Autrice: buona lettura. Spero! Vi prego evitate gli insulti! ^^;;;;
Note: dalla narrazione degli ultimi eventi, è già trascorso un mese. In questo periodo, Hanamichi, come capirete dopo, è già entrato in azione. Non mi sono dilungata a descrivere questo periodo per comodità. Durante la serie, per il recupero del passato, mi servirò del sistema dei flashback, già ampiamente adoperato nei capitoli precedenti. Ho scelto questa soluzione per fare felici le lettrici di questa ff, che mi chiedevano da molto tempo l’incontro tra Hanamichi e Kaede. Preparatevi perché accadrà adesso. Buona lettura! Un’ultima cosa: i personaggi saranno molto OOC, specie Hiroaki, ma credetemi non l’ho fatto intenzionalmente. Sono usciti così! Considerate che è un’AU.


Un altro giorno

parte V

di Soffio d'argento


 

Il fatidico giorno era arrivato. Dopo tanta attesa.
Sakuragi scese dalla macchina sportiva scura, fumando un buon sigaro cubano. Gli occhiali scuri, quei capelli cremisi, il vestito nero, gli davano l’aspetto di un temuto killer. Un mese prima, come da piano, Hanamichi Sakuragi era entrato nel clan mafioso dei Tokugawa, affiliati alla famiglia Shoyo. Aveva assunto l’identità di Toki Onizawa. Si era distinto in uno scontro a fuoco contro il braccio destro del capo famiglia ed egli lo aveva voluto con sé. Dopo qualche tempo di prova, era entrato a far parte della famiglia, superando la prova d’iniziazione. Sulla spalla sinistra gli era stato tatuato lo stemma della famiglia Shoyo (qualche suggerimento? NdA.).
Aveva incontrato Fujima e il suo braccio destro Hanagata il giorno dell’iniziazione. Fujima aveva l’apparenza di una creatura debole e fragile, poco incline alla violenza e magari pure umanitaria. Però i suoi occhi tradivano il suo aspetto. Aveva occhi da predatore, verdi e profondi. Hanagata era la sua ombra. Lo seguiva ovunque andasse e restava sempre qualche passo dietro di lui, come un angelo custode, con la pistola s’intende. Stava per la maggior parte del tempo in silenzio e parlava solo se necessario e sempre e solo con Fujima. Infine c’era Hasegawa, il Sanguinario. Aveva lo sguardo perso, come di chi andava giù di brutto con alcol e droghe di chissà quali tipo. Giocava sempre con un pugnale dalla lama molto appuntita. I suoi capelli sembravano gli artigli di un’aquila.

Durante i giorni successivi venne invitato più volte a casa di Fujima. Ogni volta si svolgeva lo stesso copione. Fujima lo accoglieva con il suo massimo sorriso e, nell’imbarazzo più totale di Hanamichi, si sedevano attorno ad un tavolo di vetro a bere il the chiacchierando di cose futili. A vederli da fuori, si diceva Hanamichi, sembravano più damine dell’ottocento che spietati mafiosi. Koshino gli aveva detto di stare molto attento a muoversi a casa Fujima e di non abbassare mai la guardia, specialmente durante le amabili conversazioni con il capo famiglia. Fujima era scaltro come una volpe e si nascondeva dietro un sorriso tanto disarmante quanto falso. Koshino non aveva voluto dirgli null’altro. Aveva continuato con raccomandazioni su raccomandazioni, ma non aveva mai affrontato il problema Fujima se non costretto. Hanamichi non era sciocco e adesso, conoscendo sempre più Fujima, aveva capito che fra lui e Koshino doveva essere accaduto qualcosa, qualcosa che nessuno, Akira compreso, era riuscito a dimenticare.

Quel giorno sembrava uno come tutti gli altri. Quando si era svegliato aveva trovato nella segreteria il consueto invito di Fujima a fare colazione insieme.
In tutto quel tempo non aveva mai visto la Volpe, ma per evitare di scoprirsi non n’aveva fatto accenno a Fujima. Lui d’altro canto non n’aveva mai neppure accennato.
Quel giorno, come stavo raccontando, quando Hanamichi si svegliò, non si meravigliò di trovare la spia della segreteria brillare. Ascoltò il messaggio consueto di Fujima, ma nelle sue parole vi avvertì qualcosa di diverso, qualcosa che risvegliò il suo sesto senso investigativo.

“Mio caro Toki, sarei molto lieto se volesse considerarsi ancora una volta mio ospite in questa magnifica giornata piena di luce. La prego di non farci attendere troppo. La sua, è una compagnia molto piacevole e ricercata. A dopo.”

Poche parole, ma n’era certo. Quella seconda persona, nascosta nel plurale delle parole infingarde di Fujima, non poteva essere che Faccia d’Angelo.
<< Ci siamo! >>
Si alzò di scatto dal letto e mezz’ora dopo era già dentro la sua auto che si dirigeva verso casa Shoyo. Le alte mura di recinzione, che proteggevano come una conchiglia la perla nascosta all’interno, quel giorno gli parvero stranamente più alte e cupe.
Lasciò le chiavi ad uno dei nuovi affiliati del clan ed entrò in casa. Fu Hanagata a dargli il suo freddo benvenuto dalla cima delle scale e gli disse di seguirlo. Fujima, quella mattina, aveva deciso di prendere il the in veranda, cullato dal vento fresco del mattino. Quando entrò notò subito una figura scura al lato opposto della camera. Aveva occhi spenti e una frangia di capelli corvini sopra le sopracciglia. Stava appoggiato al muro di fronte alla porta. Quando entrò Hanamichi, Minami, così apprese subito da Hanagata, si voltò distrattamente verso di lui. Aveva ancora la sua aria impassibile e annoiata, quasi quanto quella di Fukuda, si disse. Osservò il nuovo arrivato brevemente, quasi senza neppure accorgersene.
Hanagata lasciò Hanamichi nella stanza e, seguito da Minami, uscì richiudendo la porta dietro di sé.
<< Mio caro Toki. Finalmente sei arrivato. >>
Fujima gli venne incontro abbracciandolo. Hanamichi s’irrigidì leggermente e Fujima si staccò sorridendo.
<< Vieni di là. Vorrei presentarti una persona importante. >>
La visione che si aprì ai suoi occhi era di gran lunga la più stupefacente di tutte. Di Faccia d’Angelo, sia Akira che Hiroaki, gli avevano descritto lo sguardo freddo e la pelle incredibilmente bianca, per essere un giapponese. Gli avevano detto che era molto arguto nelle sue deduzioni e, come la seconda nomea che si era costruito, era scaltro quanto se non di più di una volpe. Ma quello che nessuno dei due gli aveva detto era che, Rukawa Kaede, era notevolmente l’uomo più affascinante che avesse mai visto. La sua pelle era chiara come quella della neve appena caduta, i capelli neri assomigliavano alle mani seriche della notte. Aveva dei profondi occhi blu ed un’espressione indecifrabile sul viso. Sembrava un vulcano che dorme sotto la neve, pronto ad esplodere da un momento all’altro. Indossava un vestito nero e sorseggiava un calice dal cremisi liquido. Il vino ondeggiava come una barca in balia dell’alta marea e, per un attimo, Hanamichi Sakuragi si sentì affogare e perdere in quell’immensità rossa.
<< Permettimi di presentarti Rukawa Kaede. >> poi Fujima si avvicinò alla Volpe e gli sorrise gentilmente: << Ti ho già parlato di Toki Onizawa, vero Kaede? >>
Rukawa appoggiò sul tavolo il bicchiere e si avvicinò a Hanamichi. Il poliziotto constatò che Rukawa, oltre ad essere bello e pericoloso, era alto press’a poco quanto lui. Hanamichi si specchiò in quei pozzi neri ed inconsciamente indietreggiò. Quell’uomo aveva un potere strano su di lui. Per un attimo vide brillare, in quei pozzi d’oscurità, qualcosa simile ad un nastro d’oro, ma durò troppo poco perché riuscisse a capire qualcosa.
Quando gli fu vicino, Rukawa accennò un sorriso e appoggiò la sua mano sinistra sulla spalla di Toki, risalendo, lentamente, verso il collo del ragazzo. Hanamichi non riusciva a muoversi. Gli occhi di quel ragazzo, perché era sicuro che dovesse avere sì o no la sua stessa età, l’avevano incatenato ed era così assorto nella contemplazione di quei buchi neri, che non si accorse neppure della mano di Rukawa che, risalendo lungo la spalla e il collo, si era fermata sulla sua guancia. Il contatto con quella mano fredda, fece scattare qualcosa all’interno della coscienza di Hanamichi, che riprese il controllo sui suoi sensi e si scostò bruscamente.
<< Che diavolo stai facendo, stupida volpe! >> scattò all’indietro Hanamichi, toccandosi la guancia.
<< Hn! >> rispose l’altro incurante delle proteste dell’altro.
Tornò a sedersi sulla poltrona bianca e sorseggiò calmo il vino.
<< Si sieda signor Onizawa. >> il tono di Rukawa, così freddo e glaciale, diverso dal calore che la sua mano sulla sua guancia gli aveva trasmesso, lo costrinse a sedersi, accantonando, almeno per quel momento, la situazione equivoca che si era creata poco prima.
<< Kaede è venuto dagli Stati Uniti solo per conoscerti. >> quasi canticchiò Fujima.
Qualcuno bussò alla porta e al permesso di Fujima, Hanagata entrò silenziosamente e si avvicinò al padrone di casa, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. L’espressione di Fujima non cambiò.
<< Perdonatemi. Torno subito. Andiamo Toru. >>
Rimasti soli, Kaede continuò a sorseggiare il suo vino, mentre Hanamichi, ripresosi ormai del tutto, fumava dalla rabbia. Era arrabbiato non tanto per il gesto di Rukawa, ma per la sua passività. Quell’uomo aveva attentato alla vita di Akira e Hiro, aveva ucciso Toshio a sangue freddo, in un modo tanto spietato quanto inumano.

<< Perché non torni anche tu alla Speciale, Hanamichi? >>
<< Non posso Toshio. Lì ho sepolto il mio passato. >>
<< Peccato! Saremmo diventati il duo più forte di tutta Kanagawa, anzi: di tutto il Giappone! >>

Toshio…. Era sempre stato pieno di gioia e innamorato della vita. E quel bastardo gliel’ha strappata.

<< Si può sapere che ti è saltato in mente stupida volpe? >>
Rukawa alzò il sopracciglio sinistro con aria d’incredulità e insofferente noia. Sbuffò leggermente:
<< Fatto cosa? Non sai che gli occhi sono lo specchio dell’anima? Io volevo solo vedere dentro i tuoi! >>
Quel tono di voce era caldo e rassicurante, si disse Hanamichi. Nonostante l’aspetto distaccato, era convinto che quell’uomo fosse tutto tranne che freddo. Dentro di sé vibrava l’essenza stessa della furia del fuoco. Quell’uomo era davvero pericoloso, soprattutto per lui. Quando lo aveva guardato negli occhi, aveva perso il controllo di sé. Per un attimo aveva dimenticato tutto. Aveva dimenticato di essere un poliziotto, di essersi infiltrato lì per catturarlo, di dover scoprire quella spia che mandava in frantumi i loro piani, ma soprattutto si era dimenticato di Toshio.
Guardò nuovamente la Volpe. Sembrava assente eppure lui sentiva che i suoi sensi erano più che vigili. Faccia d’angelo, in un certo senso, gli ricordava se stesso, ma non sapeva spiegarsi il perché e poi… quegli occhi. Era sicuro di averli già visti, ma non ricordava dove.
<< A cosa stai pensando scimmia rossa? >>
<< Come ti permetti stupida volpe! >>
<< Hn! >>
<< E non rispondere “hn” hai capito? >>
Rukawa sorrise divertito. Fino ad allora nessuno aveva mai osato parlargli in quel tono, ammesso che quel qualcuno avesse il coraggio di parlargli senza essere interpellato. Gli piaceva questa sfida che si leggeva apertamente negli occhi del rossino. La Volpe sapeva, sapeva il motivo che aveva spinto quella scimmia urlatrice ad infiltrarsi nella famiglia dello Shoyo. Eppure, nonostante l’avventatezza della scelta, non poteva fare a meno di ammirare la costanza degli sforzi della polizia di Kanagawa.
Sakuragi fremeva di rabbia. Se avesse potuto avrebbe preso a pugni quell’arrogante di Rukawa, ma la missione era molto più importante. Promise a se stesso che mai niente e nessuno sarebbe riuscito a distrarlo e che avrebbe portato a compimento la sua missione. La volpe aveva i giorni contati.
Rukawa lo vide sorridere sornione. Di certo pensava che, ormai, il lavoro peggiore era stato fatto e che presto la volpe sarebbe caduta nel sacco! Era così semplice leggere nei suoi pensieri. Come rubare le caramelle ad un bambino, ma sarebbe stato molto più interessante e appagante.
Fujima entrò nella stanza con la solita aria leggera e inconsistente. I suoi occhi verdi scintillavano guardando Rukawa. Si avvicinò ad Onizawa e gli appoggiò una mano sul braccio:
<< Da oggi in poi, Toki, lavorerai per la famiglia Shoyo. Ho già concordato il tuo trasferimento con il capo del clan dei Tokugawa. Hanagata e Hasegawa si stanno occupando del tuo trasferimento qui. >>
<< Ma cosa…? >> chiese smarrito Onizawa.
<< Il tuo periodo di prova in uno dei nostri clan minori è terminato. >> non aggiunse altro, poi si allontanò nuovamente, seguito da Rukawa.
Sakuragi rimase solo in veranda a pensare. Certo quello era un gradino che lo avrebbe avvicinato alla meta, ma non sapeva perché gli ritornavano in mente le parole di Koshino. Si sentiva come una farfalla caduta nella ragnatela di Fujima. Nessuno, se si escludevano i vertici delle tre squadre, era a conoscenza del piano d’infiltrazione. Lui si fidava ciecamente dei suoi colleghi, non avrebbe mai potuto diffidare di loro. Nel mestiere di poliziotto, la fiducia è l’elemento chiave per salvare la pelle. Se non si lavora in un clima di completa fiducia, il rischio di morire e mettere in pericolo di vita di altre persone, diventa costante. Per questo aveva lasciato la Speciale. Dopo la morte di Ryo, aveva cominciato a guardare con sospetto ogni suo collega e persino il suo superiore, verso il quale non aveva mai provato molta stima. Persino gli amici alle cui mani aveva affidato milioni di volte la sua sicurezza in missioni pericolose, adesso gli sembravano indegne di fiducia e quel che era più brutto, si chiedeva come era stato così sciocco da non capire mai quanto inaffidabili fossero sempre stati. Ogni volto recava la colpa della morte di Ryo. Ogni volto gli ricordava la sua inefficienza. Dopo giorni trascorsi a odiare tutto e tutti, n’aveva parlato con Mito. Lui era un suo caro amico dai tempi delle medie. Avevano frequentato persino il liceo insieme, formando la temibile armata Sakuragi e insieme si erano iscritti all’accademia di polizia. Avevano superato prove su prove e, alla fine, erano stati costretti a dividersi: Mito era entrato nella famosa squadra dello Shohoku, comandata dal pluridecorato Anzai, e Sakuragi aveva accettato la proposta di Taoka ad entrare nella speciale. Per lui, che amava l’azione e li pericolo, accettare l’offerta sarebbe stata la realizzazione di un sogno, che si era spento miseramente, in una notte di pioggia. Mito gli aveva consigliato di passare allo Shohoku e lui aveva seguito il suo consiglio. Si sentiva un codardo, ma non avrebbe mai sopportato di vedere il viso apatico di Fukuda ancora davanti ai suoi occhi. Non aveva neppure atteso la sua uscita dall’ospedale. La sua domanda di trasferimento fu ostacolata in ogni modo da Taoka, che non accettava di perdere un elemento così prezioso, ma alla fine si convinse, sicuro che, prima o poi, Sakuragi sarebbe ritornato all’ovile. Lui era un uomo d’azione e allo Shohoku si preoccupavano di prendere i pesci più piccoli, lasciando i bocconi più appetitosi al Kainan di Takato. Però Sakuragi, nonostante le sue attese, non tornò alla speciale e, anzi, s’installò abilmente fra le file dello Shohoku.

Hiroaki Koshino, abile artificiere della Speciale, era appena ritornato dal Kainan insieme a Fukuda. Sendo era rimasto in centrale ad organizzare il lavoro della missione, cercando di non far trapelare nulla al di fuori di quelle quattro mura. Con lui c’erano Taoka, il comandante, Uozumi, il capitano e Aida, esperto in telecomunicazioni e “diavolerie tecnologiche” varie, come le definiva Taoka. Era stata una riunione stressante e stancante. Avevano analizzato ogni spostamento di Sakuragi, dal suo ingresso nella famiglia Tokugawa alle mosse future.
Nei pressi della grande villa Shoyo, erano state poste delle sentinelle, mente la famiglia Tokugawa era, da sempre, controllata dall’interno, con infiltrati e microspie nascoste un po’ ovunque. Tempo addietro avevano fatto una grossa perquisizione per trovare una partita decisamente grossa di eroina. Il clan era stato avvisato in tempo e la partita d’eroina si era volatilizzata, ma lo scopo primario, valeva a dire quello di mettere sotto controllo la famiglia ed essere così informati dei suoi spostamenti, era stato centrato. Microspie create da Aida e non più grandi di una capocchia di spillo, erano state sistemate in tutta la casa, cantine e scantinati compresi. Per questo motivo avevano saputo dell’invito di Fujima prima ancora che Sakuragi ascoltasse il messaggio registrato nella segreteria.
Una pattuglia aveva seguito da lontano ogni suo spostamento, accompagnandolo a destinazione.

Hiroaki sbuffò appoggiando un grosso fascicolo, contenente la trascrizione delle telefonate fatte dalla famiglia Tokugawa, sulla sua scrivania. Aveva trascorso l’intera mattina a sopportare le esaltazioni, a gran detective, di Kyota. Gli ricordava molto Sakuragi in questo. Si era stupito nel vedere Shinichi Maki, il capitano più famoso delle squadre di polizia di Kanagawa, osservare, con infinita dolcezza, ogni gesto del compagno. E poi c’era chi aveva il coraggio di dire che fra uomini non poteva esistere amore e dolcezza. Ma come potevano? Avevano mai provato, loro, cosa significa essere diversi?
Per tutta la durata della riunione non aveva fatto che sperare che il tempo trascorresse velocemente. C’erano anche Mitsui e Kogure dello Shohoku. Si era chiesto cosa si provasse a tornare nella propria vecchia squadra dopo anni di distanza. Lo stesso sentimento doveva averlo provato Sakuragi, anche se non riusciva a capire cosa avesse spinto Mitsui a lasciare il Kainan e a trasferirsi allo Shohoku, fortissima squadra ma, a detta di tutti, non all’altezza del Kainan King. Certo era che la sua decisione improvvisa aveva modificato l’andamento della vita di Kogure, trasferitosi anche lui allo Shohoku. Avrebbe potuto fare una lunga carriera piena d’onorificenze, ma aveva scelto, alla splendente e lucente gloria, un pallido sole. Amore. Scelte d’amore. Si chiese se anche Akira avrebbe fatto la stessa scelta di Kogure, se lui fosse stato al posto di Mitsui. Eppure la risposta la conosceva ancora prima di parlare. E lui? L’avrebbe mai seguito? Anche questa risposta non era nuova. Sì. Lui avrebbe seguito Akira ovunque. Lui che l’amava più di qualsiasi altra persona o cosa al mondo, che lo riteneva il tesoro più prezioso. Non avrebbe mai potuto mare nessuno quanto amava Akira ed essere amato con la stessa intensità. In quel momento, non seppe lui neppure il motivo, ma gli venne in mente il sorriso da angelo caduto di Fujima. Le sue parole soffocate contro la pelle… i suoi occhi capaci di vedere tutto… capaci di leggere nel profondo… il tono fintamente cortese delle sue parole… e le sue mani…
Si voltò di scatto verso Fukuda che sonnecchiava sulla sedia. Aveva gli occhi socchiusi ma vigili. Era strano. Dopo due anni, quella era stata la prima volta che aveva pensato a Fujima di propria volontà e non era stato piacevole. Quell’angelo caduto gli aveva strappato le ali, l’aveva tormentato con i suoi ricordi, l’aveva reso un mostro. Ecco come si sentiva Hiroaki Koshino. Si sentiva un mostro. Qualcosa d’abominevole che non riusciva neppure a guardare allo specchio. Nelle foto che Akira teneva appese nella loro camera, lui non riusciva a riconoscersi e provava un forte senso di gelosia verso quel ragazzo, dall’apparenza scontrosa, che si faceva abbracciare dal suo Akira. Era geloso di quel ragazzo con il suo viso, ma dallo sguardo pulito e privo d’ombre. Eppure, nonostante Hiroaki Koshino si sentisse un mostro, indegno persino di vivere, non era rimasto da solo. Nel fondo buio della sua disperazione, aveva visto brillare una piccola luce bianca e gli si era avvicinato in cerca di calore e lì vi aveva trovato Akira. Lui, con il suo amore, l’aveva protetto e salvato dalla parte più oscura di se stesso. L’aveva portato nel suo cuore un giorno di pioggia, gli aveva asciugato le lacrime e l’aveva amato, con un amore puro e ammirevole, che faceva piangere e che faceva stare male.
L’aveva amato senza remore, come e più di prima. E lui si era sentito in colpa, schifosamente in colpa e lo aveva respinto, perché si sentivo indegno, si sentiva sporco, un mostro, ma Akira non se n’era andato. No. Lui era rimasto con lui, nonostante fosse più ragionevole allontanarsi e lasciarlo andare. Nonostante avesse di sicuro potuto soffrire di meno, non l’aveva lasciato ed era rimasto con lui. Gli aveva rimboccato le coperte nelle notti fredde, l’aveva ascoltato piangere nelle notti malinconiche, l’aveva amato ancora. 
<< Qualcosa non va Kosh? >>
<< Nulla Fuku-chan. Stavo solo pensando alla riunione avuta con il Kainan e lo Shohoku. >>
<< Visto che Akira è impegnato in una riunione, che ne dici di andare a prendere un caffè? >>
<< Ok. Ma pago io stavolta. >>
Poiché il bar della centrale era pieno di poliziotti, Fukuda e Koshino uscirono dalla stazione di polizia per andare nel bar che solitamente frequentavano, fuori dall’orario di lavoro. Appena aprirono la porta, le piccole campanelle di vetro rosso tintinnarono mosse dal vento. La cameriera dietro al bancone, sfogliava con attenzione una rivista di cui non riuscivano a leggerne il titolo. Il bar era deserto a quell’ora del mattino. Un intenso aroma di caffè profumava la piccola sala dai muri bianchi e le foto di personaggi famosi. Una foto dell’imperatore e della consorte capeggiava sopra il gran bancone in stile americano.
I due ragazzi si sistemarono attorno al tavolino con sedie gialle e bianche. La cameriera si avvicinò quasi subito con il blocchetto delle ordinazioni in mano e una gomma da masticare in bocca che faceva bella vista ogni volta che, per parlare, doveva aprire la bocca. La ragazza era la figlia di primo letto dell’attuale moglie del proprietario, una brava persona della vecchia generazione, orgoglioso di essere giapponese e non benevolo nei confronti dell’ “avanzata” straniera, che vedeva nei nuovi trend provenienti dall’occidente. La madre era di Hiroshima ed era sopravvissuta al grande disastro, solo perché in visita ai suoi parenti di Osaka. Raccontava spesso di quello che avevano visto di ritorno dal viaggio. Le case frantumate, i vetri liquefatti, le strutture collassate su se stesse, come un sole che muore implodendo. Ma quello che li aveva colpiti davvero era stato ciò che non avevano visto. I vicini di casa, le amiche con cui la madre andava nei giorni di festa al tempio. Il cane del vicino di casa che abbaiava sempre nelle notti di luna, i bambini dell’asilo che la mattina andavano allegramente a scuola. Non era rimasto nulla. Neppure un mucchietto di polvere. Un luogo in cui poter dire: è lì, è morto lì, le sue ceneri sono ancora visibili. E non c’era neppure la speranza, che qualcuno fosse sopravvissuto, che qualcuno si fosse salvato al grande fungo bianco.
Hiroaki aveva ascoltato decine di volte quella storia e ogni volta calcava dentro di sé un solco non visibile ma molto profondo. Era come vedere al cinema lo stesso film ogni anno e scoprire ogni volta nuovi particolari, provare nuove emozioni. E pensava Hiroaki Koshino. Pensava a come sarebbe stato perdere tutto, ma Hiroaki Koshino questa sensazione la conosceva molto bene.
<< Solo un caffè Hiro? >>
<< Sì grazie Ki-chan. Ho solo bisogno di rilassarmi. >>
<< I fantasmi sono tornati a bussare alla tua porta? >>
La cameriera venne a portare le ordinazioni. La musica che risuonava nell’aria, smise di soffiare sulle menti dei clienti. Koshino girò il cucchiaino nella tazzina bianca.
<< E tu? Come ti senti? Ti preoccupi sempre per gli altri, ma deve costarti parecchio andare al Kainan. >>
<< Non più del dovuto, ma non stavamo parlando di me, se non sbaglio. >>
<< Già… ma vedi… che io abbia o no imparato ad affrontare i miei fantasmi, questo non cambierà il mio passato e poi… tutta questa missione, forse, riuscirà a farmi state meglio. >>
Il tintinnio tremulo delle campanelle appese alla porta, risuonò nuovamente. Akira entrò sospirando stanco. Aveva appena terminato la riunione con Taoka. Era solo. Appena vide Hiro, però il suo viso s’illuminò dolcemente, di quella luce che Kittcho non gli vedeva da molto tempo. Si avvicinò a loro canticchiando e si sedette accanto al suo ragazzo, allungando un braccio attorno alle sue spalle e dandogli un bacio veloce sulle tempie. Se avesse provato a dargli un bacio vero, come minimo si sarebbe trovato all’ospedale.
<< Siamo di buon umore, noto. >> sorrise sornione Kittcho: << Cos’ha fatto Taoka per renderti così euforico? >>
<< Taoka? Il comandante? >>
A vedere la faccia buffa che aveva fatto Akira, Kittcho scoppiò a ridere e Hiroaki sorrise divertito. Akira abbracciò più profondamente il suo ragazzo e sorrise a sua volta. Quel giorno persino la riunione con il capitano e il comandante gli era sembrata più veloce del suono. Avevano terminato la riunione neppure cinque minuti prima e lui si era catapultato fuori dalla sala riunioni sperando di trovare il suo koi. Era questo che lo aveva rattristato. Non aveva pensato che, magari, la riunione al Kainan, potesse essersi protratta più del necessario e quindi aveva deciso di distrarsi andando a prendere un caffè al bar dove adorava andare con il suo Hiro. E lì, come in un sogno, appena aperto la porta, aveva visto il suo faccino davanti a Kittcho. Un faccino in cui purtroppo si agitavano acque nere.
<< Di che parlava di bello? >>
<< Di quanto ti sia rimbecillito in questi ultimi tempi, Akira! >>
<< Ma quanto sei gentile Kittcho. A volte dimentico che tu sia uno dei miei migliori amici e mi assale la voglia di prenderti a pugni! >>
In quel momento, un’altra persona entrò nel bar. Hiro, che stava bevendo il caffè, spalancò gli occhi dalla sorpresa e la tazzina gli cadde dalle mani. Il liquido scuro, proseguendo il suo cammino come un fiume in secca, scivolò lentamente lungo il tavolo cadendo sul pavimento con piccole gocce, simili a lacrime. Akira, accanto a lui, fremette di rabbia. Kittcho, non riuscendo a capire cosa stesse accadendo, si voltò di scatto e vide… vide qualcosa che non avrebbe mai immaginato.
Fermo davanti alla porta del bar, ingessato nel suo bel vestito blu, con un sorriso angelico sulle labbra, gli occhi nascosti da un paio d’occhiali da sole molto scuri, stagliato contro la parete bianca, stava fermo quel demone dal volto di un angelo. I suoi occhi erano fermi su Hiro e il suo sorriso, nel vedere le reazioni del poliziotto, si allargò sempre più. Akira si alzò violentemente e il tavolo tremò ballando su se stesso. Kittcho lo afferrò per un braccio, facendogli notare la presenza della ragazza, la figlia del proprietario che, ignara di tutto, invitava i nuovi arrivati ad accomodarsi. Kittcho faticò non poco a tenere fermo il suo compagno e alla fine dovette farlo sedere con la forza. Diede uno sguardo veloce ad Hiro e in quel momento gli sembrò molto piccolo, quasi invisibile. Aveva le spalle appoggiate sullo schienale del sedile, le mani appoggiate al tavolo che si torturavano nervosamente, lo sguardo ancora bloccato in quello di Kenji Fujima.
<< Hiro… >> sussurrò il suo nome senza neppure accorgersene.
Akira si voltò verso il ragazzo. Hiro era in completa balia di Fujima. Osservava ogni sua mossa, temendo, in cuor suo, un’eventuale mossa del ragazzo. Si sedette al suo fianco e passò una mano sui capelli morbidi di Hiro e poi scese ad accarezzargli la guancia. Hiro si voltò verso di lui e gli sorrise, poi avvicinò il suo volto a quello di Akira e gli diede un bacio veloce.
Se in quel momento si fosse voltato verso Fujima avrebbe senz’altro visto il suo sorriso incrinarsi e la sua mano fremere nervosamente lungo i suoi fianchi, ma non per questo si fece fermare.
Si avvicinò al tavolo dove stavano seduti i tre ragazzi. Kittcho si alzò protettivamente, ma fu Hiro stesso a fermarlo. Lo fece risedere con un gesto del viso e guardò Fujima negli occhi. Adesso non aveva più paura. La sorpresa di rivederlo dopo due anni l’aveva bloccato. Aveva perso completamente il controllo sulla sua mente e le immagini di quella notte d’anni prima l’avevano terrorizzato. Ma poi Akira, con il suo gesto dolce, l’aveva rincuorato. Quando la sua mano era affondata nei suoi capelli, un calore confortante si era diffuso in tutto il suo corpo e i sensi intorpiditi si erano liberati dalla morsa della paura.
<< E’ da tempo che non ci vediamo Hiroaki. >>
<< Brutto bastardo. Se non vuoi che dimentichi di essere un poliziotto e ti ammazzi, vattene subito via di qui. E non ti azzardare a chiamare il mio ragazzo Hiroaki. >> ringhiò Akira.
Fujima parve non sentire neppure una sua parola. Si tolse gli occhiali da sole e indicò, con una mano, uno dei suoi uomini, seduto al balcone del bar e che chiacchierava allegramente con la ragazza.
<< Se non stai calmo, stupido poliziotto, il mio uomo le spezzerà l’osso del collo. >>
<< Cosa vuoi Fujima? >> chiese Hiro con il tono più calmo che potesse trovare.
<< Sono solo venuto a rivederti. Come sai sono tornato da un lungo viaggio da poco… mi sei mancato Hiro… >> e a quelle parole Akira si alzò con rabbia prendendo per il colletto il capo clan: << Stai calmo poliziotto o quella ragazza morirà. >>
<< Aki lascialo. >>
Akira lasciò la presa su Fujima ma prima gli ringhiò di andarsene via, se voleva ancora uscire con le sue gambe. Fujima sorrise compiaciuto. Le sfide lo avevano sempre eccitato. Hiroaki da solo era già una preda non facile da catturare, se poi al suo fianco compariva quella pulce del ragazzo, allora tutto diventava più divertente. Si sarebbe ripreso ciò che era suo e avrebbe schiacciato definitivamente quell’insulso poliziotto.
<< Vai via Fujima. >>
<< Andrò via presto Hiroaki. Prima però voglio lasciarti un mio regalo. >>
Hanagata si avvicinò al tavolo e lasciò cadere un piccolo sacchetto di velluto blu. Hiro lo guardò distratto, senza capire, finché non fu colto da un’illuminazione. Prese il sacchettino, si alzò nervoso e gettò il sacchetto di velluto blu in faccia a Fujima.
<< Sei solo un bastardo. Richiama i tuoi cani e vattene via. >>
Prima che Akira potesse fare qualcosa, Fujima prese Hiro per i capelli e lo baciò affondando la sua lingua nella sua bocca. Il ragazzo si agitò terrorizzato nella sua morsa e riuscì a liberarsi lasciando, nella mano di Fujima, un ciuffo di capelli. Hiro si passò una mano fra i capelli, massaggiando la cute. Akira fece per scagliarsi su Fujima, ma l’uomo al bancone, intuendo le sue mosse, uscì la pistola appoggiandola al cuore della ragazza, immobilizzata contro il muro. Hanagata sbottonò la giacca mostrando la sua pistola e Kittcho bloccò per le braccia Akira.
Fujima si portò alla bocca la ciocca di capelli di Hiro e la leccò con voluttuosità.
<< Un pegno del tuo amore, come… >> ma non finì la frase che, inaspettatamente, Hiroaki gli sferrò un sinistro nello stomaco, facendolo accasciare a terra.
<< Questo. >> disse cercando di regolare il respiro: << E’ un piccolo anticipo del conto che dovrai pagare alla fine dei giochi. >>
Hanagata aiutò il suo capo ad alzarsi. Per la prima volta Hiroaki poté scorgere, dietro il volto freddo di quell’uomo duro, dolcezza e preoccupazione, ma durarono troppo poco perché potesse capire.
Fujima si alzò dal pavimento, scostando la mano di Hanagata ancora dietro le sue spalle. Lanciò uno sguardo furioso verso il piccolo poliziotto, poi richiamò i suoi uomini. Prima di uscire si voltò nuovamente verso il ragazzo e sorrise nervosamente:
<< La prossima volta continueremo il discorso da dove l’abbiamo lasciato… due anni fa. >> poi spostò lo sguardo su Akira e continuò: << Io non lascio a nessuno ciò che è mio, signor Sendo. >>
Quando se ne furono andati, la ragazza del bancone si accasciò sul pavimento e scoppiò in lacrime. Kittcho lasciò i due compagni per andare a vedere cosa fosse accaduto e rassicurarla.
Akira si avvicinò ad Hiroaki e gli sfiorò le labbra con le dita. Poi prese le sue mani e le avvicinò alla bocca, baciandole dolcemente.
<< E chi lo avrebbe detto che il mio koibito era pure un pugile mancato? >>
Hiroaki lo guardò stupito. Sbatté le ciglia un paio di volte e poi gli allacciò le braccia attorno al collo. Akira ridacchiò felice, stringendolo al suo cuore, mente Hiro gli sussurrava all’orecchio “grazie”.

Dopo averli lasciati, Fujima non era più rientrato. Hanamichi aveva fatto colazione con il ghiacciolo spietato e aveva recitato alla perfezione la sua parte di yakuza esperto. Come da piano, aveva parlato del suo passato nel clan dei Kounaji, ad Osaka e i guai avuti con la polizia. La Volpe aveva ascoltato tutto con attenzione e Hanamichi si era chiesto più volte se, per caso, tutto quello non l’avesse già vissuto. Non era il tipo da credere nelle reincarnazioni, lui, Hanamichi Sakuragi, ma da quanto aveva visto Faccia d’Angelo, una nota di stonata malinconia si era diffusa nella sua mente e, stranamente, dopo tanto tempo, aveva pensato a Haruko e si era chiesto come stesse, se lo pensasse. Poi si riconcentrò sulla Volpe. Era un ragazzo strano. I suoi occhi erano profondi quanto il mare d’inverno e il suo viso pallido sembrava la luna nelle notti d’inverno, quando si staglia alta nel cielo, nonostante il freddo e le nuvole di vapore si alzano in cielo.
Aveva pranzato nella sua nuova camera, nella villa Shoyo. Non gli era stato permesso di uscire e questo lo innervosiva. Hasegawa lo aveva seguito ovunque era andato e Fujima non si era visto tutto il giorno. Non aveva potuto dare che un’occhiata veloce alla casa, rimandando ad un’occasione più propizia, l’esplorazione minuziosa. Hiroaki era stato molto esplicito nella descrizione degli ambienti e per questo si era mosso abbastanza bene sin dall’inizio, facendo sempre attenzione, davanti ai padroni di casa, d’essere molto inesperto del luogo. Non doveva destare alcun sospetto o la missione sarebbe fallita.
Quel pomeriggio era stato lento e lungo. Fujima era rientrato molto tardi e l’aveva salutato con un sorriso. Gli si era avvicinato chiedendogli come fosse la Volpe e lui non aveva saputo che rispondere. Com’era la Volpe? Era freddo, calcolatore e molto pericoloso, ma non furono quelle le parole che gli vennero in mente pensando a Rukawa, per questo decise di non dire nulla.
Quella sera, come gli era stato riferito da Fujima, avrebbe cenato con lui e la Volpe, al “Rainbow Dream”, il ristorante dei vip, della famiglia Fujima naturalmente.
Aveva indossato un abito scuro e tentato di dare ai capelli una forma decente, ma il meglio che riuscì a combinare fu di rendere i suoi capelli ancora più simili ad artigli acuminati. Borbottò qualcosa innervosendosi ancora di più. Quei capelli, che per una stupida scommessa con Yohei era stato costretto a tagliare molto corti, continuavano ad assumere forme diverse dalle sue intenzioni, nonostante tutto quel gel che metteva nei capelli.
“Come diavolo fa Akira a tenere su quei suoi capelli assurdi? Se mi presento così la Volpe penserò che sono uno stupido yakuza di campagna.” continuava a domandare la sua mente.
Fujima venne a bussare alla sua porta. Con lui c’era come sempre Hanagata, vigile. La volpe e il suo vice li attendevano già nella lunga limousine nera che, appena salirono, sfrecciò fra le strade affollate, immergendosi silenziosa, nelle tenebre.

<< Sono un po’ preoccupato. >> disse Yohei sollevando lo sguardo dai documenti che stava controllando.
<< Non hai nulla di cui preoccuparti! Hanamichi è in gamba. Se la caverà e poi adesso ci sono ben tre squadre che lavorano sul caso. >> rispose Mitsui affacciandosi alla finestra che dava sulla strada.
Kanagawa di notte si trasforma. Le strade al mattino affollate da persone sempre in folle movimento, si trasformano in circuiti per mostri d’acciaio.
Le macchine correvano veloci sull’asfalto. Le luci abbaglianti sembravano gli occhi delle sirene, immerse nelle acque nere dell’oceano.
<< Eppure… qualcosa dentro di me mi dice che non devo stare tranquillo. >> continuò Yohei sbuffando.
Si alzò dalla sedia, annoiato. Erano ormai ore che vagliava ogni parola delle trascrizioni degli intercettamenti fatti dal Kainan. Non c’era nulla che potesse destare anche il minino sospetto, eppure… eppure Yohei non riusciva a essere tranquillo. Da quando Hanamichi si era temporaneamente trasferito al Ryonan, non aveva più avuto occasione di sentirlo e questo lo preoccupava. La morte di Toshio, il ritorno al Ryonan, il nuovo caso… era tutto accaduto troppo in fretta e lui non aveva potuto fare nulla per fermarlo. E ci sarebbe riuscito, se anche avesse potuto? Ne dubitava. Yohei sapeva quanta importanza aveva, nella vita del rossino, l’amicizia. Sapeva che, da quando Toshio era scomparso improvvisamente tempo prima, Hanamichi non aveva mai smesso di cercarlo. Aveva sguinzagliato i suoi informatori in tutto il Giappone, ma non era arrivato a nessuna soluzione. Yohei sapeva come si sentiva Hanamichi. Yohei sapeva di Ryo e del motivo che aveva costretto il rossino a lasciare la speciale. Sapeva che si sentiva in colpa e, ora, con la morte di Toshio, i suoi sensi di colpa erano aumentati, ne era certo.
<< Vuoi del the? >> chiese Mitsui.
<< No. Grazie. Devo passare dalla balistica ancora, c’è Haruko lì. >>
<< Non le avete detto nulla? >>
<< Sa che Hanamichi è in missione, ma non sa di che missione si tratta. E comunque è già abbastanza preoccupata così, per cui per ora è meglio evitare. Beh ci vediamo. Salutami Kiminobu. >>

I corridoi della centrale di polizia la notte mettevano paura. Gli ricordavano quelli dell’orfanotrofio in cui era cresciuto. Quei corridoi sempre troppo silenziosi. Quei corridoi infiniti e freddi, dove la notte si nascondeva dietro le porte scorrevoli di carta di riso. Si svegliava spesso la notte, in quel futon sempre troppo leggero, che sembrava non riuscire mai a ripararlo dal freddo che entrava dalla finestra aperta. Era sempre stato solo, fino a che i Mito lo avevano adottato e aveva conosciuto Hanamichi. Quanti anni avevano trascorso insieme? Molti, eppure gli sembrava che tutto fosse ormai destinato a finire, per sempre.
<< Yo-chan. Sei venuto a prendermi? Non dovresti disturbarti. >> sorrise Haruko davanti alla porta del laboratorio della squadra della balistica.
<< Non è un disturbo. Hanamichi mi ha minacciato di morte se ti fosse accaduto qualcosa, anche solo un graffietto. Perciò, mia cara Haru-chan, sarò la tua guardia del corpo, fino a che la scimmia rossa non tornerà dalla missione. >>
<< Tornerà presto, vero Yohei? >> Haruko strinse a sé la borsa di stoffa rossa: << E allora perché se penso a lui, mi assale una tristezza così profonda da impedirmi di respirare? Perché se penso al suo viso sorridente, ho come l’impressione che non riuscirò più a vederlo? >>
Haruko Akagi, sorella del capitano dello Shohoku nonché ragazza ufficiale del rossino della squadra, rimase ferma in mezzo al corridoio, piangendo silenziosamente. Yohei fu sul punto di abbracciarla e di rivelarle tutto, ma non poteva. Ne valeva della stessa sicurezza del suo migliore amico.
Accarezzò le lacrime di Haruko e le passò un braccio dietro le spalle.
<< Dai andiamo! Ti offro la cena. Se Hana sapesse che ti ho fatto piangere, mi prenderebbe a testate. >> sorrise Yohei, cercando di consolare la piccola Haruko.

Una limousine nera passò sfrecciando davanti alla stazione di polizia. Haruko e Yohei si strinsero nei loro giacconi. Era una macchina straniera, forse qualche ricco industriale, però per un attimo a Yohei parve di sentire il profumo del rossino.

Salirono in macchina e penetrarono anche loro nella notte giapponese.

 FINE QUINTA PARTE

Scleri finali:
Autrice: uff! Che fatica! Sono proprio stanca!
Ede: insomma! Si può sapere che combini? Perché si parla ancora una volta del play del Ryonan? Quelli sono personaggi secondari! Dovresti concentrarti su me e Hana e scrivere qualcosa di piccante!
Autrice: ma Ede! Vi siete incontrati solo adesso! Ogni cosa al suo tempo!
Ede: a parte il fatto che se ci siamo incontrati solo ora è per colpa tua, poi… che importa se ci siamo conosciuti solo ora? Non hai mai sentito parlare di colpo di fulmine?
Autrice: certo che sei incontentabile! Sono 4 capitoli che mi rompi la testa per farti incontrare Hana e quando succede ti lamenti pure!
Ede: certo che mi lamento! Non succede nulla!
Autrice: vuoi che succeda qualcosa? Allora scriverò che Hana scopre di essere tuo fratello e si metto con Fujima o con il primo che passa!
Minami-primo che passa: io autrice! Mi offro volontario!
Ede: sparisci idiota! Questa ff non è “Voglio tornare a sorridere”. Tu qui sei un mio subordinato e in quanto tale devi eseguire tutti i miei ordini!
Minami: ma… ;_____;
Autrice: SILENZIO! ADESSO BASTA! Tutti fuori dalla mia stanza! O scrivo subito una deathfic con omicidio di massa!
Tutti: che permalosa!
Ø__Ø
Autrice: scusate la scarsità del capitolo, ma mi è venuto piccolissimo! ^__^;;;;. Spero di rifarmi nella prossima parte. Un bacione a tutte e tutti!

Alla prox!


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