Tales of a Sick Love

 

parte II - Dead bunnies and cute puppy eyes

 

di Ophelia Darkwater

 


 

Lavi era un idiota morto.

Già da tempo si divertiva a farmi perdere la pazienza, di cui già avevo una riserva decisamente scarsa, ad affibbiarmi stupidi nomignoli ed a trascinarmi fuori di casa contro la mia volontà, ma questa volta aveva passato il segno. Il suo nome saltò all'istante in cima alla mia lista delle cose-da-uccidere.

L'unico motivo per cui mi ero trasferito a New York era stato che in una città tanto affollata, avrei potuto condurre la mia vita indisturbato e felicemente ignorato dal resto degli abitanti, troppo occupati a condurre le loro frenetiche vite per anche solo notare la mia esistenza. Nessuno avrebbe disturbato il mio esilio volontario, nessuno avrebbe nemmeno tentato di avvicinarmi, se non per chiedere indicazioni, ed anche in quel caso io mi sarei limitato a guardare storto il malcapitato e poi continuare per la mia strada.

La mia vita tranquilla e beatamente solitaria finì sgretolata tra le mie mani, senza che io potessi impedirlo, quando vi entrò Lavi. L'effetto del suo ingresso nella mia privacy fu come il passaggio in una stanza di un miniciclone, che lascia tutto in disordine, a svolazzare nell'aria, le finestre spalancate o scardinate, le tende e i tappeti sbrindellati, i mobili rovesciati. Di certo, prima della sua apocalittica venuta, io non mi sarei mai e poi mai ritrovato in un club, tra luci stroboscopiche che mi davano sui nervi, musica martellante che non potevo sopportare e, ultimo ma non per importanza, una moltitudine di ragazze rabidiche a cui saltava in mente la pessima idea di avvicinarmi.

In effetti, l'unico modo che quella testa rossa vuota aveva trovato per attirarmi fuori di casa era stato nientemeno che rubare la mia Mugen.

Si era presentato nel mezzo della notte alla mia porta, mi aveva svegliato piagnucolando qualcosa sulla mia scarsa vita sociale e su come un giorno mi sarei ritrovato vecchio e solo a far la muffa, e per di più ancora vergine. Avevo spalancato la porta di botto a quest'ultima affermazione nella speranza di colpirlo e tramortirlo per almeno un paio d'ore, e il maledetto ne aveva approfittato per sgusciare come un'anguilla nella mia sacra dimora, per poi uscirne trionfante con Mugen stretta tra le mani. Sfortunatamente, non ero riuscito a bloccarne la fuga.

Non si direbbe dalla sua stupida faccia, ma è veloce a scappare, molto veloce. Forse l'aura da potenziale pluriomicida che emanavo alle sue spalle mentre lo inseguivo giocò una buona parte nella sua velocità, comunque...

Poco manco che facessi una carneficina quando il buttafuori di quello stupido locale osò chiedermi di pagare l'ingresso, ma fortunatamente per lui e tutta la fila di clienti in attesa, Lavi decise saggiamente di pagare anche per me; già che mi ero alzato, vestito e fatto bello – o almeno questa era la sua opinione – potevo restare almeno a farmi un drink. Dopo due orrende canzoni tecno, un White Lady tiepido e dieci – dieci! In cinque minuti scarsi, cazzo! - stupide ragazze che avevo provveduto a rifiutare brutalmente, avevo deciso di averne abbastanza, e poco importava che non avessi un soldo con me, che il mio appartamento fosse a svariati isolati di distanza, che avrei dovuto andarci a piedi, che fuori piovesse a dirotto. Dovevo andarmene e tornare nel mio piccolo, silenzioso angolo di pace.

Naturalmente, quella notte doveva andare tutto storto, o almeno fu quello che pensai nel momento in cui un bambino bagnato fradicio ed inseguito da un energumeno dall'aspetto poco raccomandabile mi si schiantò addosso. La mia prima reazione fu di sorpresa, certo. Per un attimo il cappuccio che copriva la testa del piccoletto scivolò un po' indietro, quanto bastava perché i suoi capelli bianchi risplendessero argentati come la luna che li illuminava, tanto che per un fugace, infinitesimale momento mi chiesi se non fosse un bambino quello che tenevo tra le braccia, bensì una qualche creatura soprannaturale. Un angelo, forse? Ma il momento di sconcerto durò, appunto, un momento, di cui il mocciosa probabilmente nemmeno si accorse.

E proprio in una di quelle rare sere in cui mi ritrovavo fuori, sotto una pioggia battente e gelida, in una stradina lurida, dopo aver sfogato un po' di frustrazione su di un perfetto sconosciuto, mi ritrovai tra le mani un ragazzino spaventato e tremante, che mi guardava con occhi tanto liquidi e luminosi da sembrare cesellati in argento lucidissimo.

Non so cosa diavolo mi prese quella notte, ma pensai subito di non riportarlo ai suoi genitori, per nessuna ragione, di gettare all'aria i miei principi che mi vietavano categoricamente di stringere legami con qualunque altro essere vivente. Desiderai impossessarmi di quella misteriosa, incredibilmente bella apparizione e rinchiuderla in una gabbia dorata da cui non sarebbe mai potuta fuggire via. Lontano da me.

Mentre l'acqua precipitava sui nostri corpi, sui nostri vestiti, mentre crepitava nelle pozzanghere e cantava su ringhiere, grondaie ed infissi di metallo una melodia spezzata ed ovattata, desiderai irrazionalmente di portarlo a casa con me.

Il mio silenzio prolungato lo spinse a parlare.

- Potresti, se non è disturbo... ospitarmi a casa tua, stanotte?

- Perché dovrei accontentarti?

La mia risposta fu dura, ma non aggressiva come sarebbe stata di solito. Realizzai con una certa indifferenza che da tempo ormai Mugen era puntata al suolo, inoffensiva.

Il bambino mi guardò intensamente per un attimo, prima di rispondere. L'effetto era da togliere il respiro a qualunque femmina che non fosse morta o in coma: dalla scheggia di cielo scuro che era la pozzanghera in cui l'avevo lasciato, sembrava un cucciolo particolarmente dolce e carino, mentre ti guardava dal basso, bagnato fradicio, con quei suoi occhi imploranti...

Ma io non ero una donna, quindi non mi misi a strillare per la delizia.

In effetti non volli ammettere l'eventualità di volerlo fare, magari solo interiormente. Assolutamente no. Avrei presto scoperto quanto mordente gli “occhi da cucciolo” potessero avere su di me...

- Per favore.

Rinfoderai Mugen, odiando con tutte le mie forze la pioggia sferzante che mi attaccava i capelli al viso, odiando il cielo con la certezza che il sentimento fosse mutuale, ed odiando quel moccioso che, quando mi incamminai per andarmene, mi seguì con la tenacia di chi è abituato a subire qualunque cosa senza dire nulla.

Si è mai vinta una guerra a parole e sguardi carini? Perché allora Allen vinse.

 

Quando entrammo in casa, non mi curai di avvertirlo di togliersi le scarpe, (il mio appartamento era stato totalmente rimodernato in stile giapponese) poiché eravamo entrambi fradici, quindi avremmo bagnato e sporcato il pavimento in ogni caso, scarpe o meno. Ma il moccioso mi sorprese, sfilandosi le scarpe quando notò il vano davanti alla porta adibito allo scopo. Certo l'educazione del gesto fu vanificata quando camminò gocciolando sul parquet chiaro, lasciando una scia d'acqua in rapida espansione.

Cercai di contenere l'istinto omicida ricordando a me stesso che io stavo commettendo lo stesso identico crimine.

Prima che potesse saltargli in mente la pessima idea di sedersi sul divano, lo dirottai in cucina, dove lo costrinsi a prendersi una sedia. Notai che oltre a tremare dal freddo, i suoi occhi innaturalmente lucidi: probabilmente aveva la febbre.

Fantastico, non solo ho raccolto un cucciolo dalla strada, ora devo anche prendermene cura, perché è malato...

Lo lasciai in cucina con la testa che ciondolava per il sonno e la stanchezza, e cercai dei vestiti asciutti per me ed un asciugamano per il mocciosetto. Non c'erano possibilità di trovare nel mio guardaroba vestiti che avrebbe potuto indossare senza sembrare infilato in un'enorme manica a vento, ed inoltre avrei dovuto provvedere pure a preparargli qualcosa di caldo, tipo del tè, e poi avrei dovuto infilarlo da qualche parte a dormire... non c'era proprio verso che gli lasciassi il mio futon, neanche per scherzo.

Digrignai tra i denti una qualche espressione molto colorita. La vita di un singolo individuo era già abbastanza schifosa e complicata di per sé senza aggiungerci anche il cercare di proteggere o aiutare qualcun altro, dannazione!

Rimasi congelato per qualche secondo davanti al guardaroba spalancato, le braccia distesa ad aprirne le ante, gli orli dei pantaloni che stillavano poche gocce d'acqua sul pavimento. La superficie del legno era piacevolmente tiepida sotto i miei piedi nudi; nella fretta di inseguire Lavi, mi ero infilato le scarpe in tutta fretta, oltre che la prima camicia che avevo trovato. Cercai di calmare la frustrazione e la rabbia rimanendo in quella posizione il più fermo possibile, cercando di trovare la stessa calma che ero in grado di raggiungere durante la meditazione, dopo i miei abituali allenamenti con la spada.

Mi ero trasferito in una città perfettamente sconosciuta, in un Paese la cui esistenza per me non aveva mai avuto molta importanza, tre anni prima. Cercavo una città caotica e tanto fremente e brulicante di vita ed attività da non volersi accorgere della mia presenza. Troppo occupata a bruciare denaro tanto velocemente quanto ne produceva, New York non aveva tempo di curarsi di me, cosa di cui ero riconoscente. Troppo occupati a produrre, litigare ed essere stressati, i newyorkesi non disturbavano il mio esilio. Ero solo uno delle centinaia di migliaia di immigrati che gli Stati Uniti si impegnavano a ignorare o disprezzare. Certo la cosa era irritante, contando il fatto che ogni singolo abitante dello Stato in questione è un immigrato con la sola eccezione dei Nativi, ma in fondo non me ne importava granché. Avevo cercato un posto lontano dove sparire, l'avevo trovato. Un posto dove, per lo meno, speravo di morire in pace.

Raccolsi dall'armadio ciò che serviva a me ed al moccioso dai capelli bianchi – che nel momento di rabbia post-trauma da solitudine violata avevo appena deciso di soprannominare moyashi – e tornai in cucina dopo essermi cambiato. A parte una giacca fradicia appoggiata sul deumidificatore in un angolo e un bel po' di gocce sul pavimento, non c'era nessuno.

Imprecai. Decisamente quella sera qualcuno voleva mettere alla prova la mia pazienza.

- Stupido moyashi, dove ti sei cacciato? - lo chiamai a voce alta, sperando che non fosse svenuto da qualche parte per la febbre o, peggio ancora, fosse andato a curiosare in giro.

- Che cosa?! - mi rispose la sua voce, che subito seguii. Naturalmente non aveva capito l'insulto.

Lo trovai alla fine del corridoio che divideva in due metà la casa, dove era stata ricavata una piccola nicchia. Un filo di fumo si srotolava in lente spirali dal bastoncino d'incenso che avevo acceso poche ore prima per onorare i miei morti. Il moccioso si voltò a guardarmi quando lo raggiunsi alle spalle, un'espressione indecifrabile negli occhi limpidi. Paura, forse? O rispetto misto a tristezza? Non avrei saputo dirlo con certezza.

Mentre osservava le steli di pietra scura e levigata, mi chiese perché accanto all'incenso posasse un unico fiore di loto, adagiato in un vaso di vetro per metà pieno d'acqua.

- Non sono affari tuoi, moyashi.

- Mi chiamo Allen!

- Felice di saperlo, moyashi.

Io sogghignai. Lui mise il broncio.

Me ne tornai in cucina, e il piccoletto mi trotterellò dietro mentre si strofinava i capelli con l'asciugamano, e poi si sedette sulla stessa sedia su cui sarebbe dovuto rimanere fin dall'inizio, invece di ficcare il suo piccolo naso nei miei affari. Il silenzio si stabili tra di noi mentre preparavo il tè. Anche la pioggia si era assottigliata fino a smettere del tutto di cadere, e tra le nuvole fece capolino il disco perfetto della luna piena, che illuminò la cucina molto meglio della luce malaticcia e debole del lampadario.

Il rumore dell'acqua che bolliva fu tanto fievole da non interrompere il silenzio, bensì da rafforzarlo.

La luce argentea s'infranse in mille piccoli frammenti nella tazza di tè caldo che porsi al piccoletto; lui la accettò riconoscente, sfoderando un sorriso di ringraziamento alla melassa.

Io presi la mia tazza e mi appoggia al davanzale, guardando dalla finestra le file interminabili di palazzi e grattacieli che estendevano per chilometri e chilometri fino alle più estreme sponde dell'isola di Manhattan, della foce dell'Hudson, dell'entroterra della contea. Abitavo in un condominio, certo non all'altezza di un grattacielo, ma comunque sufficiente per mostrare in tutta la loro artificiale, futile magnificenza le mille luci della Grande Mela; non che lo spettacolo scalfisse in qualche modo il mio odio per la città – ricordavo con più piacere Tokyo, città che finché avevo abitato in Giappone avevo evitato come la peste.

Il moccioso sorbiva lentamente il suo tè, senza pronunciare parola.

Strano che un bambino di... quanto, undici, dodici anni al massimo, beva del tè verde senza nemmeno chiedere un po' di zucchero.

Lo studiai.

Da dove veniva? Dov'erano i suoi genitori? Prima l'avessi saputo, prima me ne sarei sbarazzato, dopotutto. Era forse scappato di casa? Anche bagnati i suoi vestiti non sembravano quelli di un vagabondo, ma certo un bambino non gironzola per New York a notte fonda, da solo, e sotto la pioggia battente, se ha un minimo di istinto di sopravvivenza. Lo vidi lasciarsi sfuggire una smorfia al sapore amaro del tè, ed io sogghignai leggermente; sembrava proprio il tipico moccioso tutto sorrisi ed educazione che non si sarebbe mai sognato di lamentarsi per qualunque tipo di trattamento avesse ricevuto.

Perso nei miei piani per liberarmi di lui al più presto, non mi accorsi subito che un paio di occhi argentati stavano ricambiando il mio sguardo. La tazza stretta tra le mani, il piccoletto sembrava cercare qualcosa da dire.

- Hmm... grazie per il tè...

Il suo accento britannico era anche peggio del biascicare californiano di Lavi.

- Mi ringrazi per qualcosa che non riesci nemmeno a bere? Sei patetico, moyashi.

- ...Bhe', ma... in fondo tu mi hai aiutato...- vidi passare un lampo di rabbia nei suoi occhi quando mi rispose, ma fu solo un guizzo momentaneo. Mi chiesi quanto mi ci sarebbe voluto per far cancellare quello stupido sorriso di cortesia dalla sua faccia.

- In ogni caso...- disse sorridendo cordialmente, come ormai mi aspettavo – come ti ho detto io mi chiamo Allen. Allen Walker. Tu come ti chiami?

- Che importanza ha? Domani se tutto va bene sarai fuori di qui e io non dovrò vederti mai più. - risposi scoccandogli un'occhiata glaciale.

A quel punto non riuscì a nascondere l'occhiataccia piena di antipatia che gli attraversò il viso; si alzò improvvisamente come per dirmi qualcosa con un tono decisamente poco amichevole, ma prima che potesse dire nulla, il suo sguardo si offuscò e perse l'equilibrio, crollando di nuovo sulla sedia. Mi guardò per qualche secondo, un'espressione stupita negli occhi spalancati, come se non capisse ciò che gli stava accadendo.

Io restituii lo sguardo senza una parola. Probabilmente mi si leggeva in faccia quanto fossi disponibile ad aiutarlo ( e se non l'aveste capito, volevo soltanto liberarmi di lui il più presto possibile. In effetti stavo valutando la possibilità di scaricarlo al più vicino ospedale e abbandonarlo lì...).

Con un'espressione insofferente dipinta in volto, mi alzai dal davanzale e, poggiata la mia tazza ancora piena sul tavolo, andai verso la mia camera. Raccolsi dall'armadio una coperta, aspettandomi di trovare il moccioso già in salotto; invece era ancora nel vano della porta della cucina quando tornai, l'asciugamano che gli avevo dato ( o meglio buttato addosso ) che strisciava sul pavimento, una cocca nella sua mano.

Dopo aver gettato la coperta sul divano, lo guardai. A lungo. Ma lui non si mosse. Evidentemente c'era qualche nozione del linguaggio corporeo che non aveva ancora ben assimilato nella sua stupida testa vuota.

- Moyashi, vedi di venire subito qui, o giuro che dormirai fuori dalla porta – dissi con voce mortalmente seria.

Capita l'antifona, mi trotterellò accanto, sempre trascinando l'asciugamano sul parquet. Glielo tolsi, per poi gettargli addosso la coperta, al che lui esclamò indignato – Ehi, basta! - con la sua voce ancora infantile.

- Spero per te che domani mattina tu sia in grado di comporre un discorso coerente, perché vorrò sapere dove abiti ed il numero dei tuoi genitori. Per ora vedi di non disturbare il mio sonno, chiaro, mocciosetto?

Mi complimentai interiormente con me stesso per non avere inserito nel mio discorso nemmeno un'imprecazione; in fondo quello che avevo davanti era poco più di un bambino. Lenalee sarebbe stata fiera di me...

Lui mi fissò per un lungo momento con quei suoi occhi impossibilmente chiari e lucidi, un'espressione indecifrabile sul viso: lontana, distante, oppure era solo l'effetto della febbre?

Quando si stese, addormentandosi quasi istantaneamente; io mi sedetti su di una poltrona lì accanto, due dita a pizzicare il punto tra i miei occhi, all'attaccatura del naso, dove il mal di testa era più forte. Avevo la sensazione che non mi sarei liberato molto presto del fagottino tremante sul mio divano, e di solito il mio intuito non sbaglia mai.