Messaggio dell'autrice: questa fanfiction è scritta da due punti di vista differenti: quello di Allen e quello di Kanda. Almeno per ora, è mia intenzione mantenere questo semplice schema:
capitoli dispari: punto di vista di Allen,
capitolo pari: punto di vista di Kanda.
Spero che l'uso alternato della narrazione in prima persona dell'uno e dell'altro non crei problemi.
Inutile dire che il pairing sarà principalmente KandaxAllen. Giusto alcune avvertenze: questa fanfiction sarà una shotacon, probabilmente shonen ai, AU (ambientata ai giorni nostri).
Disclaimer: D Gray Man appartiene a Hoshino Katsura ( che io venero come un dio)

...spero che vi divertiate a leggere questo mio piccolo pargolo perverso...
 




 


 

 

Tales of a Sick Love

 

parte I - Heavy Heart, Heavy Rain

 

di Ophelia Darkwater

 


Mi avvolsi più strettamente nelle coperte, ascoltando il picchiettare della pioggia sulla finestra, lo stormire delle foglie indorate dall'autunno sugli alberi del giardino. Le nuvole grigie e vagamente minacciose avevano solcato il cielo per tutta la giornata, e finalmente avevano deciso di imperlare di gocce d'acqua la città addormentata; era giusto una pioggerellina leggera, che sfiorava ogni cosa - i mattoni dei palazzi, i vetri delle finestre, gli steli dell'erba, l'asfalto delle strade - con la delicatezza di una bambina che sfuma un colore su di un foglio con le sue morbide dita.
Quel suono tuttavia non mi aiutava a prendere sonno. Da molti mesi le notti per me erano divenute interminabili, insopportabilmente lente, esattamente come ogni giorno. Avevo l'impressione che ogni nuova alba mi sbattesse il mio dolore in faccia con la sua ridente, gioiosa luce, e che l'oscurità della notte mi avvolgesse come un sudario, così pesante, così soffocante...
Liberatomi del groviglio di coperte che era divenuto il mio letto, mi alzai per affacciarmi alla finestra. Osservai assentemente la tempesta ingrossarsi, le gocce battere più rabbiosamente sul vetro freddo su cui avevo poggiato i polpastrelli, come se volessero raggiungermi. Il vento si era fatto più violento, ed era intento a strappare le foglie già pronte a cadere dalle chiome degli alberi, ingaggiando con loro una folle danza nell'aria. La luna piena imperlò per qualche attimo il cielo, lasciando cadere un drappo di luce pallida in uno squarcio tra le nuvole che galoppavano follemente sopra la città, la terra, il mio dolore.
Un nodo perenne nella gola che a tratti mi impediva di respirare, tanto da farmi sentire sul punto di morire.
Una stretta implacabile sul cuore, forte e persistente, tanto da farmi desiderare di morire.
Nulla di tutto ciò traspariva all'esterno, nulla attraversava la maschera confortante - per gli altri e per me - del mio viso sorridente; ma sentivo quella stessa maschera sbriciolarsi e creparsi ogni giorno di più. Per cui, fu con occhi spenti che osservai l'oscurità della notte accompagnare nella sua folle danza d'acqua, vento e gelo la tempesta, finché il buio non sembrò pulsare di vita propria, insinuarsi tra le foglie e la corteccia, serpeggiare sull'erba, ghermire la villa con dita di tenebra. Quella Dea oscura che è la Notte prese possesso della camera, nascondendo alla vista ogni mobile, ogni tessuto, ogni più piccola crepa nell'intonaco antico dei muri.
Intorno a me rimase solo nero, una cortina di pece che mi oppresse con una vago terrore che non ero ancora consapevole di provare, finché alle mie spalle risuonarono dei passi. Senza fretta, si avvicinarono, per poi arrestarsi, in attesa. Credo di aver dimenticato di respirare in quel momento, mentre capivo che, dietro di me, Mana mi osservava. Non proferì parola, si limitò ad osservarmi, ed anche se non osai voltarmi per vedere la sua espressione, seppi con esattezza che vi avrei letto un certo rimprovero, oltre alla tristezza.
La consapevolezza si abbatté su di me come un maglio sul ferro incandescente che era il mio cuore, bruciante, sofferente, oppresso, perché in quel momento - tra i pensieri confusi di orrore e la battaglia per capire come fossi finito catapultato in quell'incubo - capii di stare commettendo un terribile errore. Non stavo nemmeno cercando di mantenere la promessa che gli avevo fatto in quel giorno maledetto: non stavo andando avanti. Mi trascinavo stancamente da un'alba a un altro tramonto, lasciando che il tempo scorresse senza senso, lasciandomi prendere dall'apatia, anche se ad un osservatore poteva sembrare altrimenti, non facevo altro che sorridere di sorrisi vuoti e insensati, e per tutto quel tempo Mana aveva aspettato che io ricordassi cosa gli dovevo, cosa dovevo a me stesso, e tutto questo inutilmente...
L'oscurità sembrò inghiottirmi famelica, mentre io cercavo di oppormi ad essa, mentre un dolore conosciuto mi lacerava l'occhio sinistro...
Mi alzai a sedere sul letto con la stessa urgenza e lo stesso terrore con cui un uomo sul punto di affogare riemerge per un attimo dagli abissi tumultuosi che reclamano la sua vita, e soffocai l'urlo che stava per sfuggirmi nelle coperte che stringevo convulsamente. Non sapevo quando mi ero addormentato, né quando il temporale si era davvero fatto più violento. Sapevo solo che dovevo andarmene subito.
Non importava che uscire di notte a New York, per un dodicenne come ero io allora, non fosse affatto sicuro. Non importava che probabilmente mi sarei preso una polmonite gironzolando con quel tempo a dir poco impietoso.
Rovesciai le coperte sul pavimento ed infilai le scarpe in tutta fretta, per poi gettarmi sulle spalle la prima giacca che pescai nell'armadio, e spalancai la portafinestra affacciata su di un piccolo balcone. Il vento e la pioggia mi accolsero benevoli, calmando i miei pensieri vorticanti e confusi. Trassi un respiro profondo. Sarebbe andato tutto bene, finché avessi fatto come voleva Mana. Dovevo solo mantenere la mia promessa...
Saltai dal balcone al muro di cinta lì vicino, e poi sulla strada dall'asfalto bagnato e lucido. Mi calai il cappuccio sui miei appariscenti capelli bianchi, ricordo della morte del mio adorato papà adottivo, e camminai senza meta, accolto a braccia aperte dalla Notte, che aveva in serbo per me il più dolce dei destini in cui avessi potuto sperare.

Vagabondai per ore, finché i vestiti non mi ricoprirono come una seconda pelle tanto erano zuppi, e finchè non ebbe l'impressione di avere delle bocce piene d'acqua - e complete di pesci - al posto delle scarpe. Non avevo idea di che ora fosse, e il freddo aveva già da tempo raggiunto anche le mie ossa. Avevo incontrato poche persone, e miracolosamente nessuna aveva mostrato interesse per me. Sbucai da una strada piuttosto stretta in una nuvola di vapori provenienti da un tombino adiacente, fermandomi un attimo a valutare quale direzione prendere. Poco più in là vidi due uomini intenti a biascicarsi qualcosa tra i denti che stringevano una sigaretta ciascuno, i profili illuminati dall'insegna al neon soprastante; delle sirene lontane disturbavano l'inquieta notte della metropoli, mille luci osservavano gelide la città insonne. Continuai a camminare, ascoltando la canzone delle gocce fitte sulle pozzanghere e sull'asfalto luccicante d'acqua.
Mi sentivo abbastanza sicuro; ero in una delle parti meno pericolose della città, piena di negozi dalle vetrine invitanti e di bar o piccole drogherie aperte fino all'alba; le macchine e i taxi sfrecciavano senza sosta sulla strada al mio fianco, illuminando a tratti i volti di giovani - e meno giovani - diretti verso un qualche locale. Avrei voluto entrare anch'io in qualcuno di essi, preferibilmente un piccolo bar con poca clientela dove nessuno mi avrebbe notato, caldo ed asciutto, e magari se mi fossi spacciato per un povero piccolo bambino disperso il gentile proprietario si sarebbe fatto commuovere dal mio visino tanto dolce e mi avrebbe offerto qualcosa... non sarebbe stato corretto, ma quando si è costretti a convivere con un folle schizzato come Cross si impara ad ingegnarsi, per sopravvivere...!
Riemergendo per un attimo dai miei pensieri, mi trovai davanti all'entrata di una fermata della metropolitana; allettato dall'idea di un posto all'asciutto, vi scesi. Saltai con un balzo le barriere delle obliteratrici - tanto, non c'era nessuno a guardarmi - ed aspettai pazientemente, insieme a pochi altri, l'arrivo del convoglio, dondolandomi sui piedi.
Prima sui talloni...
...il barbone avvolto nei giornali poco più in là starnutì nel suo piccolo angolo di squallore...
poi sulle punte...
...la donna dall'aria esausta accanto a me si attorcigliò una ciocca di capelli con fare nervoso...
Quando il convoglio arrivò, vomitò una banda di ragazzi dagli abiti tre taglie troppo grandi, con catene d'oro - o presunto tale - a profusione intorno al collo; alcuni di loro sfoggiavano ragazze ridacchianti, molti impugnature di pistole o coltelli sotto le giacche. Mi spostai dalla loro strada, e quando una delle loro accompagnatrici allungò una mano per accarezzarmi, biascicando qualcosa su "quanto fossi carino", mi ritrassi di scatto nell'ombra di un pilastro, per nascondere i capelli bianchi e la cicatrice sull'occhio... La combriccola se ne andò per la sua strada ridendo sguaiatamente, e quando mi sedetti nel treno malamente illuminato tremavo ancora. Mi ero quasi dimenticato quanto mi terrorizzasse la vicinanza di sconosciuti, parte di una società che sembrava no volermi.
Mentre l'acqua stillava lenta dagli orli dei miei vestiti inzuppati, riflettei su come avrei fatto a nascondermi da quel momento in poi. Ero stato abituato a sentirmi sicuro e protetto da chiunque, sotto il tendone del circo e tra le braccia amorevoli di Mana; e sebbene non ne fossi affatto felice, potevo considerarmi al sicuro al fianco di Cross, perché chi avrebbe mai osato avvicinarsi a quell'uomo tremendo? E per i soldi, il riparo... come avrei fatto? Avevo già vissuto come un vagabondo a volte, ma mai da solo... e poi, non poteva certamente essere questo il destino che Mana desiderava per me, giusto...?
Mi guardai intorno smarrito. Nel vagone c'erano solo un giovane con le cuffie alle orecchie che ciondolava la testa a ritmo con la musica ed una bambina intenta a leccare pigramente un lecca-lecca. Quasi non registrai la loro presenza, perché alle loro spalle, oltre alla porta che collegava al vagone successivo, vidi la sagoma avvolta per metà nell'ombra di mio padre. Ancora una volta, non ne scorsi il volto. Lo fissai per quelle che sembrarono ore, ma forse semplicemente il tempo aveva rallentato la sua corsa, perché tra il dolce "plic" di una goccia e l'altra che colavano dai miei vestiti sembravano passare ere intere. La bambina mi guardò incuriosita, continuando a gustare imperterrita la sua caramella; in effetti dovevo avere una gran brutta cera, poiché avevo sentito il sangue defluire dal mio sangue praticamente all'istante.
Dal suo angolo d'ombra, Mana allungò una mano verso di me, come ad invitarmi a raggiungerlo; in quello stesso istante il treno si fermò. La porta accanto a lui si aprì, e mio padre la oltrepassò. Prima che mi rendessi conto di quel che stessi facendo, mi ritrovai anch'io sulla banchina.
Il treno alle mie spalle ripartì con un rumore di pistoni e metallo che sfrega su metallo, ed io mi chiesi perchèé diavolo fossi sceso lì, di tutti i posti. Ero a Times Square, probabilmente l'unico posto in cui non avrei mai voluto finire: era uno di quei luoghi magici in cui la gente sembrava non dormire mai, gli automobilisti non andare mai a casa e i giovani non avere mai voglia di smettere di divertirsi. Affollata anche di notte.
E le mie allucinazioni non mi avrebbero certo aiutato a gestire il panico, la paura e i brividi che i vestiti gelidi mi stavano procurando. Mentre il flusso di folla mi inghiottiva, mi accorsi che qualcuno mi osservava. A una decina di metri da me, la bambina con il lecca-lecca mi osservava, con un'espressione solo vagamente incuriosita, più che altro distaccata. Senza dire nulla, mi rivolse un sorriso storto e maligno, e se ne andò, roteando gioiosamente un ombrello con una piccola zucca sulla sommità. Me ne andai anch'io, nuotando nella folla - e nei miei vestiti - e ripetendomi nella testa rassicurazioni di ogni genere, ma era comunque inutile: la mia avversione per i luoghi affollati aveva radici troppo profonde.
Iniziai a sentirmi davvero male quando, in mezzo alla folla festante, cominciai a vedere delle ombre ben conosciute; riuscivo solo a intravederle di sfuggita, mentre svoltavano un angolo, si nascondevano tra la gente ignara, accarezzavano i capelli di una ragazza che mi sfilava accanto... Corsi a perdifiato per fuggire, non sapevo bene se da ciò che vedevo o dalle persone che avrebbero potuto vedermi, fermarmi, giudicarmi... finché mi accorsi di essere seguito.
Una corsa veloce e decisa che si adattava perfettamente alla mia, per spingermi verso luoghi più isolati, privi di testimoni.
Senza accorgermene, mi ero infilato in una strada secondaria, invasa da cassonetti e scatoloni abbandonati in cui i negozi riversavano rifiuti di ogni genere. Numerose scale antincendio si arrampicavano sui muri altissimi dei palazzi, puntando il cielo quasi ad ammonirlo. Mentre la pioggia mi sferzava gli occhi, maledissi la mia statura: non avrei raggiunto quelle scalette nemmeno se avessi le ali ai piedi.
La stradina lurida e deserta in cui sbucai era deserta e poco illuminata. Non avevo tempo di pensare a quale direzione prendere, perciò seguii l'istinto, incalzato dai passi ormai così vicini che potevo sentire il respiro regolare e per niente affaticato del mio inseguitore.
Il mio ultimo pensiero fu per Mana: mi aveva condotto fin lì per vendicarsi? Mi biasimava per la sua morte, ed ora voleva punirmi?
Poi mi scontrai con la forza di un treno in corsa contro un uomo che sbucò proprio in quel momento dall'angolo che avrei voluto svoltare, ed i miei pensieri deragliarono, lasciando solo pura e semplice sorpresa. Ebbi l'impressione fugace di due occhi di un profondo blu oltremarino, duri e freddi come il ghiaccio, e pure molto arrabbiati, finché l'incanto non fu rotto dal mio "salvatore" con un'imprecazione - che rientrava nella categoria di frasi che "se avessi osato pronunciare mi sarei ritrovato con la lingua strappata" dalle mani caritatevoli di Cross, come lui mi aveva personalmente minacciato.
Un'ombra ci coprì entrambi, e solo in quel momento mi voltai a guardare il mio inseguitore. Era un uomo gigantesco; i muscoli guizzavano sotto gli abiti dimessi, tendendo la sua giacca logora. Io mi spostai dietro all'uomo che avevo urtato, notando solo in quel momento i suoi tratti asiatici ed i suoi lunghi capelli neri, raccolti in un'alta coda; non sembrò gradire affatto il mio ripararmi dietro a lui per protezione.
- Cosa diavolo credi di fare, eh, moccioso?!
Non ci voleva un genio per capire che decisamente quella non era la sua nottata, anche prima del mio arrivo.
- Non vorrai lasciarmi in balia di quel gigante! - lo pregai io, sfoderando la mia migliore espressione da cucciolo smarrito.
- I tuoi problemi non mi riguardano, piccoletto! - e così dicendo mi afferrò per il bavero, pronto a lanciarmi tra le braccia del mio inseguitore; ma fortunatamente per me, quest'ultimo scelse di parlare, regalandomi la salvezza.
- ...Ehi, cinesino... - disse con voce rauca e lenta.
Potei quasi sentire una vena esplodere sulla tempia di suddetto "cinesino", che scoccò uno sguardo omicida allo stolto che aveva osato rivolgergli la parola.
- ...Ti piacciono i dolci? - finì la frase l'energumeno, lasciandoci entrambi attoniti ( tra parentesi, io ero ancora sollevato da terra dal mio "salvatore", che cominciavo a non considerare più tanto tale...); l'uomo dai capelli neri però si riprese in fretta, e con un sorriso storto di audace sfida, rispose:- Non li sopporto.
Mi lasciò graziosamente atterrare in una pozzanghera, e fronteggiò il gigante senza assolutamente battere ciglio, mentre questi si scagliava contro di lui, un pugno alzato e pronto a colpire. Il mio "salvatore" bloccò quel colpo apparentemente senza sforzo, afferrando il polso dell'avversario, per poi colpirlo violentemente a sua volta. Mille gocce d'acqua schizzarono intorno a loro, mentre il mio aggressore crollava a terra; l'altro uomo invece assunse una posa rilassata, la mano destra tesa verso il fianco sinistro, come a voler afferrare qualcosa. Quasi quasi mi aspettavo che estraesse una pistola; invece quando il gigante, molto più inzuppato e trasandato di prima, si rialzò con il naso sanguinante, si trovò puntata al collo nientemeno che una katana, la cui lama affilatissima luccicò malevola e mortale sotto la luce gelida dei neon.
Fino ad allora non l'avevo notato, ma l'uomo portava un lungo cappotto nero, aperto, dal cui orlo ora spiccava il saya della spada.
Ora, mi dissi mentalmente piuttosto sconcertato, ho per caso attraversato qualche buco spazio-temporale, finendo nel Giappone di un secolo fa, oppure questo tipo è completamente pazzo?! Quella è una katana vera, maledizione! Sarà mica uno yakuza?
Anche se sembrava abbastanza stupido, il gigante ebbe abbastanza istinto di autoconservazione per rimanere immobile; l'uomo lo fissò con volto inespressivo, prima di dire:- Sparisci.
L'altro lo guardò imbambolato per una attimo, furioso, prima di voltarsi verso di me; non proferì parola, ma il suo sguardo prometteva chiaramente atroci sofferenze a me ed al portatore della spada, anche se non in quell'occasione. Ci voltò le spalle e svanì nella notte.
Tornai consapevole della pioggia che batteva la città con rinnovato vigore solo quando cercai di guardare meglio il giovane davanti a me, ma dovevo alzare troppo la testa e le gocce mi appannavano la vista; riuscii solo ad osservare il gesto fluido, elegante quasi con cui i suoi capelli neri come inchiostro danzarono nell'aria quando si voltò verso di me.
Mi ritrovai la punta ( anche più minacciosa del martello di Cross ) della katana a pochi millimetri dagli occhi, mentre il suo possessore mi squadrava, altero e minaccioso quanto la spada.
- Chi cazzo era quello, piccoletto? - mi chiese, la voce profonda e densa di fascino.
Nonostante le apparenze, non era poi così elegante.






...io non sono particolarmente schizzinosa, quindi potete scrivermi qualunque tipo di commento. A patto che riguardi la sola fanfiction, s'intende. Che ne pensate?