La storia, gli avvenimenti, I pg e le loro malsane azioni sono tutti di mia creazione. Il rating NC17 dipende prevalentemente da ricordi o violenza. Alla storia sono molto legata, in quanto è stata l’unica, in quasi due anni, a farmi tornare – per vostra sfortuna^^ – la voglia di scrivere. Dedicato a tutte le persone che si soffermano a leggere ciò che scrivo, ecco a voi ‘Take the rain’
Take the Rain Prologo di La Signora Black
Metti il rossetto, nasconditi quanto vuoi. Il tuo viso resterà lo stesso
Si sfregò gli occhi con violenza, le unghie spezzate. Gli occhi scuri, vacui. Le luci e i colori evanescenti ancora si sfumavano nella sua mente addormentata. Dondolava appena e le labbra, in una melodia lenta e malinconica, mormoravano parole sconnesse, e si aprivano e schiudevano come fiori secchi e glabri d’autunno. Nell’aria, densa e malsana, c’era odore di sangue rappreso. Odore di sangue brutale, intenso, torbido. Lo stesso sangue colava lento dalle sue braccia. E nell’aria, lo poteva sentire nelle narici e fino al midollo, c’era odore di cesso pubblico. Odore di cesso pubblico tra le pareti di ferraglia e il lavabo intasato. E ancora, nell’aria, come in un romanzo degno della propria categoria, c’era odore di sperma.
Il rumore di un treno, lontano quanto poteva essere lontana la sua pace eterna, lo svegliò facendogli sbattere il capo contro la ceramica del gabinetto. Il colpo produsse un suono sordo e ricordò a lui dov’era finito. Un ricordo vago, e la testa che pulsava per il dolore. Mosse le labbra, cercando di inumidirle. Ricordava a stento il suo nome… Marcel. E ricordava altre labbra che lo sussurravano, ridendo di una risata spaventosa. La visione di due labbra scarlatte, gelide e perfette, tirate in un sorriso che le curvava in una sadica e terribile mezzaluna, lo raggelò. Marcel. Marcel, sibilavano quelle labbra. E Marcel aprì gli occhi di scatto, trasalendo.
Solo dopo aver respirato profondamente si riscosse, inalando aria per il palato essiccato, consumato, e senza salivazione. Prese allora a respirare a fatica, e il cuore a pulsare lento, quasi inesistente. E solo allora Marcel riuscì a sedersi, sforzando le braccia esili e rovinate, sul gabinetto.
Scrutò dal piccolo finestrino del bagno aperto sulla civiltà, alzando leggermente il volto per poter guardare fuori. Tremò per il freddo. Al di là del vetro, cartelloni pubblicitari prostituivano collezioni d’intimo e lubrificanti. Ad intermittenza, le collezioni d’intimo e i lubrificanti venivano sostituiti da camere da letto Ikea e maxi locandine cinematografiche. E l’aria era gelida. E fuori era buio. E in una giornata di sole accecante il ragazzo avrebbe anche potuto vedere un binario vuoto, arrugginito e stanco, qualche bottiglia rotta, alcuni mazzi di fiori vecchi ed appassiti, e una lunga, infinita serie di palazzi e insegne luminose che si allontanavano fino a sparire del tutto, all’orizzonte. Al contrario, nella notte poté vedere soltanto un’immensa coltre di buio, avvolta nella nebbia. Un’atmosfera fitta, densa e notturna, oltre la quale non riuscì a scorgere nulla. Il vetro, appannato dal suo respiro, trasmise i colori della notte – sopra e sotto.
Chiuse gli occhi, la fronte ancora appoggiata al vetro. Non volle più guardare. La notte lo intimoriva. [i]No[/i]. La notte non lo intimoriva. La notte lo gettava nel terrore più estremo. E ora le labbra scarlatte erano state contornate da un viso maschile, ruvido, forte. E da occhi glaciali, d’un azzurro artico, profondi come lame d’acciaio. E Marcel aprì ancora una volta gli occhi, per non vedere quel volto – per non essere guardato da lui – e fissò lo sguardo sul pomello della porta. Lo fissò con occhi vacui ed ossessi nel cesso inscatolato di metallo arrugginito, tanto che le sue mani instabili non riuscivano ad afferrarlo e a stringere, per bloccarne la serratura. A ogni sobbalzo del treno il pomello si girava, e ad ogni sobbalzo del treno la porta si apriva.
Un cigolio; ancora uno, ancora due, e il ragazzo tremò più forte.
Non era ancora tempo per i mostri, si disse. Se lo sussurrò, come un ordine inciso nella pietra, come una luce e come un desiderio. Non era tempo per i mostri. Non era tempo per i mostri, e sicuramente non era ancora tempo per le urla e la paura. Questa volta cercò di piantarsela bene in testa, la frase. Non doveva avere paura. No, continuò, come se stesse parlando ad un bambino, ripetendosi le sillabe con toni dolci, quasi affettuosi, compiaciuti. Tutto stava andando bene. Tutto stava andando per il meglio. Bene, vero, sì? Aveva vestiti macchiati di sangue – un jeans, una t-shirt a maniche corte nella notte d’ottobre – il collo ed i polsi violacee, i capelli incrostati e unti. Ma almeno era vivo.
Vivo. Lo era davvero?
Marcel annuì, da solo, più volte. E ora, grazie alle proprie parole, grazie al proprio tono rassicurante e alle proprie carezze immaginate, riusciva anche giacere sul fondo di qualche mare. Lento, immergendosi dove l’acqua è pura e trasparente, dove l’acqua è un cristallo posato sulla pelle esausta e accaldata, dove tutto è silenzio e dove il silenzio è tutto. Tra casse hi-fi e distorsione, senza paura dei suoi mostri, senza odore di sperma addosso. Riusciva anche sentire il profumo del mare, ad inspirare l’odore delle onde e delle sirene che cantavano di lui tra le gocce di spuma bagnata. Spuma bagnata. Odore di sperma. No, no… Gridò, isterico. E bestemmiò ancora, rapido, affannato. Ma subito dopo tacque, rabbrividendo. Aveva le mani fra i capelli, le braccia sopra il volto – graffi di sangue e capelli strappati, e niente si mosse.
Una calma che durò poche decine di secondi.
Il ragazzo si voltò di nuovo, con foga, avanti e dietro, a destra e a sinistra, guardandosi intorno e premendo bene la propria schiena contro la parete di ferraglia, battendo le ginocchia al petto, e scoprendo ferite e contusioni anche su di esse. Lesione traumatica alla spalla e una frattura al polso. I muscoli a brandelli. E lividi violacei che ricoprivano la sua pelle candida. Le labbra spaccate ai lati, chiaro segno di un rapporto precedente, risultarono al tatto delle sue dita, mentre le passava su di esse, aride e carnose. Posando lo sguardo sulle ginocchia vi scoprì un taglio ancora fresco sulla gamba destra, che aveva sporcato anche il jeans, ora macchiato di rossastro.
Spuma bagnata e odore di sperma. Un martello nella sua testa, una risata nelle sue orecchie. E caldo nelle vene, e brividi di freddo sulla pelle. Ancora spuma bagnata e odore di sperma.
Il viso era contratto e la bocca spalancata, le gambe erano raggomitolate e le braccia tentavano di stringerle forte. Il proprio fondale marino si era nuovamente trasformato nel prefabbricato metallico della toilette publique dal quale si sentiva avvolgere e soffocare. Alzò il viso nel silenzio, con l’agghiacciante convinzione di trovare sopra di sé l’incarnazione delle proprie paure. Mormorò. Ti prego... ti prego, ti prego vattene… Ma il silenzio non rispose.
Ad un tratto sobbalzò, lo sguardo frantumato, disperato. I denti premettero sulle labbra, e l’incurvatura di un sorriso mancato gemette di paura. Un’altra risata lo schernì, deridendone la sua crisi e il suo disfacimento, ma Marcel non ci fece caso. Tremava. E non voleva ascoltare, e non voleva guardare. Aveva sentito la voce aspra e registrata degli altoparlanti impiantati nel muro. La voce aveva gridato nelle sue orecchie – come fosse ad un passo, come fosse dentro di lui – e il ragazzo se le era coperte con le mani, premendo per bene. La voce di una donna aniconica ed irreale – la voce che, come null’altro, riporta ogni luogo alla più concreta realtà – aveva semplicemente annunciato la fermata successiva. Montpellier. Montpellier, aveva ripetuto la voce. Due volte, due volte ancora. Montpellier.
E le labbra del ragazzo, come incantate da una moderna Circe, avevano vibrato e sussurrato, rinnovando le sillabe della fermata di Montpellier. E avevano riso. Riso di gioia, per quello spavento rivelatosi una fottuta, una fottuta e terribile registrazione.
E Marcel rise, isterico e irreale, leggero come non lo era stato mai – per quietarsi solo dopo qualche istante, sfibrato, piombando nel silenzio dei vagoni che sferragliavano sui binari francesi. Montpellier. Ripeté poi, mentre il cervello lentamente tornava in sé e associava il nome della bella città francese al luogo dov’era situata. Cristo, continuò. Aveva sbagliato treno. E gemette, imprecando contro se stesso, quasi come se si stesse svegliando dopo anni di torpore.
E non era forse, in parte, vero? Non erano stati anni di torpore quelli che lui stesso aveva vissuto?
Marcel lo negò a se stesso, più volte, senza comunque molta convinzione. Bastava che si guardasse le mani per capacitarsi di che situazione fosse andato a cercarsi. Le dita erano lunghe e magre, come lo erano sempre state, ma lo sporco sulle unghie e i profondi solchi sui dorsi, sui palmi e sui polsi arrossati le facevano apparire inguardabili, quasi malate.
Tutto il suo corpo pareva malato. Lo stesso viso, scavato e pallido, conservava ancora venature bluastre. Ma di questo andava fiero. Era la parte di sé che preferiva, il viso. Cercò di guardarsi nel piccolo specchio che la società ferroviaria francese metteva a disposizione dei viaggiatori. Uno specchio sopra il lavabo, in miniatura, rotto. Si fissò in volto. Senza abbassare lo sguardo, guardò a fondo dentro di sé. Era carino, sì. Molti lo trovavano carino. Aveva occhi scuri, capelli biondi ed un fisico niente male. Era bravo a letto, o così almeno certificavano le persone con cui lui era stato. Ma dentro, dentro… la risata di quelle labbra scarlatte lo stava ancora lacerando. E poi, assolutamente, doveva scendere da quel treno.
Marcel barcollò tremando, intontito. Doveva aver inghiottito merda prima di salire su quel treno, il primo che era passato, nel cortile di non-ricordava-quale stazione. Questo lo sapeva. Ma assieme a chi? A lui. A loro. A quelle labbra, a quel viso. A quegli occhi. E ad altre labbra, ad altri visi, ad altri occhi.
La testa prese a girare vorticosamente, e il ragazzo dovette costringere il proprio corpo a uno sforzo immenso per farlo alzare. Le gambe – le sue gambe magre, magrissime – si divaricarono leggermente. Accostò i polsi prima al gabinetto, poi alle pareti laterali. I piedi vennero puntati a forza sul pavimento, repellente e unto, tanto repellente e unto che le suole delle scarpe stridettero e scivolarono, facendolo cadere. Il corpo che crollava a terra. I capelli biondi, biondissimi, stesi sul pavimento sporco.
Marcel tentò ancora di alzarsi, ma fallì miseramente. Un frastuono lontano indicò che Montpellier era ormai arrivata e passata, e che le porte del treno si erano aperte e richiuse. Fu l’ultima cosa che sentì. I capelli ricaddero a terra, violentemente, inquinando nuovamente la loro bellezza. Tutto divenne buio, e buio fu persino per i capelli, slavati, chiari, lunghi. E pianse. Marcel pianse, piangendo lacrime amare che sapevano di biasimo. Si era ridotto davvero così, così da non sapersi neppure reggere in piedi su un maledetto treno in corsa?
Continua…
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