A Sei, perché senza di lei tutta la fic sarebbe stata ancora più assurda di quello che è…
Switched
By Su(k)
Session one. Thought that it was you.
Non ho mai conosciuto i miei. Non che la cosa mi rendesse triste o altro, ma passare da orfanotrofio a orfanotrofio a lungo andare può diventare fastidioso. Soprattutto quando ti ritrovi in testa una zazzera di capelli rossi che ti rende il bersaglio preferito dei bulletti dell’istituto. Certo, dopo un po’ cominci a ribellarti, ma proprio quando tra te e i tuoi persecutori si viene a formare una forma di tacita tregua, ecco che ti trasferiscono e ti tocca ricominciare tutto da capo. Una vera seccatura.
All’età di 15 anni sono scappato ed ho cominciato la mia poco felice carriera di teppistello da strada. Piccoli furti, vandalismo, botte. Sono andato avanti così per circa tre anni, fino a quando non ho incontrato lui. Akira Sendo.
All’epoca giravo con un gruppo di ragazzi casinisti che si facevano chiamare ‘L’armata’ e che quasi tutte le sere si ritrovavano in un locale poco lontano dalla stazione dei treni.
Di solito la notte io lavoravo come scaricatore per una ditta di trasporti, visto che oramai nemmeno il furto rendeva più, ma quella sera ero libero.
Credo fosse mezzanotte passata, i ragazzi già piegati dall’alcool e i clienti che si accalcavano nel locale. Quella sera doveva esibirsi una di quelle band di passaggio che racimolavano qualche spicciolo suonando dove capitava, e come solito il locale era pieno di svogliati ed ubriachi abitanti dei quartieri bassi.
La prima cosa che mi colpì fu la sua voce. Bassa e stridente. Ti graffiava l’anima.
Quando poi lo vidi il mio primo desiderio fu di essere suo.
Era un uomo?
Poco importava. Ero già uno dei figli maledetti di questo inferno chiamato mondo, l’andare contro corrente non mi spaventava di certo.
Dopo l’esibizione, sotto gli occhi stupiti di quelli che non avrei mai chiamato amici, andai a parlargli.
Mai intesa fu più immediata e totale.
Uno sguardo, qualche parola, e già convivevamo nel suo minuscolo appartamento.
Io lo mantenevo con i miei vari lavori, lui mi mostrava le meraviglie della vita in città.
Io mi occupavo della casa, lui mi presentava tutti i suoi amici e conoscenti.
Certo, capitava spesso che lui non tornasse a casa per settimane intere, o che spendesse tutti i soldi in alcolici e chissà che altro, ma bastava un suo sorriso per rendermi felice. Un paradiso.
Fino a che non mi licenziarono.
Fino a che non mi fece più entrare in casa.
Fino a che, fermo sotto la pioggia, non cominciai a gridare supplichevole il suo nome.
“Vattene, squilibrato!” mi gridò quella ragazza dalla finestra della camera da letto di Akira “ti ha detto che è finita! Smettila di insistere!”
“Smettila tu, brutta stronza! Voglio parlare con Akira!” Lo so, di solito non sono volgare, ma quella smorfiosa mi dava sui nervi.
“Mentecatto!”
“Voglio parlare con Akira!” gridai ancora, con il collo indolenzito dallo sforzo di tenere il viso rivolto alle finestre del terzo piano.
“Cosa vuoi, Hanamichi?”
Quella voce. Quella voce così aspra ma al contempo capace di sciogliermi il sangue nelle vene. Ora colma di insofferenza.
“Akira, ti prego, fammi entrare.”
“No.”
E così ora mi ritrovo qui, sotto la pioggia battente, senza nulla se non i vestiti che indosso, liquidato da un secco e stizzito no.
Confortante, vero?
Senza nemmeno accorgermene sono finito alla stazione dei treni, l’unico posto caldo che sono riuscito a trovare in questa gelida notte.
A volte mi chiedo se qualcuno lassù non ce l’abbia con me. Andiamo, ammetto di non essere una santo, ma non ho mai fatto del male. I miei cosiddetti furti di gioventù si possono contare sulle dita di una mano e qualche cassonetto rovesciato in mezzo alla strada non può avermi condannato ad un così tremendo castigo!
Quando decido di alzarmi per andare in bagno mi dirigo, forse per destino o stupidità, verso la zona più affollata della stazione.
E’ un attimo.
Una fiumana impazzita di gente, sbucata da chissà dove, mi trascina verso uno dei binari, senza che io possa fare nulla per scostarmi.
Lo ammetto, a causa della stanchezza e del freddo che mi era penetrato nelle ossa ero leggermente debilitato. Forse è per questo che senza che riuscissi ad oppormi ero già stato sospinto su quel treno che era partito subito dopo.
Fantastico. Che giornata di merda.
Prima mi licenziano e Akira mi butta fuori di casa, ed ora sono bloccato senza biglietto su un treno per chissà dove. Veramente fantastico.
Mancava solo che arrivasse un controllore e mi sbattessero dentro, visto che non avevo con cosa pagare il biglietto…
“…gnore.”
“Cosa?”
“Il biglietto, signore.”
Come volevasi dimostrare. A questo punto l’idea del suicidio mi sembrava la più appropriata. Quasi mi venne da ridere per la serie quasi impensabile di sfortune che mi erano capitate, ma lo sguardo freddo e alterato del controllore mi riportava alla triste realtà.
“Ecco, vede, il biglietto… è… il mio compagno… lui… lasciato…”
“Tesoro, ecco dove eri finito! Ti stavo cercando per tutto il treno!” una calda voce alle mie spalle fece si che sia io che il controllore ci girammo nello stesso momento.
Una ragazza abbastanza alta, la pelle diafana e i capelli neri che le sfioravano gli occhi scuri come l’ebano. E quel sorriso così dolce e radioso che ci aveva mozzato il respiro.
Era davvero bella. Se avessi creduto agli angeli avrei detto che lei li rappresentava al meglio.
“Ecco qua” disse la ragazza mora porgendo il biglietto al controllore “e scusi per il disturbo.”
No, adesso mi spiegate. O la tipa è completamente impazzita o mi ha scambiato per qualcun altro. Altrimenti come si spiega il suo comportamento? Chi va in giro a salvare da situazioni senza speranza dei perfetti sconosciuti?
Un angelo. Mi sembrava di averlo già detto.
“Senti” cominciai io mentre la ragazza mi trascinava verso i vagoni di prima classe “non so proprio come ringraziarti. Davvero, mi hai salvato la vita. Non ci crederai mai, ma oggi mi è capitato di tutto. Io non ci dovevo nemmeno essere su questo treno! E… ehi, ma mi stai ascoltando?”
“Hai l’aria stanca. Andiamo a sederci da qualche parte.”
No. Decisamente non mi stava prestando attenzione.
“Senti, apprezzo molto l’aiuto che mi hai dato, ma non voglio approfittare ancora della tua gentilezza.”
“Non preoccuparti” mi rispose lei aprendo la porta di uno scomparto del treno “dai entra. Mi sembri stanchissimo e sederti qui con noi non ti farà di certo male.”
“Noi?”
Non ebbi nemmeno il tempo di stupirmi che un alto ragazzo dai corti capelli castani uscì dal bagno e ci guardò sorpreso.
“Sakura” disse all’improvviso “devo diventare geloso?”
“Sai com’è” gli rispose la mia soccorritrice “ho un debole per i bei ragazzi nei guai.”
“Oh, beh, se è così” riprese sorridendo il ragazzo castano “non c’è problema. Mi hai portato da bere?”
“Ecco cos’era!” esclamò Sakura battendosi una mano sulla fronte e scostando poi una ciocca di capelli neri dagli occhi “mi sembrava di avere dimenticato qualcosa… d’accordo, vado a prenderti subito da bere. Chissà che non mi capiti l’occasione di sedurre qualcun altro.”
“Scema.”
Quando se ne fu andata, il ragazzo che nel frattempo si era seduto di fronte a me mi tese una mano sorridendo.
“Nathan Wyatt. Piacere di conoscerti.”
“Hanamichi Sakuragi. Dimmi una cosa… ma la tua…”
“Moglie. Siamo sposati” disse mostrandomi la fede che portava all’anulare.
“Oh. Ecco… ma fa sempre così?”
“Ti riferisci al fatto che ti abbia portato qui? Beh, sì. È una delle cose di lei che mi hanno maggiormente colpito. Anche quando eravamo negli Stati Uniti, si prendeva sempre cura di tutti. Un vero angelo.”
“Già…”
“Senti, che ne diresti di cambiarti? Sei fradicio, e mi sembra che pressappoco abbiamo la stessa taglia. Sakura se la prenderebbe se ti lasciassi morire di freddo. Vedi quella valigia blu? Dentro c’è un po’ di roba. Prendi quello che preferisci.”
Nel giro di qualche minuto mi sentivo rinato. Avevo sostituito i miei vestiti bagnati con dei pantaloni e una camicia di un certo Ralph Lauren, ed ora stavo tentando in qualche modo di rimettere la valigia di Nathan da dove l’avevo presa.
Un improvviso grido mi costrinse a girarmi. Nathan si teneva la mano sinistra e cercava in qualche modo di levarsi l’anello che ornava il suo dito anulare.
“Cosa è successo?” gli chiesi preoccupato.
“Nulla, non preoccuparti” mi rispose lui, riuscendo finalmente a togliersi l’anello “mi sono schiacciato la mano nella porta. Mi capitano spesso di queste cose. Sakura dice che sono un imbranato senza speranza. Continuo a farmi male per le stupidate più assurde. Ecco, adesso avrò un bel livido…”
Effettivamente dove prima stava la fede un grosso livido scuro cominciò a comparire qualche minuto più tardi.
“E’ solo che continuo a dimenticarmi di questo anello” disse Nathan rigirando la fede tra le dita “io e Sakura ci siamo sposati da poco e non ci ho ancora fatto l’abitudine. Ehi, vuoi provarlo?”
“Cosa? Perché?” chiesi stupito “Si tratta di una cosa personale… perché dovrei provarlo io?”
“Così… per far passare il tempo… mi sto annoiando da morire… dai, non fare complimenti”
“O… ok…” che ragazzo strano…
A quanto pareva oltre alla stessa taglia io e Nathan avevamo le stesse dita, perché l’anello entrò alla perfezione. La luminosa opalescenza dell’oro bianco creava un insolito contrasto con la mia pelle costantemente abbronzata.
“Bello” disse Nathan “ti sta molto be…”
Non riuscì a finire la frase, poiché un forte scossone lo fece cadere a terra.
In un attimo tutte le valigie finirono sul pavimento, le luci si spensero e un altro forte colpo mi fece inciampare e sbattere le testa contro qualcosa di duro.
Stava succedendo qualcosa di terribile, ma la mia mente sconvolta riusciva unicamente a pensare a quello strano senso di vuoto che mi giungeva da dove doveva esserci il pavimento.
Quando realizzai che il soffitto si trovava ora a pochi centimetri dal mio viso persi i sensi.
Fu il cinguettio degli uccelli a svegliarmi. Qualcosa che non sentivo da tantissimo tempo, ma che mi riportava alla mente giorni felici di un’infanzia che non ricordavo.
Aprii lentamente gli occhi, solo per ritrovarmi in un mondo a me sconosciuto. Una calda luce primaverile filtrava tra le chiare tende alle finestre e un sospiro di vento entrato da chissà dove muoveva con lentezza le decine di palloncini sparsi per tutta la stanza. Un’infinità di fiori e piante dava al tutto l’aspetto di un vivaio e solo i monitor accanto al mio letto indicavano che mi trovavo in un ospedale.
“Ma cosa?” mormorai stupito, accorgendomi solo allora della flebo che usciva dal mio braccio sinistro.
Di sicuro era successo qualcosa su quel treno. L’ultima cosa che riuscivo a ricordare era un improvviso e stridente rumore seguito da una sensazione spiacevole alla base della nuca.
Provai a tastare il collo, ma non vi trovai nulla di strano.
“Vedo che ci siamo svegliati! Come ci sentiamo?” disse all’improvviso qualcuno.
Mi girai di scatto verso la porta della stanza e vi scorsi una giovane infermiera intenta a portare altri fiori oltre a quelli che già mi circondavano.
“Il dottor Katsumo dice che tra meno di una settimana potrà tornare a casa. Ancora qualche esame per controllare che tutto vada bene e sarà libero di tornare dalla sua famiglia. Devono volerle molto bene, vista la quantità di fiori che le hanno mandato.”
“Io… io non…”
C’era qualcosa che non andava in tutta quella situazione. Prima di tutto quello era un ospedale di lusso. Lo dimostravano le lenzuola di buona fattura e le decine di piccole comodità che non c’erano negli ospedali normali. Anche lo stato delle apparecchiature e la gentilezza dell’infermiera erano indice di una struttura privata.
Seconda cosa… tutti quei fiori… chi poteva averli mandati? Arrampicandomi sugli specchi potevo supporre che qualcuno dotato di buon cuore e in visita a qualche parente ne avesse lasciato qualcuno ad uno sconosciuto, ma anche se questa improbabile teoria si fosse rivelata esatta i fiori restavano comunque troppi.
Chi poteva avermeli mandati?
Fu allora che scorsi il biglietto d’auguri posato accanto al mazzo di tulipani.
“A Nathan, con tanti auguri di buona guarigione. Yoko Rukawa.”
No.
Titubante posai lo sguardo sulla mia mano sinistra e la vidi. Un’elegante fede di oro bianco faceva bella mostra di sé sulla mia pelle abbronzata.
No.
“Signorina” dissi piano, non riuscendo ancora a capacitarmi di quello che era successo “su quel treno, insieme a me c’era un altro ragazzo, alto come me, con i capelli castani…”
“Oh” esclamò l’infermiera con voce affranta “lo conosceva?”
“C… conosceva? Vuole dire che… che è… oh signore… è… è tutto un equivoco! Io… io devo spiegare! La prego, io devo spiegare! Parli con… Sakura! Sì, Sakura! E’ un equivoco!” ormai stavo quasi urlando.
“Non… non lo sa?” mi chiese la giovane con gli occhi sgranati “sua moglie… mi dispiace, signor Wyatt, ma sua moglie… anche lei…”
“Cosa? No! No! Dio, non è possibile! Senta, c’è stato un grosso equivoco. Io… ho bisogno di spiegare! Non è stata colpa mia!”
“Certo che non è stata colpa sua. Si calmi, la prego!”
“C’è stato uno sbaglio! Le dico che io non sono Nathan Wyatt! Mi creda!”
“Sì, sì, certo” disse l’infermiera estraendo una siringa dalla tasca del camice e iniettandone il contenuto nella flebo “ora veda di calmarsi.”
“Calmarmi?!” urlai “Come faccio a calm…” un’improvvisa sonnolenza mi sorprese nel mezzo della frase, facendomi momentaneamente dimenticare tutti i miei problemi.
Così passarono i successivi quattro giorni. Facevo finta che tutto fosse a posto, me ne stavo tranquillo, ma nel frattempo cercavo di escogitare un modo sicuro ed indolore per andarmene da lì inosservato. L’occasione si presentò il quinto giorno. Mi avevano avvisato che qualcuno della famiglia Rukawa sarebbe venuto a prendermi nel pomeriggio, dandomi così in mattinata il tempo di prepararmi.
Nel giro di cinque minuti avevo radunato tutte le mie cose, ed evitando con maestria le infermiere che giravano nel corridoio ero riuscito ad arrivare agli ascensori.
“Signor Wyatt! Dove sta andando?!” una forte voce alle mie spalle mi fece capire che il mio magnifico piano era miseramente fallito.
“Signor Wyatt! Mi sembrava di averle detto di aspettare nella sua stanza! Mi hanno appena chiamato per avvisarmi dell’imminente arrivo della macchina mandata a prenderla. Dovrebbe essere qui a momenti. Nel frattempo torni nella sua stanza!”
Non potei fare altro che obbedire.
Non so perché, ma mi sembrava quasi che tutto quello che era successo fosse in qualche modo irreale. Prima l’incidente, poi lo scambio di persona, ed ora il fatto che nessuno volesse credermi quando affermavo che si era trattato di un enorme malinteso.
Fui ridestato dai miei pensieri da tre secchi colpi alla porta dati in rapida successione.
“A…avanti…” dissi con voce leggera, stupito del mio stesso timore. Ora mi avrebbero scoperto. Certo, tutto il personale dell’ospedale era convinto che io fossi Nathan Wyatt, e l’aver cercato in ogni modo di spiegare come stavano realmente i fatti mi scusava almeno in parte, ma un incontro diretto con la famiglia Rukawa mi metteva molto a disagio.
“Signor Wyatt?” chiese l’uomo dai tratti ispanici sulla porta.
“No” risposi sarcastico. La situazione stava cominciando a stancarmi e l’apprensione per quello che sarebbe successo in seguito mi rendeva intrattabile ogni momento di più.
“Beh, il nome scritto sulla porta indica il contrario, e io credo a ciò che vedo.”
“Non gliel’ha detto nessuno che non fidarsi è bene?”
“Veramente era ‘fidarsi è bene’. Comunque, sono stato mandato qui dalla signora Rukawa per accompagnarla alla sua residenza. Mi segua.”
Non potei fare altro che andare dietro a quel basso e buffo omino che parlava con uno strano accento.
Giunti nel cortile antistante l’ospedale una visione incredibile mi tolse il fiato. Quella non era una macchina. Era un’opera d’arte.
“Che… che macchina è?” chiesi ancora sconvolto dalla magnificenza di quel mezzo di trasporto. Figurarsi, nel quartiere dove vivevo con Akira avevo visto si e no qualche rottame. Quella visione non era di certo paragonabile alle orribili caricature che avevo visto.
“E’ una Rolls Royce.” Mi rispose l’uomo aprendo la portiera posteriore per farmi salire.
“Praticamente è la cadillac delle automobili?”
“No. La Mercedes Benz è la cadillac delle automobili. Questa è una Rolls Royce. E io sono Paco.”
Con una serie di ‘ohhh’ e ‘ahhh’ salì sul sedile posteriore lasciando che Paco mi chiudesse la portiera alle spalle. Non appena fummo partiti cominciai ad agitarmi. La visione di quella macchina sopraffina mi aveva per un momento fatto dimenticare la situazione in cui mi trovavo, ma il metterci in moto fece ricomparire tutti i miei timori.
Più ci avvicinavamo alla residenza dei Rukawa più io tremavo. Non sapevo cosa fare. Continuare con questa pantomima e rischiare di essere scoperto nel momento meno opportuno? O confessare ogni cosa, tradendo però le aspettative e i desideri di quella povera donna che aveva perso la figlia in un orribile incidente? Davvero, non sapevo cosa fare.
“Signor Wyatt, siamo arrivati.” La voce di Paco mi riportò alla realtà.
La casa, così come la macchina sulla quale ero arrivato, erano chiaro simbolo della ricchezza di quella famiglia. Il maniero, perché questo era l’unico modo in cui si poteva chiamare quella enorme villa, era circondato da un grande parco, in cui fiori dai mille colori facevano bella mostra di sé.
Il portone d’ingresso sfiorava i tre metri e dalle alte finestre si intravedevano preziosi tendaggi ricamati. Una sorta di castello da fiaba.
“Venga, signor Wyatt. La signora Rukawa la sta aspettando.”
Timoroso seguii Paco dentro quella grandissima casa, rimanendo nuovamente stupito dall’opulenza degli interni di quella dimora impressionante.
Il pavimento di marmo lucido era decorato da strane ed irriconoscibili figure da fiaba e le alte colonne d’ardesia si specchiavano nella lucentezza delle finestre. Pesanti tendaggi ricamati trattenevano gran parte della luce, dando all’ambiente un aspetto estremamente intimo e soffuso.
Un ampio scalone portava al piano superiore facendo una larga curva verso destra e grandi quadri rappresentanti quelli che pensai essere gli avi della famiglia ornavano le alte pareti.
Ero intento a guardare uno dei dipinti quando la scorsi. Una donna alta, molto bella nonostante l’età, con corti capelli scuri ed avvolta in un corto ed elegante abito.
E poi quegli occhi scuri e quel sorriso, colmo di aspettativa e di un sentimento caldo che non riuscivo a riconoscere. Era sicuramente la madre si Sakura.
“Nathan…” la sua voce aveva un timbro caldo, dolce, lievemente sensuale nonostante scosso da un leggero tremito.
“Nathan…” ripeté cominciando a scendere le scale “sono… sono così felice di vederti! Non sai quanto ho atteso questo momento. In ospedale non mi hanno permesso di incontrarti…”
“Signora Rukawa” cominciai timoroso, ma deciso come non mai a rivelare la verità a quella fragile donna “è… è successa una cosa terribile…”
“Lo so” mi rispose lei sorridendo dolcemente “lo so.”
“No, non capisce. La mia cosa orribile è diversa dalla sua cosa orribile!”
“Ma certo che è diversa. Io ho perso mia figlia. Tu hai perso tua moglie.”
La mia decisione vacillò e scomparve definitivamente di fronte a quello sguardo carico di dolcezza e rassegnazione. Aveva perso una figlia. Non potevo certo farle sapere che anche suo genero se ne era andato.
E poi…
Il calore che quella famiglia era riuscita a trasmettermi in quei pochi minuti era probabilmente più di quanto io avessi ricevuto in tutta la mia vita. Mi avevano accolto tra loro senza dire nulla, trattandomi come se fossi veramente il marito di Sakura Rukawa. Certo, non potevano sapere che le cose stavano diversamente, ma da quanto ero riuscito a capire né Paco né la signora Rukawa avevano mai conosciuto Nathan, e l’accogliere con tanto affetto e trasporto qualcuno che non si è mai visto prima… non so… aveva per me dell’inimmaginabile.
“Non sarebbe ora di smetterla di piangersi addosso?” chiese qualcuno alle mie spalle, chiaramente rivolgendosi alla signora Rukawa la quale cercava invano di nascondere le lacrime.
Non so voi, ma io ho sempre detestato quelle persone insensibili che non danno il giusto peso al dolore altrui, fregandosene di tutto e di tutti. Mi fanno venire i cinque minuti! Immaginatevi l’espressione con cui mi sono girato verso quell’importuno maleducato. Una sorta di sguardo omicida, che però morì subito non appena posai lo sguardo su quell’agile figura.
Sakura.
No. Non era Sakura, anche se quel volto stranamente inespressivo e freddo aveva gli stessi lineamenti delicati. Come ho fatto a scambiarlo per Sakura ancora me lo domando, perché in quel corpo statuario non c’era nulla di fragile e femminile.
Era come trovarsi di fronte ad un dio. Le gambe lunghe e muscolose fasciate da morbidi pantaloni scuri che si muovevano come in una sensuale danza ad ogni suo passo. Il petto ampio e scolpito avvolto da una camicia bianca, con la giacca del completo negligentemente gettata su una spalla. La cravatta allentata a mettere in mostra quel perfetto e bianchissimo collo, mentre ciocche di capelli scuri come le notti d’inverno sfioravano quella pelle d’avorio.
Credo di essere morto e risorto nel giro di un istante. Non avevo mai visto nulla di più bello.
“Nathan” mi disse la signora Rukawa “lui è Kaede. Il gemello di Sakura. Te ne ha parlato, vero”
Gemello. Ecco il perché di quell’impressionante somiglianza. E io che ci sono quasi rimasto secco pensando che la poverina ce l’avesse fatta a sopravvivere e fosse venuta a smascherarmi. O che il suo fantasma fosse giunto per perseguitarmi per il resto della mia vita.
“Hn.” È l’unico commento che sento arrivare da Kaede “E questo sarebbe il tanto decantato maritino?”
Non è possibile. Saranno passati trenta secondi da quando quest’apparizione mi è comparsa di fronte, ed io già lo odio. Ma come si permette!? D’accordo, in realtà io non sono Nathan Wyatt, ma trattarmi in questo modo proprio non è bello! Antipatico…
“Kaede!” esclamò la madre di quel volpino selvatico “ti sembra questo il modo di comportarti!? Nathan, caro, devi scusarlo. Sembra proprio che mio figlio non abbia ancora assimilato le basi del comportamento umano.”
“N… non si preoccupi…” dissi guardando in malo modo Kaede. Questi dopo avermi lanciato un’occhiata carica di sufficienza mi passò accanto e si diresse verso l’uscita.
“Io vado in ufficio” disse uscendo.
No. Decisamente non mi stava simpatico.
“Non preoccuparti” mi disse la signora Rukawa “mio figlio è spesso freddo e scostante, ma in fondo è una brava persona. Ma passiamo a questioni più importanti. Ti devo mostrare le tue stanze.”
“C… cosa? Le… le mie che? Ma… ma io non… non posso!”
“Come sarebbe a dire che non puoi? Hai un posto dove andare?”
“Beh… non… cioè… non proprio…”
“E allora è tutto risolto. Resti qui. E ora seguimi.”
Certo che quella donna sapeva come imporsi. Certo, ogni istante che passavo in quella casa faceva inesorabilmente aumentare le possibilità che venissi scoperto, ma l’unica alternativa che avevo era quella di ritrovarmi per strada in una città che non conoscevo.
Salite le scale e percorsi corridoi di cui non sarei mai riuscito a ricordare la disposizione, mi trovai in un ampio salotto con annessa camera da letto.
“Spero ti piaccia” disse la signora Rukawa “era la stanza di Sakura quando ancora abitava qui. Può darsi che trovi in giro ancora qualche vecchio giocattolo… non ho buttato via niente.”
“G… grazie” risposi ancora leggermente intimorito “non so davvero come ringraziarla.”
“Non preoccuparti. Praticamente sei il mio terzo figlio, mi sembra naturale fare questo per te. E comunque, chiamami Yoko.”
“Yo… Yoko?”
“E’ il mio nome. Non c’è bisogno che mi chiami signora Rukawa o simili. Siamo in famiglia, ormai ne fai parte, e perciò vedi di abituarti.”
“Grazie… Yoko…”
“Vedi? Non è difficile. Bene, ti lascio solo adesso, devo andare a dare disposizioni per la cena. Quando ti sarai sistemato e te la sentirai di scendere fai pure.” Disse la madre di Sakura posandomi poi la mano sulla guancia in una delicata e dolce carezza.
“Non sai come avrei voluto conoscerti prima…” disse, dopodiché uscì dalla stanza.
Perfetto. Ero già riuscito ad affezionarmi a quella donna dai modi tanto gentili. Lo so, non era giusto farlo, ma in Yoko vedevo quella madre che non avevo mai conosciuto.
Cominciai a guardarmi intorno, deciso a non abituarmi troppo a quella casa e a quella famiglia.
La stanza, sui toni del beige, era molto illuminata da enormi lampadari appesi al soffitto e fissati alle pareti, oltre che da ampie porte finestre che davano sul terrazzo. Un grande letto a baldacchino era situato contro la parete di fronte all’ingresso e vasi di fiori profumati riempivano tutto l’ambiente.
Guardando fuori da una delle finestre riuscii a scorgere una porzione di quell’impressionante giardino che girava intorno a tutta la casa. Parzialmente nascosta dagli alberi si poteva intravedere una piscina di dimensioni quasi esagerate e una cascatella artificiale scorreva accanto ad un gazebo candido come la neve.
Un vero paradiso.
Vi ho già detto che quella casa era enorme? Beh, ne ho avuto ulteriore conferma quando ho cercato di scendere al piano inferiore per la cena. Dopo circa venti minuti e diversi tentativi di uscire da vicoli ciechi mi imbattei in Paco, che vista la mia espressione afflitta mi accompagnò nella sala da pranzo.
“Certo che potreste mettere delle indicazioni” dissi seguendo l’uomo “questa casa è troppo grande, è fin troppo facile perdersi.”
“Se lo dice lei” ribatté Paco “comunque, stasera a cena ci sarà anche il padre. Spero che la cosa non le procuri troppo fastidio.”
“Oh, certo che no, ho sempre voluto conoscere il padre di Sakura” mentii spudoratamente.
“Ehm… il signor Rukawa è morto quasi dieci anni fa… padre John è il confessore della signora Rukawa. Da quando suo marito è morto si è convertita al culto cattolico… chissà poi perché.”
“Oh… grazie…”
Nel frattempo eravamo giunti in quella che veniva chiamata sala da pranzo. L’appartamento che condividevo con Akira ci sarebbe stato almeno due volte. Un’enorme tavolo di mogano lucidato stava al centro della stanza e nei due camini posti ai lati di questa ardeva un accogliente e caldo fuoco.
“Nathan, tesoro” disse Yoko Rukawa “lascia che ti presenti padre John”
“Molto lieto” dissi porgendoli la mano.
“Se avete finito con i convenevoli sarebbe ora di mangiare.”
Mi girai per vedere chi fosse stato a parlare e quello che vidi non mi fece certo piacere. Kaede. Ma perché doveva esserci anche lui? Sicuramente per dare il tormento al sottoscritto…
“Kaede” lo rimproverò sua madre “cerca di comportarti da gentiluomo. Non mi sembrava di aver cresciuto un tale snob!”
“Certo…” si scusò Kaede “scusami. Vogliamo mangiare?”
Nonostante le mie apocalittiche previsioni la cena proseguì tranquilla, almeno fino a quando quella volpe impicciona no cominciò a fare domande… personali.
“Allora Nathan” cominciò “com’è che vi siete conosciuti, tu e mia sorella?”
“Ehm… in… in treno…”
“Davvero? Che posto strano per conoscere la propria moglie...”
“Si, beh…”
“E il matrimonio? Mi sarebbe tanto piaciuto esserci. Com’è stato?”
“Bello.”
“Potresti espandere un po’ il concetto?”
“Molto bello.” Stavo cominciando a spazientirmi. Il tono ironico di quel ragazzo che doveva avere più o meno la mia età mi infastidiva, e ogni momento che passava rischiavo sempre più di dire qualcosa che mi tradisse.
La ritirata era la soluzione migliore.
“Ehm, scusatemi” cominciai “ma… sono… sono molto stanco. Mi dispiace molto, ma vorrei tornare in camera. Con permesso.” E detto questo uscii dalla stanza.
Tsuzuku...