Questo non è un racconto. Vuole essere soltanto la descrizione di un momento, la narrazione di una ‘scena’ venuta ad assistermi in una mattina rovente, in tangenziale, nel pieno traffico di luglio. Vista la scarsità di storie discrete che scrivo, approfitto di questa occasione per ringraziare calorosamente le persone capaci di supportarmi (e sopportarmi, anche) nei momenti più tristi e meno ‘ispirati’, quelle stesse persone che hanno appoggiato e sostenuto la creazione di ciò che leggerete fra poco.

Alla città di Londra, e a voi tre, un infinito grazie.

Rating : NC-17
Pairing : Sorpresa ^o^
Disclaimers : Trama, avvenimenti, personaggi e relativi pensieri sono di mia creazione, e fanno parte della raccolta di racconti relativa al Progetto letterario Morceaux.

 


Thames

di La Signora Black

*fic scritta per il progetto letterario "Morceaux"

 

E tutte le stelle di vetro
della bellezza e della gioia
risplendevano nella polvere
della camera spazzata male.


Jacques Prevert


La morte verrà all'improvviso
avrà le tue labbra e i tuoi occhi
ti coprirà d'un velo bianco
addormentandosi al tuo fianco.


Fabrizio De Andrè





Il pavimento era di legno scuro, quasi sporco. Grezzi tasselli rettangolari che ad ogni passo crepitavano leggermente, dando vita ad un rumore lento e lugubre, amplificato dal silenzio notturno. Qualche sorso di pioggia, umido e incolore per terra. Accanto, un vaso di porcellana accuratamente decorato da mani competenti, portato anni prima da un viaggio nella penisola italiana, conteneva due ombrelli per il sole e una parte di una collezione di bastoni da passeggio, argentati, lavorati e polverosi; scolpiti come l’effigie in un marmo pregiato, erano ora nella fase di più acuta decadenza. Graffi, aste spezzate, vernici scrostate.
L’intero ingresso e l’intero parquet, solcati dal passaggio di innumerevoli calzature, stavano ormai perdendo la loro colorazione originale, sbiadendo, nel silenzio degli anni.
Si sentì il tintinnio che gli oggetti in metallo producono toccandosi, due, tre chiavi sfiorarsi tra loro, e successivamente il pomello della porta d’ingresso gracchiare, ruotato dall’esterno. L’atmosfera, un nauseabondo concentrato di chiuso dentro una boccetta di cristallo, svanì per pochi istanti. Lasciò passare sprazzi di nebbia, di freddo, di altri sorsi di una pioggia che non cessava mai; lasciò che l’aria stantia si legasse al profumo che proveniva dal giardino, quell’odore di gelsomino e glicine che chiunque, in quel determinato punto della periferia di Londra, aveva imparato a conoscere.
L’uomo che apparve sulla soglia, e che poi poggiò le calzature sul parquet dell’ingresso, venne dipinto dal chiaroscuro delle luci come una figura lontana, disumana, proiettata sulle pareti dell’abitazione con una certa reverenza. Un passo, e l’aura misteriosa gli scivolò di dosso, impietosa, incanalandosi fra le pieghe del suo mantello bagnato, per scivolare poi inesorabilmente ai suoi piedi.
Tolse il cappello, una tuba nera di panno dalla fodera sdrucita, per appoggiarlo al chiodo rugginoso e storto che spuntava dal muro, e con questo diede modo al limitato pubblico di fantasmi incatenati nelle vicinanze di sapere quanto i suoi capelli fossero chiari e lunghi; quanto i suoi occhi fossero scuri.
Lo sguardo si riflesse nelle centinaia di pezzi di vetro che rimanevano di un antico specchio, e centinaia di occhi del presunto colore della notte si mossero, taglienti e cupi si rovesciarono nelle vicinanze, in sincronia; si chiusero e riaprirono all’unisono in un ritratto frantumato.
Un passo, ancora, e in una labile danza di stoffe la veste color fumo si allontanò dalla veranda, da quel porticato fiorito e selvatico, da quei vasi vuoti, da quei cadaveri floreali così antiestetici e brutali, così vividamente morti; si sentì il tintinnio metallico dello scacciadiavoli agitato dal vento, da una folata più forte delle altre nella tarda serata dell’ultima notte di dicembre. L’uomo si voltò di scatto, i capelli si mossero, la mano si serrò più forte sul pomello d’ottone.
Lo scampanellio dello scacciadiavoli strinse il suo cuore in un pugno, e la sua mente tornò, fulminea, a molti ricordi addietro, in un flusso di vociare ed immagini sbiadite. Non lo avevano comprato da un mercante di strada, anni prima, lui e John? – la sua memoria serbava l’attimo esatto in cui le urla al di sopra delle nutrite bancarelle del mercato di Borough* erano cessate, nel suo mondo, affinché potesse cogliere soltanto il sorriso di John, ancora attraente e dolce, con quell’oggetto curioso alzato nella mano.
Ora quegli stessi piccoli cilindri di metallo si agitavano, incessanti, producendo un suono veloce e delicato, acuto e sommesso, simile al battito di un cuore affranto, all’anima di un innamorato. Aveva sempre pensato, all’inizio come uno scherzo, poi sforando nell’ossessione, che quello scacciadiavoli contenesse l’essenza del suo John, la sua grazia, il suo congiungimento tra vene e arterie, il pozzo di sangue puro e lucido. Rabbrividì. E allontanò l’idea del sangue con ribrezzo e irritazione, poco meno di una collera penetrante, stringendo e sfogandosi sull’impugnatura del bastone da passeggio e sul pomello d’ottone.
Un altro passo, e la porta si richiuse dietro di lui.
Un acre sorriso si posò, dolce e levigato, sulle labbra dell’uomo. Gli occhi furono stretti e nuovamente aperti ancora una volta, abituandosi al buio, e indugiarono sul soffitto dell’ingresso. L’odore di fiori svanì, e così anche il tintinnio dello scacciadiavoli, parabola, orologio di una morte che non attende mai troppo per farsi viva, ora cheto, soffocato dalla segretezza della casa in rovina. Un quarto passo, sinistro.
E ora, quasi abbandonato nella propria buia solitudine, l’uomo poté sospirare. Senza l’inquietudine di quel rumore, senza il fragore della città e dei suoi abitanti.
Aveva richiuso il portone, maledetto nuovamente quello scacciadiavoli che ronzava nelle sue notti d’estate, d’autunno, d’inverno (la primavera non era stata più ammessa nella sua vita da quando John si era ammalato). Casa, luogo in cui potersi rinchiudere, dolce casa, rifugiandosi nell’angoscia, nell’odore armonioso di un piatto caldo preparato per cena, di una tavola allestita e lumi a petrolio accesi, di un letto e lenzuola morbide, bianche. Piatto, odore di cena, profumo esotico del petrolio, letto e lenzuola morbide. Dov’erano, ora?
Scosse la testa, allontanando ancora una volta il pensiero appena partorito, e si vide di fronte altri fiori, su di una credenza, che giacevano morti nel loro vaso, nella loro prigione di pareti turchesi di ceramica verniciata. Morti, decadenti. In una prigione lussuosa… Dio, tutto era decadente e polveroso e morto in quella casa. Tutto, tutto – tutto.
Fu un attimo.
E l’istantanea prodotta dallo specchio sgretolato e appeso al muro mostrò un uomo di trenta, trentacinque anni, mantello addosso e vesti scure, fradicio, trasfigurato dall’ira; mani, dita e rabbia incontrollate che si accanivano contro il vaso, contro i fiori, piccoli e aridi, strappandoli dal recipiente, scagliandoli (?) giù, giù, giù sul pavimento, e l’ombra dell’uomo sulle pareti, nascosta e vivida, verace, improvvisa, capace di dominargli il pensiero e permettergli di prendere quei boccioli – quelle rose appassite, e quelle spine tanto taglienti – per lo stelo, e gettarli a terra, e calpestarli in silenzio. Senza dire una parola, senza una vera espressione sul viso, occhi chiusi e una benda di follia su di essi.
Il tacco della calzatura su piante e petali, su quelle lingue di passione rossa ormai dissolta. Il tacco premuto più forte, il crac del bocciolo distrutto. E fiori e steli, e spine e petali scuri ora spappolati per terra.
La tempesta, fisica psicologica e mentale, quel senso di brutale verità del concetto di morte dentro vanesi fiori di rosa, di morte dentro la casa, di morte dentro sé stesso (e dentro… per Dio, basta.) e la quiete successiva, quella sorta di appagamento che solo altro – ben più sanguigno e carnale – ormai era in grado di dargli.
Esalato l’ultimo respiro, l’impeto distruttivo lasciò il corpo dell’uomo, permettendogli di mordersi le labbra, il volto chinato, asciugandoselo con una mano dal sudore brillantino sulla fronte. Un sospiro, sommesso e calmo. E qualche goccia di sangue sulle dita, in ricordo della sua piccola follia.
Null’altro oltre al suono funereo delle calzature che camminavano sul fondo umido e cigolante di una splendida, vecchia villa in rovina. Una casa dagli specchi rotti, dai lumi senza petrolio, dai ceri consumati. Una casa da cui non allontanarsi mai; una casa i cui muri gridavano al cielo silenziosi latrati di disperazione. Nessuno ama morire – perlomeno, nessuno ama conoscere la propria condanna a morte. Perché i fiori nella veranda (peonie, passiflore, rose e camelie), i quadri e le cornici, gli specchi e l’arredo avrebbero dovuto esserne felici? Felici di morire, di essere condannati ad una lunga, eterna agonia? Precipitare nell’autunno infinito e perduto, su di una brina nel giardino adiacente alla villa, come foglioline morte, stormi di uccelli uccisi, come in una terribile battuta di caccia alla volpe.
L’uomo oltrepassò l’ingresso, i cui muri erano ricoperti da una vecchia carta da parati sulla quale fluttuavano delle deliziose rose, i cui bordi giacevano a terra, strappati, graffiati. Spenti. Il bastone da passeggio dell’uomo risuonò, puntato orizzontalmente verso di esse, accompagnando i suoi passi fino alle scale che portavano al piano superiore.
Nella penombra, le fessure sfuggite allo sbarramento di tutte le finestre della casa gettavano la luce dei lampioni della strada all’interno. Le scale erano cigolanti, di legno scuro marcito e, come ogni volta, appena conclusa la ripida salita, l’uomo si voltò indietro, volgendo loro un caustico, vittorioso sorriso di sfida.
L’espressione si smorzò quando, nel raggio della propria visuale, l’uomo incrociò la porta della camera da letto, socchiusa; dipinta di bianco, conservava sulla sua superficie fra le crepe l’incisione di due lettere - una J allacciata ad una D - tramite un cuore.

“John ama Deshawn…”
“Per sempre”


Per entrare Deshawn spinse sul punto in cui avrebbe dovuto esserci la maniglia, e sfiorò con i polpastrelli quella coppia di lettere, quel cuore inciso e abbozzato, serrando gli occhi con infinito rammarico, quasi a non voler ricordare i loro sorrisi e le loro mani, intrecciate, incidere il sentimento su legno nello splendore dei vent’anni. Vi posò la fronte sopra, sospirando, e per la prima volta da quando era entrato in casa avvertì la voce di Mrs Perkins intonare malamente i suoi vecchi, tradizionali, beceri canti gallesi con i quali amava da sempre deliziare l’inerme e desolato arredamento. Proveniva indubbiamente dalle stanze situate al piano inferiore, dove alcune dispense contenevano, al posto delle consuete stoviglie, piante da curare e vecchi, pesanti libri sulle erbe.
Deshawn si chiese come quella anziana signora potesse aver fatto fiorire, per tutta la sua vita, eccelse, rigogliose piante con – a suo dire – soltanto quella terribile e nostalgica cadenza fonetica, per nulla attenuata durante la lunga permanenza nelle vicinanze di Westminster e della Corona.

“E Deshawn ama John?”
“Molto più di quanto John potrà mai immaginare…”


Oh, sì.
Aveva fatto scivolare via le proprie mani da quelle di John, per poterle appoggiare sul suo viso, per poter carezzare quelle labbra tanto belle. Si erano baciati a lungo, quel giorno, e ogni sera, i mesi seguenti, entrando in camera avevano ripetuto la stessa scena; le mani si intrecciavano, le bocche si incontravano a metà strada, al centro di quello sghembo cuore nel legno, ripetendo la promessa d’amore, frusciata solamente per permettere ai giovani di correre, e gettarsi sul letto, carezzandosi a vicenda fino al mattino successivo.
Ora, nella tarda notte di molti anni dopo, Deshawn aveva aperto la porta solo per lo spazio necessario a permettergli di entrare, senza fare rumore. Un profondo respiro, quasi a stordirsi. L’odore di chiuso, sebbene presente nell’intera struttura fino alle più remote e sepolte fondamenta, era in questa camera quasi corrosivo, nocivo al solo respirarlo; era possibile vederne i movimenti, l’oscillazione che il declino compiva danzando nell’aria, rimarcarne la sua audace sagoma.
«Ho sentito qualcosa rompersi, poco fa…» un mormorio, prima che un fremito, e successivamente un colpo di tosse, rimettessero a tacere quelle misurate parole.
«E’ caduto un vaso, John.» Deshawn si avvicinò a lui. John giaceva sotto alcune coperte di lana, grezze e grigie, dalle quali si intravedeva il profilo del suo corpo ormai scarno, magro, le cui ossa dei fianchi spuntavano come radici dalle anche denutrite. «Non preoccuparti» e si chinò, per posare un bacio sulla stoffa che gli copriva gli occhi, per schermire il suo sguardo dalla luce che, tenace, era ostinata a volerlo amare anche al di là delle finestre sprangate. Gli carezzò il viso, dolcemente.
Per Deshawn fu come sfiorare un sottile foglio di carta con scritti sopra i versi di una poesia; immensamente fragile, eppure tanto prezioso. Le dita si accostarono al mento di John, alla tenue curva della sua bocca.
John si volse verso la mano di Deshawn, con un mormorio flebile, strofinandovisi sopra; aveva un sorriso grazioso, e questo parve straziare il petto di Deshawn, riducendolo in un’amara poltiglia.
«I vasi non cadono da soli, ‘Shawn…» lo ammonì John, stringendo le labbra; liberò una mano dal peso delle coperte, e vi fu una piccola smorfia di dolore prima che la mano si posasse sulla spalla dell’altro, sentendone l’umidità. Era come se quell’uomo dagli occhi bendati potesse scrutare meglio di chiunque altro nel cuore di Deshawn per rivelarne, con il tepore della sua dolcezza, i più polverosi segreti, le più nascoste paure. «Un giorno finirai per farti male, e io ne morirò.»
Tu non sai quanto stia soffrendo io, per te, e per questa dannata situazione, pensò Deshawn, ancora in piedi, il mantello a sgocciolare per terra, ad odorare di pioggia. Si chinò, passando una mano – da sopra le coperte – sul busto scarno di John, tenendogli il viso con l’altra, per poterlo baciare lentamente, a fondo. Il respiro di John si fece più corto, pressoché rauco; nel bacio si accostarono prima timidamente, poi con fermezza, il notturno freddo britannico dall’immancabile foschia e quel tepore tipico di una camera al chiuso, di un letto riscaldato da numerose coperte di lana, di un animo sereno.
«Cercherò di stare attento» sospirò Deshawn, poco prima di baciargli la fronte, le tempie; la bocca. Nella stanza, l’eco della sua voce risuonò premuroso e leggero.
John percorse il suo braccio con le dita, stringendo poi i capelli, toccandogli il collo, il viso, le spalle. Aveva labbra molto secche, e Deshawn impiegò un minuto intero per potergliele rendere morbide, cedevoli. John sorrise ancora, per la risposta dell’altro, e, senza in ogni caso abbandonare la sua mano, appoggiò nuovamente la testa sul cuscino.
Una pausa, un colpo di tosse, ed infine parlò.
«’Shawn…» non riuscì a concludere la frase. Un nuovo attacco lo paralizzò, impetuosamente, impedendogli di respirare. La trachea aveva iniziato ad ardere, il cuore a vibrare troppo forte, le mani a tremare. Il corpo si sconquassò sotto gli spasmi, sotto quel rumore gracchiante, agitandosi freneticamente finché Deshawn non calò svelto su di lui, mettendolo a sedere, con una mano sulla schiena, a ribadirgli infinite volte la sua vicinanza, a pulirgli scrupolosamente il viso con la propria veste. Sangue, ancora.
«’Shawn… mi dispiace» si scusò John, a disagio, sentendo il noto sapore acre salirgli in gola. La stoffa non lavorata gli escoriava la pelle, diventata ormai una sottile membrana quasi trasparente, ma lui parve non accorgersene. Non disse nulla, ma si strinse a Deshawn, sperando che questi lo abbracciasse.
Deshawn lo esaudì. Si costrinse ad un gesto gentile, quando avrebbe voluto prendere quel tessuto sudicio ed imbrattato di sangue, stracciarlo e farne ingoiare un lembo a ciascun medico di ciascun ospedale della città; ci avrebbe aggiunto del cianuro, o del laudano, per dare un tocco di drammaticità alla scena. Di questo ne era certo.
Sfiorò con il pollice lo zigomo di John, rassicurandolo che non era assolutamente colpa sua, che tutto andava bene, che non aveva fatto nulla di male; provò ad ignorare quel pugnale che ad ogni colpo di tosse che scuoteva John gli si conficcava più a fondo dentro al petto.
Deshawn credeva che, come per mano di un sadico assassino, l’arma ruotasse costantemente nel suo petto crogiolandosi della loro atroce sofferenza.
Alzò la testa al soffitto, ansando, per rifiutare l’insana paura che lo avvolgeva sempre quando John aveva gli ‘attacchi’ (così li aveva definiti l’ultimo medico al quale si erano rivolti prima che, per la propria abissale incompetenza e le feroci grida dissennate di Deshawn, si gettasse all’indomani nelle putride acque del Tamigi). Trenta, quaranta maschere scagliavano dai muri i loro sguardi sentenziosi; sui suoi polsi, sopra le lenzuola macchiate, lungo il collo sporco di John. Maschere e bautte, appese nella disposizione più casuale, erano la collezione che sin dall’adolescenza aveva occupato una buona fetta dell’animo di John, e che ora vegliava su di lui, e sui suoi occhi senza vista.
«’Shawn…»
«Shh…» Deshawn gli posò un dito sulle labbra, invitandolo languidamente a fare silenzio. «Ho una cosa per te» aggiunse, con tono affettuoso; John sentì il fruscio del mantello dell’altro che scivolava sul pavimento, fra grovigli di polvere e i peli grigio scuro del gatto che, di tanto in tanto, quando lui era solo, saliva fino alla sua camera a fargli compagnia. (Era un cespuglio di pelo tigrato dagli occhi gialli come il sole che Mrs Perkins, che già si prendeva cura dei due uomini come fossero i suoi figli mai avuti, aveva deciso di adottare. Conservava sempre una piccola porzione destinata alla bestiola, alla quale aveva simpaticamente riservato – non senza sentite rimostranze da parte di Deshawn – il nome gallese ‘Alun’). Deshawn fissò per alcuni attimi il bastone prima di posarlo all’angolo della testiera del letto; prese dalla propria veste il regalo per John, adagiandoglielo in grembo. Gli carezzò i capelli, sporchi e oleosi, come fossero seta pregiata.
«Di cosa si tratta?» domandò lui, curioso, prima di stringere il fagotto al petto. Al tocco delle sue dita questo risultò più o meno delle dimensioni di un piatto, ricoperto da un leggero strato di carta – presumibilmente alcuni fogli di qualche vecchio quotidiano.
«Aprilo» rispose la voce di Deshawn, anelante, al suo orecchio.
John lo assecondò; tolse il regalo dalla sua protezione di scritte gotiche e vicende politiche, poggiando delicatamente le pagine del Daily Telegraph accanto a sé; mano a mano che l’involucro si assottigliava il mezzo sorriso sulla bocca di Deshawn si allargava. A John non fu possibile vedere quanto gli occhi dell’altro divennero famelici, le sue mani gelide. Le dita serrate.
Deshawn poté giurare di aver sentito il proprio cuore contrarsi, poi distendersi, poi contrarsi nuovamente per un tempo che parve senza fine. Come ogni volta fu brutalmente attraversato dall’assurdo pensiero che quel regalo potesse non risultare gradito, che John avrebbe anche potuto disprezzare il suo gesto, e respingerlo in malo modo; avrebbe anche potuto disfarsi di lui. E questo, taciuto dallo spettro di una forza interiore che ormai si dissolveva giorno per giorno, germe dopo germe nella salute di John, coperto perpetuamente come la luce dallo strato di nebbia alle verdi campagne inglesi, era ciò che più massacrava la sua anima; ciò che più la corrodeva. Perdere la sua ragione di vita; perdere il suo John.
Sarebbe stata la fine, questo era più che assodato.
Deshawn era pienamente consapevole che in un futuro neppure troppo lontano il Tamigi avrebbe accolto anche il suo corpo; quando John avesse chiuso per l’ultima volta le palpebre, assopendosi per sempre, anch’egli si sarebbe lasciato cullare, ad occhi chiusi, dai sussurri prodotti nella sua mente dall’acqua esangue al di sotto di un qualsiasi ponte, impossessandosi delle sue vesti, delle sue braccia, della sua nuca.
Alcuni fugaci istanti di vuoto, dopo aver salutato con le suole delle calzature la barriera di protezione in ferro, e l’impatto sarebbe stato spietatamente violento; l’acqua come un marmo putrido e granitico, impenetrabile, liscio e crudele. La mente spenta, quando gli indumenti fossero diventati pesanti, tanto quanto il fardello che per anni aveva dovuto tenersi sulle spalle.
Era soltanto questione di tempo, e John lo avrebbe aspettato con il suo consueto sorriso, tenue ed impalpabile, mai dimenticato, tendendogli una mano; Deshawn lo avrebbe abbracciato, baciato, e la pelle di John sarebbe stata vellutata come in passato, senza quelle piaghe, senza sgretolarsi sotto il tocco d’una carezza.
E di tanto in tanto, quando la sua disperazione sforava nella follia più cieca e funesta, e l’odore di sangue era addensato nell’aria in modo straziante, (ed erano momenti come questo ad essere la situazione ideale in cui comporre simili e disperati pensieri) Deshawn osava immaginarsi l’esistenza senza quelle dita leggere sul suo viso, senza le indispensabili carezze della voce strascicata e lieve che John sapeva far sussurrare al suo orecchio. La prospettiva era agghiacciante. Deshawn doveva sfiorare infinite volte la fronte di John, accostandovisi sopra, constatando quanto questa fosse imperlata di sudore e viva, per mettersi il cuore in pace, e quietarsi. I battiti cardiaci tornavano ad un livello pressappoco regolare solo quando confessava all’altro quanto lo amasse, e quanto avesse bisogno della sua presenza.
(“Per te ci sarò sempre,‘Shawn…” Replicava ogni volta John, con voce spontanea e rassicurante, cingendo il corpo di Deshawn.)
Ora, davanti al sorriso che John gli stava offrendo, non ebbe più di che preoccuparsi; John rideva, e soltanto questo importava. Stringeva la maschera appena ricevuta in dono con entrambe le mani, al petto, carezzandola come fosse un viso, reale e vivente; la superficie era liscia, le pennellate poco evidenti; eppure, al solo sfiorarle, John sembrò percepire le intricate decorazioni presenti attorno ai fori degli occhi, porporine e dorate, sottili. Toccò appena il profilo della maschera, fece passare un dito lungo tutta la sagoma ovale, e sorrise ancora. La maschera era incantevole e fredda, e addossandola alla parte superiore della veste da notte fu così semplice immaginarsi un grande salone, addobbato a festa, e una moltitudine di abiti eleganti, curiosi, vittoriani che fluttuavano danzando.
Lasciando libera la fantasia (e questa era una pratica che John eseguiva con la puntualità di un banchiere britannico) si sarebbe beato della coppia che, al centro della sala e dell’attenzione altrui, catturava sguardi e ammirazione fra le volte affrescate del soffitto; protette da maschere e costumi veneziani, avrebbero nascosto ai festeggiamenti le fattezze di due uomini alti, giovani, snelli. Lui e Deshawn.
In silenzio, Deshawn tentò di capire cosa potesse passare per la mente dell’uomo di fronte a sé, dietro quegli occhi chiusi, quasi estasiati; lo osservò. La camicia da notte, che su di sé conservava non poche macchie brunastre, cadeva malamente dalle spalle ossute di John; il collo sottile, pallido, tanto esile che senza sforzo era possibile vedere le vene scorrervi all’interno; quei capelli, sporchi e unti, che da tempo avevano perso l’antica, fulva colorazione, ora sfioravano il suo collo in vaghe onde dalle fosche tinte tardo autunnali. Il suo John non era altro che l’ombra dell’incantevole giovane di un tempo, di quando tutto andava bene, e i problemi non erano che un tedioso e soporifero lavoro da risolvere prima di rivedersi, e passeggiare assieme, addentrandosi nelle anguste librerie di Charing Cross sotto la pioggia incessante. Null’altro se non lo spettro della persona che in una di quelle lo aveva sedotto, e ammaliato; eppure, nel profondo, era per Deshawn bello come e più d’allora.
Lo vide allietarsi, lo vide dimenticarsi per pochi attimi dello sguardo senza vista, della malattia che lo stava annientando, di quel letto e quella casa abbandonati a se stessi. John portò la maschera davanti al proprio viso, poggiandovela contro.
«Come ti sembro?» chiese John, con tono sereno nella voce.
«Discreto» fu la risposta; Deshawn gli tolse la maschera dal viso, prendendo poi questo fra le mani, e poggiò un ginocchio sul materasso fino a chinarsi per dargli un bacio, lungo, profondo. Si curò di posare la maschera sul cuscino, accanto al capo dell’uomo disteso, prima di continuare a sfiorare questi con le labbra, leccando le sue, e mordendo le proprie con violenza per non urlare, o peggio ancora piangere, per la disperazione che ferocemente l’aveva investito. John gli carezzò i capelli, lunghi e trasandati, di un indefinibile biondo cenere; gli sfiorò le spalle, da sopra le vesti, con un tocco delicato e rassicurante, eppure fermo.
John che sussurrava quanto Deshawn gli fosse mancato quella sera, di quell’ultimo giorno dell’ultimo mese dell’anno 1898; John – il prezioso John – che confessava quanto profondamente potesse amare l’uomo che ad ogni occasione gli ricordava cosa significasse non essere soli. John, che con due dita a saggiare carezzevoli gli zigomi dell’altro, mise fine al bacio.
«Discreto?» ricalcò, mettendosi a sedere. «Discreto?» sorrise.
«Quando capirai che il tuo viso non è paragonabile a nient‘altro, John?» ribatté Deshawn, ora cupo in volto. Scosse la testa, inspirando copiosamente per calmarsi e farsi forza. Ogni volta che pensava all’altro, ed ogni volta che lo vedeva, non poteva fare altro che supporre le possibili proprie azioni (sempre che se ne verificassero) nel momento in cui lo avrebbe visto inerte, riverso nel letto, o compito in una postura ordinata, eppure avvolto nel silenzio che la morte lascia dietro al proprio passaggio.
Non era John ad avere paura, questo Deshawn lo aveva appreso negli anni. John non ne aveva, o nel caso il terrore si fosse impossessato di lui, il suo animo lo avrebbe certamente distrutto con la gioia di vivere, con la dolcezza; con la consapevolezza di aver vissuto, meravigliosamente, tutti gli anni che gli erano stati assegnati.
«Questo non toglie che la maschera sia splendida, ‘Shawn» mormorò John, a pochi centimetri dalla sua gola, prima di accostarvi le labbra e deporre un singolo, incantevole bacio su di essa. «Come tutte le altre che mi hai donato».
«L’ho vista per caso in una vetrina…» mentì Deshawn, sopprimendo con aria autoritaria il ricordo delle lunghe ore che quel giorno aveva passato a vagare per Londra, per trovarne una incantevole. «E ho subito pensato che ti sarebbe potuta piacere.»
«Mi piace molto, ‘Shawn» sussurrò ora John, sforzando la propria voce per farvi affiorare quell’antica, ormai dimenticata, nota di sensualità. Poté sentire il cuore di Deshawn, mentre si strofinava contro il suo collo, accelerare le pulsazioni, il suo fiato farsi più corto. «Grazie.»
Deshawn sorrise, mormorando fugacemente qualcosa che doveva somigliare a un ‘prego’, ma che in realtà rimase nella segretezza di un bacio, profondo, appena dato a John. Carezzò a lungo la benda che copriva i suoi occhi, ricalcando il profilo delle sopracciglia, per poi scendere a carezzare la sua bocca; infine, sfiorandogli l’orecchio con labbra livide, gli disse che sarebbe ritornato entro pochi minuti. John annuì, carezzando l’altro, e le sue vesti, finché queste non seguirono l’ombra del loro padrone.
Allora John indugiò in silenzio, respingendo quelle fastidiose ed empie lacrime che come una eterna melodia non cessavano affatto di placarsi; rimase seduto tra coperte ruvide e profumo di pioggia, pregando che Deshawn tornasse presto.

Deshawn richiuse la porta dietro di sé, non prima di aver dato un’ultima occhiata a John, opalescente agli attenuati raggi della luna, sedere a schiena ricurva sul lato sinistro del letto. Chiuse gli occhi, per riaprirli poco dopo e ritrovarsi sulla cima della rampa di scale malconce, con il tacco della calzatura che in quell’attimo si congiungeva al legno con un minaccioso crepitio.
Una decina di gradini senza protezione, accompagnati dagli angusti rumori del legno marcio e del mormorio che ora, al piano terra, Deshawn fu in grado di avvertire e infine facilmente associare a Mrs Perkins. Voce calda e profonda, raschiata via da una gola in fiamme.
Fra pareti e locali vuoti e alcuni pezzi d’arredamento coperti da lenzuola bianche e polverose, l’eco di quelle parole si mischiò al sentore di chiuso e ai passi dell’uomo con una certa naturalezza. Attraversò la cucina, invase il soggiorno, dileguandosi poi fra le crepe presenti nei muri, e Deshawn poté chiaramente udire la donna augurare la buonanotte ad una platea di ascoltatori vegetali.
«La prima volta che le risponderanno, vorrò esserci» dichiarò l’uomo, entrato in quel momento nella stanza adibita, ormai da lunghi anni, ad una sorta di tracimante e insolito vivaio.
«Oh, Deshawn…» esclamò Mrs Perkins, stupita, voltandosi in quel momento con aria frastornata. Aveva i capelli perlacei raccolti in un modesto chignon, fermato sulla nuca con un rametto dalla non precisata provenienza; con un benevolo sorriso sulle labbra, ora teneva in mano un piccolo vaso alla cui estremità, nel terriccio, facevano capolino due piccoli germogli verdognoli. «Eri qui da molto?» continuò, fissando Deshawn.
«Solo il tempo necessario a sentirla amabilmente conversare con una camelia» la tranquillizzò lui con fare serio, scostando con una mano dell’edera che pendeva dal soffitto e gli disturbava la visuale, prima di avvicinarsi alla donna e deporre un bacio sulla sua fronte raggrinzita. Come un balsamo o una crema penetrati nell’epidermide, quell’odore che le narici di Deshawn erano da tempo addestrate a percepire fece la sua comparsa sulla scena. L’uomo non si mosse; si sentì ghermito, si sentì attraversato. Ma il proprio corpo era tanto imbevuto di morte, sfibrato e macilento, per potersi anche solo azzardare a scansare quello altrui.
Una mano di Mrs Perkins si posò dolcemente sulla guancia di Deshawn, il tocco affettuoso che solo una madre – di nascita o di vita, nel loro caso – o un amante straordinario sono in grado di possedere; quella dimostrazione d’affetto per la quale Deshawn sarebbe stato disposto ad implorare, ad inginocchiarsi, e per la quale sarebbe stato capace di sciogliersi.
«Perché non torni da lui?» seppure espressa con il tono più comprensivo e pacato del quale la donna era provvista, la domanda fu per Deshawn più violenta d’un colpo nello stomaco. L’uomo rimase per alcuni attimi in silenzio, sforzandosi di guardare Mrs Perkins nel verde dei suoi occhi, e sentendo una significativa fetta dell’esigua porzione di senno che gli rimaneva ricordargli quanto fosse con lei incapace di mentire. Prese un respiro, e confessò.
«Ho bisogno di un minuto»
«E’ tutto il giorno che ti aspetta, perché sei qui?» domandò Mrs Perkins seguendo l’uomo, un groviglio di umidi capelli biondastri su di una schiena emaciata, impegnato nell’apertura sistematica di tutti i cassetti e le antine rintracciati sul proprio raggio dR17;azione. Vi fu il rumore di mani inquiete che rovistano fra metallici oggetti da cucina e dita che sparpagliano su di un tavolo il contenuto del cassetto; vecchi barattoli di semi, alcuni strani pulviscoli depositati dentro vasetti di vetro che si disparsero sulla superficie in legno, al centro del locale.
La cucina aveva una forma esagonale, ed era illuminata da alcune candele profumate che, in armonia con i tanti e vari fiori poggiati su ripiani, credenze e cassette in legno, emanavano un aroma carezzevole e soffuso che si impregnava considerevolmente nell’aria circostante; Mrs Perkins, che – per quanto non volesse – ormai verteva inevitabilmente sui tre quarti di secolo, lo trovava un eccellente metodo per alleviare quel velo malsano di malattia e morte che sembrava essersi ormai impadronito dell’abitazione e di tutti i suoi abitanti.
«Cosa cerchi, caro?» domandò lei a voce più alta, perché il fragore al quale Deshawn stava dando vita aumentava allo stesso passo della sua cavernosa irrequietezza, man mano che la consapevolezza di non poter trovare nulla gli pulsava più forte dentro la testa.
«Qualcosa da dargli» sbottò l’uomo, prima di voltarsi furiosamente contro la donna. Il volto vitreo, spettrale; un’infinita distesa di marmo dalla quale lo sguardo della donna, ricurva e minuta fra i lumi delle candele accese, riuscì a distogliersi solo nel prendere atto dell’artificiale bagliore che scintillava fra le dita di Deshawn.
L’uomo, inerte ed ansante, con orrore si rese conto di avere un coltello da cucina nella mano sinistra.
Vi fu un lungo, dilatato momento di imbarazzante silenzio. I disperati occhi in fiamme di Deshawn, che avrebbero saggiamente terrorizzato qualsiasi esemplare di umanità morigerata presente nel regno di Sua Maestà, erano qualcosa a cui la donna era più che abituata, a cui era assuefatta, e che aveva occasione di vedere con un certo perforante dolore almeno una quindicina di volte all’anno. Così strinse le labbra, contemplando tristemente lo straziante patimento che, come un martoriante abito funereo, ghermiva l’uomo da lei considerato come un figlio. Deshawn, con occhi sbarrati, lasciò lentamente distendere il proprio braccio fino ad adagiare la mano lungo il fianco; nel silenzio più assoluto, mentre tremante scostava lo sguardo da quello della donna, aggiunse: «Ci deve pur essere qualcosa che lo faccia stare meglio…»
«Sai bene che non c’è» rispose la voce pacata di Mrs Perkins, che scosse tristemente il capo intanto che si avvicinava alla schiena di Deshawn, per abbracciarla con forza. «Non c’è nulla che possa sradicare la sifilide, lo sai meglio di me. Non c’è nulla, Deshawn, proprio nulla che possa farlo» proseguì, posando una guancia fra le sue scapole, e stringendogli la vita fino a sentire l’uomo, dapprima inequivocabilmente irrequieto e teso, rilassarsi contro la sua presenza. Infine, tolse l’arma dalle dita inerti dell’uomo, deponendola poi su di un ripiano lì vicino.
Deshawn lasciò scivolare dalla presa della mano – questa volta – destra un barattolo; in un primo momento rotolò – quasi con innaturale lentezza – lungo l’asse del tavolo, oscillò sul bordo, beccheggiando come una piccola imbarcazione fra onde troppo elevate, e finalmente cadde a terra, frantumandosi all’istante. Rimase a guardarlo, gli occhi quasi assenti, mentre la donna, con molta pazienza e notevole sangue freddo, sfidava l’iraconda violenza del suo bambino e infine, con un’abbondante dose di coraggio, riusciva a calmarlo. Non gli fece notare che anche poco prima aveva sentito un tonfo analogo provenire dall’ingresso; non ne ebbe né la forza né la volontà di farlo. Così gli carezzò la nuca, i capelli, le spalle fino a che i tremiti di lui non si attenuarono; poi, delicatamente, si schiarì la voce e parlò.
«In ogni caso… vedi quella porta?» disse Mrs Perkins, indicando con un ossuto dito sfiorito l’entrata della cucina; subito Deshawn si volse a fissarla, l’espressione sconfortata di chi ha perduto tutto e si accinge, per un insano verdetto del destino, ad ascoltare e seguire qualunque labirintica indicazione per non vedersi separare anche dalla ragione. «Vai fuori di qui, sali quelle scale – un giorno devi provare ad assestarle, tesoro, o precipiteremo entrambi – e torni da lui, che è da questa mattina che mi supplica di dirgli dove sia finito il suo ‘Shawn» concluse l’anziana donna, curvandosi per raccogliere i cocci del barattolo distrutto. Si stupì di quanto quei frammenti del barattolo somigliassero all’uomo che poco prima lo aveva fatto cadere; una forma eccellente, impeccabile, che per mano d’una violenta e crudele imposizione altrui si trovava incautamente a rovesciarsi sul baratro dello sconforto, e precipitare a rilento nel vuoto, cadendo, facendosi a pezzi nella folle e cieca disperazione.
«Sul serio John ha chiesto di me?» chiese un inconsistente simulacro della voce di lui. L’espressione, quasi apatica, poteva essere facilmente riconducibile alla descrizione perfetta di un uomo sotto shock, amplificata dall’assurda presenza del coltello che, persino ora che era appoggiato ad alcune decine di centimetri di distanza, Deshawn percepiva ancora posto sul palmo della propria mano. Fissò la donna, esanime. Lei, dal canto suo, comprese in quell’istante che a Deshawn non premeva sapere se John avesse effettivamente chiesto di lui, ma che si sarebbe facilmente accontentato anche solo al pensiero di John che chiedeva di lui.
Deshawn non si era mai capacitato di avere, soltanto per sé, un uomo delizioso come John; ma, per intuire questo, non era affatto necessario trovarsi con un coltello puntato contro la propria sopravvivenza. Al contrario, era qualcosa dalla discreta evidenza. Riflettendo su questo si sollevò, poggiando i cocci più voluminosi in un recipiente di rame nei dintorni; nel farlo, urtò lievemente la mano dell’uomo con il braccio, riscontrandola ghiacciata.
Del resto, la sensazione di freddo artificiale, causata indubitabilmente dal (breve, ma senz’altro intenso) contatto con l’arma, si affievolì decisamente quando, fra le proprie dita, Deshawn si trovò quelle affabili e calde di Mrs Perkins.
«Prova a chiederglielo tu stesso» lo sollecitò la donna, con un comprensivo sorriso sulle labbra incartapecorite; accarezzando il viso di Deshawn, si rese conto di quanto la sua carnagione, già di per sé pallida, avesse ora assunto una nebulosa e cagionevole, innaturale colorazione bluastra.
Deshawn annuì, consapevole del fatto che non sarebbe mai andato ad informarsi; credeva, ciecamente, ad ogni parola esternata della donna.
«Anzi. C’è qualcosa che sicuramente lo farà stare meglio» affermò Mrs Perkins, preparata alla intuibile reazione dell’uomo, il cui corpo, fino ad ora stremato, prostrato dalla rabbia e dai sussulti di pochi attimi prima, iniziò a risvegliarsi. Come una cera che al sole lentamente si scioglie, il viso di Deshawn perse insensibilità ed assunse, al contempo e drammaticamente, una piega designata ad un fedele in preghiera.
C-che cosa?” sembravano chiedere i suoi occhi, anelanti.
«Vai da lui, e resta tutta la notte.»
Un momento di esitazione, e prontamente la risposta, amara quanto un veleno.
«Lei sa perfettamente che non posso.» (Deshawn si morse il labbro inferiore; si era sforzato di omettere un torbido brandello di verità e questo, neanche fosse stato un ago introdotto furiosamente nella pelle, gli causava sofferenza. La frase autentica, se lui stesso non fosse stato troppo codardo per ammetterlo, sarebbe stata: “Lei sa perfettamente che io non ci riesco”.)
«Io non voglio sapere questo, ‘Shawn. Io ti ho solo detto cosa di certo lo farebbe soffrire meno, non se tu debba o non debba fare le tue consuete passeggiate notturne» rispose Mrs Perkins, con un’inequivocabile ed acre severità nella voce materna. Sembrava essere esattamente al corrente di cosa avrebbe fatto Deshawn quando, entro poche ore, sarebbe uscito da quella casa; avrebbe attraversato l’incolto giardino sul retro, sbattuto il cancelletto d’entrata in ferro con un piede, prima di spingersi fra lampioni spenti, odori malsani e ripugnanti, strade perfide e spietate e poi... e poi
Mrs Perkins lo sapeva.
Sostenuta dalle tenebre di una tarda serata dell’inverno precedente, aveva trovato il coraggio di allontanarsi dal calore domestico prodotto dal camino acceso e dai mormorii di un John dormiente per attraversare i loschi quartieri dell’altra Londra e seguire Deshawn; dover inesorabilmente contemplare lo sfacelo a cui Deshawn era arrivato senza poter dire nulla era stato agghiacciante; un colpo troppo forte per una donna della sua età. Malgrado ciò, tornando a casa carica di una certa consistenza di profondo disgusto che le saliva in bocca, iniziò a comprendere il perché di un gesto come quello a cui aveva assistito. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo di Deshawn, del suo piccolo ‘Shawn, farsi vivo in quell’istante. Aveva ribadito tante e tante volte a se stessa come quel comportamento, presumibilmente, arrivasse ad ancorare Deshawn ad un piccolo, esiguo margine di realtà, senza farlo perire, o sparire, e senza che il poco senno ancora presente nelle sue vene si riducesse al nulla più assoluto. L’inesorabile e vendicativa frustrazione, quella che traspariva in ogni piega del suo volto, in ogni sua carezza, in ogni sua parola, era l’unica spiegazione.
Mrs Perkins lo sapeva, e lo capiva. Eppure, ancora, non riusciva a condividerlo.
Deshawn prese il viso sottile della donna e lo appoggiò al proprio petto, magro, eppure tanto confortevole. Fece passare alcuni istanti senza dire nulla perché, per quanto potesse odiare doverlo ammettere, non avrebbe avuto nessuna scusante alla quale aggrapparsi. Sentì alcune lacrime premere per riversarsi sul suo viso, inumidendogli gli occhi, lasciando solchi sulla pelle chiara; strinse il corpo di lei contro di sé, sentendosi scaldare dall’affetto che quella donna, alla quale non aveva mai neppure pensato di rivolgersi con il gravoso termine “madre”, sapeva dimostrare sinceramente giorno per giorno.
«Salgo a salutarlo.»
«Te ne vai così presto?» domandò Mrs Perkins con una punta di tristezza nella voce, ed alzò il viso per poter scrutare Deshawn nei suoi plumbei occhi scuri. Rimosse con una carezza alcune lacrime dalla sua guancia, e fu in quel momento che Deshawn voltò lo sguardo di lato, imbarazzato, e con una manica della veste si asciugò le ultime lacrime rimaste strappandosele dal volto, e graffiando quest’ultimo con il tessuto non lavorato dell’indumento. Prima di risponderle, tuttavia, si premurò di fare alcuni passi verso la porta che conduceva al soggiorno. A quel punto, volgendo il capo verso la figura di Mrs Perkins, fra calendule ed una pianta di rose rosse, indusse il proprio volto a sorridere, e parlare con tono lievemente più disteso; «Tornerò prima, lo prometto».
«Dovrebbe esserti chiaro che non amo le menzogne, ‘Shawn.»
«Lo giuro, Mrs Perkins» un sospiro, prima che anche l’ombra dell’uomo svanisse, con un delicato e crepitante rumore di passi, nel denso buio del locale adiacente. «Lo giuro sull’affetto che ho per John.»

Mrs Perkins seppe, tramite quel giuramento che ancora fluttuava nell’aria circostante, volteggiando fra i lumi e le candele accese, tinteggiandosi di rossa essenza floreale, che Deshawn non avrebbe potuto mentire. Mai. Non avrebbe in nessun caso partorito una frase ingannevole in cui, anche solo lontanamente, vi fosse associato il nome di John.
Si voltò allora verso la credenza, e con un sottile, impalpabile sorriso, scelse fra le numerose alternative quale qualità di tè preparare per i due giovani. Poi, da un altro barattolo, tirò fuori una manciata di zollette di zucchero; (forse troppe, ma l’aroma dolciastro avrebbe sicuramente fatto bene all’animo). Certo, non erano né le cinque in punto né – soprattutto – vi era alcuna rimanenza del pomeriggio ormai trascorso, ma John e Deshawn necessitavano di qualcosa di caldo da mandare in corpo, e lei, Mrs Perkins, autentica gallese di Cardiff, non aveva certo il tempo e la voglia di attenersi nemmeno al più becero principio d’etichetta che il cavilloso e pedante popolo inglese aveva avuto il capriccio secoli prima di creare.

Non sentendo Deshawn tornare, John aveva incautamente provato a liberare le proprie gambe dal massiccio peso di lana e coperte con l’intenzione di scendere dal letto; sfortunatamente, però, l’idea di ispezionare la villa per trovare Deshawn (e stringerlo tanto forte da non permettergli di andare più via) non piacque molto alle sue membra, che la etichettarono all’istante come mansione troppo difficoltosa da compiere, e così lui dovette arrendersi, con lieve rancore, alla tormentata e malinconica attesa degna di un’aberrante principessa innamorata.
Restò pertanto una nutrita ventina di minuti a carezzare il volto fittizio di quella maschera che, pur non avendo avuto opportunità di osservare, arrivava caldamente a figurarsi come qualcosa di straordinario. I polpastrelli sfiorarono le cavità degli occhi, la protuberanza della raffinata bocca vermiglia, e quelle decorazioni, quasi arabescate sulla linea delle sopracciglia, che ornavano il prodotto d’infinito prestigio e inestimabile bellezza. Provò anche a posizionarla contro il proprio viso, lasciando aderire entrambi alla perfezione; fra la realtà di ciò che aveva fra le mani e quel vascello stipato di sogni che solcava le tranquille acque della sua fantasia, non fu affatto laborioso lasciare da parte quella camera e quel letto vuoto, ed ancor meno arduo fu approdare sul pregiato tappeto rosso deposto sul pavimento di un salone in festa (chissà quante ve ne sarebbero state quella notte, per celebrare il sopraggiungere del nuovo anno!) ed iniziare a passeggiarvi. Alzando il capo, celato dalla maschera color dei rubini più belli, avrebbe intravisto un’immensa, mastodontica cascata di cristalli che, con filamenti iridescenti e dorati, si reggeva saldamente al soffitto affrescato. Uomini e donne, al ritmo decretato dall’orchestra, lasciavano danzare gli eccezionali abiti da sera, vittoriani nei tessuti e nei drappeggi, nella tuba e nel corsetto allacciato. Grandi divani trapuntati d’avorio sui quali sedevano maschere e figure d’altri tempi, e nelle cui vicinanze si avvertivano alle narici eccessivi, artefatti profumi e fragranze vagamente stordenti.
Riconobbe lo scenario sul quale aveva fantasticato quando, poco prima, Deshawn gli aveva donato un altro frammento per la sua sterminata collezione, e di questo John non poté che essere felice; assestò meglio la maschera contro il proprio volto, ed immaginò di oltrepassare il grande portone dorato della sala, e di camminare fra corridoi fastosi e ridondanti dove il rumore dei propri passi avrebbe riecheggiato silenziosamente a lunga distanza; spintosi così nel cuore del palazzo, avrebbe avuto la sensazione d’essere osservato dai muri pieni di quadri e ritratti settecenteschi dai nasi adunchi, dai busti marmorei e dalle statue antiche situate lungo i lati del passaggio. Si sorprese – o si sarebbe sorpreso, non fu possibile stabilire la versione veritiera – ad ammirare un salotto decorato in sostanza solamente da ornamenti e tonalità blu; si sarebbe stupito, ingenuamente, di quanto sarebbe stata sconfinata la biblioteca di palazzo. Il tutto avrebbe avuto la somiglianza con l’avere le porte aperte su Buckingham Palace, avvenente e raffinato nella sua imponenza, all’interno del quale sarebbe stato affascinante abbandonarsi e passeggiare.
John parve gemere lievemente. Stava senza volerlo arrivando alla scena conclusiva, quella che ogni volta tinteggiava le sue chimere d’un fatuo, roseo sentore d’ingenuo romanticismo; avrebbe vagabondato fra le ancora tante e sontuose stanze inesplorate del palazzo fino a dimenticare, senza accorgersene, la via d’uscita, e confuso, infine scoraggiato dall’eventualità di perdersi, come nel migliore dei sogni possibili avrebbe incontrato quel qualcuno. Questi, dall’abito di argenteo broccato, gli sarebbe venuto incontro e lo avrebbe assistito, gli avrebbe domandato cosa avesse spinto la magnifica figura che trovava di fronte a sé in quella remota landa desolata dell’edificio, lontana dal salone e dal ballo; avrebbe certamente indossato anch’egli una maschera, plausibilmente nera, dalle rilucenti decorazioni perlacee, e insieme – sempre sottostando alle inconsapevoli intenzioni di John – avrebbero parlato di poesia e racconti, d’avventure e molto altro ancora; si sarebbero sentiti liberi di rivelarsi l’un l’altro qualsiasi segreto, e ottenuta la giusta confidenza concessa agli estranei belli, John avrebbe potuto osare prendere la mano dello sconosciuto fra le dita, stringerla forte, pregando questi perché non lo riportasse nel pieno della cerimonia.
John, ora disteso sul letto, sentì la maschera scostarsi delicatamente dal suo viso; ebbe la suggestiva, incantevole percezione delle labbra dello sconosciuto che sfioravano le proprie, della bocca che rispondeva allo stimolo, ed esplorava quella ardente dell’altro, inconsciamente, come fosse un arcano da possedere, un’ancora a cui aggrapparsi all’interno di quel palazzo dei sogni da cui – ora sì – desiderava venir via. Mani sfioravano il suo volto, ed altre mani si soffermavano sulle sue spalle aggraziate liberandole dalla veste di broccato. John gemette, o così gli parve di sentire, prima che i propri sensi venissero nuovamente oscurati dalle appassionate attenzioni che l’altro gli stava riservando.
«Dio, come posso allontanarmi da te…» sussurrarono amorevoli quelle labbra che, durante l’arco di tutto il pittoresco sogno, John aveva deciso di destinare all’affascinante figura dello sconosciuto; Deshawn carezzò il volto di John con la delicatezza di cui sarebbe stato opportuno servirsi per modellare saggiamente un raffinato monile, per erigere un incantevole castello di carte. Deshawn, ricurvo sul corpo addormentato dell’altro, ebbe cura di proteggerlo dagli spifferi freddi che transitavano nell’aria coprendolo – con estrema cautela, facendo attenzione a non disturbare il suo sonno leggero – con le coperte; gliele rimboccò fino al mento, concedendosi infine una carezza sul suo torace, sui suoi fianchi (quanto tempo avrebbe resistito l’istinto, prima di persuadere Deshawn a denudare John ed amarlo ancora dopo tutti quegli anni? Molto, molto poco; ed al diavolo le preoccupazioni di John sulla malattia; a costo di qualunque contagio, Deshawn lo avrebbe convinto – ne aveva così tanto bisogno…) ed un bacio sulla gola candida. «Starò via poco, John… te lo prometto» sospirò ancora a John, al momento immerso nell’incantevole sogno. «Te lo prometto» concluse ora, indossando il lungo mantello pesante, prima di prendere il bastone da passeggio.
Rivolse infine lo sguardo a John, al suo viso reclinato verso la porta; il petto saliva e scendeva nel sorgere e calare del respiro - sempre più regolare nel gradevole tepore prodotto dall'abbraccio della lana pesante. Deshawn sorrise amaramente, perché per quanto si sforzasse di apparire quantomeno posato e calmo agli occhi dell’altro, dentro di sé nascondeva una gran voglia di urlare.
Così, con una morsa che gli stringeva inesorabilmente lo stomaco, Deshawn nascose in corpo la minuziosa istantanea del suo John steso sul letto, con la mente rapita fra nuvole e sogni e le labbra distese in un sorriso; appena dopo essersi riassestato gli abiti sulle spalle, Deshawn si accinse a varcare la soglia della stanza, sfuggendone per alcuni attimi; giusto il tempo di svuotare dalla mente, e dal corpo, ogni pulsione che potesse anche soltanto minimamente tentare di scalfire John – non sarebbe mai, mai dovuto accadere niente di simile, o Deshawn non solo non si sarebbe mai dato pace, non solo si sarebbe gettato nel fiume; Deshawn avrebbe continuato a vivere, un affare ben peggiore dei precedenti.
Erano anni che si sforzava di non farlo accadere; segregando le depressive frustrazioni e l’attanagliante rancore nei confronti dello sfavillante mondo a cui era obbligato ad appartenere nel punto più oscuro del proprio animo; era un duello continuo, quello tra una mente che lentamente si smorzava ed un corpo che assiduamente si struggeva, per sancire quale dei due, in definitiva, soffrisse di più.
L’uomo, ora tornato in possesso dell’aria tenebrosa che il mantello donava al suo aspetto, scese le scale, facendo attenzione a non farsi vedere – né sentire – da Mrs Perkins (che ancora, con fatica, rimediava in cucina china per terra a quel che l’eccesso di rabbia dello stesso Deshawn aveva prodotto; l’acqua del tè era a bollire, ma sicuramente si sarebbe freddata prima del tempo); raggiunta quindi la porta d’ingresso, la sua bocca riuscì a respirare aria fresca, satura di rumori e odori, satura di persone.

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Era in una notte senza luna e senza stelle, in cui cavernose nubi e roboanti tuoni si contendevano con ostinazione il dominio del cielo, che cadeva lo scoccare del primo giorno dell'anno. In un buio fitto, dominato dall’assidua e conturbante nebbia che, come una tenebrosa amante, avvolgeva in un abbraccio silenzioso gli edifici circostanti, le zone tetre, le stazioni della metropolitana abbandonate. Un sentore di sporcizia, turpitudine ed oscenità, sebbene non vi fosse almeno Scotland Yard a tentare di annientarli, lottavano indisturbati anche in quella occasione di festeggiamenti per l’assoluta supremazia nel mondo.
E fu in una di quelle tetre vie, nei primi albori del 1899, che qualcosa avvenne. La visibilità era decisamente pessima, come trovarsi di fronte l’enorme superficie d’un lago notturno, caliginoso e cupo; i ciottoli del vicolo, ben lontano dai grandi viali del centro, echeggiavano nel silenzio circostante sotto i passi delle calzature che vi marciavano sopra.
Quasi certamente fu per questo motivo che l’uomo, benché avesse udito un indistinto rumore di passi altrui, accantonò per mancanza di fondamenti ogni inquieto presentimento; provò a voltarsi indietro, per controllare meglio, ma tutto quello che riuscì a scorgere fu un alto muro di foschia, torreggiante e impenetrabile.
Ebbe così solamente il tempo necessario ad incalzare l’andatura, affrettandosi, far ondeggiare i capelli sulla nuca, concentrandosi infine sull’eccessiva quantità di fiumi rossi stillati da vecchi bottiglioni durante la cena da amici; poi, si sentì sbattere contro la facciata del palazzo accanto con una violenza inaudita, che mai, mai, l’uomo avrebbe neppure mentalmente desiderato di usare contro un ipotetico peggior nemico. La fronte sbatté, una mano gli strinse la bocca tanto forte da impedirgli di urlare. La vittima riuscì a sferrare un calcio alle proprie spalle, ma fu troppo debole per scalfire un corpo come quello che sentiva essere quello dell’altro. Mani forti, unghie sottili e lunghe, artigli a lacerare il viso dell’ignaro passante con la folle, cieca furia di un gatto al quale, per un insano e crudele gioco delle possibilità, è stata strappata la coda. Il suo viso, celato al mondo dalle tenebre, parve urlare di piacere quando riuscì a sbattere a terra l’uomo, un innocuo medico sulla cinquantina, e gettarvisi sopra per ferirlo.
Gli indumenti vacillarono, i tessuti raffinati si sporcarono con il fango, impregnandosi degli odori nauseabondi della strada. L’uomo cercò di alzarsi, ma subito dopo la figura piombò su di lui; l’uomo, sdraiato, riuscì soltanto a notare che portava un bastone da passeggio, e sconcertato poté giurare a se stesso che lo stava aprendo, strappando il pomello via dall’asta, gettando quest’ultima lontano, per estrarre fuori un’arma. Luccicante, nell’oscurità, questa si rivelò essere un pugnale, dalla lama fine e letale, che lacerò l’atmosfera e vi insinuò a forza un acre odore di terrore, di raccapricciante orrore; l’uomo gridò, strepitò mentre, senza riflettere su quanto sarebbe stata insensata la supplica, chiedeva all’altro cosa avesse intenzione di fare con quel pugnale (non vi fu nulla di retorico. In quel momento la vittima stava comprensibilmente tremando, sconquassata da singhiozzi per la consapevolezza che lo ghermiva dall’interno, a ricordargli come uno spietato memorandum che non sarebbe uscito vivo da quella situazione.
Il pugnale si mosse nell’aria; affondò. Fallì.
Ma la posta in gioco era la vita. E lo scontro fu inevitabile.
L’uomo per schivarlo si era rotolato sul fianco destro, grugnendo, venendo ferito soltanto di striscio ad una spalla; era stato molto rapido considerando la sua robusta mole, e spinto da quello strano, innato istinto che impone malauguratamente agli esseri umani di sopravvivere ad ogni condizione (un qualcosa sul quale Deshawn avrebbe avuto molto da ridire), aveva serrato forte la gola dell’altro. L’aveva stretta, scalfita, graffiata. Ne aveva sentito la trachea sotto la pelle, e aveva istintivamente pensato di comprimerla saldamente nella morsa delle proprie dita. Si sentì il carnefice rantolare, agonizzante, con il pugnale ancora nella mano; poi questi ringhiò, crudele, senza fiato; reagì con un calcio brutale sul femore della vittima, avventandosi nuovamente contro di essa.
L’uomo, certamente non sobrio dopo i festeggiamenti della notte, riuscì suo malgrado a cavarsela per alcuni minuti (strinse il polso col pugnale dell’altro, gridando, con una voce gracchiante e terrorizzata, e implorò consciamente un aiuto che non sarebbe mai arrivato), ansimando, e sbatté il carnefice sotto l’insopportabile peso del lauto pasto ingurgitato poche ore prima. Quello del carnefice era magro, e non fu difficile sopraffarlo. Così gli scalfì il volto, vendendo a caro prezzo la pelle; gli alzò la manica della veste e gli spezzò un polso, con violenza, e grazie all’effetto sorpresa riuscì perfino ad azzardarsi fino a mordergli il collo con forza. Era così fragile.
Il dolore fu accecante, spaventoso.
Il carnefice ruggì; l’intenso odore di sangue rese ciechi i suoi occhi, assetate le sue mani. In quel momento non pensò a quanto il braccio avrebbe potuto fargli male, a quanto le ossa si sarebbero incrinate; la furia lo assalì, l’ossessivo desiderio di vendetta (selvaggio, spietato, quel frustrante desiderio che lo aveva ormai corroso fino al più piccolo pezzo dell’animo) gli infuse la forza di farlo. Alzò il polso spezzato, strinse con fermezza l’elsa del pugnale, ed affondò. Si sentirono dei tessuti – veste lussuosa, mantella, strati di pelle – sbriciolarsi, farsi carta per la violenza della lama; ed un grido, non fu chiaro se della vittima o del carnefice, riuscì a fendere il cielo.
Ambedue rotolarono per lunghi minuti, ansimando a terra sotto la pioggia incessante, l’uno con un’arma conficcata all’altezza del cuore, l’altro la veste ed i polsi imbrattati di sangue.
Ci fu un altro urlo, rude e brutale, di terrore, se possibile peggiore del precedente, quando il pugnale venne estratto dal cuore e trascinato dallo stomaco lungo il ventre, e altri litri e litri di sangue e liquidi colarono sul lastricato ghiacciato come un velo purpureo. L’uomo iniziò a tremare, a mormorare preghiere ad un dio silenzioso e lontano, ma non poté fare altro che sbarrare gli occhi.
Il carnefice si inginocchiò su di lui, silenzioso, ancora ansante, e fece per chiuderli. Il cuore della vittima pulsava ancora, constatò, osservando fiotti di sangue fuoriuscire ancora dallo squarcio; emergeva una nutrita quantità di viscere che, come serpenti, andavano a insinuarsi sulla pavimentazione del vicolo. Vi fu un istante d’incertezza nel contemplare la scena che aveva ai piedi; le mani tremavano ancora, ma quello sguardo parve non resistere a lasciarla intatta, drammaticamente statica, e con brutalità intimò alla propria mano, ancora dolente, di piantare la lama del pugnale dentro agli occhi della vittima. La mano obbedì.
Si guardò attorno, riscontrando compiaciuto quanto la nebbia e la notte fossero state sue amiche, e le ringraziò con un bacio. Poi estrasse, paradossalmente non senza una smorfia di ripugnanza, il pugnale dall’occhio sinistro della vittima, e si massaggiò il polso, mentre filamenti acquosi e rossastri colavano dalla lama. Cosa avrebbe detto John, sentendo quelle ferite sul suo corpo, al risveglio? Si toccò il collo, sul quale i polpastrelli riscontrarono profonde ferite. Tirò un calcio alla testa dell’uomo. John si sarebbe preoccupato, e questo sarebbe accaduto soltanto per colpa di quel putrido, repellente mostro che giaceva nella sua pozza di sangue.
Raccattò l’asta del bastone da passeggio e, dopo averlo ripulito sul proprio mantello, vi introdusse il pugnale dalla sommità. Si sentì un clic, e l’arma abbandonò la scena, cedendo il posto ad un rovinato bastone da passeggio, di antica eleganza. Lo fece roteare in aria più volte, per riacquisire calma e freddezza. Così si incamminò verso la vecchia casa, abbandonata eppure tanto accogliente, mentre nella foschia iniziavano ad intravedersi le prime luci dell’alba.
Dopo tutti quegli anni non si era ancora propriamente abituato a farlo, e, pur vedendolo come qualcosa in cui liberarsi da una piccola parte del dolore, una infida, minima parte di sé teneva ininterrottamente a ricordargli quanto potesse essere vicina la propria, di fine.
O quella di John.
Deshawn si chinò a terra, sforzando la propria vista per riuscire a trovare, in quel buio, la maschera che lo aveva condotto verso quella determinata vittima. L’uomo – o quel che ne resta, di quell’uomo, rifletté con sdegno – teneva ancora nella mano una maschera dai profili d’argento, dalla superficie e dalle labbra nere e sottili. Aveva sentito la necessità di farlo. Non avrebbe mai potuto sostenere l’idea di John da solo, in quella casa, malato, e là fuori le persone intente a divertirsi, godere, vivere. Non avrebbe mai perdonato la vita, per essersi sgretolata sotto i loro romantici, intimi sogni di gioia.

 


* Il Borough Market è uno dei più celebri mercati londinese; attivo fin dal VIII secolo, è da sempre situato all’angolo fra Borough High St. e Stoney St.