poteva dimenticare che era sempre il solito, ostinato Abyssinian, no?

Uscì dalla loro stanza, attraversò il soggiorno ed entrò in cucina.

Schuldig era abbandonato su una sedia, gli occhi fissi sulla televisione accesa.

<Oh, oh! Ecco Romeo… Giulietta non si è ancora ripresa?> rise <Anche se… nel cervellino stanco del Kätzchen ho letto che la notte è stata tranquilla… Non ti ricordi più come si fa?>

La nuova risata gli morì in gola, quando si ritrovò sbattuto contro il muro, due occhi gelidi fissi nei suoi:

“Non esagerare, Mastermind, altrimenti sai bene cosa può succederti. E non azzardarti più ad entrare nella mente di Fujimiya. Ricordati che questo è l’ultimo avvertimento”.

L’altro continuò a sorridere, scrollando le spalle.

Proprio in quel momento entrarono Nagi e Farfarello. L’irlandese si buttò su una sedia, le mani ancora legate dietro la schiena.

Crawford sollevò un sopracciglio:

“Cosa è successo? Perché è legato?”

Nagi interruppe la ricerca negli armadietti per rispondere:

“Ha detto che Abyssinian è un angelo caduto… ho pensato non fosse il caso di rischiare” replicò, riprendendo poi stancamente a cercare il caffè.

“Berserker! Ti ho detto che non devi avvicinarti al nostro ospite, mai!”

Crawford lo sibilò il più freddamente possibile, sperando di fare entrare il concetto in quel cervello malato.

Farfarello sollevò la testa:

“Lui non è come noi… è uno strumento per distruggerci, lo so” mormorò, continuando a fissare il coltello del pane abbandonato sul tagliere.

“Lui è uno Schwarz, ricordatelo! Non provare a toccarlo oppure…” un riflesso sinistro brillò sugli occhiali dell’americano “…quella camicia di forza diventerà il tuo unico vestito, e magari potrei anche decidere di rimandarti dalla dottoressa Maoto…”.

L’irlandese sollevò lo sguardo, improvvisamente vigile. L’immagine della dottoressa Maoto, dei suoi trucchi per farlo impazzire, dell’ago brandito come un’arma davanti ai suoi occhi, lo avevano scioccato. Serrò le dita, conficcandosi le unghie nella carne.

Abyssinian era uno Schwarz… se ne sarebbe ricordato!

Proprio in quel momento Aya entrò nella stanza.

I quattro si voltarono per guardarlo: il maglione di cachemire a collo alto gli stava leggermente abbondante, facendolo sembrare più indifeso, e il suo colore, azzurro polvere sui jeans scuri, riprendeva quello degli occhi. L’altero leader dei Weiss sembrava… diverso, meravigliosamente bello.

Schuldig rimase a bocca aperta. Il gattino era fantastico, e per lui off-limits. Odiava ciò che quello stupido yankee stava facendo, odiava il non poter far nulla per ostacolarlo… non era lui ad aver raccolto Abyssinian svenuto? Non aveva diritto su ciò che aveva trovato? E invece quell’americano inibito aveva deciso di giocare il ruolo del Principe Azzurro, costruendo un mondo perfetto intorno al suo gioiello, un mondo inaccessibile, protetto da mura invalicabili.

“Aya, non credo che ti ricordi i nostri amici con cui dividiamo l’appartamento. Questo è Schuldig”disse Crawford, indicando il tedesco “Abbaia ma non morde, in generale andate abbastanza d’accordo, anche se l’hai sempre considerato un po’ noioso…”

<Stronzo!>.

<Controllo, Mastermind, controllo!> replicò Oracle, sogghignando.

“Lui è Farfarello” riprese “il nome è strano…”

“So bene a cosa si riferisce…” intervenne Aya, serio. Non sapeva perché, ma aveva un vago ricordo di un personaggio con quel nome in un libro in versi che descriveva l’Inferno.

Un brivido gelido corse lungo la schiena di Crawford… possibile che la memoria gli stesse già tornando?

“Farfarello ha qualche… piccolo problema caratteriale. Niente di grave, però cerca di non rimanere solo con lui. Non ti preoccupare, finora non è mai successo niente, deve solo essere un po’ controllato”.

Aya non replicò, la sua espressione impassibile non tradiva alcuna emozione.

“E poi c’è Nagi…”.

Il piccolo giapponese si avvicinò, tendendo la mano al nuovo compagno di casa:

“Naoe Nagi” disse tentando un timido sorriso “Sono felice che tu ti stia riprendendo. Hai preso una brutta botta, tutta colpa mia… mi dispiace averti distratto proprio quando quel camion…”.

“Nagi! Ne parliamo dopo… non è il caso di cominciare subito con i racconti: sono sicuro che presto Aya ricorderà ogni cosa.”

La voce di Crawford era stata definitiva, così il ragazzino si ritrasse, riavvicinandosi ai fornelli.

“Uova vanno bene per te, Aya-kun?” mormorò, cercando di nascondere il dispiacere per essere stato interrotto nel suo tentativo di fare amicizia con il nuovo venuto.

Fujimiya si guardò intorno, stupito nel vedere che gli altri tre sembravano aspettare di essere serviti senza alzare un dito.

“Immagino che oggi sia il tuo turno, Nagi. Intendo rientrare nella schedulazione, non è giusto che salti i miei compiti”.

Il ragazzino si voltò a bocca aperta, incapace di una qualsiasi replica, mentre Crawford, pur avendo sentito ogni parola, non sollevò gli occhi dal giornale.

“Io non cucino” mormorò il ragazzo con i capelli bianchi, continuando a fissare il coltello, mentre Schuldig non nascose un ghigno:

“Nagi cucina sempre per noi. A lui piace, se però tu vuoi dargli una mano…”.

L’occhiata che ricevette dal leader dei Weiss lo trapassò come una lama affilata. Il disprezzo in quegli occhi era qualcosa di stranamente doloroso.

“Credo che tu stia scherzando, cercando di approfittarti della mia amnesia. E comunque io farò uno schema con i turni, per tutti noi” fu la pronta replica, nella quale risaltava una nota metallica.

Crawford continuò a leggere con attenzione, senza intervenire.

“E perché dovremmo fare quello che vuoi tu?” ribatté il tedesco. In un certo senso, gli piaceva provocare il grande Aya Fujimiya.

“Perché dividiamo una casa. Ognuno deve contribuire a gestire la convivenza…” poi il ragazzo si voltò verso Nagi “…io preferisco la nostra colazione tradizionale, ma non è il caso che ci pensi tu”.

Si avvicinò al bancone, cercando negli scaffali quello che poteva essergli utile.

“Potresti farne un po’ anche per me? E’ tanto che non ne mangio…” gli mormorò il ragazzino.

Aya annuì, cominciando a preparare.

<Sta scherzando, vero?! Io non intendo cucinare…> Schuldig comunicò al loro leader, senza distogliere gli occhi da quella furia di Abyssinian.

<Credo proprio che dovremo dargli retta, almeno per i primi giorni. Non voglio che il piano fallisca>.

<Non è che solo perché è bello e determinato io voglia essere comandato a bacchetta da lui, Brad…>

<Ti ho detto mille volte che non sei autorizzato a chiamarmi per nome. Comunque prendilo come un mio ordine: fai quello che dice, e stagli lontano>.

 

Verso l’ora di pranzo arrivò il professor Tabase. Fece una visita veloce, utilizzando il gabinetto medico che avevano in soffitta:

“Mi sembra che stia abbastanza bene. Ha preso un brutta botta, con compressione temporanea dell’emisfero sinistro. Non sono però sicuro che recupererà la memoria… la TAC dimostra che…”.

“Non entri in particolari tecnici, per favore” lo interruppe Crawford bruscamente “E’ nel nostro interesse che il ragazzo non recuperi la memoria, quindi mi dia solo qualcosa per evitare che questo accada”.

Il medico alzò la testa, inizialmente stupito, ma poi compiaciuto del fatto di poter contribuire ad una azione tutt’altro che professionale:

“Sono sicuro che nel laboratorio di Masafumi potrò trovare qualcosa di adatto”.

Dalla morte del secondogenito di Takatori, quel laboratorio era stato usato come grotta di Aladino dove trovare i preparati più impensati: sembrava che finalmente, anche se postumo, il lavoro di quel folle psicopatico avesse trovato il giusto apprezzamento.

“Bene” lo congedò l’Americano “Non appena avrà a disposizione quel che ci serve, ce lo faccia avere. Veda di sbrigarsi, non possiamo permetterci un fallimento”.

Il riflesso sulle lenti degli occhiali fece rabbrividire il medico: dal primo giorno in cui aveva incontrato l’algido Brad Crawford, aveva capito che non era il caso di prenderne sottogamba le richieste.

Abbozzò un ghigno:

“Vi recapiterò tutto in giornata”.

L’altro annuì… tutto stava procedendo secondo i piani.

Tornò nella propria camera: appena terminate le analisi di Tabase, aveva obbligato Aya a riposarsi, visto che il dolore alla schiena non accennava a diminuire. Si sedette sulla sponda del letto, ascoltandone il respiro regolare.

La presenza del leader dei Weiss aveva strani effetti su di lui: lo spingeva ad agire e nello stesso tempo gli faceva godere la calma, la tranquillità delle cose più insignificanti.

Sollevò una mano per accarezzargli i capelli morbidi: gli venne da sorridere a pensare come quel colore avesse sorpreso Aya, la prima volta che si era rivisto allo specchio. Passò lentamente e delicatamente le dita attraverso i fili sottili. C’era una strana malinconia in quel ragazzo, che non lo abbandonava neanche ora che finalmente doveva essersi alleggerito del peso di quello che era accaduto alla sua famiglia.

Si accorse che stava cominciando a svegliarsi: si allontanò, alzandosi e raggiungendo la libreria. Non voleva dargli l’impressione di soffocarlo, di non dargli tempo per abituarsi alla situazione.

Tolse un libro a caso dagli scaffali e si avviò verso la porta, fingendo che la sua presenza in quella stanza fosse dovuta solo alla necessità di recuperare un volume.

Non si accorse, uscendo, dell’espressione sorpresa di Aya, e della mano che saliva ad accarezzare le stesse bande che aveva toccato lui poco prima.

 

“Sto uscendo, sta’ attento a  Fujimiya. Credo che continuerà a dormire, ma portagli comunque il pranzo. Io tornerò nel primo pomeriggio”.

Infilandosi il cappotto, Crawford impartì seccamente questi ordini a Nagi, la persona su cui riteneva di poter fare più affidamento.

<Come? Non hai paura di lasciarlo solo nella tana dei lupi?!> la voce sarcastica di Schuldig non volle lasciarlo in pace neanche in quell’occasione.

<I lupi sanno benissimo che, se dovesse capitare qualcosa ad Abyssinian, arricchirebbero la mia collezione di belve impagliate> ribatté annodandosi la sciarpa.

<Tremo dalla paura, Br… Crawfie…>replicò il tedesco, scuotendosi sul divano come se fosse preda di un attacco epilettico.

<Fai bene. Non sto scherzando, Schuldig…>.

L’altro scrollò le spalle, facendo finta di prendere con leggerezza le parole che gli erano state rivolte, eppure aveva capito benissimo che la minaccia che si nascondeva nel tono di Crawford era tutt’altro che velleitaria.

Quando ebbe raggiunto il garage, l’americano salì sulla sua BMW abbastanza tranquillo: sapeva che ad Aya non sarebbe accaduto nulla quel pomeriggio, e lui doveva assolutamente assentarsi.

Imboccò la soprelevata, andandosi ad infilare nell’ingorgo del traffico di punta, poi prese la bretella che portava verso il mare. Quante volte era stato in quella piccola piazza? Quante volte aveva guardato quelle finestre sperando di scorgere la silhouette del leader dei Weiss?

Come si aspettava, il Koneko no Sumu Ie era chiuso: le saracinesche erano abbassate, e una decina di ragazzine si erano radunate sul marciapiede, evidentemente sorprese e deluse dal non poter vedere i quattro fiorai.

In quel momento Crawford avrebbe desiderato possedere il dono di Mastermind, anche se, a pensarci bene, non era molto difficile capire cosa stesse passando nella mente dei tre Weiss superstiti.

Soprattutto di uno…

Serrò la mascella: sapeva benissimo che quella specie di idiota assatanato di Balinese si era invaghito di Aya, aveva notato come in tutte le missioni dei Weiss facesse in modo di proteggere il loro leader, di stargli vicino, e poi c’era quell’espressione nello sguardo… la stessa espressione che c’era in quello di Schuldig e nel proprio.

Rimase fermo, seduto in macchina. Probabilmente i tre dementi non sapevano ancora ‘chi’ avesse raccolto Abyssinian, anche se forse quel mostriciattolo biondo poteva aver scoperto qualcosa, visto che Mastermind era raro che utilizzasse il cervello per pensare, e probabilmente aveva lasciato una scia infinita di tracce, quando aveva portato il prigioniero a casa.

Ma ancora non potevano esserne certi, e comunque non sapevano dove fosse il loro rifugio.

Perché lui era lì, allora? Non per loro, ovviamente, ma perché doveva concludere una cosa, una cosa che si sarebbe rivelata molto importante, nel suo piano, e che avrebbe eliminato alla radice il noioso problema dei compagni di squadra del suo gattino.

Proprio in quel momento, il portone accanto alla saracinesca si aprì, per lasciare uscire una donna con una minigonna praticamente inesistente, tacchi vertiginosi e stravaganti capelli rossi a fisarmonica.

Sorrise. Tutto come previsto.

Avviò il motore, aspettando che Manx entrasse in macchina, poi la seguì da una distanza ragionevole. La donna era astuta: probabilmente, pur non essendosi accorta di essere seguita, faceva comunque dei giri a vuoto per seminare eventuali inseguitori .

Girarono la città in lungo e in largo, prima di raggiungere il nuovo Centro Direzionale affacciato sulla baia di Tokyo.

E così era quello il nascondiglio dell’organizzazione Kritiker! Perfetto, mancava poco per l’obiettivo.

Parcheggiò l’auto in un posto nascosto, poi seguì Manx nel garage.

Quando la donna lasciò il proprio veicolo, la pedinò silenziosamente, e poi, quando, entrò nell’ascensore, si infilò dietro di lei appena prima che le porte si richiudessero.

“O.. Oracle!!” esclamò la ragazza riconoscendolo immediatamente, le dita ancora ferme sul bottone che indicava il dodicesimo piano.

Lui accennò un sorriso tutt’altro che amichevole:

“Come sempre non manca di acume, signorina…” replicò, accennando un breve inchino.

Si accorse immediatamente del movimento appena percettibile del braccio della rossa, e subito le strappò la borsa dalle mani:

“Mi dispiace, ma questa non le serve” aggiunse, freddo.

“Che ci fai qui?! Sei in territorio ostile, stai agendo da sciocco, Schwarz!” ribatté la donna, senza perdere il proprio sangue freddo.

“Non sono qui per uccidere lei o nessun altro, potrei farlo in qualsiasi momento senza disturbarmi tanto o sporcarmi le mani. Devo parlare col vostro capo, e desidero che lei mi accompagni”.

Aveva parlato con calma, come se stessero trattando una semplice questione di affari.

“Come puoi pensare che io possa crederti… e risparmiami le tue promesse: voi Schwarz non avete onore! E poi perché vorresti parlare con il capo? Credi che sia così sciocca da portarti da lui?!” Manx scoppiò a ridere, dopo queste parole, quasi a rimarcare l’assurdità della situazione.

“Esattamente…”.

La lama del coltello le punse il polso:

“Non vorrei mai fare del male ad una così bella ragazza, ma disgraziatamente è troppo importante che io parli con chi comanda la vostra organizzazione. Vedi, con voi Weiss la cosa brutta è che non avete mai fiducia negli altri. Io devo forzarti solo per costringerti a fare qualcosa di completamente innocuo…” con un movimento improvviso, sfilò un lungo stiletto dal reggicalze della donna.

“Bastardo…” sibilò lei.

L’americano sorrise di nuovo:

“Ti ho detto che non ho intenzione di uccidere nessuno, nessun piano per distruggervi. Portami da lui” sibilò, passando improvvisamente ad un tono molto più minaccioso.

 

Quando entrarono nella grande anticamera, Manx fece un cenno alla segretaria:

“Annunciaci, è importante” ordinò decisa.

L’altra donna accese l’interfono, parlottando brevemente a bassa voce.

Le pesanti porte di legno si aprirono senza far rumore, scivolando sulle guide.

“Non sono riuscita a fermarlo, sembra proprio che sia urgente…” si scusò la rossa, affacciandosi e facendosi subito da parte.

L’uomo seduto sulla grande poltrona alzò lo sguardo dai fogli accumulati sulla scrivania:

“Brad Crawford… che piacere vederla ‘dal vivo’”.

Le porte si richiusero dietro l’americano, lasciandolo solo con il capo di Kritiker.

“A cosa devo l’onore…” continuò l’uomo, indicando contemporaneamente la poltrona di cuoio davanti alla sua scrivania.

Crawford si sedette. Aveva riconosciuto immediatamente il famoso giudice della Corte Suprema.

“Sono qui per proporre un affare” disse, accettando il bicchiere che l’altro gli porgeva.

“Un affare? Con gli Schwarz? Può essere una cosa interessante…”.

“No, non con gli Schwarz. E’ una questione… personale”.

L’altro si appoggiò allo schienale, congiungendo le dita davanti a sé.

“Si tratta di Ran Fujimiya… Abyssinian”.

“Dovevo immaginare che avevate qualcosa a che fare con la sua scomparsa”fu la risposta calma, data senza eccessiva partecipazione. Evidentemente i Weiss non godevano più della stessa attenta considerazione di quando dipendevano dal fratello di Reiji Takatori.

Crawford scosse la testa:

“Non è proprio così, ma non mi interessa spiegarle. Il punto è questo: voglio sapere il prezzo” replicò freddamente.

Tutto sommato un accordo non gli sembrava impossibile.

“Il prezzo? Si spieghi meglio” l’uomo allargò le braccia, poggiando poi le mani sulla scrivania, mantenendo l’atteggiamento tranquillo.

L’americano si portò il liquore alle labbra, evitando di dare una risposta immediata.

“Il prezzo per Abyssinian. Non intendo rimandarlo dai Weiss, ma non desidero una guerra. Ritengo che possiamo accordarci”.

L’altro non rispose, prendendo tempo. Poi sollevò gli occhi piccoli sul suo interlocutore:

“Abyssinian è un uomo importante per noi. Perché dovremmo venderlo?”

Crawford sorrise:

“Perché non ve lo restituiremo senza spargimenti di sangue, e sapete che contro gli Schwarz voi non avete armi. Rischiate di perderne quattro, invece di uno. L’alternativa è un bell’assegno… sostanzioso: conosco il valore della merce”.

L’altro aprì e chiuse le mani, poi distese la bocca sottile in quello che, nelle intenzioni, doveva essere un sorriso:

“Qual è la proposta?”.

 

Una Nuova Vita – capitolo primo THE END





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