Disclaimer:la solita solfa: Hana e Ru non sono miei. Veramente io penso che Ru un po’ mio lo sia, ma è una storia lunga, e una follia personale :D . Cmq non ci guadagno niente e bla bla bla.

 


Tifone

di ZZZ


Il cielo quella mattina aveva un colore che non se lo riusciva a spiegare.

Hanamichi Sakuragi guarda in alto, camminando verso la scuola, e osserva quello strano grigio cupo, quel cielo di piombo, elettrico, fa quasi paura. Fa a piedi la strada che lo separa dalla scuola, come tutte le mattine, entra, si cambia le scarpe. Silenzio irreale in giro. Il cortile vuoto, alle scarpiere nessuno, nessuno per i corridoi. Si chiede se non è per caso andato a scuola di domenica: ma no, si dice, domenica è stata l’atro ieri. Non è che è vacanza per l’anniversario della fondazione dell’istituto? Cerca un calendario, lo trova: no, è un normalissimo giorno feriale.

Sale le scale, arriva nella sua classe, che è quasi completamente buia. Fa per accendere la luce, ma appena la sua mano si appoggia sull’interruttore, si sente afferrare da un’altra mano, freddissima, forte. Si volta, per cercare di scorgere chi ne è il proprietario. Vede una sagoma nera sulla porta, familiare, facilmente distinguibile. Riesce a vedere le lame degli occhi di quella figura, che lo fissano, sottili, sembrano uno squarcio di tenebra nella tenebra. Inavvertitamente socchiude i suoi. Sembrano due gatti che combattono guardandosi negli occhi. Hana sa che il primo che li distoglie, tra i gatti, ha perso.

Anche Rukawa lo sa.

E restano a fissarsi per qualche istante interminabile.

Hanamichi cerca di rendere la sua voce più normale possibile, quando gli chiede “come mai non c’è nessuno oggi a scuola?” Ma non ottiene risposta. Rukawa si limita a piegargli il braccio dietro la schiena. Se non si muove, Hanamichi non sente dolore; ma sa di essere completamente bloccato, incatenato al corpo del suo acerrimo nemico. Può sentire il suo respiro solleticargli la faccia. Gli arriva esattamente sulla bocca, inavvertitamente si lecca le labbra. Kaede stacca finalmente gli occhi dal posto che si erano scavati dentro gli occhi di Hana, e li fissa sulla sua bocca, mentre il suo respiro si fa più lento, forzato, pesante. Hanamichi ne percepisce il ritmo, il suono, se ne sente toccare.

Non capisce.

Ha paura.

Non saprebbe spiegare perché, sa di essere più forte della volpe. Ma quell’atmosfera, quel cielo, quegli occhi, tutto ha qualcosa di spettrale. Non vuole stare solo con lui in quella stanza buia. Ha paura.

Cerca di divincolarsi, lentamente. Kaede torna a guardarlo dentro gli occhi, e le sue mani lo stringono di più, e il suo corpo lo comincia a spingere lungo lo spazio tra i banchi, fino a farlo appoggiare contro il muro.

“Che vuoi fare, Kitsune?”

Non vorrebbe che gli tremasse la voce, odia mostrare a Rukawa la sua voce che trema, la sua paura, vorrebbe scappare, ma è come ipnotizzato. Gli occhi della volpe sono irresistibili, lo legano più stretto delle sue braccia, che pure stringono forte, molto forte.

Rukawa adesso è in piedi di fronte a lui, gli tiene i polsi con una mano, schiacciati tra il muro e la sua schiena, e con la mano libera si scosta i capelli dalla fronte, un movimento che Hana non gli aveva mai visto fare prima. Un movimento che nel suo essere insignificante lo sconcerta. Osserva il contrasto tra le dita bianchissime e i capelli neri. Un brivido, quasi impercettibile, lo scuote: guardare quel gesto gli fa immaginare di sentirsi addosso quella mano. Fredda, sottile. Metallica. Hana è certo che deve fare un male cane, quella mano, il freddo di quella mano, il freddo dell’anima di chi possiede quella mano, quando ti tocca. Che non tocca mai nessuno per questo: ferirebbe, sfiorando soltanto.

Eppure…

Quando quella stessa, bellissima mano pallida si avvicina, lui non rifugge il contatto. Ha ancora paura da morire, eppure non si allontana, col fiato sospeso aspetta quella che dalla lentezza del movimento della mano di Rukawa ha tutta l’aria di essere una carezza.

E si stupisce quando non gli fa male; anzi, una sensazione come di tornare a casa, quando se ne sente toccare. La guancia, la nuca, il collo, le spalle, sentendosela infilare sotto la maglietta, lungo il fianco del torace e poi sulla schiena, con una lentezza esasperante.

Quel freddo non lo infastidisce. Non si sente tagliare la pelle. Continua a guardarlo negli occhi, cercando di percepirvi un’emozione. Ascolta il movimento delle sue dita alla scoperta della sua pelle, cercando di indovinarne la ragione, e sebbene non ci legga nessuna dolcezza, nessun calore, non riesce più ad avere paura. Inavvertitamente, sorride.

Con la faccia a un centimetro dalla faccia del suo odiato Kaede Rukawa, stretto al suo corpo in una scuola deserta e buia, sotto un cielo da oltretomba, sentendosi mani da assassino sul corpo, Hanamichi decide che la cosa più saggia da fare è sorridere. Si rende conto della follia assoluta di quel sorriso, e questo pensiero lo fa sorridere ancora.

Rukawa continua a guardarlo. Con un volto incomprensibile.

La sua mano sta seguendo le linee degli addominali di Hana. La sua faccia è vicinissima. Hanamichi non riesce quasi più a guardarlo, tanto è vicino al suo viso.

Il dorso della mano di Rukawa si appoggia sullo stomaco di Hanamichi, e inizia a scendere, lento.

Arriva all’abbottonatura dei pantaloni.

Il movimento con cui slaccia il bottone sembra durare mille anni. Quello con cui infila la mano dentro, anche di più.

Hanamichi respira nella bocca di Rukawa, sente respirare lui nella sua.

Sente le dita di Rukawa che si serrano intorno alla punta del suo sesso. Chiude gli occhi.

 

-AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!!

Tonf tonf tonf

-Hanamichi! Ti devi dare una calmata! Non puoi svegliarmi così tutte le sante mattine! Che diavolo è che ti sogni ogni giorno? Vai da uno psicologo, fai qualcosa, ma figlio mio hai una voce che fa crollare i muri, qui i vicini ci denunciano! Ormai dura da quasi un mese!

Hana guarda sua madre, impietrito, sudato, e (per fortuna che questo sua madre non lo può vedere) eccitatissimo.

Farfuglia qualcosa, poi sente di nuovo il rumore dei passi di sua madre che si allontanano giù per la scala.

Si rituffa indietro sul cuscino. Allunga la mano, constata le innegabili reazioni del suo apparato genitale a quell’ORRIBILE INCUBO che lo perseguita da un innumerevole numero di giorni a questa parte. Inizia quasi ad accarezzarsi, poi sgrana gli occhi, tira via la mano, si dice “piuttosto che farlo per aver sognato Rukawa mi faccio tagliare la mano!!!” e corre ad infilarsi sotto una doccia ghiacciata.

Si veste, di pessimo umore, e si avvia verso la scuola.

Arrivato a scuola, naturalmente la prima persona che incrocia chi è, se non il suddetto Rukawa?

Si guardano una frazione di secondo. Kaede lo ignora come al solito. Ma non arriva il consueto grugnito di Hana. In effetti se ne sono accorti tutti, da un po’ Hana non lo provoca nemmeno più, il suo detestato nemico. Non lo guarda neanche in faccia. Nessuno ha capito il perché.

Le prime volte che lo sognava, Hana non ci dava più di tanto peso. Si diceva, chissà che film mi sono visto, chissà che ricordo mi è rimasto impresso, mi è entrato nei sogni, e basta. Ma adesso la cosa si faceva pesante. Non poteva alzare le spalle e continuare a fare finta di niente. Non riusciva più neanche a guardarlo in faccia, il bastardissimo Kitsune. E mentre stava solo sul terrazzo della scuola a prendersi il vento in faccia per darsi una svegliata e fare un po’ di luce nella sua testa annebbiata in cui da un mese non riusciva ad azionare quel benedetto interruttore, dovette ammetterlo: non è perché lo odiasse più di prima, che non riusciva più ad avere assolutamente niente a che fare con lui. Non aveva, semplicemente, il coraggio. Si vergognava a morte di quei pensieri, anche se erano assolutamente involontari. Si chiedeva perché diamine gli stesse succedendo, era inevitabile che se lo chiedesse. E non riusciva a rispondersi.

Si vergognava soprattutto delle condizioni in cui si svegliava. Non era per la paura, che era sudato. E non era una normale erezione mattutina, quella che si ritrovava puntualmente tra le gambe. Era un sogno che lo eccitava da matti. “E se proprio siamo in vena di onestà”, pensava, “svegliarmi sempre in quel momento, sempre un istante prima di baciarlo, è anche abbastanza frustrante. Non lo riesco a guardare perché in fondo i suoi occhi sono quelli, e anche se l’espressione da animale selvatico, da demone, da angelo, da vampiro, che ha nel sogno, non gliel’ ho mai vista, di sicuro il taglio degli occhi è quello. Ed è attraente, checcazzo. Attraente da pazzi.”

Dopo quasi un mese di stare lì sul terrazzo a passare tutte le pause pranzo ad arrotolare il cervello intorno a questo maledetto sogno, Hana era giunto ad una conclusione, per quanto insopportabile: c’era un solo modo per capire quanto di quello erano paranoie gratuite e quanto invece era qualcosa di cui preoccuparsi: avrebbe dovuto vedere che gli succedeva nella realtà, a stare a un centimetro dalla bocca di Rukawa, con le mani di Rukawa che lo incatenavano e gli perquisivano la pelle.

La  prima volta che gli venne quest’idea, rabbrividì e si disse che era impazzito. La terza, la riuscì a pensare per intero, per qualche minuto. Adesso era talmente esasperato che si diceva “se non fosse lui, quel bastardo, se non fosse che ci siamo giurati odio per sempre, lo farei. Davvero. Almeno arriverei a un punto. Ma come faccio ad andarmi a presentare da Rukawa, prendergli le mani, farmi circondare la vita dalle sue braccia, e baciarlo? Com’è mai possibile pensare di poterlo fare?”

Passarono un altro paio di giorni come quello. Ci provava a non gridare, la mattina, ma era impossibile controllarsi. Continuava a sognare la stessa cosa. Anche se non sempre esattamente uguale, c’erano delle costanti: il colore del cielo, gli occhi di Rukawa, la sensazione delle sue mani addosso, svegliarsi un attimo prima di assaggiarlo, il deserto intorno a loro due.

Finchè, una mattina, Hana camminando per andare a scuola, non si accorge che il cielo ha un colore strano. Si prepara un tifone, ha visto in TV, e c’è quell’aria elettrica che sembra entrarti nel cervello e non farti capire niente. E c’è un cielo grigio e cupo che gli ricorda quel maledetto sogno, e non gli dice proprio niente di buono.

Hana si sorprende a pensare “ma cosa spero?”

E questa parola lo terrorizza.

Spero.

Si ferma in mezzo alla strada. Si volta, sta per correre verso casa sua, per andarsi a infilare sotto le coperte e far passare quel giorno di premonizioni infauste. Ma purtroppo è arrivato troppo vicino alla scuola, e il gorilla gli si para davanti in tempo per dissuaderlo con la consueta delicatezza di modi dal marinare l’allenamento di quel giorno.

Hana decide che è troppo un genio per essere superstizioso e oltrepassa la soglia della scuola a testa alta. Non vede Rukawa tutto il giorno. Magari non è venuto, pensa. Magari.

Ma entrando nello spogliatoio, viene letteralmente investito dal realizzare che invece lui è lì. Coi suoi occhi i suoi capelli le sue mani e tutto il resto. Che c’è un’aria di tempesta che fa accelerare il sangue nelle arterie. Che fuori c’è un buio che ha odore di rivoluzione. Che il mondo sembra stare tremando di paura.

Finiscono gli allenamenti, e le matricole restano a pulire. Ognuno svolge i suoi compiti e poi se ne va. Di solito Rukawa è il primo, Sakuragi è l’ultimo, neanche nello spogliatoio si vedono, dopo.

Stavolta (“e ti pareva”, pensa Hanamichi) Rukawa perde tempo, e finiscono per restare soli, loro due, nella palestra deserta, col tifone che si prepara, la palestra quasi inghiottita da quella semioscurità cupa, a finire di rimettere in ordine.

Naturalmente, silenzio assoluto, tra loro due.

Finiscono, posano gli spazzoloni nello sgabuzzino, si avviano verso lo spogliatoio.

Hana pensa “tutto qui? Tutta la preoccupazione, la paranoia, e finisce così?”

E non lo sa, onestamente, se questo pensiero lo solleva.

Ma, no. Tutto lì non è.

Perché Rukawa, sulla porta, si volta, e guarda Sakuragi che cammina a testa bassa, soprappensiero, dietro di lui. Per un istante ha pensato di chiedergli che cosa gli prende, da farlo dormire in piedi agli allenamenti, da qualche tempo. Ma Hana non se ne accorge, e si ferma solo un istante prima di sbatterci contro; alza gli occhi, e forse per la prima volta da quando Rukawa è andato ad abitare nelle sue notti, lo guarda.

Negli occhi.

E, come un movimento automatico, li strizza leggermente, come un gatto.

E si lecca impercettibilmente le labbra.

Rukawa lo osserva, e sembra non capire. Ma dura un secondo. Poi alza le spalle, si volta, e ricomincia a camminare verso lo spogliatoio.

Hanamichi non sa se è forza o codardia, quella che gli fa allungare una mano. Sa solo che ha la mano di Kaede nella sua, per un istante. Prima che Kaede si volti di scatto e la ritiri, guardandolo con uno stupore che Hana non gli aveva mai visto in faccia. Ci scruta bene, Hanamichi, in quegli occhi. E non ci vede odio. Incredibilmente, non ci vede rabbia, o fastidio per quello che ha fatto. Solo meraviglia.

“Sono un idiota”, pensa. “Il ragazzo più idolatrato dalle donne di tutta la scuola. E io solo perché credo che non si sia incazzato, ma solo stupito, perché gli ho preso la mano, adesso deliberatamente decido di andare a sfracellare tutto me stesso, il mio orgoglio, il mio essere maschio, tutto quello che io sono, contro il ghiaccio delle porte chiuse della sua anima e del suo corpo. Non credevo”, si dice mentre muove un passo verso di lui, “di avere questi istinti suicidi”. Mentre solleva una mano fino alla sua guancia, e osserva lo shock allagare gli occhi e la faccia della Kitsune. “Non sapevo di avere questo incosciente coraggio di farmi ammazzare dalla persona che più mi odia al mondo, di dargliene io stesso le armi”. Mentre la sua mano lentissima gli scosta i capelli dalla fronte, mentre la sua bocca, incosciente, folle, sorride della bianchezza sconosciuta della sua fronte. “Ma se è per questo non sapevo nemmeno di poter credere di potermi innamorare di un uomo”. Mentre gli prende tutte e due le mani, e se le porta dietro la schiena, avvicinandosi, intrecciando le sue dita a quelle di lui. “Non sapevo che quello che chiamavo odio, in realtà…”Mentre socchiude gli occhi, si avvicina, e dopo averlo tanto sognato, e stavolta non è un modo di dire, chiude le sue labbra su quelle di lui, assaporando il suo odore fresco, il suo sapore, la sua inaspettata morbidezza.

Rukawa resta immobile , con gli occhi sbarrati, nella posizione che Hanamichi ha costruito per lui. Non risponde al bacio, non se ne allontana. Rimane come congelato, ipnotizzato, paralizzato.

Quando Hanamichi si stacca, lo guarda, zitto.

-Io sono più shockato di te.- Dice Hanamichi, con una voce bassa, roca, pacata, da uomo adulto, che non sapeva di possedere. –Ma è successo che mi sono messo a pensare a un sacco di cose, non sto qui a dirti, una storia troppo lunga. E ho capito che dovevo verificare se davvero…e questo era l’unico modo che avevo…so che dovrei scusarmi, se ho usato pezzi del tuo corpo per me stesso…ma non avevo scelta.-

Adesso sì, che ci sta passando, un bagliore preoccupante nei tuoi occhi, Kitsune. Adesso sì che inizio a rendermi conto di quello che ho fatto. Di quello che succederà veramente, tra noi due.

-Verificare?- Chiede Rukawa.

Hanamichi lo guarda, interrogativo.

-Verificare.- Ripete la voce bassa del ragazzo dai capelli scuri.

Le sue labbra impallidiscono, libera le dita dall’intreccio in cui quelle di Hanamichi lo tenevano, si allontana di un passo. Sembra stare trattenendo una cascata di furia.

-So che vuoi ammazzarmi di botte, e stavolta non posso che darti ragione, accomodati pure, chissà se magari queste idee da pazzo che mi sono venute me le riesci a scacciare tu dalla testa, io non ce l’ho proprio fatta.-

-Hai verificato?-

La voce di Rukawa, è incredibile, ma trema. Di una strana rabbia soffocata, che sembra più profonda di quella che Hanamichi si aspettava

Hana non capisce. “Non si è incazzato perché l’ho baciato?”, si chiede.” Perché la tira tanto per le lunghe?”

-Che vuoi dire?

-Che significa che volevi verificare, Sakuragi? COSA volevi verificare?

-Non farmi dire cose che non vuoi sentire, Rukawa. Ti chiedo scusa, prendimi a pugni, e chiudiamola qui. È meglio anche per te, credimi.

Rukawa lo afferra per le spalle e lo scaraventa davanti a sé, facendolo cadere sulla schiena.

Gli si avvicina, la sua faccia è immobilizzata nella solita maschera, ma la sua rabbia è quasi palpabile. Lo solleva da terra afferrandolo per la maglietta. Lo guarda in faccia. I suoi occhi sono terrificanti. Hanamichi lo guarda, chiedendosi se tutta quella rabbia potesse essere dovuta all’averlo baciato.

Rukawa molla la presa, si alza. Hana vede che stringe i pugni, le sue nocche sbiancare. Chiude gli occhi, preparandosi al colpo.

Ma sente solo rumore di passi che si allontanano. Apre gli occhi, e lo vede, di spalle, che cammina verso la porta, lo guarda uscire dalla palestra.

Si sdraia un attimo per terra, a occhi chiusi. Fuori è iniziato il temporale, ascolta lo scrosciare della pioggia, gli sembra una benedizione. Gli sembra che in mezzo a tutta quella furia di cielo e terra potrà dimenticarsi della furia di Rukawa. Del suo Rukawa. Di Rukawa che, adesso ne era certo, avrebbe voluto fosse suo. Guarda fuori: pensa se fossi lì in mezzo, a farmi assordare dalle raffiche di vento che annunciano il tifone, non avrei forza di pensare. Si alza. Cammina verso la porta della palestra, quella che dà fuori. La apre, guarda, respira l’aria elettrica.

Esce.

La pioggia gli martella in testa, è fredda. “Mai come il cuore di quel bastardo”, pensa Hanamichi.” Mai come gli occhi di quel bastardo.

Perché poi bastardo. Solo perché ha reagito come chiunque avrebbe fatto se un maschio, il suo peggior nemico, l’avesse baciato?

Baciato. Dio. Come ho avuto la forza di farlo?”

Hanamichi se ne sta lì, sotto la pioggia, inzuppato fino alle ossa, con la faccia rivolta verso l’alto, la bocca socchiusa.

 

“Quanto tempo sono rimasto lì?”Si chiede, rientrando in palestra. Cammina, lasciando una scia di bagnato, verso lo spogliatoio. Trema. Per il freddo? Forse.

-Non fare tanto l’eroe tragico, Do’aho. Ce ne sono un’infinità al mondo, non sei mica l’unico.-

Hanamichi sobbalza sentendo questa voce.

-Che ci fai ancora qui, Rukawa? Non sei tornato a casa?

-Non  c‘è bisogno di prenderla tanto male. Ti piacciono gli uomini, e allora?-

Hana pensa un attimo.

-Non è così semplice, Rukawa. Ma non ho voglia di stare qui a farmi spaccare il cuore da te. Dimentica tutto quello che è successo, e chiudiamo definitivamente questa storia. –

-Piantala, Do’aho, che qui quello che spacca qualcosa non sono certo io.-

Hanamichi si volta di scatto, corre verso il punto in cui lui era seduto, lo afferra per il bavero e lo fa mettere in piedi, lo sbatte contro il muro, urlandogli:- TU, che cazzo ne sai? Va bene, ti ho baciato, ma non posso averti ferito più di tanto, era solo un bacio, sei ancora te stesso, ancora maschio, non preoccuparti non lo saprà nessuno, che importanza può avere per te tutto questo? Tu che non hai nemmeno il sangue, che ne sai TU di come sto IO, adesso?

Rukawa si divincola dalla sua stretta. Gli afferra i polsi. Gli storce un braccio dietro la schiena, facendogli male. Gli pianta in faccia, inferocito, due occhi da animale braccato e preso in trappola. Due occhi fieri e incazzati ma nonostante questo lucidi e profondamente addolorati e bui. Hanamichi ci si perde dentro, non capisce. Non riesce a rendersi conto di quel che succede.

Rukawa avvicina la sua faccia a quella di Hana, e sussurrando con una voce strappata e ruvida, una voce che è un grido trattenuto, un grido di chi ha dimenticato da sempre di riuscire a gridare, dice:

 - Per TE era solo un bacio, idiota, per TE lo era. Qui quello che deve dire che cazzo ne sai di me sono IO, non certo tu. IO sono quello che è stato usato per “verificare”. IO sono quello che ha creduto di morire perché tu mi stavi baciando, e invece volevi soltanto VERIFICARE se ti piacciono gli uomini o le donne, e l’hai fatto con me perché io non ho sentimenti, vero, stronzo? Magari ti sei detto “vabbè, tanto lui al massimo mi picchia, ma figurati se si accorge che qualcuno esiste all’infuori di lui, neanche quando ce l’ha dentro la bocca”. IO sono quello che ha creduto che finalmente l’unica persona al mondo che mi riesca a penetrare attraverso la pelle si fosse accorta che sono qui, che guardo solo lui, che penso costantemente esclusivamente a lui, che me ne sono fregato del fatto che fosse un uomo, mi sono detto lo amo, ma lui è maschio, e dopo una frazione di secondo già non me ne fregava niente. Ti piacciono gli uomini? Beh, chi se ne frega! Io amo e amerò solo ed esclusivamente te, per tutto il tempo della mia vita, e dato che sei un uomo suppongo di poter dire che piacciono gli uomini anche a me. Punto. Non mi metto a fare il personaggio da film a prendermi il tifone sulla schiena. Tu hai solo scoperto una cosa di te, che magari ti creerà difficoltà ma di sicuro supererai e con cui imparerai a convivere. Io, bastardo, io amerò per sempre di un amore disperato qualcuno che indipendentemente dal sesso non vorrà mai neanche riconoscere che io esisto nel pianeta, che per quanto io possa diventare bello e forte e bravo non accetterà mai di guardarmi. E TU vieni a dire a ME che ti spacco il cuore? Tu non ce l’hai un cuore, ragazzino. Sennò non ti sarebbe bastato, il cuore, per fare questo a me. Anche se mi odi tanto. Non puoi desiderare davvero di vedermi morire. E la tua voce da moccioso in crisi che diceva “ho dovuto verificare”, mentre tu te ne stavi a fare il romantico sotto la pioggia, mi uccideva, bastardo. Mi faceva a pezzi.- Rukawa lo mollò bruscamente, allontanandolo, fece per voltarsi per andarsene.

Si fermò.

“No, cazzo, stavolta no. Stavolta non faccio finta di niente. Stavolta vado fino in fondo. Più male di così non mi può fare.”

In un secondo già gli era rovinato addosso, facendolo cadere con il suo corpo sopra. Lo aveva bloccato contro il pavimento e adesso mordeva il suo collo e il lobo del suo orecchio, mentre continuava a ripetere tra sé “Perdonami. Perdonami. Perdonami” Mentre le sue mani lo incatenavano al suolo, e il suo bacino si muoveva lento e deciso contro quello di lui. Succhiava incessantemente ogni angolo del suo collo, del suo mento, il pomo d’adamo, senza tregua, senza respiro.

Incerto cominciò ad allentare la presa sui suoi polsi, scendendo lungo le sue braccia fino alle spalle, poi giù lungo il torace, e lungo i fianchi.

Strizzava gli occhi aspettando che Hanamichi lo spingesse via. Ma non succedeva. “D’atra parte gli piacciono gli uomini. E magari non gli dispiace farsi una scopata con il ragazzo più bello della scuola”. E sentiva incrinarsi la sua anima. “Non ero fatto di ghiaccio, io?” Pensava. Chiedendosi quanto ancora sarebbe riuscito a non piangere. “Scopami, almeno, Hana. Così potrò far finta che sia per quanto mi piace, che piango.”

Hanamichi, sdraiato per terra, sentiva il peso del suo Kitsune addosso, la furia del suo Kitsune contro, ripensava alle parole del suo Kitsune. Improvvisamente tutto gli era diventato chiaro: i 50 rifiuti da tutte le donne che aveva amato (“amato?” si chiedeva. “È esistito amore, prima di questa notte?”). Accapigliarsi con la volpe, giocare a basket, tutto andava a posto come i pezzi di un puzzle perfetto. Tutta la sua vita sembrava aver avuto un senso nel portarlo a quel momento, a sentire il dolore del suo Kaede che pensava di essere stato solo una bella bambola, di essere stato usato perché immaginato senz’anima. Senza sapere quale fosse invece la verità. Sentire l’anima ferita e infuriata di Kaede urlare la sua presenza attraverso i morsi contro la sua carne. Sentirsi succhiare da quella bocca, sentire le sue mani che lo esploravano, e non erano fredde né taglienti, sentire il bellissimo stordimento che seguiva la percezione che sì, Kaede Rukawa ha l’anima e il sangue, e sì, quest’anima e questo sangue, ha detto, saranno per sempre suoi.

Rimane immobile, Hanamichi, godendosi le carezze di Kaede, godendosi la furia di Kaede, godendosi il dolore per i morsi di Kaede.

Fin quando la volpe non si chiede perché mai sta così immobile, si solleva sui gomiti, e lo guarda in faccia. E quello che vede è Hanamichi che sorride, con gli occhi dilatati e socchiusi, le labbra tumide e ferite dall’essersele morse per trattenere i gemiti.

E rimane esterrefatto dalla sua espressione, dalla bellezza della sua espressione, che non comprende.

Hanamichi circonda la sua vita con le braccia. Rukawa è in controluce contro il tetto, sembra una visione angelica, i capelli gli scivolano lungo la fronte, gli occhi sfavillano, si morde le labbra, guardandolo con la sorpresa dipinta in faccia.

Poi si incupisce, distoglie gli occhi dai suoi, e dice :-Come pensavo. Ti fa gola, eh, una scopata con me. Nonostante quello che ti ho detto. Mi prenderesti lo stesso, sapendo che non potrei tirarmi indietro, che non ti potrei resistere.

Hanamichi gli mette una mano sulla guancia, solleva il suo mento. –Sei completamente idiota, e pure masochista. Invece di farti queste gigantesche seghe mentali sul perché e sul percome ti ho baciato, che ne dici del vecchio “la soluzione è sempre la più semplice”? Che ne dici di pensare che ti ho baciato per verificare se davvero mi piaci o il fatto che ti sogno da un mese sia solo un qualche messaggio inconscio del mio cervello impazzito?

-E io come cazzo faccio a sapere che tu mi sogni da un mese, idiota?

-Non lo hai visto che da un mese sono assente, non ti stuzzico, non ti guardo neanche in faccia, stupida volpe? Non potevi saperne il motivo, ma non era chiaro che il problema eri tu, specificamente tu, in questi giorni, e non i maschi o le femmine in generale?

-E questo che….-si interrompe un attimo, Rukawa.

-Sì, volpe, hai capito perfettamente. Io ti voglio quanto tu vuoi me. Almeno.

Rukawa lo guarda. Strizza gli occhi, ma stavolta di voglia. Socchiude le labbra. Hanamichi solleva un po’ il mento per avvicinare le sue a quelle della volpe. “Sto per esplodere. Se non mi bacia tra un istante io so che esploderò….”i suoi pensieri vengono interrotti dal tocco morbidissimo e intenso di Rukawa sopra, contro, dentro la sua bocca. Dalle mani di Rukawa che scendono fino al suo ventre, mentre i suoi capelli gli accarezzano la faccia.

Soli, in un a palestra deserta, assaggiandosi, divorandosi, consumandosi. E fuori, inarrestabile, infuriato, il tifone.

 



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