STELLA DEL NORD
___
PARTE: 16/18
AUTORE: Dhely
SERIE: Xmen con notevoli variazioni sul tema. Spero
che tutto sia sufficientemente comprensibile anche a chi non ha mai seguito i
fumetti!
PAIRING: JPXRobert
RATING: NC-17-V Ricordi di violenze subite in passato,e violenze presenti.
Linguaggio volgare. Temi non proprio gradevoli. Angst un *sacco* di angst. Un
po’ di R. –che razza di spiegazione!!!!!! Chiedo perdono, ma non riesco a fare
meglio di così!-
NOTE: i pg non sono miei ma li amo tutti, uno per uno,
anche se appartengono alla perfidissima signora Marvel
- la quale, ovviamente, non mi passa mezzo cent. per
scrivere questa roba-. I pairing, le coppie, il
passato di questi tizi è stato manipolato e/o mezzo inventato per riuscire a
tirare in piedi una trama decente, anche se ho cercato di non cambiare troppo 'cio' che è stato'.
NOTE 2: chiunque abbia bisogno di maggiori informazioni sui pg
trattati in questa fic, può tranquillamente chiedere
a me, o consultare uno dei tremila siti di continuità Marvel
per comprendere che è tutto un gran casino e che è forse meglio chiedere a *me*
così vi dico solo le cose che potrebbero essere utili per capire di *chi* sto
parlando! (adoro essere modesta.)
___
Un sibilo seccato, annoiato e furioso tutt’insieme, scivolò fuori dalle labbra serrate di Pietro.
In piedi, di fronte alla scrivania di ebano lucido del Professor Xavier, non sembrava per nulla un ragazzino mandato dal direttore per una marachella.
Non era *mai* sembrato un ragazzino, dovette ammettere
Charles. Forse erano quegli occhi, o quell’espressione
sempre troppo tesa, quella perenne preoccupazione per qualcosa, o qualcuno, che
non sarebbe mai stato alla sua portata.
Charles conosceva bene quello sguardo: di chi è un guerriero da una vita, di
chi non ha mai smesso di lottare, di chi non s’è mai preso nulla per se stesso.
Di chi non è mai stato in grado di *tenersi* ciò che voleva per sé ma è troppo
saturo d’orgoglio per mostrarsi affitto per questo.
Non era quello il momento giusto per quei pensieri. Rispose con un sorriso all’aggrottarsi profondo di Pietro che, sapeva, stava pensando quanto odiasse perder tempo in quel modo idiota. Il ragazzo sapeva che Charles non si stava concentrando su quello che aveva di fronte. E per uno che lavorava 24 ore su 24 questo era un peccato mortale.
Assomigliava *terribilmente* a suo padre.
E si sarebbe offeso a morte se avesse continuato a dirglielo, eppure, in tutta sincerità, non riusciva proprio a non pensarlo. Troppo di Pietro rimandava a Magneto … a Erich, come l’aveva sempre chiamato lui, negli anni in cui avevano vissuto fianco a fianco, lavorando insieme, *sognando* insieme… tante pose, tanti pensieri, troppi gesti inconsapevoli, troppi sguardi. Già, e pure Pietro, come suo padre, aveva quel fascino dannatamente attraente che poteva lasciarlo morto lì, sul colpo, solo per uno sguardo più acuto, o più pesante. Non fosse stato così giovane, non fosse stato il figlio di Erich, Charles, forse, si sarebbe permesso di sognarlo la notte, si sarebbe permesso di immaginarlo nel sorridergli, quel sorriso algido che sapeva diventare ardente come la detonazione d’una bomba atomica, in grado di spazzare un cuore con un semplice battito di ciglia. Avrebbe voluto farlo. Avrebbe voluto *poterlo* fare.
Ma era Erich, lì di fronte a lui, che vedeva, e non Pietro. Un Erich più giovane, altrettanto tortuoso, forse meno tormentato, ugualmente arrabbiato, ma bello, com’era sempre stato, e incantevole con quel suo terribile modo di porsi di fronte al mondo, con quel suo sguardo, con quel suo aggrottarsi e faticare per cercare di essere all’altezza d’uno standard che lui stesso aveva fissato come irraggiungibile.
L’Erich che viveva da anni nella sua memoria.
L’Erich che era sempre con lui, dentro di lui, e che non poteva morire, non poteva mutare, che non poteva strapparsi dalla mente e dall’anima. Che non voleva strapparsi di dosso.
“Lascia stare le critiche, Charles! – sbottò Pietro, facendolo ritornare alla realtà, al presente.– Non sono disposto ad accettarne altre se non sono accompagnate da proposte costruttive.”
“So che questa decisione t’è pesata.”
Quegli occhi azzurri lampeggiarono come il tuonare d’un temporale estivo che si avvicinava a tutta velocità, cercando di sradicare da Charles quella dolce espressione di pietosa sofferenza.
“Potrebbe essere altrimenti? Non mi piace mettere in mezzo degli innocenti, per di più minorenni!”
Era così *arrabbiato* … Pietro era sempre arrabbiato. Ma quell’argomento era particolarmente delicato per lui, e non serviva essere uno psichiatra per saperlo. Un bambino che non aveva fatto altro, per tutta la vita che lottare, cercare di essere all’altezza di un padre inarrivabile per potenza, stoicismo e controllo di sé non poteva che odiare l’idea di caricare altri ‘bambini’ di una responsabilità attiva come quella di proteggersi.
Nella testa di Pietro erano loro, quelli ‘grandi’ che dovevano proteggerli. Avrebbero dovuto essere abbastanza potenti per metterli al sicuro. Probabilmente la frustrazione era tale da fargli provare nuovamente un senso d’inadeguatezza che, forse, non avrebbe mai potuto superare in tutta la vita. Non fosse stato così testardo…
Charles sospirò intrecciando le dita sulla superficie della scrivania.
“Non sai quanto ti comprendo, Pietro. Eppure mi fido del tuo giudizio. Se sei convinto che non si possa fare altrimenti non posso che darti il permesso di diffondere la notizia tra i ragazzi, e addestrarli. Il minimo possibile,ovviamente.”
Guardò con attenzione, mista alla compassione, quelle mani eleganti aprirsi e chiudersi nei guanti che portava sempre. Da *quel* giorno li portava sempre.
Il ricordo lo colpì direttamente alla bocca dello stomaco, prendendolo alla sprovvista, e dovette distogliere lo sguardo.
La più avanzata microchirurgia, i poteri più mirati e forti che avessero potuto scovare, il potere stesso di Pietro che permetteva una guarigione così rapida da non crederci, eppure rimaneva un piccolo miracolo che potesse muovere le dita così agilmente. Come se non fosse successo nulla.
Come se fosse una cosa di cui potersi dimenticare.
Charles non se lo sarebbe mai scordato.
Aveva pianto in silenzio, e senza lacrime, sul ricordo di quelle mani. Allora aveva fatto di tutto, mosso tutte le leve di cui disponeva, disturbato chiunque, obbligato tutti quelli che potevano fare qualcosa, e ora … ora chissà com’erano i segni sui suoi palmi.
E pensare che quando l’avevano trovato era quasi morto, che all’inizio avevano dovuto lottare per fargli aprire di nuovo gli occhi. Quando era uscito dal coma avevano tutti tirato un sospiro di sollievo, come se ormai tutto fosse a posto.
Charles s’era illuso: come poteva aver pensato che un ‘incidente’ simile non lasciasse che qualche cicatrice sul corpo? Le mani erano solo un labile memento di quello che doveva aver passato. Degli incubi che ancora ora lo tormentavano.
Pietro parlava, ma la sua voce risuonava lontana nelle sue orecchie. Sapeva che stava dicendo, parlava di particolari di applicazione a cui, in tutta coscienza, non poteva opporsi. Riusciva a guardarlo, dritto di fronte a lui senza mostrare un singolo segno, un appiglio, un cedimento, una crepa di qualche dimensione, impettito, le mani strette a morsa, tirate dietro la schiena.
Era stata, quella, la prima e unica volta che suo padre avesse fatto attivamente qualcosa per *aiutare* suo figlio. Si sentiva in colpa, probabilmente. Dopo tutto gli avevano fatto *quello* perché era *suo* figlio.
Perché Pietro era figlio di Magneto, il mutante, il terrorista, il … ma no, non era un uomo facile ad affezionarsi agli epiteti, tanto che bastava dire il suo nome perché tutti sapessero immediatamente di chi si stava parlando. Magneto era pericoloso, senza scrupoli. Aveva, per anni, coscientemente mandato i suoi figli in prima linea a combattere quando erano ancora così giovani da non sapere davvero la differenza fra bene e male. Aveva sacrificato ogni singola goccia del suo sangue per la sua fissazione, e non gli era mai importato di chi avesse dovuto calpestare, o annientare, per giungere alla meta.
Avrebbe sacrificato suo figlio sull’altare della propria ambizione almeno un migliaio di volte… ma un conto era se lo avesse fatto lui, un conto è quando lo avessero fatto dei *nemici*.
Poco importava se Pietro s’era già rifiutato, parecchie volte, di obbedire ai suoi ordini, se gli si era opposto apertamente, se l’aveva abbandonato, mettendosi a lavorare per l’Onu, il governo degli Stati Uniti, proprio contro Magneto. Poco importava che ora fossero nemici: era sempre suo figlio,e nessuno poteva cercare di colpire Magneto trasversalmente, prendendo Pietro, *crocifiggendolo* contro un muro e lasciandolo lì a sanguinare a morte, infilzandolo con lame acuminate, strappando, tagliando, esponendo in un’orgia di violenza che Xavier aveva appena intuita, scolpita a fuoco nei ricordi di Pietro e di cui era rimasto nauseato per giorni. Magneto non avrebbe mai potuto permettere una cosa simile.
Ed era intervenuto anche lui.
Xavier ricordava i pezzi di ferro con cui gli avevano infilzato le mani: gli avevano spaccato i tendini, spezzato le ossa. Era un miracolo che potesse muovere le dita, era un vero miracolo la mobilità che aveva ripreso…
Pietro sollevò il capo di scatto, in un gesto istintivo e rapido che lo rendeva così dannatamente simile a suo padre da far provare a Charles una fitta diretta all’altezza del cuore. Come un ricordo che non può essere dimenticato. Come una parte di passato che continua a vivere dentro di sé: quegli occhi azzurri arsero come fuochi di ghiaccio e lo lasciarono senza parole.
Pietro aveva visto il suo sguardo intrecciarsi pietosamente intorno alle sue mani guantate e questo lo aveva fatto scattare, pronto ad attaccare per uccidere, mordendo alla gola quella pietà che aveva visto nascere nell’atteggiamento di Xavier.
Pietro odiava la pietà, non la donava e di certo non la voleva per sé. E sapeva odiare a morte colui che lo avesse trattato come un …
“Abbiamo altro da dirci, Charles?”
Acre, poneva già un ‘no’ come unica risposta possibile. Una risposta che non attese.
Non ne aveva bisogno.
Non aveva bisogno, lui, di ottenere il permesso per fare ciò che voleva. Non lui, di certo. Aveva passato metà della sua vita ad obbedire ciecamente a suo padre ma ora era tutto differente: ora aveva deciso che non sarebbe mai più capitato qualcosa di simile. Ora sarebbe stato lui e lui solo ad occuparsi di cosa avesse fatto o cosa no. Le sue azioni erano di sua completa responsabilità, ora, e se forse anche questa scelta mostrava spesso una pesantezza che a volte era difficile da reggere, Pietro non sarebbe mai tornato indietro sui suoi passi.
Che ne sapeva, Xavier di cosa significasse essere figlio di quel mostro di suo padre? Che ne sapeva lui, il Professore, di cosa fosse percepire schegge di metallo grezzo ficcarsi nelle mani, sentire le ossa frantumarsi, i tendini spaccarsi, il dolore brillare dietro le palpebre come l’esplodere di una bomba atomica silenziosa? Il sangue colare lungo le braccia, sentirlo denso e tiepido che abbandonava il suo corpo in un fluire lento e definitivo…
In quel momento aveva saputo di stare per morire.
E il suo essere un mutante che non serviva a nulla.
E il suo orgoglio. Tutto il suo infinito, estremo orgoglio.
E tutto il suo essere… morire, e perché? Perché era il primogenito di Magneto. Non importava cosa avesse scelto, di voltargli le spalle, di vivere una vita che fosse solo sua. Non importava a quella gente che lui avesse rifiutato ciò che suo padre gli avrebbe potuto offrire. No: in lui vedevano *suo* figlio, e questo lo rendeva degno di essere odiato, di essere ucciso. Lui che non era più, ancora, se stesso ma solo un’emanazione vuota di suo padre. Questo, Pietro, lo sapeva. Ed era questo che lo uccideva davvero.
Era questo che odiava.
Era questo che non poteva sopportare: la sua morte solo come segno, e sfida a colui del quale Pietro non voleva sapere più nulla.
Neppure loro lo consideravano un essere a se stante, distinto da Magneto… e il metallo che affondava, e squarciava, e il sangue che lo abbandonava, come lo stava abbandonando la vita… ricordava tutto, se avesse avuto la possibilità di non farlo, gli incubi tornavano con costanza a rinfrescargli la memoria.
Come se avesse mai potuto scordare qualcosa.
L’agonia.
Il dolore.
Lo strazio.
*Dentro*.
Che ne sapeva Charles? Che ne sapeva di quel miracolo che gli era capitato, di sopravvivere a un odio così infinito e assurdo?
I segni sulle sue mani lo facevano somigliare a un Cristo che non era riuscito a morire, che non aveva redento nessun peccato. A un Cristo che non riusciva a guardarsi senza provare un marasma di sensazioni, a cui non riusciva del tutto a venire a capo.
Disgusto, di sicuro. E rabbia, rabbia fredda, ghiacciata. Rabbia che non lasciava scampo, che poteva uccidere. Che *sapeva* uccidere. Forse aveva iniziato, come un veleno acido, ad uccidere il suo proprio spirito tanti anni prima.
Forse.
Ma ora aveva ben altro a cui pensare. Ora era responsabile di dei … ‘bambini’. Dei ragazzi troppo giovani per essere mandati allo sbaraglio, troppo inesperti. Eppure loro non avevano scampo, proprio come non ne aveva avuto lui.
Cosa c’era di diverso, dunque? Se lui era sopravvissuto perché preoccuparsi così tanto per loro? Se l’era domandato spesso, in tono acre e indifferente, nelle infinite notti che gli toccava passare insonni, quando, sentiva, gli incubi stare in agguato lì, proprio appena oltre il limite della veglia, pronti a balzargli addosso e a farlo a brandelli. Se l’era chiesto e si era dato dell’idiota.
Erano bambini.
Com’era stato lui.
Com’era la sua Luna.
Niente al mondo avrebbe potuto farlo desistere dal suo obiettivo, quella volta. Non era giusto che loro pagassero per la follia di pochi e per la sua propria debolezza.
Non era giusto, e questo bastava.
‘Non era giusto’: e sapeva, Pietro, quanto questo pensiero lo faceva simile a suo padre, ma non se ne preoccupava. Non in quel frangente.
___
Il sole arrossava lentamente l’orizzonte dietro a cui calava.
Lentamente, tutto era avvenuto come se il tempo avesse improvvisamente deciso di non scorrere più come sempre. I granelli di sabbia della clessidra cosmica scivolavano giù, l’uno sull’altra in modo voluttuosamente rallentato. L’aria stessa sembrava densa di aspettative e timori e fantasmi e pensieri che non volevano diventar concreti.
Che tutti li stavano attendendo col fiato sospesi ma che non arrivarono.
La paura come una coltre pesante stesa su tutta il campus aveva attutito i suoni, resi più opachi i colori, annullato qualunque problema personale che non avesse direttamente a che fare con *quella* giornata.
Il campus s’era riempito di visitatori, di genitori e amici, di curiosi e di detrattori. Avevano parlato, guardato, fotografato, sorriso, brindato, abbracciato e alla fine avevano salutato e se ne erano andati. Se ne erano andati *tutti*.
E il giorno era finito, avevano chiuso i cancelli.
E non c’era stato alcun attentato.
Nessuna bomba, nessun nemico, nessun problema a rovinare la giornata.
La delusione era quasi palpabile. E sì, dannazione, era proprio *delusione*.
Jean Paul socchiuse appena le palpebre, voltandosi a guardare Robert seduto in cima alla scalinata esterna della scuola, intento a contemplare l’enorme giardino che s’era svuotato da poco delle auto e delle persone, come se lo vedesse per la prima volta.
“E adesso? Vuol dire che hanno… cambiato idea?”
Quegli occhi dorati non gli si posarono addosso, li vide danzare qui e là, ancora senza meta, sfiorando mille cose, rivelando infinite sensazioni, senza dare reale voce a nessuna.
“Mi piacerebbe essere così ottimista. – si passò una mano fra i capelli, tirandoseli indietro con uno strattone, come se quel gesto potesse servire a qualcosa. – Avevamo sperato troppo che questa gente fosse tanto ovvia da provarci *oggi*. Ma in effetti loro non hanno detto quando avrebbero compiuto questo dannato attentato.”
Robert non sembrava essere troppo convinto. Avevano tutti puntato così tanto su quella giornata che in mezza settimana avevano rovesciato addosso ai ragazzi un’ansia impossibile, imbottendoli di informazioni e notizie, spiegando loro per filo e per segno tutto quello che avrebbero dovuto sapere per affrontare una situazione mille volte peggio di quello che, umanamente, chiunque avrebbe potuto mettere in piedi, e ora…
Non era successo nulla.
Poteva succedere l’indomani, o quella notte stessa. Oppure l’anno dopo, o dopo dieci anni.
Ma come si poteva vivere in quel modo?!
Robert abbassò il capo, sprofondando nei suoi propri pensieri, Jean Paul sospirò.
“Ma come può essere finita? – la sua voce era un sussurro, e sembrava davvero stupito, come se parlasse più a se stesso che a qualcun altro – Tra te e lui? Non riesco a capire. Sinceramente. Mi sembra tutto assurdo.”
Robert non si mosse per un lungo istante poi sorrise in silenzio.
“E’ solo che Remy era stufo di me. Forse mi ero fatto un’idea sbagliata… forse l’ho assillato troppo, immaginandomi cose inesistenti… “
Se aveva altro da dire non lo fece, si limitò ad alzarsi e scomparve dietro l’ampia porta d’ingresso della villa. Jean Paul si limitò ad appoggiarsi pesantemente al muro.
___
Buio.
Un silenzio sospirato, attraente e intossicante allo stesso tempo: un modo per immaginare Robert sorridente, forse. O forse davvero l’unico modo per togliergli dal viso quell’espressione mesta e grave di chi ha il cuore spezzato. Jean Paul non sapeva quale delle due opzioni fosse la più esatta, di certo c’era che amava solleticargli i fianchi, farlo ridere, sentire la sua pelle morbida sotto le mani e immaginare quel piacere che sarebbe venuto, fiorendo sul corpo tiepido di Robert. E la sua voce. Le sue mani.
La solitudine forse sarebbe stata pesante, a ricordarla, l’indomani: solo loro due, in un gioco che solitamente era giocato con un altro. Un altro che ora non c’era, che non voleva più esserci.
Remy non c’era.
Ma c’erano Robert, e Jean Paul, e in quegli istanti bastavano solo loro due. Il resto del mondo non aveva senso, e di esso non esisteva neppure la più minima memoria.
Baci e carezze.
Sussurri e fremiti.
Robert arcuò la schiena, strusciandosi contro di lui, passò le dita fra i capelli di quel colore così strano, e li sentì morbidi e si ritrovò a sospirare. Le carezze si susseguivano lente, come le onde del mare che si schiantavano sulla sabbia. Gli abiti cedettero in fretta alle spinte, agli strattoni, rivelando la pelle nuda e il suo profumo… era incredibile il profumo di Robert, quello naturale del suo corpo e la musica dei suoi movimenti, gesti sottili e involontari che parevano riuscire a riempire l’aria scura di archi luminescenti, come sottili falci di luna.
Robert era incredibilmente sensuale, e lo era in una maniera purissima e involontaria. Jean Paul sorrise a quel pensiero e si impedì di pensare ad altro.
Non c’era altro se non la pelle di Robert, i suoi sussurri, le sue labbra, le sue mani addosso. Il suo aprirsi, schiudersi e piegarsi ai suoi desideri, al tocco della più minima pressione. Che importava tutto il resto?
Non esisteva altro oltre quelle braccia che gli graffiavano la schiena, quel corpo aggrappato al suo, quelle labbra che mordevano piano una spalla e le gambe che gli si annodavano alla vita. Ed era una danza, sì, e insieme un canto senza voce, un qualcosa di delizioso, di cui Jean Paul non poteva e non voleva fare a meno.
Gli sfiorò il volto con le mani, sorridendo e guidandolo fra le proprie gambe. Bastò suggerirgli solo col pensiero di utilizzare la lingua su di sé e subito percepì Robert leccarlo piano, delicatamente. All’inizio fu come se chiedesse il permesso poi … poi fu come cadere in un morbido universo tiepido di infinite sensazioni. Dolcezza e piacere mischiati: strano, non era ciò a cui Jean Paul era solito.
Però era bello.
Robert era bello, e dolce. Piacere, morbide ondate in cui affogare, delizioso… Robert tremò a sentire la schiena percorsa da polpastrelli leggeri, piccoli brividi che si accavallavano e i muscoli che si tendevano. Jean Paul che sorrise, le labbra sulle labbra e le mani sulle cosce: aprirle, tenderle.
Carezze che si mangiavano lembi di carne ardente, movimenti che divoravano brani di anima. Robert ansimava e chiedeva in silenzio di ottenere quel piacere tortuoso che s’ottiene nell’essere posseduti, riempiti, quasi utilizzati. Ma quasi, solo quasi.
Jean Paul era un amante attento, niente amore, forse, niente innamoramento e ‘sarà per sempre’, niente ‘sei il mio tesoro’ o falsi atteggiamenti da cuore colmo di sentimenti inesistenti ma attenzione, delicatezza, desiderio di suscitare, e non solo di ottenere, piacere. L’orgasmo come una scossa da condividere e non solo da ingoiare, annullando in un roco sussurro ficcato in gola. Niente lacrime o sussulti di fastidio irruento. No.
Piacere.
Attenzione nel donare piacere: l’unico modo per *ottenerlo*. Jean Paul era un vero cultore di questo principio e Robert, in una maniera indistinta e irrazionale, lo comprendeva e ne era grato.
Non Robert che riuscisse ad esserlo, lucidamente, in quell’istante dove esistevano solo sensazioni di morbide carezze di velluto che facevano nascere tremori sotto la pelle e piccole scintille di fuoco che danzavano ovunque, dentro e fuori.
Jean Paul. Northstar. Stella del Nord. Quanto aveva di una stella, lui! Lo stesso gelo del cuore del Nord, la stessa luce che danza nell’aria, ad onde colorate, delle aurore boreali e il bianco accecante, infinito, tagliente, che trapassa le palpebre abbassate, le mura più spesse, il cervello stesso e creava … spazio pulito, ampio, e vento, infinito vento che gioca sul ghiaccio.
Sì, una stella che brillasse sul ghiaccio.
Robert strinse le palpebre con forza, e i denti. Si sforzò di aprirsi, nell’essere posseduto, ora, era teso tutto il suo essere. Nell’essere posseduto *da JP* ora trovava l’unico senso che potesse esserci nel mondo che lo circondava.
Per il tempo dell’orgasmo sfumò il ricordo, conficcato nel cuore, di Remy.
Per quell’istante Remy non esistette. Non esistette null’altro.
C’erano solo lui, e JP.
In tutto l’universo.
E sembrava un paradiso.
___