Autrice: buona lettura. Spero! Vi prego evitate gli insulti! ^^;;;;
Un altro
giorno
parte IV
di
Soffio d'argento
Hanamichi guardò il nuovo arrivato e per un
po’ lo non riconobbe. Erano trascorsi tanti anni, forse troppi, eppure il
suo ricordo non se n’era andato completamente. Aveva lavorato con lui
durante una missione speciale. Era un ottimo collega e stratega
eccezionale. Lavorava all’estero e, infatti, se ricordava bene, doveva
essere in missione negli Stati Uniti.
<< Che ci fai qui Eiji? >>
Eiji Sawakita. Hanamichi faticò a
riconoscerlo. Aveva i capelli lunghi che gli ricadevano sulle spalle e un
orecchino in bella vista sul labbro superiore. Non assomigliava minimamente
all’immagine che era rimasta congelata nei suoi ricordi, quel poliziotto
forte ma insicuro, con i capelli quasi rasati a zero. Gli anni in America
n’avevano fatto un ottimo poliziotto, almeno nell’aspetto.
Sawakita gli si avvicinò e gli strinse la
mano.
<< Sono venuto per la caccia alla Volpe. >>
Taoka aveva richiamato dall’America il suo
prediletto, dopo Sendo.
Sawakita era entrato nella speciale sotto
pressione del padre. Non aveva faticato a trovare il suo posto, poiché
fornito di un innaturale senso dell’investigazione. Aveva bruciato molte
tappe e per questo era inviso da parecchi colleghi più anziani. Taoka aveva
pensato di spedirlo qualche anno negli Stati Uniti per migliorare le sue
conoscenze. Da quanto era trapelato, aveva lavorato sotto copertura presso
l’FBI e aveva sgominato un giro di droga e prostituzione ad alto livello. Si
vociferava che fossero cadute importanti teste al Governo. L’ FBI era stata
restia a tornarlo al governo giapponese, anche perché la Volpe era un
boccone molto ghiotto per ogni poliziotto. Per evitare spregevoli disguidi
internazionali, era stata lasciata la scelta al diretto interessato. Dopo un
attimo d’esitazione, aveva accettato, specie quando aveva riconosciuto, fra
i poliziotti descritti da Taoka, il suo vecchio “amico” Sakuragi. Credeva
che la scelta di Taoka e Takato fosse stata ben azzeccata, ma era
un’operazione difficile che richiedeva cautela, così aveva scelto di tornare
in Giappone e poter dare una mano.
Tutti i presenti si accomodarono attorno al
tavolo delle trattative. Taoka era raggiante, Sendo, Koshino e Fukuda
guardavano il nuovo arrivato con curiosità, mentre Uozumi supponeva che quel
ciclone avrebbe portato non poco scompiglio fra le file del Ryonan. Già
Fukuda era un candelotto di dinamite sempre pronto ad esplodere, se a lui si
aggiungeva il fuoco di Sakuragi, i problemi diventavano molto più seri. Che
cosa sarebbe accaduto se a quei due si fosse aggiunto un tipo imprevedibile
come Sawakita? Sospirò pensando che tanto, peggio di com’era iniziata la
missione, non potesse andare. Sakuragi era l’unico a sembrare poco convinto.
La riunione fu relativamente breve e
tranquilla, scandita di tanto in tanto dalla voce stridula di Taoka che
gridava il nome di Fukuda e Sakuragi alternativamente. Alla fine Taoka uscì
dalla stanza molto più nervoso del solito e diede il resto della giornata
libero ai cinque ragazzi. Chiese a Uozumi di seguirlo e entrarono nel
laboratorio della scientifica.
<< Allora abbiamo il resto della giornata
libera, che si fa? >> chiese Sendo.
<< Vorrei allenarmi un po’ con il tiro a
segno. Mi accompagni Sawakita? >> chiese Hanamichi.
Eiji fece un cenno della testa e lo precedette
al poligono di tiro. Il rossino chiese ad Akira ed Hiro di aspettarlo lì,
poi salutò con un ghigno Fukuda e seguì Sawakita.
Hiroaki si avvicinò a Fukuda e gli appoggiò
una mano sul braccio:
<< Non sarebbe meglio se ne parlaste? >>
Fukuda scosse la testa.
<< E’ meglio così, credimi. Lui mi odia e a me
va bene così. Certe volte abbiamo bisogno di odiare qualcuno per non cedere
alla morte. E poi… neanche io riesco a perdonarmi. Il suo odio, mi fa bene,
mi permette di espiare una parte della mia colpa. >>
<< Ma dovrete lavorare assieme. >> cercò di
convincerlo Akira.
<< Sia io che lui ci fidiamo l’uno
dell’altro, nonostante nessuno dei due voglia ammetterlo. Poi, forse, un
giorno riuscirò ad espiare la mia colpa e forse comincerò a sentirmi meglio.
>>
Detto questo Fukuda uscì dalla centrale, salì
sulla sua moto e scomparve per le strade di Kanagawa.
Sakuragi seguì Sawakita nei sotterranei della
centrale, che si muoveva come una lucertola. Era veloce e conosceva bene i
luoghi in cui entrava. Ricordava tutto alla perfezione, nonostante mancasse
ormai da molto tempo. Anche questo aveva contribuito a costruire attorno a
lui la fama del poliziotto eccellente. Sakuragi scendeva, invece, le scale
lentamente, quasi dovesse fare un grosso sforzo per camminare.
A quell’ora il poligono di tiro era quasi
deserto, gli ultimi poliziotti se n’erano andati quando era entrato il
rosso.
Sakuragi si sistemò nella cabina 2, accanto a
quella di Sawakita. Indossò guanti e cuffie, uscì dalla fodera la sua
pistola e la caricò con i sette colpi che gli consentiva.
Sparò velocemente tutti e sette i colpi,
centrando, una volta dopo l’altra, il centro perfetto posto all’altezza del
cuore dell’ipotetico criminale. Sawakita uscì dal fodero la sua e dimostrò
al collega di non essere inferiore a nessuno, mirando alla testa e
assestando i colpi del suo caricatore.
Sakuragi si tolse le cuffie e le sistemò
accanto alla sua arma. Si guardò un po’ attorno, accertandosi di essere
davvero da soli, sperando che né Akira, né Hiroaki o quel verme di Fukuda
(chiedo scusa da parte di Hanamichi. NdA) l’avessero seguito, poi si
avvicinò a Sawakita, che attendeva, con le spalle appoggiate al muro, le
mosse del collega. Sakuragi gli si avvicinò così tanto che i respiri
potevano sfiorarsi, poi lo prese per il colletto e lo sollevò dieci
centimetri buoni dal pavimento. Sawakita spalancò gli occhi sorpreso, non
ricordava tutta quella forza, poi socchiuse la bocca in un ghigno sardonico.
Gli puntò addosso due occhi di ghiaccio:
<< Che intenzioni hai Sakuragi? >>
<< Solo mettere in chiaro alcune piccolezze,
Sawakita. >> dopo di che lo riappoggiò a terra.
Sawakita si sistemò la camicia al bene meglio,
si pettinò i capelli con le mani e tornò a guardare il suo interlocutore.
Era cambiato molto Sakuragi. Da quel giorno era come se un fuoco gli
divorasse l’anima. Il senso di colpa e d’impotenza lo avevano costretto a
lasciare la speciale, nonostante Taoka avesse provato in tutti i modi di
fargli cambiare idea. Fukuda era rimasto due settimane in ospedale, ma a
quanto pareva, persino al suo ritorno, la situazione fra loro non era
cambiata.
Gli occhi di Sakuragi esprimevano ogni suo più
piccolo sentimento, in quel momento stavano bruciando di rabbia e Sawakita
lo sapeva, ma non poteva farci nulla, avrebbe continuato sulla sua strada,
lo aveva promesso e non si sarebbe fatto fermare da nessuno.
<< Tornate in America Sawakita. >> disse
questo prima di imboccare il piccolo corridoio del poligono.
<< Che cosa? >>
<< Hai capito bene: tornate in America. Non
abbiamo bisogno di te, Eiji. >>
Sawakita afferrò per le spalle Sakuragi,
lo fece girare e lo colpì con un pugno alla mascella. Sakuragi rimase
immobile, come fosse stato punto da una zanzara, invece che da un pugno.
Sakuragi, si sapeva, non era nuovo a risse. Lui, Fukuda e Mitsui erano i
teppisti della polizia di Kanagawa. Spesso preferivano ragionare con il
pugno chiuso che con la mente. Sakuragi, poi, era una forza della natura.
Aveva spedito in ospedale Tetsuo, il capo dei
Red Dragon, con soli quattro
pugni. Tetsuo aveva riportato profonde ferite e un trauma cranico che lo
avevano costretto su un letto d’ospedale per mesi. Quando era uscito, i Red
Dragon erano stati smantellati.
<< Nessuno e ripeto nessuno, può permettersi
di darmi ordini, specie tu Sakuragi, con la tua aria d’indifferenza e boria.
Io sono il migliore poliziotto di tutta Kanagawa. Per questa missione sono
stato conteso dal governo americano e giapponese. Non potete farcela senza
di me e lo sai bene anche tu. >> aveva detto strattonandogli la camicia blu
notte.
<< Io so solo che non ti voglio qui. Ho
ricevuto carta bianca dai comandanti delle tre migliori squadre di Kanagawa
e per questo ti dico semplicemente: vattene! Non abbiamo bisogno di un
poliziotto come te, un poliziotto freddo e glaciale che si risveglia solo
quando la situazione diventa per lui più gradevole. Hai bisogno di sfide per
vivere. Hai un gran talento, te lo riconosco, ma non ti permetterò di
lavorare a questa missione. Non è una sfida. E’ una questione di vita o di
morte. Vattene Sawakita! Cerca un nuovo giocattolo lontano da qui. >>
<< Chi cazzo credi di essere, eh Sakuragi? Io
non mi lascerò sfuggire Faccia d’Angelo. >>
Sakuragi scosse la testa stanco, come si fosse
aspettato una risposta del genere. Allontanò i pugni di Sawakita dalla sua
giacca, prese la sua pistola ed uscì.
Sawakita lo seguì lungo il corridoio deserto,
furibondo. Quando finalmente Sakuragi si decise a fermarsi si trovavano già
dietro la porta. Appoggiò la mano bronzea sulla maniglia e voltò la testa:
<< Tu giochi con la vita degli altri come se
stessi giocando una partita di scacchi. Ma le pedine… le pedine Sawakita…
quelle pedine che usi per rendere più interessante il gioco… quelle pedine
sono fatte di sangue e carne. Hanno famiglia, figli… non sono oggetti.
Abbiamo perso… >> si fermò un attimo per riprendere fiato, chiuse gli occhi
e la mano strinse ancora di più la maniglia: << Ho perso un collega prezioso
per colpa vostra. Fukuda ha capito, ma tu sei ancora arroccato nei tuoi
sogni di gloria. >> e detto questo uscì richiudendosi la porta alle spalle.
E’ cambiato molto Sakuragi, pensò Sawakita,
poi si accasciò al suolo e rimase a pensare.
Nella sua mente ritornarono, come un film in
bianco e nero, le immagini di quel giorno lontano. La voce disperata di
Sakuragi che abbracciava Ryo e gli gridava di resistere. Il corpo freddo di
colui che un tempo conoscevano, con cui erano andati bere qualcosa dopo gli
orari di lavoro, con cui avevano parlato fino a notte inoltrata…. Aveva
cercato di dimenticare e per un po’ di tempo c’era anche riuscito. Non era
colpa sua, continuava a ripetere la sua mente, ma qualcosa nel suo cuore,
riconosceva nello sguardo duro di Sakuragi la sua colpa. Aveva davvero
sempre considerato gli altri come oggetti? Forse era vero, per questo si era
sempre ritrovato solo, inviso da tutti. Eppure non era così che doveva
essere. Se solo avesse voluto… se solo avesse potuto… ma ormai non c’era
nulla a cui pensare.
Si sollevò dal pavimento, aprì la porta e un
caldo raggio di luce gli illuminò il volto. Forse era infine giunto il
momento di dimenticare e ricominciare.
<< Tutto ok Sakuragi? >> gli chiese Akira
cercando di scrutare nel profondo di quei pozzi scuri.
Sakuragi scostò lo sguardo, fissandolo sulla
macchinetta del caffè.
<< Va tutto bene, Sendo. Se non vi dispiace
vado a prepararmi, fra due giorni s’inizia. >>
Dopo tanti anni lo spettro di Ryo tornava a
farsi sentire. Era sempre rimasto nell’ombra, racchiuso dalla ragnatela
della dimenticanza, ma era sempre rimasto lì vicino. A volte potevano
sentire l’alito freddo della morte sul loro collo e vedere il suo mantello
nero ammantare la schiena e i pensieri di Sakuragi. Ripensò ai suoi tre
colleghi, amici: Sakuragi, Sawakita e Fukuda. Legati insieme da un filo
rosso sangue. Sarebbero mai riusciti a dimenticare? In parte c’erano
riusciti. Sawakita era volato in America, Fukuda si era dedicato anima e
corpo alle nuove missioni e Sakuragi… lui sembrava aver trovato il suo
equilibrio precario in una dolce ragazzina, Haruko Akagi…
Voltò lo sguardo verso il suo compagno di vita
e si chiese se anche loro, un giorno, sarebbero riusciti a ritrovare la
serenità perduta. Era trascorso molto tempo eppure… La notte Hiroaki si
svegliava di soprassalto e lui faceva finta di non accorgersene. Aveva preso
l’abitudine di dormire sul divano, ormai lui e Hiro non si toccavano neppure
più. Hiroaki era freddo e glaciale ogni volta che lui gli si avvicinava.
Accampava scuse su scuse per non stargli vicino e ormai la situazione si
ripeteva tutte le sere da mesi. Ormai aveva pure smesso di provare a stargli
vicino. Cenavano insieme, chiacchieravano e poi si dividevano. Con la scusa
di guardare qualche partita di basket trasmessa dal satellite, Akira restava
in salotto, mentre Hiro saliva lento le scale. Se si fosse voltato, se
almeno una di quelle sere Sendo avesse dato retta al suo impulso di
seguirlo, lo avrebbe visto lì, rannicchiato sulle scale che lo osservava. Il
sorriso appena percettibile, gli occhi lucidi e lo sguardo che si fermava
sugli strani capelli a punta e sul suo viso triste. Akira, però, non lo
aveva mai fatto. Tutto era diventato ripetitivo, ma nessuno aveva mai avuto
il coraggio di lasciare l’altro e ricominciare da solo.
Hiro era seduto al suo tavolo, intento a
redigere un rapporto per Taoka. Sbuffava annoiato, mentre Hikoichi gli
raccontava, per filo e per segno, le storie che si raccontavano sul
fantomatico Sawakita.
Nessuno vide Eiji andare via, poco dopo
Sakuragi e nessuno seppe dove se n’andò. Solamente uscì dalla centrale e vi
ritornò due giorni dopo.
Hiro si era accorto dello sguardo di Akira, ma
fece finta di nulla, come sempre accadeva. Cercò di interessarsi alle parole
di Hikoichi, ma i suoi pensieri non riuscì a controllarli, mentre la sua
bocca faceva fatica ad articolare la parole, limitandosi a glaciali “sì?”,
“davvero?”….
I suoi pensieri volavano via, fuggivano dal
suo controllo. Si chiedeva come potesse Akira restare ancora con lui, dopo
tutto ciò che era accaduto. Come poteva ancora asserire di amarlo? Lui
stesso si odiava per ciò che era successo, come poteva non farlo anche lui?
Ormai non dormivano più neppure nello stesso letto e questo gli faceva male,
ma lo preferiva. Non voleva vedere lo sguardo triste di Akira ogni volta che
lo respingeva. Però Akira non gli faceva pesare nulla. Stava lì buono buono
e si accontentava di ciò che lui gli dava. La cosa andava avanti ormai da
mesi. Cenavano parlando del più e del meno, poi mentre Hiro sistemava la
cucina, lui andava a sedersi in salotto. Accendeva la TV e si perdeva
davanti alle partite di basket dell’NBA, ma Hiro lo sapeva… sapeva che Akira
avrebbe preferito stare con lui, anche solo a rassettare la cucina o ad
asciugare i piatti, solo stare con lui, ma lui lo allontanava, perché il suo
amore lo faceva soffrire e allo stesso tempo gli dava la forza di andare
avanti.
Quanto sarebbero riusciti ad andare avanti?
Non per molto. Probabilmente ognuno di loro aspettava che fosse l’altro a
stancarsi e attendevano in silenzio. La notte non riusciva a dormire, così
scendeva a guardare Akira, steso sul divano, che abbracciava un cuscino. Si
accoccolava ai piedi del divano, all’altezza del suo torace e vi appoggiava
la testa. Solo allora le immagini che lo tormentavano si allontanavano, poi
la mattina, poco prima che Akira si svegliasse, lui si alzava, gli sistemava
le coperte e tornava in camera, su quel letto gelido. Chiudeva gli occhi e
faceva finta di dormire. Poi, non sapeva quanto tempo dopo, entrava Akira
con il vassoio della colazione, gli sfiorava la fronte con un bacio e gli
augurava una buona giornata. Hiro si stiracchiava, come se si stesse
svegliando da una notte lunga e serena e ringraziava Akira con un sorriso.
Il ragazzo alto, allora, si sedeva accanto a lui e, mentre spalmava la
marmellata sulle fette biscottate, gli chiedeva scusa per essersi
addormentato sul divano. Ogni giorno c’era una scusa nuova: una partita
importante, una maratona di film… e alla fine si sentiva così stanco da non
riuscire ad alzarsi.
Ogni giorno recitavano la stessa parte, ma
ogni giorno, Hiroaki se ne accorgeva, il sorriso di Akira si affievoliva.
Avrebbe voluto allungare il braccio e tenerlo stretto a sé, ma non vi
riusciva, il suo corpo sembrava non riconoscere i gesti più importanti. E
così se ne stava in silenzio, mentre Akira cercava di raccontargli un sogno
che aveva fatto e lui pensava. Non ricordava più quando era stata l’ultima
volta che aveva sognato e cosa avesse sognato.
<< Hiro andiamo? Taoka ci ha dato il giorno
libero, ricordi? >>
<< Ma ho un rapporto da redigere. >>
In quel momento uscì il capitano Uozumi:
<< Vai pure Koshino. Al rapporto penserai
domani. >>
Seppure di controvoglia, Koshino si alzò dalla
sedia e indossò la giacca. Uscì a fianco di Akira, mai come allora così
silenzioso.
Ci fu il rumore di una frenata lì vicino e
Hiroaki corse a vedere cosa fosse accaduto. Un ragazzo sullo scooter, sedici
anni al massimo, era passato con il rosso ed era stato costretto a frenare
bruscamente quando una ragazza aveva attraversato la strada velocemente.
Akira non riuscì a trattenere una risata quando vide come il suo “piccolo”
koi riuscisse a spaventare, con la sua aria truce, quel povero ragazzo. In
quel momento accadde qualcosa di strano. Vi fu un lampo di luce di cui
nessuno parve accorgersi. Illuminò, come un’esplosione, tutto il suo campo
visivo e Hiro divenne evanescente fino a sparire. Fu solo un attimo. Dovette
trattarsi di un’allucinazione dovuta allo stress probabilmente, perché poco
dopo la luce scomparve e tutto riprese il suo battito normale. E Hiro era
sempre lì, che redarguiva il ragazzino incosciente. E il ragazzo annuiva,
cercando di trovare una scusa sufficiente che gli permettesse di tornare a
casa, sano, salvo e senza multa.
Il corpo di Akira fremette di paura. In quel
breve attimo si era sentito risucchiato dal passato. Aveva ricordato quel
maledetto giorno, quella paura che si era impadronita di lui quando aveva
visto il suo koibito riverso in una pozza scura e quel sangue che zampillava
dalla ferita all’addome. Si era rivisto mentre piangeva disperato e
impotente, mentre sperava che i soccorsi arrivassero in tempo. L’aveva
stretto forte a sé, come temesse che, allentando la presa, potesse
sfuggirgli dalle mani. E aveva pianto quando quell’uomo gli aveva piantato
una pistola alla tempia, ma non aveva pianto per lui, ma per Hiro. Aveva
avuto paura che quell’uomo uccidesse anche lui, ma quell’uomo non lo aveva
fatto e l’aveva lasciato lì, senza un perché, senza una spiegazione. E lui
aveva ringraziato il buon Dio che non l’aveva privato della persona più
importante.
In quel momento, nel momento in cui il
bagliore aveva catturato Hiroaki, lui aveva provato la stessa paura.
Vide Hiro lasciare andar via il ragazzo e
avvicinarsi borbottando qualcosa sulle nuove generazioni. Aveva visto il suo
viso imbronciato, le sue sopracciglia corrugate dal disappunto e si era
chiesto cosa avrebbe fatto se un giorno lo avesse perso. Non aveva avuto
bisogno di risposte, si era slanciato di colpo verso di lui e lo aveva
abbracciato. Lì. In pieno giorno. Davanti alla stazione della polizia. Hiro
aveva smesso di respirare, nonostante l’odore pungente di Akira gli entrasse
nel cervello.
Akira lo aveva preso per la mano e fatto
entrare in macchina. Aveva ingranato la marcia e aveva imboccato la strada
verso casa. Hiro era rimasto in silenzio, incapace di guardarlo negli occhi.
Non riusciva a pensare a nulla. Respirare ancora il profumo inebriante di
Akira lo aveva stordito. Non riusciva a guardarlo in volto, ma lo sentiva.
Dopo tanto tempo sentiva ancora il suo calore e questo gli procurava
sensazioni che non credeva più possibili. Strinse gli occhi e i pugni
bloccarono lembi del suo vestito. Akira era silenzioso, però guidava ad una
velocità folle, non disdegnando la corsia d’emergenza. C’era una strana
atmosfera d’attesa.
Incrociarono due auto della polizia stradale
che, riconoscendo lo stemma della speciale, evitarono di fermarli. Hiro si
chiese se sarebbe giunto a casa sano e salvo. Akira sembrava avere, anzi
aveva, urgenza di arrivare, come se qualcosa si fosse sciolto, dopo tanto
tempo. Senza neppure accorgersene, Hiro appoggiò la mano destra sulla
sinistra di Akira, posta sul cambio. Il porcospino rallentò l’andatura e
strinse la mano di Hiroaki. Lasciò la sua mano e intrappolò i capelli del
koi, tirandolo a sé e baciandolo sulla testa. Hiro si lasciò trasportare da
quel vortice di sensazioni così calde per lui. Gli parve di fluttuare in
aria, sospeso nel tempo, lontano dal suo passato. Appoggiò la testa sulla
spalla del ragazzo più alto e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal suo
profumo intenso e dolce, come quello del cioccolato nelle sere d’inverno.
Pensò a tutti i momenti che avevano vissuto
assieme e alle sere di ghiaccio che li avevano tenuti lontani. Si ricordò
del loro primo anniversario. Hiroaki aveva tenuto tutto il giorno il broncio
ad Akira, perché quest’ultimo si era dimenticato la ricorrenza. Un anno
insieme e non se l’è ricordato! Continuava a sbuffare guardandolo in
tralice. Akira, l’oggetto di tali poco pacifici pensieri, appariva come
sempre sorridente e si chiedeva perché mai il suo koi ringhiasse ogni volta
che cercava di avvicinarlo.
Durante un pattugliamento….
<< Si può sapere che hai Hiro-kun? >>
Sendo osservava distrattamente le vetrine
dei negozi, mentre Hiro distruggeva lentamente un bicchiere di plastica
stritolandolo tra le mani.
<< Sai che giorno è oggi, Akira? >> cercò
di darsi una calmata Hiroaki.
<< Sabato e questo significa che domani non
si lavora! >> sorrise sornione.
<< Sendo! >>
“Ahia! Quando mi chiama per cognome
significa che sta davvero perdendo la pazienza…. Però, io adoro il suo
visino imbronciato!”
<< Che c’è Hiro-kun? Sei arrabbiato? >>
Hiro strinse ancora di più la presa su quel
bicchiere, fino a ridurlo ad un corpo informe. Decise di lasciare cadere
l’argomento per il momento, anche perché il sospettato stava uscendo da uno
dei negozi della via. Si allacciò la cintura di sicurezza e si preparò alla
missione. Guardò con sguardo truce un allibito Akira.
<< Guida baka! Non vedi che ci sta
sfuggendo? >>
<< Agli ordini capitano! >> ironizzò Akira.
“Tanto a casa te la farò pagare…”
E invece dei suoi piani di vendetta, non
rimase nulla. Akira aveva preparato tutto alla perfezione. Ben sapendo
quanto il suo bisbetico compagno tenesse alle ricorrenze, aveva finto di
essersi dimenticata la più importante, immaginandosi già la reazione del suo
koi. Aveva disseminato la casa di candele profumate e petali di rose. Aveva
preparato i piatti preferiti di Hiroaki, approfittando dell’abitudine del
compagno di smaltire la rabbia tirando a canestro nel campetto dietro la
centrale. Aveva addobbato la casa con le rose rosse, i fiori preferiti di
Hiroaki. Koshino, al suo ritorno, fu commosso dal regalo del compagno e…
Quel ricordo riaffiorò con sordo dolore alla
memoria di Hiroaki, sprofondato nel sedile della macchina. Akira aveva preso
qualche corsia preferenziale e superato qualche semaforo rosso, ma, grazie a
Kami, quel giorno sembrava che le strade fossero completamente deserte.
Giunsero a casa in breve, ma mai fino ad
allora il tragitto sembrò, ai due ragazzi, così lungo.
Akira aprì la porta esitando un po’ sulla
scelta della chiave. Hiroaki, dietro di lui, osservava la sua schiena, così
grande e calda. Senza accorgersene allungò il braccio per toccarlo ma lo
ritrasse all’istante, come scottato. Si infilò entrambe le mani in tasca e
aspettò che Akira aprisse la porta.
Finalmente Akira, troppo scosso per riuscire a
ragionare freddamente, trovò la chiave ed entrarono. Si voltò un attimo
verso il suo koi. Aveva il volto abbassato e non sorrideva, ma questo era
normale, considerando che musone fosse Kosh, però c’era qualcosa di diverso.
Un pallido rossore diffuso sul viso e le mani che stringevano
spasmodicamente la stoffa della giacca…
Entrarono e Akira andò in cucina a preparare
il the, come di solito facevano sempre. Hiroaki si tolse la giacca e la
portò al piano di sopra, insieme a quella di Akira, allentò il nodo alla
cravatta e scese al piano di sotto, dove trovò già Akira che versava il the
fumante nelle tazze.
<< Hiro… >> disse dopo qualche minuto di
silenzio << Noi dobbiamo parlare. >>
Hiroaki appoggiò la tazza sul basso tavolino e
intrecciò lo sguardo a quello di Akira. Il ragazzo, posto al lato opposto di
Hiro, gli si avvicinò e s’inginocchiò ai suoi piedi. Gli prese le mani nelle
sue e gliele baciò con riverenza. Questo fece scorrere brividi di fuoco
lungo la schiena di Hiro.
<< Parlare di cosa Akira? >> Hiro non era più
molto sicuro di voler parlare, infatti la sua coscienza vacillava come il
tono della sua voce.
<< Prima… quando parlavi con quel ragazzino
che aveva attraversato l’incrocio con rosso… >> vide Hiro annuire << Io ho
temuto di perderti, per sempre. Dopo quello che è accaduto due anni fa, noi
abbiamo vissuto in un limbo senza emozioni. Negavamo che vi fossero dei
problemi persino davanti all’evidenza e a poco a poco ci siamo allontanati.
E’ accaduto ciò che più temevo. >>
Hiroaki sentiva le lacrime salirgli fino agli
occhi, ma le respinse con insistenza. Voleva sentire, voleva che Akira
continuasse e Akira lo fece.
<< Abbiamo cominciato a poco a poco, iniziando
a far finta che nulla fosse accaduto, ma sia io che te sappiamo benissimo
che qualcosa è accaduto. Qualcosa di terribile, di morboso. Credendo che
fosse la cosa giusta da fare, per il bene dell’altro, abbiamo smesso di
parlarne e così facendo le parole fra noi si sono rarefatte, fino ad
esaurirsi. Adesso, poi, non abbiamo più il coraggio neppure di dormire
insieme. Io ti sento, Hiro, quando la notte ti agiti nel nostro letto e ti
svegli in preda all’angoscia. Sento quando scendi le scale e vieni a sederti
vicino a me. Non sai quante volte sono stato sul punto di aprire gli occhi e
toccarti, per vedere se eri tu, se eravamo noi, ma non l’ho fatto per paura.
Paura di perderti, senza capire che già stava accadendo. Ti stavo perdendo
Hiro. E l’ho capito oggi quando, improvvisamente, non chiedermi perché né
come, ti ho visto scomparire inghiottito da un raggio di luce. Io non voglio
perderti amore mio. Tu sei la persona più importante della mia vita, sei
tutta la mia vita. Permettimi di starti vicino. >>
Le ultime parole di Akira si conclusero con un
soffio. Hiroaki gli incorniciò il viso fra le mani e rimase ad osservarlo.
No. Non voleva perderlo. Per non farlo soffrire si era allontanato di lui,
perché non si considerava più degno, e così lo aveva fatto soffrire ancora
di più. Avvicinò il suo volto a quello di Akira e lo baciò, con amore, dopo
tanto tempo. Akira lo strinse a sé più forte che poteva, si alzò e lo prese
fra le braccia, facendo aderire i due corpi. Il braccio destro che gli
accarezzava i fianchi e il braccio sinistro che risaliva lungo il suo corpo
fino a fermarsi sui suoi capelli d’ebano. Gustando il sapore del suo koibito,
la mano di Akira scivolava incessantemente sui capelli di Hiroaki, in una
lenta e deliziosa carezza. Hiroaki intrecciò le sue braccia dietro il collo
di Akira e si lasciò trasportare dalle sue emozioni. Dopo tanto tempo
sentiva che qualcosa si era sciolto. Quando aveva rimproverato quel
ragazzino per il suo andamento pericoloso, all’improvviso si era sentito
mancare, come se qualcosa, dentro il suo cuore, radicata profondamente in
lui, fosse stata strappata violentemente. Aveva sentito freddo e si era
sentito solo, per la prima volta. Si era voltato alla ricerca di Akira, ma
per un attimo, un solo, lunghissimo ed eterno attimo, non lo aveva visto e
si era sentito perso. Nonostante quei due anni fossero stati un inferno, lui
sentiva che senza Akira non sarebbe riuscito a vivere. Se per tutto quel
tempo era riuscito ad andare avanti, nonostante tutto il suo disgusto per se
stesso, era stato solo perché Akira era con lui. Solo sapere che Akira
rientrava tutte le sere insieme a lui, che cenava con lui, che lavorava con
lui, che divideva il suo mondo, le sue parole, i suoi sorrisi con lui, lo
faceva sentire bene, lo faceva sentire vivo. In quell’attimo si era sentito
perduto. La vita senza Akira, un giorno solo senza di lui, sarebbe stata un
inferno peggiore di quegli ultimi due anni. Ma poi l’attimo era passato e
lui aveva rivisto Akira, lì dove l’aveva lasciato, ma allo stesso tempo
diverso. Non aveva più il suo sorriso che amava tanto. I suoi occhi erano
spalancati come fosse spaventato, la stessa espressione che gli aveva visto
due anni prima.
Hiroaki stringeva forte il suo ragazzo e
s’inebriava del suo profumo. Qualcuno o qualcosa li aveva avvicinati. Quei
due anni trascorsi senza respirare il suo profumo, assaporare il suo sapore,
vivere ogni suo momento, erano stati immensi. Come aveva potuto vivere così?
Quando si staccarono Akira aveva il viso in
fiamme e un sorriso denso e vero sulle labbra. Scostò una ciocca di capelli
dalla fronte di Hiroaki e gli sorrise ancora di più. Quel piccolo demonietto
scorbutico gli era mancato più di quanto avesse creduto. Hiro gli regalò uno
dei suoi più rari sorrisi e lo baciò ancora una volta. Forse un giorno gli
avrebbe raccontato delle sue paure, delle sue emozioni, ma non in quel
momento. Adesso voleva stare solo con lui. E forse, pensò sorridendo, non
avrebbe avuto bisogno di parlare, perché Akira lo sapeva già, conosceva
tutto di lui.
Allo Shohoku, la coppia d’oro, ripensava agli
avvenimenti degli ultimi giorni, sorseggiando un caffè al bar di fronte alla
stazione di polizia.
<< Secondo te come finirà? >> chiese l’ex-
teppista dello Shohoku.
Kiminobu rimase un po’ a pensarci, mentre il
caffè emetteva il suo profumo e il cucchiaino girava lentamente fra le
spirali nere. Sbuffò un po’. Era preoccupato per la testa rossa, non aveva
gradito sin dall’inizio l’interferenza della speciale. Kiminobu era l’unico,
escluso il Capitano e il Comandante, ad essere a conoscenza del vero motivo
che aveva spinto il collega a lasciare la speciale. Hisashi ne era a
conoscenza, ma non aveva mai fatto domande. Sapeva che si trattava di
qualcosa di molto serio e sapeva che, se avesse messo alle strette il
compagno, Kiminobu si sarebbe rifiutato comunque di parlare. Per lui la
lealtà era uno dei valori principali della vita.
<< Sinceramente non so che pensare Hisashi.
Tutta questa faccenda mi piace ben poco. Ho come l’impressione che presto le
cose ci sfuggiranno di mano. >>
Hisashi fu sul punto di replicare, ma in quel
momento la porta del bar cigolò facendo entrare l’agente Ayako, seguita a
ruota da Ryota, innamorato folle della bella collega.
<< Piantala Ryota! Ho detto che con te non ci
esco! Vuoi mettertelo nella testa? >>
Lo stratega dello Shohoku parve non sentire le
parole di Ayako, perché continuò a sorridere con la sua faccia più beota,
come se ogni parola proferita dall’amata fosse poesia.
Ayako si raddrizzò con una mano un ciuffo
ribelle sfuggito al fermaglio di legno che teneva ben stretti i suoi
capelli. Sospirò pesantemente nel guardare il sorriso dipinto sul viso dello
scocciatore. Agitò una mano davanti agli occhi del senpai, poi rinunciò
all’impresa di farlo ragionare e cercò un posto in cui sedersi, ma sia
Hisashi che Kiminobu se ne accorsero. Si accorsero del sorriso che
capeggiava sul viso dell’energica collega. Fecero segno ad Ayako di
avvicinarsi e la invitarono a prendere un caffè con loro.
Per alleggerire la tensione che si era creata
negli ultimi giorni, Hisashi pensò bene di divertirsi alle spalle di Ryota.
In passato, fra i due ragazzi, c’erano stati diversi dissapori, sfociati in
una feroce lite che li aveva tenuti lontani dall’uniforme per un mese,
trascorso in ospedale. Avevano evitato una sospensione pro tempore (esiste?
Boh! NdA.) solo grazie al buon cuore del Comandante Anzai.
Adesso i rapporti sembravano molto migliorati.
Continuavano ad insultarsi a vicenda, ma nelle parole non si poteva più
avvertire l’astio dei giorni passati. E a volte facevano pure fronte comune,
quando, per esempio, dovevano prendere in giro la scimmia rossa dello
Shohoku.
<< Ehilà Ryota! Perché non vieni a sederti qui
con noi? >>
Non riusciva a capire il perché, però il
pensiero del loro compagno solo in un luogo ostile, gli aveva fatto passare
completamente la voglia di scherzare. Certo era vero che la stazione di
polizia della speciale non era poi così lontana, però sentivano che un muro
stava per ergersi in mezzo a loro. Anche il Capitano Akagi era molto
preoccupato. La Volpe non era certo un nemico facile e anche il “Tensai”,
come si definiva la scimmia, avrebbe di certo avuto molti problemi.
Si voltò e vide il suo ragazzo guardare
distrattamente i clienti del bar. Era molto fortunato ad avere un ragazzo
così, si ripeteva. Era rimasto con lui nonostante il suo passato e per lui
aveva rinunciato ad una promettente carriera nella scientifica del Kainan.
Sembravano così lontani quei giorni…
<< Capitano Maki posso parlarle? >>
Il poliziotto più giovane del Kainan entrò
nell’ufficio del comandante, con una faccia che, a detta di Maki, non
prometteva nulla di buono.
<< Cosa c’è che non va Nobu? >> chiese sapendo
già cosa frullasse per la testa del compagno.
<< Perché Sakuragi? Quella testa calda non è
all’altezza della situazione. Sono sicuro che io avrei saputo fare di
meglio. >>
Nobunaga era entrato nella squadra del
Kainan King
solo due anni prima. Proveniva da un paesino della prefettura, dove si era
distinto per l’arguzia delle sue deduzioni e l’agilità delle sue azioni.
Durante un’azione che aveva portato il Kainan nella provincia, per un
traffico di droga, si era subito fatto notare. Aveva svolto le indagini con
maestria ed era riuscito a guidare la sua squadra alla cattura del capo clan
che gestiva il traffico di droga della zona. Takato lo aveva voluto nella
sua squadra e le sue aspettative non erano state deluse. In breve aveva
surclassato in colleghi più anziani entrando a far pare della rosa della
squadra del Kainan.
<< Nobu ne abbiamo già parlato. >> disse
esasperato Maki,
<< E io non ho ancora capito, perciò spiegami.
>>
Nobunaga incrociò le braccia sul petto e si
gettò sul divano dell’ufficio del capitano. Il suo sguardo deciso. Qualcosa
gli diceva che non avrebbe potuto sfuggirgli quella volta. Shinichi si
sistemò meglio sulla poltrona e incrociò le braccia dietro la testa. Osservò
attentamente il compagno e questi arrossì sotto il suo sguardo. Shinichi si
alzò dalla poltrona e si sistemò ai piedi del giovane ragazzo.
<< Nobu… >> disse con voce calda che fece
venire i brividi a Kyota: << Sakuragi è già abituato a missioni del genere.
Ha lavorato per anni alla speciale. Con lui saremo più sicuri, tu sei ancora
inesperto e poi… >>
Qualcosa nella mente di Nobunaga gli diceva di
dover reagire, dimostrare di essere più bravo di Sakuragi, ma quando aveva
visto Shinichi sistemarsi sulla poltrona e guardarlo con quello sguardo di
fuoco, aveva capito di non avere speranze. Avrebbe capitolato, come tutte le
volte. Sentiva il fiato caldo del capitano sul collo e le sue mani
intrufolarsi sotto la camicia. Nobunaga dovette mordersi il labbro inferiore
per non farsi sentire dai colleghi.
Shinichi prese a baciargli il collo,
intramezzando ad ogni bacio una parola:
<< E poi… questa è una missione troppo
pericolosa… e non voglio che ti capiti qualcosa… io senza di te non
riuscirei ad andare avanti… >>
Nobunaga non riusciva più capire nulla. I baci
di Shinichi avevano qualcosa di ammaliante e di irrefrenabile. Le sue mani,
poi, conoscevano ogni segreto del suo corpo. Resistere era impossibile e
questo l’aveva ormai capito. Cercò di respingerlo, ma Shinichi lo aveva già
fatto sdraiare sul divano e aveva incominciato a slacciargli la camicia.
Nobunaga sentiva che c’era qualcosa di
sbagliato in quello che stavano facendo, ma la carezze di Shinichi non
riuscivano a dargli respiro e in breve si trovò ad ansimare pesantemente
sotto il peso del compagno.
<< Nobu, fai piano o ci scopriranno. >> ma in
quel momento Nobunaga non riusciva neppure a capire chi fosse, figuriamoci a
rendersi conto di dove fosse.
La porta dell’ufficio si spalancò di colpo,
facendo saltare in aria i due ragazzi, coscienti ormai di dove fossero. Per
fortuna loro era Jin e non il Comandante. Shinichi rimase fermo, per nulla
imbarazzato. Nobunaga ci mise un po’ più di tempo per capire cosa fosse
accaduto.
“Ricapitoliamo: io vengo qui a far valere le
mie ragioni. Shinichi mi dice che Sakuragi era più adatto e poi? Vuoto. Come
diavolo ho fatto a finire sdraiato sul divano e senza camicia?”
<< Ehm ragazzi… avete ancora intenzione di
restare così? >> ghignò Soichiro.
Nobunaga, imbarazzato, spostò la mano di
Shinichi ancora sul suo petto e si alzò in fretta, scostandosi dal ragazzo
più grande che sorrise divertito. Si rimise, con altrettanta velocità, la
camicia e puntò il dito verso il koi. Nel frattempo Jin, per godersi a pieno
lo spettacolo della sfuriata della super matricola, come veniva ormai e
ancora chiamato Nobunaga, chiuse la porta e si sedette sullo stesso divano
che aveva visto Nobunaga capitolare fra le braccia esperte del capitano.
<< Tu! Sei… sei… >>
<< Sono cosa, tesoro? >> disse in tono
divertito l’altro ragazzo mentre si rassettava il vestito.
Il compagno riusciva a fargli perdere la
testa. Il solo guardarlo lo faceva impazzire e non era riuscito a resistere
alla tentazione di baciarlo in ufficio, anche se poi, a dire il vero, si era
spinto un po’ oltre.
Lanciò un’occhiata veloce al compagno che
ricambiava lo sguardo furente e al tranquillo Jin, che, dall’incontro con lo
Shohoku non sembrava più lo stesso. Quella vecchia storia faceva ancora
male.
Nobunaga decise di lasciar perdere. Se avesse
continuato avrebbe iniziato ad urlare, come suo solito, attirando
l’attenzione dei compagni. Afferrò con forza la maniglia, ma ritirò la mano.
Prese per il colletto il ragazzo e lo baciò con violenza.
<< La prossima volta vengo a parlarti con le
guardie del corpo! >> e se ne uscì.
Jin e Maki scoppiarono a ridere e dopo tanto
tempo, finalmente Soichiro si sentiva meglio.
<< Scusa per prima Maki, se avessi saputo non
sarei entrato. >>
Maki si sedette sulla poltrona dietro la
grande scrivania in vetro e arrossì ricordando come avevano utilizzato una
volta, lui e Nobu, quella stessa scrivania.
<< Non hai niente da scusarti, anzi ti devo
ringraziare. Il fatto è che quando sto con Nobu perdo completamente la
testa. Se fosse entrato Takato non oso pensare cosa sarebbe accaduto. >> si
sistemò la cravatta: << Tutto ok Soi-chan? >>
Il ragazzo snello sorrise e annuì. Non era
vero e sapeva che non poteva ingannare i suoi due amici, ma per adesso non
se la sentiva di parlare.
<< Quando vuoi io e Nobu sapremo ascoltarti.
>>
<< L’importante è che bussi prima, giusto? >>
e ricominciarono a ridere.
Un rumore pesante e sordo si diffuse per tutta
la stanza buia. Minami, il braccio destro di Faccia d’Angelo, attese
fremente una risposta che non venne. Rimase un altro po’ dietro la lunga
porta bianca e poi ritornò al quartier generale.
Nella stanza in penombra una longilinea figura
sorseggiava con lentezza un bicchiere di vino rosso sul suo letto. La pelle
chiara quasi risplendente, il sorriso appena accennato facevano di questa
figura efebica un angelo. Il capelli neri scendevano sulla fronte.
<< Finalmente il gioco ricomincia. Presto…
molto presto… >>
<< Signor Fujima, la squadra speciale si sta
muovendo. Il nostro uomo c’informa che le tre grandi squadre investigative
della prefettura di Kanagawa stanno collaborando insieme. >>
<< Tutto va come previsto. Hai mandato un
messaggero alla base di Rukawa? >>
<< Sì. >>
<< Bene. Ora puoi andare Hanagata. >>
Il gigante dello Shoyo lasciò subito la
stanza. Fujima, l’angelo vendicatore dello Shoyo, accarezzò la testa del suo
fidato cane, accucciato ai suoi piedi.
<< Hiroaki… >> sospirò: << Come ti dissi
quella notte: presto ci rivedremo… >>
FINE QUARTO CAPITOLO
Autrice con le lacrime agli occhi: l’ho finita
finalmente!
Hana e Ede controllano il capitolo: e noi?
Dove saremmo? Siamo noi i personaggi principali!
Autrice indica la parte iniziale e quella
finale: ma siete lì!
Ede: ma non siamo insieme! Che intenzioni hai?
è_____é
Autrice: tranqui Ede! E poi chi dovrebbe
lamentarsi è Hiroaki e non voi!
Hiro: appunto! Come hai potuto solamente
pensare di scrivere un’amenità del genere?
Autrice: ma ancora non ho scritto nulla! *_*
Akira: Autrice! Stai attenta a quello che
scrivi! Il mio Hiro è solo mio!
Autrice: ora basta! Chi è che scrive?
Tutti: tu purtroppo!
Autrice: ora basta! Tutti fuori da casa mia! –
chiude la porta a chiave- Bene ora posso dedicarmi al mio divertimento
preferito: torturare i personaggi di SD!
Declaimers: come sempre i personaggi non sono
miei. Lo so che è una cosa trita e ritrita, ma fate finta di leggerlo
comunque. So che questo capitolo è uscito un po’ confusionario, ma vi chiedo
di pazientare. Se siete arrivati fino a questo punto della storia e non
sapete se continuare a leggere o meno, vi consiglio di non perdervi i
prossimi capitoli…. – pensando ai personaggi di SD- ne vedrete delle belle!
Bwuahahahaha!
Tutti: qualcuno le tolga da sotto mano la
tastiera del Pc, vi preghiamo!
Ps: poiché non mi intendo bene di pistole, non
è che qualcuno saprebbe darmi qualche informazione? Grazie!
ALLA PROX!
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