Disclaimers: Se i personaggi di Tekken
appartenessero a noi, ora nn saremmo qui ^_^
Tutti i diritti su Hwoarie, Jin & Company sono della Namco Corporation.
Però Seyala, Kylie e varie ed eventuali comparse nella storia sono tutte
nostre!
Note: Godetevi questa parte, e mi scuso se potrà sembrare parecchio romanzata,
ma sono fatta così!!!!! (NdA14)
Tutti i
miei sbagli capitolo
II
di Akira14
& Miyuki
Seyala Milton si svegliò tardi, quella mattina, come d'abitudine.
A nulla serviva che mettesse la sveglia alle sette e mezza.
Il suo orologio biologico aveva deciso che doveva alzarsi non prima delle
otto e mezza.
Questo era un bel problema, giacché la scuola si trovava in pratica
dall'altra parte della città, e con tutta la buona volontà del mondo non
sarebbe riuscita ad arrivare prima delle dieci.
Ormai aveva fatto morire i nonni svariate volte, e ritrovato tutti i
parenti sparsi per il mondo.
Oggi serviva una scusa con i fiocchi.
Qualcosa d'irreale perché non finisse per crederci anche lei, ma non così
fuori della grazia di Dio da essere riconosciuta, appena pronunciata, come
la balla del secolo.
Indosso la sua divisa, svogliatamente.
Tra le tante cose che odiava della sua maledettissima scuola privata, era
che le negava il diritto di vestirsi come gli pareva.
Beh, oltre a vietare di fumare, come tutte le scuole, e di incontrare
ragazzi durante la pausa pranzo.
Quella era una vera tortura, visto che dopo una mattinata passata con un
gruppo di dementi che in venti non arrivavano nemmeno a formare il
cervello di un babbuino e non facevano altro che parlare di trucchi,
vestiti e ragazzi; era naturale che aspirasse a parlare di qualcosa di più
serio.
Tipo motociclette, basket, football e dei suoi adorati New York Yankees.
Sua madre non si era mai fatta una ragione che fosse una ragazza così
poco femminile.
D'altronde, la colpa era da attribuire anche a lei, per una certa parte.
Forse se fin da quando era piccola non l'avesse trattata come una bambola,
alla quale cambiare i vestitini a piacimento, come se lei non avesse avuto
una sua volontà..Allora non sarebbe diventata il maschiaccio che era.
Magari sua madre avrebbe potuto lasciare di sé un buon ricordo!
Invece Sey la ricordava come una ferocissima dittatrice.
"Sii più femminile.", "Tieni quella schiena dritta."
oppure il più classico "Ma dico io, cosa ho fatto per avere una
figlia del genere!"..
Erano le uniche frasi che sua madre si scomodava a dirle.
Cercare di accontentarla era impossibile!
Quello che faceva non era mai giusto.
Se si comportava in un certo modo, state certi che sua madre pretendeva
l'esatto contrario.
Nei suoi occhi si vedeva sempre come il più commiserabile essere sulla
faccia della terra.
Non ricordava di aver visto un sorriso sulle labbra di sua madre, da
quando erano diventati ricchi.
Lei aveva ricevuto i soldi dell'assicurazione, quelli che aspettava da
tempo.Li aspettava addirittura da prima che lei Seyala nascesse, visto che
erano quelli sull'assicurazione sulla vita di suo marito e suo figlio.
Suo figlio.Quando aveva sentito sua madre annunciare all'agente
dell'assicurazione la morte delle due persone che, in teoria, dovrebbe
aver amato più di se stessa con lo stesso pathos con cui lei leggeva il
testo di un'equazione, si era messa a piangere.
Non sapeva perché, ma piangeva inconsolabile.
Forse.Forse perché, piccola com'era le sembrava impossibile di aver perso
un fratello ancora prima di averlo conosciuto.
E lei, la sua mamma, sembrava così apatica.
Magari non si era mai ripresa da quella perdita, e per questo riusciva ad
essere amabile solo quando parlava del suo paese natale, la Corea.
Quando si metteva a raccontare la sua adolescenza a Seul, le
s'illuminavano quei suoi splendidi occhi azzurri (che lei aveva avuto la
fortuna di ereditare) e anche se questi aneddoti facevano sempre parte di
una predica, Seyala non si era mai sentita di interrompere quei rari
momenti idilliaci.Quando sua madre si comportava quasi come una sorella
con lei.
Se solo non fosse stata una figlia unica.Se solo suo fratello non fosse
venuto a mancare così presto.Magari la Signora Milton non sarebbe stata
un'arpia.
Forse non l'avrebbe trattata come facevano tutti.
Lei per gli altri non era Seyala.
Era la Signorina Milton.
La figlia di un'avvocatessa di successo, venuta a mancare precocemente e
di uno dei primari più in vista del Montefiore Hospital, manco a dirlo
uno dei più importanti di New York.
L'incidente di sua madre era stato uno dei momenti più tristi della sua
vita.
Anche se non avevano mai fatto altro che litigare, le voleva bene.
E sapeva di essere ricambiata.
Avrebbe solo che lei glielo avesse detto, per una volta.
Avrebbe voluto sentire la sua voce dirle "Ti voglio bene, bambina
mia."
Ed invece, se n'era andata quando lei aveva solo undici anni.
Incredibile a dirsi, ma anche le sue sgridate servivano a qualcosa.
La facevano ancora più incaponire sulle sue posizioni, e la portavano a
dare il suo meglio per dimostrare che la sua strada era quella della
recitazione, quella che aveva scelto fin da quando era piccola.
Lei, invece, non n'era convinta.
La convinzione che sua figlia stesse facendo la scelta sbagliata, e si
stesse rovinando il futuro con le sue stesse mani la portavano a
contrastarla in ogni modo.
Seyala non aveva mai capito da cosa derivasse l'ossessione che sua madre
aveva per i soldi.
Lei la chiamava parsimonia, ma in verità era avarizia bella e buona!
Da quando era morta, Seyala aveva continuato per la sua strada, ma le era
venuta a mancare un qualcosa che non sapeva definire bene.
Qualcosa che le impediva di mostrare tutto il suo talento.
La speranza di poter entrare all'Accademia delle Arti, l'unico modo per
arrivare a Brodway con le sue gambe, sembrava ogni giorno affievolirsi
sempre più.
Solo un evento l'aveva scossa più di quella notte maledetta.
Il crollo delle Twin Tower, dopotutto, era incomparabile con qualsiasi
cosa le fosse mai successa, e potesse mai succederle in futuro.
Non che ci fosse qualcuno che conoscesse.
Però, ogni volta che passava a Ground Zero, in lei si rinnovava la
sensazione che la sua città fosse stata violata e si ravvivava in lei la
certezza che nessun posto fosse sicuro, nemmeno nei grandiosi Stati Uniti
d'America.
Sperava che quegli avvenimenti avessero riavvicinato tutti i newyorkesi.
Così era stato, ma solo per poche settimane, prima che ognuno ritornasse
alla vita di sempre nella quale regnava la legge del più forte, e
l'egoismo era la virtù più apprezzata.
Dove la solitudine era l'unica compagna che aveva.
Gli amici che aveva creduto d'avere, si erano scoperti più interessati ai
guadagni di suo padre che a lei.
Anche i più fidati.
Le ragazze non le rivolgevano nemmeno la parola.
Siccome Seyala preferiva avere amicizie maschili, la vedevano come una
nemica.
Non era naturale, per loro, che una ragazza potesse essere in rapporti
puramente amichevoli con un individuo di sesso maschile, a prescindere
dall'età che avevano gli individui in questione.
Doveva esserci qualcosa sotto!
Seyala quindi era "la facile" per le ragazze, e "la
preziosa" per i ragazzi.
Tirò la spazzola nello specchio, frantumandolo.
Prese la cartella, e uscì senza nemmeno fare colazione.
Era troppo incazzata.
Quelli non volevano la sua amicizia? La sua sincera amicizia, priva di
qualsiasi secondo fine?
Che se n'andassero tutti a fanculo quei bastardi, quei figli di puttana.In
una parola: quei motherfucker di merda.
Poteva vivere tranquillamente anche senza di loro!
Persone che la snobbavano solo perché era ricca, solo perché era una
sedicenne che faceva kick-boxing, solo perché sognava di fare l'attrice.
No, grazie.
Non aveva bisogno di tali personificazioni della falsità.
Decise che quella mattina, la scusa ufficiale per il ritardo sarebbe stato
l'incontro con suo fratello.
Le dispiaceva dire una tale bugia, ma era per dimostrare agli altri e a se
stessa il suo talento.
Uscì di casa, camminando con malagrazia verso la metropolitana.
Avrebbe potuto farsi accompagnare dal suo autista, ma non voleva dare
troppo nell'occhio.
Correndo verso la fermata, urtò contro uno dei pazienti di suo padre, che
stava andando verso la sua villa per avere un consulto privato dal signor
Milton.
Ignorandolo completamente, continuò per la sua strada, mugugnando
qualcosa sugli stranieri che non sanno neanche dove mettono i piedi.
"Che maschiaccio! Degna sorella di Hwoarang." disse Eddy
con un sorriso.
_______________________
Jin Kazama, intanto, era arrivato all'aeroporto con ben due ore
d'anticipo.
Alle sette in punto.
Ignorava la ragione per la quale si trovava lì di primo mattino, visto
che si era ripromesso di non andare a quell'insulso appuntamento.
E adesso non sapeva neppure cosa fare per passare il tempo! (potresti
farti furbo ^^ NdA14 Senti da ke pulpito.NdJin)
Stava lì, solo come un cane, impalato come un cretino.Doveva dare proprio
un'ottima impressione!
Meno male, che in un momento come quello non c'era la sua nemesi, perché
avrebbe reso il tutto ancora più penoso.
Era alquanto ironico, no?
Che Hwoarang, il suo peggior nemico, fosse sempre presente nei suoi
momenti neri (anche se la sua sgradita presenza non migliorava certo la
situazione) quando tutti l'abbandonavano.
Gli lasciava l'amaro in bocca, a pensarci.
Inoltre, l'ambiente non era dei più accoglienti e la gente non era tutta
sorrisi come ti fanno credere nelle pubblicità auto- celebrative delle
compagnie aeree.(tra un po' crederai anke a quelle del Mulino Bianco.¬¬
NdA14)
Vicino a lui, c'era una vecchia intenzionata a raccontargli vita morte e
miracoli di tutta la sua famiglia e non solo..Quella del circondario, e
poi della cugina della zia dell'amica.. Purtroppo, sua madre gli aveva
insegnato ad essere gentile le persone anziane quindi stette lì a sentire
la vecchia chiacchierona dalla voce petulante.
La sala d'aspetto era riempito dalle urla isteriche di una signora di
mezza età, che si lamentava dell'inefficienza degli aeroporti
americani.In effetti, guardando il tabellone delle partenze, n'aveva tutte
le ragioni!
Molti voli erano stati ritardati da problemi tecnici, guasti agli aerei e
per altre varie ed eventuali complicazioni.
Se il buongiorno si vede dal mattino, quella sarebbe stata una pessima
giornata per tutti.
"Mi scusi signora." disse alla donna che, imperterrita,
continuava a massacrargli i timpani con la sua nocetta stridula.
Questa ci rimase un po' male, ma trovo subito un degno sostituto in un
distinto signore sulla cinquantina, che stranamente si adattò subito alla
situazione, e l'ascoltava quasi rapito.
Forse non sarebbe stato un giorno orribile per tutti, in fondo.
Jin sorrise e si diresse verso le vetrate del JFK Airport che davano sulla
baia di Hudson.
Sebbene il profilo della città risentisse della mancanza delle torri del
World Trade Center, il panorama che gli si offriva davanti agli occhi era
splendido.
Il sole che timidamente cercava di filtrare attraverso gli svettanti
grattacieli, la luce che scivolava leggera sulle loro vetrate spargesi
tutt'intorno.
Perfino Manatthan, il quartiere dove malauguratamente aveva trovato
dimora, con tutto il suo smog, il suo traffico e la sua costante fiumana
di gente, sembrava un paese tirato fuori da una favola.
I riflessi sull'Hudson, il fiume che placido scorreva tra Long Island e il
resto di New York.Magnifico.
Si chiese perché non aveva mai notato tutto questo.
Forse.Forse era perché era troppo occupato a detestarla.
Perso in questi ed altri pensieri, non si accorse della mano che si posava
sulla spalla, e quando sentì un "Hey Kazama!" fece un salto di
mezzo metro.
Si voltò, per capire chi fosse stato a toccargli la spalla.
Un paio di zeppe.
Una camicia arancione, con i risvolti viola.I primi tre bottoni aperti sul
torace muscoloso, evidenziavano l'enorme pendente d'oro che indossava.
Gli occhiali a goccia.
I labbroni carnosi.
Una massa disordinata di capelli, talmente strani da parere quasi una
parrucca.
"Tiger." mormorò, quasi timoroso che questi potesse scomparire
da un momento all'altro.
"Che ci fai qui, Kazama?" domandò, scortesemente, il
brasiliano.
Jin si risvegliò dai suoi pensieri, deciso a non farsi maltrattare ad
oltranza. "Ci vivo, sweetheart.Se intendi qui a New York. Se invece
la tua domanda era riferita a qui al JFK International Airport, sono qui
per affari, e tu?"
"Sto aspettando che Gordo si ricordi di venirmi a prendere. L'avevo
avvisato che sarei arrivato prima, ma a quanto pare se n'è dimenticato!
Dire che è stato lui ad invitarmi qui.Quell'uomo! Ha sempre la testa fra
le nuvole.Specie da quando si è preso una sbandata per quel tipo."
Quel tipo?
Jin Kazama non era mai stato un impiccione, e preferiva sempre starsene
per conto suo senza ficcare il naso negli affari degli altri.Ora però, la
curiosità, lo stuzzicava.Non aveva mai sentito il desiderio di farsi i
fatti di qualcun altro come in quel momento.
D'altronde, non succedeva tutti i giorni di sapere che Eddy Gordo, il
temibile ed implacabile maestro della Capoeira, faceva pazzie per amore!
E per un ragazzo, poi.
"Chi è il fortunato a cui spetteranno le attenzioni di Eddy,
eh?" chiese non curandosi di sembrare invadente.
"Non posso dirtelo. D'altronde non sono cazzi tuoi e io ho parlato
fin troppo. Nessun altro deve sapere quali sono i veri intenti di Gordo,
nascosti dietro la sua esibizione di Capoeira qui a NYC.
Avrà già una delusione quando riceverà il primo due di picche della sua
vita, e penso che non ci sia bisogno che ne nasca il gossip del secolo!
Beh.In fondo non lo posso biasimare! Quel ragazzo è bello come un dio
greco, più inavvicinabile di un miraggio, e poi è così sfuggente.
L'errore di Eddy, però, e che pensa di poterlo comprare con le sue
ricchezze.
Non ha fatto i conti con il suo orgoglio, granitico a dir poco.
Figurarsi se un tipo del genere.E' una partita persa in partenza!"
Kazama non poteva che sentirsi solidale con entrambi, sia con Eddy sia con
il misterioso ragazzo di cui era innamorato.
Si era innamorato raramente, però aveva sperimentato fin troppo
approfonditamente la cocente sensazione di essere rifiutato. Il doversi
arrendere al fatto che dimenticare la persona che ami è la cosa migliore,
e il vuoto che ti lascia nel cuore l'averla persa senza nemmeno esserle
potuto stare vicino e la certezza di aver mancato l'occasione della
nostra vita. (io e te siamo esperti, vero Hana ;_ ; NdA14 Già.NdH)
D'altronde, sperare di poter corrompere i sentimenti di qualcuno.
Primo: era impossibile, poiché test scientifici hanno dimostrato che
l'amore è completamente irrazionale. Secondo: era anche immorale, ed
alquanto ipocrita, sperare di fare innamorare qualcuno con quei mezzi!
Sarebbe riuscito solo a farsi odiare.
Jin, però fu distratto da un flash nei suoi pensieri.
Ripensò alle parole di Tiger, alla descrizione di quella persona che
aveva fatto perdere la testa ad Eddy.
Ed inconsciamente, davanti ai suoi occhi era apparsa l'immagine di
Hwoarang.
Perché?
PERCHÉ????(ho come l'impressione che tu sia un cretino.¬¬ NdA14)
Forse perché pensava che il suo peggior nemico non meritasse l'amore di
nessuno?
Cosicché provasse sulla sua pelle cosa significava essere soli in balia
del mondo esterno, freddo ed indifferente?
Sì, doveva essere per forza così. (ora ne ho la conferma ¬¬ NdA14)
Non era gelosia, né invidia nei confronti del Blood Talon.
Aveva forse qualche ragione di provare tali emozioni?
No.
Quindi era meglio bissare l'argomento, e farsi offrire la colazione, poiché
aveva con sé giusto i soldi per tornare indietro in taxi, e il suo
stomaco borbottava inquietante.
"Ti posso offrire un caffè Kazama? Hai l'aria un po' sbattuta,
stamattina."
Jin colse la palla al balzo, ed accetto con entusiasmo.
Gozzovigliando, la colazione si trasformò in un vero e proprio brunch.
Mangia tu che mangio anch'io, si erano spazzolati sette brioches, cinque
croissant e due piadine.
Inoltre si erano messi a chiacchierare del più e del meno, di quello che
avevano fatto in quei tre anni, dei loro metodi di allenamento e via
dicendo, e non si erano accorti del passare del tempo.
Quando, del tutto casualmente, la coda dell'occhio di Kazama si posò
sull'orologio, erano ormai nove meno dieci.
Siccome ormai era lì, l'ultima cosa che voleva era che quei criminali se
n'andassero senza che lui li avesse visti.
"Scusa, Tiger, il mio gancio è tra dieci minuti. Se lo perdo,
tutti i miei piani andranno in fumo." Annunciò, alzandosi
frettolosamente dal tavolo, mentre il brasiliano lo guardava confuso.
Si grattò la testa, scompigliando la folta zazzera nera che aveva come
capigliatura, poi si mise a giocare con le due ciocche che gli scendevano
davanti agli occhi. Era nervoso.
Sperava che il suo amico si sarebbe offerto di accompagnarlo, ma ora non
era più così sicuro che Tiger avesse voglia di venire con lui.
"Vengo con te, se non ti spiace. Tanto se non faccio un giro
dell'aeroporto, non potrò mai sapere se Eddy si è degnato di venirmi a
prendere o no." disse pacato Tiger.
"You're welcome." Rispose Jin, tirando un sospiro di sollievo.
Forse, ora che c'era anche lui, poteva attaccare direttamente quei
delinquenti e liberarsene definitivamente, ancor prima che loro potessero
studiare la persona con cui avevano a che fare.
Si diressero verso il Gate 17, quello da cui sarebbero arrivati gli uomini
con cui il giapponese aveva il dispiacere di avere a che fare.
Una volta lì, si sedettero sulle scomodissime sedie di plastica della
sala d'aspetto, e attesero che fosse annunciato il volo a cui erano
interessati.
"Volo 12568, proveniente da Chicago, è in arrivo al Gate 17."
Gracchiò una rauca vocetta all'altoparlante.
Jin Kazama aspettò che aprissero le porte del Gate, per scorgere i suoi
nemici.
Cambiò posto, scegliendone uno più prossimo all'uscita, in modo da
poterli osservare con nonchalance anche da lontano.
Le hostess cominciarono a far scendere i passeggeri.
Non sapeva perché, ma li vide subito, come se avessero un segno di
riconoscimento addosso.
Invece, erano tali e quali agli altri.
L'unica cosa che poteva distinguerli, forse, era che parlavano fitto tra
di loro, ma questa non era una ragione sufficiente per etichettarli come
criminali.
C'era però un qualcosa in loro.Come un'aura malefica.
Erano in sei, di cui un messicano e due uomini di colore. Ad accoglierli,
altri cinque uomini, tra cui ne spiccavano due, all'apparenza distinti
uomini d'affari newyorkesi.Avevano il volto pulito, l'aria beffarda di chi
è sempre riuscito a cavarsela nella vita truffando gli altri sotto gli
occhi della legge.
Fisicamente, non c'era nessuno che lo superasse.Ma c'era da scommettere
che sotto quei vestiti di classe, ci fosse un'armeria a dir poco.
Alcuni di loro erano molto giovani, forse addirittura sui diciassette
anni.
Vedendoli così, di primo acchito, nessuno avrebbe sospettato che razza di
feccia erano in realtà.
Jin però, era abituato ad aver a che fare con gente di questa levatura
fin da quando era in fasce. Quindi lo sentiva sottopelle se si trovava
davanti ad un poco di buono.
Era alquanto sorpreso.
Non si aspettava di trovare il comitato di benvenuto, ed invece si era
ritrovato con più persone di quante si aspettasse.
Fossero stati due o tre, non avrebbe esitato ad attaccarli a mani nude.
Invece, erano tanti.Troppi.
Aggredendoli, ci avrebbe di certo rimesso la pelle.Ed avrebbe anche messo
a rischio la vita di Tiger.Per non parlare degli ignari passanti che si
trovavano lì attorno.
No, non poteva rischiare.
E non doveva nemmeno farsi vedere.
Doveva andarsene.
Certamente, se quelli erano venuti con l'intenzione di dare una mano ai
loro compari per farlo fuori, stare lì a fare il bersaglio umano,
non era certo una trovata geniale.
Si alzò, tranquillamente, parlando con Tiger di Dio solo sapeva cosa;
mentre l'altro gli mandava occhiate interrogative, in un primo momento,
poi, capita l'antifona stette al gioco.
Uno di loro, dei criminali, alzò gli occhi.
Freddi cristalli azzurrissimi, ma dai quali traspariva una tale crudeltà
che ti si raggelava il sangue.
Jin, sebbene avesse affrontato mostri come Ogre e demoni come suo padre,
sentì un brivido corrergli lungo tutta la colonna vertebrale.
Che si fosse accorto di lui?
Se fosse stato così, poteva anche scrivere il suo testamento, perché
aveva ben poche possibilità di uscir vivo da una sparatoria.E poi non
sopportava l'idea che qualche innocente dovesse perdere la vita a causa
sua.
E sarebbe successo senz'altro, se si fosse messo a sparare lì, in mezzo
alla folla.
Per alcuni attimi, gli parve che tutto andasse al rallentatore.I suoni gli
giungevano attutiti alle orecchie, ed era certo che di lì a poco avrebbe
visto passargli davanti agli occhi tutta la sua vita.
Però, poco a poco si accorse che non era lui l'oggetto di quell'intenso
sguardo.
Infatti, esso, guardava qualcosa che si trovava alle spalle del moro.
Gli era parso di essere osservato, solo perché si trovava nel campo
visivo di quell'uomo.
Si voltò distrattamente, per non insospettire nessuno.
Voleva vedere chi poteva aver attirato l'attenzione di quella gente senza
scrupoli.
Per poco non gli venne un infarto.
Era un ragazzo, della sua stessa età.
I capelli erano rossi, di media lunghezza.Si notava che li aveva tagliati
da quando si erano visti l'ultima volta, ma stavano ricrescendo
velocemente.
Le labbra erano chiuse nella sua perenne espressione arrogante.
Gli occhi, erano caldi e avvolgenti.Ti potevi quasi perdere nel guardarli,
eppure ti facevano sentire protetto.
Quel ragazzo era.
Hwoarang.
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