Disclaimers: I personaggi appartengono alla Sensei
Yazawa! Io li uso solo per divertirmi un po’! La canzone invece è di Sting e
Craig David J
Dedicato a: Pam perché mi sostiene sempre, Misato e Arashi per i loro
splendidi siti e alle cugi Saya e Kima ^****** ^
Note: Se non vi piacciono gli spoiler, non leggete!
Ambientato 7 (chissà xké ;P) anni dopo le vicende di Nana…Siccome non sono
una veggente, ho cercato scuse plausibili per le mie esigenze…Quindi se con
la fine del manga quello che ho raccontato qui non stesse in piedi,
concedetemi una piccola “licenza poetica”, ok?
The Rise
and the Fall
parte
I
di
Akira14
Shin se ne stava seduto
sul letto osservando apatico il soffitto.
Tra le labbra una Malboro,
di quelle che ti viene un cancro al polmone solo a guardare la stratosferica
quantità di nicotina e condensato che hanno.
Aveva smesso di fumare le Black Stone. Troppi ricordi erano legati a quel
nome.
Persone che avevano segnato la sua vita, che avevano lasciato un solco
profondo nella sua anima ed una ferita insanabile nel cuore.
Volti che si perdevano
nel fumo della sua sigaretta, voci che rimbombavano nella sua testa…A cui
però non riusciva a dare il nome. O a cui forse non VOLEVA dare un nome.
Al contrario, c’erano eventi che ricordava perfettamente, senza bisogno di
fare nessuno sforzo di memoria. Come la prima volta che aveva sentito che
aveva sentito Nobu suonare la chitarra. Il suo stile così simile e così
diverso al tempo stesso da quello del suo mito, l’inimitabile Ren Honjo…Impossibile
spiegare il rapporto che il biondino aveva con il suo strumento; vivevano
quasi in simbiosi. Ren, invece si era messo a suonare costruendo chitarre
con mezzi di fortuna e pian piano aveva scoperto che suonare era tutta la
sua vita.
Insomma, Ren e Nobu non
erano paragonabili né come personalità né tantomeno come musicisti ma
entrambi suonavano divinamente, e lui non sarebbe mai stato capace di
arrivare al loro livello.
Dal lato tecnico forse li aveva addirittura superati, ma la sola tecnica non
era sufficiente per definirsi un musicista professionista.
Lui possedeva il talento, questo sì.
Ma non la passione.
Per lui il basso non era nient’altro che un modo per mettersi alla prova, lo
strumento per soddisfare la sua smodata voglia di primeggiare. Doveva
dimostrare di non essere il migliore.
C’era riuscito, ed ora
che cosa ne aveva ottenuto in cambio?
Ricchezza.
Fama, non solo in Giappone ma in tutto il mondo. Cosa in cui non
erano riusciti nemmeno i tanto decantati Trapnest.
Allora cos’era quel senso d’insoddisfazione che aleggiava tutto intorno a
lui?
Ieri gli bastava esibirsi
di fronte ad una cinquantina di persone per sentire l’adrenalina scorrergli
con violenza nelle vene; oggi vederne centinaia di migliaia che gridavano
forsennatamente il suo nome non gli faceva né caldo né freddo.
Una frase ronzava nella
sua testa, non rammentava chi l’avesse detta e nemmeno se fosse stata
veramente pronunciata; ma sembrava un’espressione tipica di Nana Komatsu.
“È una vera disgrazia che
l’avidità umana non conosca limiti.”
Aveva ventidue anni, e si sentiva come se ne avesse avuti il doppio.
Semplicemente si era svegliato una mattina e si era scoperto vecchio.
Esteriormente non aveva
perso neanche un millesimo del suo fascino, che per la strada faceva girare
uomini e donne estasiati. Dentro però era svuotato, arido e disilluso,
avvilito dalla vita come l’arcigno vecchio della stanza vicino alla sua; che
non perdeva occasione di lasciar cadere le sue acide “allusioni” ogni qual
volta s’incrociavano nel corridoio.
Forse era perché aveva
dovuto e aveva voluto crescere troppo in fretta, negandosi l’adolescenza e
passando direttamente all’età adulta.
Non si era mai fermato a
farsi un esame di coscienza. Avrebbe dovuto riflettere sul rapporto con i
suoi genitori, e francamente gli veniva la nausea solo a fare un rapido
excursus di tutto quello che li riguardava. Già giudicava miracoloso che suo
padre si fosse convinto, dopo essersi fatto avanti e poi tirato indietro per
un’infinità di volte, a firmare il permesso per farlo esibire con i Blast!
Certo non poteva scomodarlo con la sua presenza a casa, che non avrebbe
creato che scompiglio nella “famiglia perfetta e felice” degli Okazaki.
Shin pensava sovente che quei due meritavano davvero un monumento, per
riuscire a mantenere la loro facciata di perbenismo anche dopo aveva
rischiato seriamente di mandare tutto all’aria con la sua fuga a Tokyo.
Certo, ora potevano pavoneggiarsi con tutto il vicinato di avere un figlio
che suonava in una delle band più famose del mondo. Oh, se la immaginava sua
madre che gridava ai quattro venti quanto le fosse costato crescere quel
ragazzino ribelle, e che, finalmente,i suoi sforzi sovraumani per tirar
fuori del buono da quella mela marcia erano stati ripagati.
Nonostante fosse partito con l’idea di vivere la sua vita, rinnegando la sua
famiglia senza farsi troppi problemi, convinto di aver ormai tagliato i
ponti con la sorgente dei suoi problemi; ecco che di nuovo si presentava
agli altri con una personalità preconfezionata, con Shinichi Okazaki il
bassista anticonformista, donnaiolo e a modo suo geniale.
C’era anche Shin il
bambinone, quello che piangeva come una fontana per un nonnulla o che vedeva
Reira alla stregua di una sorella maggiore o ad una graziosa compagna di
giochi.
C’era lo Shin solo e abbandonato, che riconosceva se stesso nelle donne con
cui andava a letto.
Lui non era perfetto come le fan dei Seven Sins, la sua nuova band, volevano
credere…
Molte volte era tentato di confessare tutto, di vuotare il sacco.
Avrebbe sacrificato tutto quello che aveva costruito nella sua vita.
Ma valeva la pena di vivere nella menzogna?
Sometimes in life you feel the fight is over,
And it seems as though the writings on the wall,
Superstar you finally made it,
But once your picture becomes tainted,
It's what they call,
The rise and fall
Era rinchiuso in una gabbia d’obblighi e di costrizioni, la stessa in cui
era nato e cresciuto fino al compimento dei suoi quindici anni. Aveva
creduto di poter evadere divenendo il bassista dei Blast, tuffandosi in quel
nuovo ambiente e cercando di adattarsi fino a che non avesse scoperto se era
realmente ciò che desiderava. Ma gli era impossibile vivere senza una
maschera, denudato delle sue difese, esposto al crudele giudizio del suo
giudice interiore che senz’altro l’avrebbe condannato senz’appello.
Complessato, eh? Chi,
d’altronde sarebbe cresciuto sereno sentendo gli occhi inquisitori delle
stesse persone che lo hanno messo al mondo, come a dire “ti abbiamo dato la
vita, possiamo anche togliertela.” ?
Shin aveva una paura matta che se avesse rinunciato alla vita fittizia che
si era costruito, avrebbe anche potuto scoprire di non piacersi affatto.
D’altronde non aveva più
la forza per mettersi nei panni del regista di quel
reality-show misto a fiction di quarta categoria che era la sua vita.
Tutta la voglia di fare
che gli era rimasta gli bastava giusto per guardare il soffitto bianco della
sua stanza d’albergo. Beh, se proprio si sforzava riusciva anche a dare
un’occhiata rapida rapida a quello che gli stava intorno.
Non che ci fosse granché
da vedere.
Barocca. Ecco l’aggettivo
che meglio si adattava a quell’accozzaglia assurda d’oggetti.
L’imperativo dell’hotel?
Esagerare.
Dall’esterno non si sarebbe detto, anzi quelle enormi vetrate sembravano
anticipare che all’interno ci si sarebbe trovati in un ambiente spoglio e
freddo, anche se molto illuminato.
Nell’entrare nella sua camera la prima cosa che aveva notato Shinichi era
stata la cornice dello specchio, dorata.
Ma non di quell’oro brillante che può anche essere piacevole alla vista, era
un oro stucchevole e i troppi riccioli della decorazione risultavano
eccessivi a qualsiasi occhio dotato di un minimo di buon gusto.
L’unica finestra della camera dava sul cortile interno. Shin aveva
espressamente chiesto che non desse sulla piazza di fronte all’entrata,
perché certamente sarebbe stato costretto a sorbirsi giorno e notte le
stupide facce delle sue fan. Avrebbe invano cercato un volto amico, i dolci
lineamenti di una persona che non vedeva da troppo tempo ormai.
Le tende erano di velluto rosso, con al fondo dei fili attorcigliati in
sottili trecce…Indovinate di che colore?
Dorate! Anche il pomello per aprirle e chiuderle era color oro! Per non
parlare delle maniglie.
Perfino il lampadario era di quel detestabile colore…E dire che era un bel
lampadario, vecchio stile, dal tratto aristocratico…Così bello che pareva
uscire dal mobilio della Reggia di Versailles…Se solo fosse stato d’argento!
Le lampadine che erano state messe al posto che una volta spettava alle
candele, emanavano una luce giallastra, rendendo tutto ancora più pesante.
Il pavimento era
ricoperto di una sottile moquette dello stesso colore scarlatto delle tende.
Fortunatamente il copriletto, una trapunta finemente ricamata,le lenzuola e
i muri erano bianchi, altrimenti sarebbe quella camera sarebbe stata un vero
delitto verso dei poveri occhi colpevoli solo di aver osato guardarsi
intorno.
Shin spense lentamente la sua sigaretta nel posacenere di cristallo,
strapieno di mozziconi.
Si alzò giusto per spegnere la luce, azione che si rivelò del tutto inutile
visto che la stanza era illuminata a giorno dalla luna. Si sentiva troppo
stanco per alzarsi un’altra volta a chiudere le tende, quindi lasciò che i
raggi pallidi della luna rendessero ancora più splendenti i suoi capelli
argentati.
Si mise sul fianco destro, quello su cui dormiva meglio.
Niente.
Su quello sinistro.
Ancora niente.
Provò a rimanere con lo sguardo fisso sul soffitto.
Inutile.
Dopo interminabili minuti passati a rigirarsi nel letto, dal momento che per
quanto si sentisse stanco non riusciva ad addormentarsi decise di fare un
bel bagno che lo rilassasse e lo accogliesse in quel torpore in cui anche i
pensieri sono ovattati.
Mentre l’acqua riempiva lentamente la vasca s’impose di non lasciare che la
depressione prendesse possesso di lui. Doveva reagire, non era da lui
arrendersi così.
Poi sì svesti, concedendosi un minuto per osservarsi nello specchio del
bagno. Fisicamente non era niente male…Oramai era di almeno una spanna più
alto di “lui”.
Era sommerso dalla
schiuma e stava quasi per schiacciare un pisolino nell’acqua bollente,
quando il suo cellulare si mise a squillare.
“Bring me to life”. Senz’ombra di dubbio, era
quella canzone dolce e malinconica che aveva scaricato dal sito del suo
cellulare, un vecchio modello della Nokia.
Dal momento stesso in cui l’aveva messa tra le sue suonerie, si era
precipitato quasi freneticamente sulla Rubrica e aveva assegnato il tono a
Lui.
Era una melodia passata
di moda, che nessuno conosceva più…Lui però non era mai riuscito a
sostituirla, era troppo pregna di significati…Dolceamara, angosciante e
speranzosa…Proprio come il suo migliore amico.
Imprecò come un turco per la sua sfortuna. Dannatissimo il momento in cui
aveva deciso di mettere i toni bassi!
Probabilmente squillava già da un bel po’!
Si precipitò letteralmente fuori della vasca, ma scivolò sul pavimento
bagnato e cadde a terra come un sacco di patate.
Senza neanche coprirsi con l’accappatoio o l’asciugamano, corse a prendere
il telefonino che vibrava nel silenzio tombale della camera.
Proprio quando schiacciò il tasto per rispondere, sentì che il suo amico
metteva giù.
Dalla rabbia tirò il
povero cellulare contro il muro. Stava tornando in bagno pieno di stizza per
non essere riuscito ad arrivare in tempo, quando sentì il “bip bip” che
annunciava l’arrivo di un messaggio.
Toccò velocemente i tasti
della tastiera, quasi in fibrillazione…Doveva essere Lui, DOVEVA ESSERLO.
PER FORZA.
Quando aprì la cartella dei messaggi in arrivo, trattenne a stento un
saltello di gioia.
Non si riconosceva più…
Non era mai stato così infantile.
- Vorrei uscire stanotte,
dimenticare il tuo nome.
Ma anche volendolo con tutto me stesso, non posso.
Ho bisogno di vederti un’ultima volta.
Sul Karlův most, tra un quarto d’ora. –
Trattenne a stento la sua delusione. Si sarebbe aspettato un messaggio un
po’ più allegro, non quella sottospecie di epigramma!
Nonostante questo; quasi meccanicamente si rivestì. Non gli fu facile, visto
che più cercava di velocizzare i suoi movimenti più i vestiti rimanevano
attaccati alla sua pelle umida.
Ma ci riuscì. Senza nemmeno perdere tempo ad asciugarsi i capelli, sbatté la
porta alle sue spalle e corse a perdifiato per le scale.
La sua guardia del corpo personale lo fermò giusto in tempo, prima che
facesse il stupidissimo errore di uscire dalla porta principale. Infatti,
Shin era talmente ossessionato dall’idea di arrivare in orario sul
Karlův most, che si era dimenticato di essere un VIP
nel bel mezzo del suo tour mondiale.
A Shin bruciò un po’ il non poter girare come gli pareva senza essere
seguito dal suo “angelo custode”, ma si rese conto che dopotutto stava
facendo solo il suo lavoro e gli sembrò giusto confessare dove stava andando
e chiedere di non essere seguito.
“Devo vedere un mio
amico. Tra 15 minuti.
È una questione privata molto importante, potresti lasciarmi andare.
Tornerò tra massimo due ore.”
“E se poi Le succede
qualcosa, chi lo sente il manager?
Tanto per cominciare, esca dalla porta di servizio! O vuole essere assalito
dalle fan?”
Doveva aspettarselo.
D’altronde aveva ragione…Era lui che si stava comportando da irresponsabile.
Si fece accompagnare fino al pulmino privato che la band usava per spostarsi
all’interno della città.
Cercò ancora una volta di convincere la sua guardia del corpo a lasciarlo
andare da solo, ma quest’ultimo ribatté che non poteva certo pensare che
l’avrebbe lasciato vagare per una capitale grande come quella, in un paese
dove non conosceva nemmeno la lingua. All’una di notte, poi!
Shin si dette per vinto, e sospirando chiese di essere portato sul ponte il
più in fretta possibile.
Mentre l’autista e il gorilla parlavano dei fatti loro, che a Shinichi non
importavano granché, il giovane bassista si mise a guardare fuori dal
finestrino.
Purtroppo non si vedeva granché in quella fittissima nebbia, se non le alte
torri della gotica cattedrale di S.Vito che svettavano sulla collina del
Hrad, il grandioso complesso del “castello”, sintesi
monumentale della storia della città, con edifici che andavano dal romanico
al rococò.
Si lascio perciò cullare
in un dormiveglia, fino a quando non gli venne annunciato che erano arrivati
a destinazione.
Dopo essersi stropicciato
gli occhi per un po’, Shinichi riconobbe le altri torri simbolo del ponte.
L’avevano colpito dallo stesso momento in cui l’aveva scorta dai finestrini
del pulmino arrivando in città.
Nere come il carbone, non
era facile vederle di notte e nella nebbia ma erano talmente monumentale che
con un po’ di sforzo ci si poteva riuscire. Era massiccia, quasi del tutto
priva di decorazione. Una torre gotica, eretta nel dodicesimo secolo e
un’altra che richiamava il medesimo duro stile architettonico della prima,
ma che era stata eretta più tardi cioè nel quindicesimo secolo e che
portavano entrambe un magnifico coronamento di guglie che le faceva
assomigliare alle torri di un vecchio castello medioevale.
Riuscì a convincere il suo bodyguard a lasciarlo
andare da solo sul ponte, promettendogli scherzosamente che non si sarebbe
buttato nel placido fiume che scorreva placido tra i suoi sedici massicci
pilastri.
Non appena passò l’ingresso fortificato da una delle due magnifiche torri,
fu come se all’improvviso fosse entrato nella magica atmosfera della città
che insieme a Torino e Lione costituiva il cosiddetto “Triangolo del
Diavolo”.(nn sono sicura che si chiami così, ma che fa parte delle città
demoniache in cui si dice esista una delle nove porte dell’inferno ne sono
sicura! NdA14)
Camminando lentamente lungo la strada lastricata, in quella galleria
all’aperto di scultura barocca che mostrava con orgoglio una sontuosa
sfilata di trenta statue collocate sui parapetti, vide illuminata dai
lampioni (che assomigliavano a quelli che si vedevano nei vecchi film
europei) dalla luce arancione la silhouette di una persona a lui ben nota.
Sembrava assorta in chissà quali pensieri, e perciò Shin si avvicinò
silenziosamente mettendosi al suo fianco a guardare lo stesso balcone che
stava osservando con tanto interesse.
C’era una luce accesa, una lanterna che rimaneva accesa giorno e
notte…Apparentemente senza un motivo preciso.
“Si dice che quella
lanterna sia accesa in onore di un’anima persa.
L’anima di una ragazza suicida, che si gettò nella Moldava perché innamorata
senza speranza.
Una lanterna accesa per
un amore infelice…Per un amore impossibile.” Disse con un tono malinconico
una voce a lui famigliare ma allo stesso tempo talmente persa nei meandri
della memoria che gli pareva sconosciuta.
“Per quanto io sia
depresso, non penso che mi getterei dal Ponte Carlo stasera…Non mi tenti…”
rispose Shin. Aveva deciso che era meglio restare sul vago, senza dare del
tu a quello sconosciuto. Sperava ardentemente che fosse Lui, ma non voleva
fare una figuraccia nel caso si fosse rivelato qualcun altro.
Ci fu un attimo di
silenzio, completo silenzio…Quasi come se tutta Praga si fosse fermata ad
ascoltare la loro conversazione…
“Da quando sei così
ossequioso con il sottoscritto?
Sei lo stesso ragazzino che scrisse sul tanzaku che il mio desiderio più
recondito era crescere di qualche centimetro, Okazaki Shinichi?”
Era lui.
Sì, ora ne era sicuro.
“Mi fa piacere rivederti,
Nobu.”
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