DEDICHE: A tutti coloro che hanno perso qualcuno e ogni giorno si sforzano al massimo per essere una persona di cui quel qualcuno possa essere orgoglioso. DISCLAIMERS: i personaggi sono di Takehiko Inoue, le idee malsane solo mie e la canzone che mi ha ispirato è “Tu fotografia” di Gloria Estefan. NOTE 01: tra gli asterischi i flash back, in corsivo il testo delle canzoni/poesie, i cambi di POV sono segnalati...tutto come sempre insomma! NOTE 02: come sempre è tutto buttato a caso, non cercate riferimenti né temporali né di luogo né di nessun altro tipo!!! NOTE 03: visto che oggi mi sento buona...lieto fine per tutti!!!! FORSE… Marty Tu fotografia di Marty
Quando mi sveglio, cerco la tua fotografia. Sempre. È la prima cosa che voglio vedere quando apro gli occhi, il raggio di luce che illumina il tuo sguardo. Certo, il colore ormai inizia a sbiadire, e il tuo sorriso caldo non si vede quasi più, ma nonostante tutto sfumi e diventi confuso, posso comunque trovarti nei miei ricordi e nel mio cuore. Da lì non te ne sei mai andato. Col tempo non si può scendere a patti, questo lo so bene, così come non ci si può aspettare pietà e comprensione dal dolore e dall’oblio. Sto cominciando a dimenticare i dettagli, come il profumo del toast con prosciutto e formaggio che mi facevi per colazione quando la sera mi avevi mandato a letto senza cena, perché ti sentivi in colpa. O il rombo del motore della tua macchina quando tornavi a casa dal lavoro. O ancora, la tua voce un po’ stentorea quando cantavi sotto la doccia. Ma ogni volta che mi sembra di sentirti sbiadire dentro di me, so che mi basterà salire in camera ed andare in quell’angolo, sulla mensola di vetro verde, dove la tua foto continuerà a sorridermi. Passano i giorni, ed io ti penso e continuo a guardarti. Entro nella tua stanza un momento. Tutto è al suo posto, non ho toccato niente da quando te ne sei andato, come se avessi paura che tornando potresti sentirti perso se alterassi il ricordo che hai di questa casa. Il passato è stato ormai sostituito dal presente, io continuo la mia vita, non mi fermo a pensare a quello che non c’è più… Passo un dito sulla tua scrivania di noce scuro e lo ritraggo coperto di polvere. Maledizione, non è giusto! Cado in ginocchio, intrecciando quel dito con le altre mentre prego, non so chi, non so per cosa… Vorrei solo averti qui con me, al mio fianco, vedere gli anni cambiare la curva della tua schiena e i tuoi capelli imbiancarsi, la tua andatura farsi un po’ più lenta e faticosa e la pelle più trasparente. Io sto cambiando, lo sai, papà? Sono alto un metro e 87 adesso, e ho aumentato la mia massa muscolare. Gioco a basket. E non lo faccio solo per diletto, mi sono davvero appassionato a questo sport. È diventato importante, per me. Mi alzo, e dopo aver scosso via la polvere dai pantaloni esco dalla tua stanza per tornare nella mia. Siedo sul letto. La tua foto è sempre nello stesso posto, non l’ho mai mossa in questi anni. Mi sdraio e chiudo gli occhi. A volte mi sembra di sentire la tua voce…ma se mi parli da dove sei, papà, avvisami per tempo. Altrimenti non riuscirò a sentirti, e non saprò controllare queste lacrime capricciose che non capiscono di essere fuori posto sul volto di un uomo. La sveglia che suona, mi ricorda che è di nuovo mattina. Apro gli occhi e cerco la tua fotografia. Ogni giorno cerco di ricordare un tuo gesto, movimento, sguardo, per non perderli. E anche se ormai sulla carta patinata il bianco ed il nero sono quasi una macchia informe, non mi scoraggio e li ricreo con la mia immaginazione. Ne ho sempre avuta tanta lo sai. E poi se è ridotta così è anche perché dopo la tua morte ci ho pianto tanto sopra, fino a rovinarla…mi illudevo di averti vicino, così. Apro la porta finestra ed esco in giardino, inspirando l’aria fresca dell’alba, per poi tuffare il naso in un’aiuola di asfodeli appena sbocciati in un tripudio di colori e ritrovarmelo bagnato di rugiada. Rido piano. Mi manchi ancora di più in questi momenti, tu avresti diviso con me la gioia dell’arrivo della primavera e ci saremmo lasciati alle spalle l’inverno freddo e crudele con una bella passeggiata. Anche se ora sono solo, e non ho più le tue dita grosse e forti a scompigliarmi i capelli. Ma ci pensa la brezza frizzante di marzo a farlo. E allora penso che magari potrei farla lo stesso, quella passeggiata. Esco dal cancello camminando di buon passo, guardandomi intorno come se mi avventurassi nel mondo per la prima volta. Vedo tutto nuovo e sorprendente, intorno a me. Una vecchietta sta lavando il lastricato del suo cortile gettando dell’acqua con un grosso cucchiaio di legno. Le sorrido e lei mi saluta con la mano. Avrei voluto vederti invecchiare, papà. Gli uccellini cinguettano in sordina, sono felici: il sole è pallido ma oggi scalderà di più. Lo sentono come lo sento io. Fluttuo in un’enorme foto, rivedendoci insieme in ogni lato di questa strada. Al ritorno da scuola, mentre andavamo al parco, il nostro ristorante preferito, il negozio dove mi compravi i regali di natale... In realtà questo quartiere è un po’ come il nostro album di famiglia, che potrò rivedere quante volte vorrò senza rischiare che si rovini. Mi pare che da queste parti ci sia un market. Beh, magari mi prendo un po’ di latte, ho voglia di fare colazione, stamattina, prima di andare ad allenarmi. Poi all’improvviso una voce. La TUA voce. Cosa ho detto ieri? Se mi vuoi parlare…ti prego…avvisami per tempo! Inizio a correre, seguendo il filo di quella voce. Mi sembra che venisse da questa parte… Sì, dietro quell’angol…SBONK! Cado a terra. Sono andato a sbattere violentemente contro qualcuno. Giudicando dalla violenza dell’impatto devo anche avergli fatto male. “Ehi, tutto be…Rukawa?!” constato sbigottito. Perché la persona a terra di fronte a me è proprio Rukawa, la kitsune, il congelatore su due gambe…insomma, il mio compagno di squadra che è poi anche il mio più acerrimo rivale. Ma stamattina non ho voglia di litigare. Così gli tendo la mano per aiutarlo a rialzarsi. Mi guarda con sospetto, ma poi la accetta e si puntella per rimettersi in piedi. Si batte sui pantaloni. “Mi dispiace, Rukawa, ero distratto. Stai bene?” “Hn” risponde lui, laconico come sempre. Ma sembra aver capito che non era una manovra per eliminare pericoloso nemico, o una manovra diversiva o che so io. Poi si china e mi dà le spalle, per raccogliere il contenuto delle sue buste sparso dappertutto. “Vuoi una mano?” chiedo, mettendomi poi accanto a lui senza aspettare la risposta. Quando le buste sono ricomposte, fa due passi per allontanarsi, ma vedo che zoppica leggermente. Evidentemente cadendo ha preso una storta. “Dammi, ci penso io” mi offro, e gli tolgo due buste dalle mani, avviandomi poi nella direzione che aveva preso. “Do’hao…non credi che per andare a casa mia forse dovresti seguire ME?” Mi volto con gli occhi che mandano lampi, ma la sua espressione mi calma immediatamente. Sembra tranquillo, divertito, sereno. Così mi limito a sbuffare e a raggiungerlo. Camminando lentamente, raggiungiamo la sua villetta bianca. Una bella casa, non c’è che dire. Lo seguo fino alla porta, poi una volta apertala mi fa cenno di entrare. Appoggio le buste sul tavolo della cucina. “Beh, io vado allora” dico a mo’ di commiato. Proprio quando gli ho già voltato le spalle, una voce. La voce che avevo sentito prima. “Se ti va resta, possiamo fare colazione insieme e poi magari andare al campetto a fare due tiri…non ho più nessun fastidio alla caviglia…” Lo guardo un istante, sorpreso e commosso. La volpe quando parla così ha la stessa voce di mio padre. “D’accordo, Rukawa” accetto quindi sedendomi al tavolo “purché tu sappia cucinare!” “Do’hao” sbotta lui punto sul vivo. Io sorrido. Papà… In questo momento… Mi sembra di averti qui.
OWARI
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