STELLA DEL NORD
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PARTE: 11/18
AUTORE: Dhely
SERIE: Xmen con notevoli variazioni sul tema. Spero
che tutto sia sufficientemente comprensibile anche a chi non ha mai seguito i fumetti!
RATING: NC-17-V Ricordi di violenze subite in passato,e violenze presenti.
Linguaggio volgare. Temi non proprio gradevoli. Angst. Un po’ di R.
NOTE: i pg non sono miei ma li amo tutti, uno per
uno, anche se appartengono alla perfidissima signora Marvel
- la quale, ovviamente, non mi passa mezzo cent. per
scrivere questa roba-. I pairing, le coppie, il
passato di questi tizi è stato manipolato e/o mezzo inventato per riuscire a
tirare in piedi una trama decente, anche se ho cercato di non cambiare troppo 'cio' che è stato'.
NOTE 2: chiunque abbia bisogno di maggiori informazioni sui pg
trattati in questa fic, può tranquillamente chiedere
a me, o consultare uno dei tremila siti di continuità Marvel
per comprendere che è tutto un gran casino e che è forse meglio chiedere a *me*
così vi dico solo le cose che potrebbero essere utili per capire di *chi* sto
parlando! (adoro essere modesta.)
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Occhi di ghiaccio.
Fa paura dirlo. Sembra di dover provare fastidio o timore. Dolore forse.
Non con Robert. No: occhi di ghiaccio ma gentili. Gli occhi di un ragazzino. Era grande come Scott, un po’ più giovane di Remy, eppure sembrava sempre un quindicenne. Era il suo modo di muoversi, o il suo modo di guardare: come spiegarlo? Come se tutto fosse nuovo e *bello*. Come se il domani fosse sicuro che avrebbe portato cose fantastiche. Il lato bello ed intrigante di ogni adolescente, la continua, infinita apertura, la speranza che non si spegne anche di fronte a ciò che è impossibile, a prescindere da ogni ragionevole certezza, da ogni cosa.
Robert era così.
Robert era semplicemente quello che lui non era mai stato. Che non aveva mai potuto essere. E l’invidia si può provare solo quando si senta la mancanza di un qualcosa che, una volta, è stata propria.
Jean Paul lo guardava e vi ritrovava solo cose che aveva lette su libri o viste in tv, sensazioni che non aveva mai provato, idee che non erano mai state sue. E anche ora non le comprendeva. Non capiva, o forse non voleva: non era molto importante, poi.
Così come era inutile ora quella strana ‘giustificazione’. A chi doveva chiarire il motivo per cui gli piacesse Robert? Perché doveva pensarlo come un problema? Non era un problema, non lo era per nessuno… non avrebbe dovuto esserlo neppure per sé stesso. Eppure era lì e non poteva smettere di pensarci…
Perché gli piaceva pure Remy: intrigante, maturo, scaltro. Si prendeva ciò che voleva e faceva pure in modo che paresse di non essere colpevole di nulla. Era un ladro, ma non di cose, non più: di sensazioni, di sentimenti, come se in lui non ne trovasse abbastanza. Jean Paul credeva che Remy avesse una rigidità eccessiva nel giudicarsi perché, nonostante i suoi segreti, le ombre lunghe che si stendevano nel suo animo, lo sentiva ‘pulito’e limpido, se si sapeva avere l’occhio allenato per scandagliare acque così profonde.
Li vedeva, Remy e Robert, insieme, in quei minuscoli ritagli che la notte lasciava loro, nella solitudine dopo l’orgasmo, quel loro cercarsi istintivo, le mani protese, e dolci, timorose di svegliare, di infastidire, e le braccia pronte ad avvolgere, e gli occhi che si perdevano negli occhi prima di socchiudersi e di sognare, insieme, chissà cosa. Era dolce guardarli insieme, d’una dolcezza quasi struggente: Robert che rideva al centro del sole e Remy che osservava un po’ discosto, avvolto da ombre che parevano far parte della sua essenza. E non era una questione di opposti perché se Robert era luminoso di certo non era solo luce, anzi, in lui si stendevano ombre lunghe, complessi dolori d’una profondità che Jean Paul poteva solo intuire. E Remy non era così oscuro come amava atteggiarsi, anzi: si nascondeva a volte per una fragilissima forma di pudore, come se il mostrarsi indifesi potesse essere considerata una colpa, un qualcosa di cui vergognarsi.
Luce e ombra, in entrambi, che si avvolgevano e si stringevano l’un l’altra e si amavano trovando perfezione nella loro incompleta esistenza, gioendo di questo. Vivendo di quella precaria esistenza che è la felicità umana.
E poi c’era Logan.
Di Logan non aveva nulla da dire, nulla da pensare: troppo di condiviso, troppo tempo, troppo dolore. Logan era stato una parte di sé, semplicemente, era stato l’unico a cui si era potuto aggrappare per non impazzire del tutto, per non essere fatto a pezzi. Logan era lì, anche ora, perché non poteva fare a meno di lui.
Era un legame col passato.
Col dolore.
Ma questo sentimento contorto che li teneva insieme non riusciva a spezzarlo. E non ci riusciva neppure Logan, lo sapeva: era come essere ancora in gabbia, tenuti al guinzaglio, esposti, vulnerabili, l’uno tramite l’altro. Non era questo che i medici avevano voluto creare, erano esperimenti falliti: però erano sopravvissuti, ed erano divenuti entrambi più forti grazie a quel fallimento.
Era stanco di pensare al passato, però da esso non poteva slegarsi, non poteva uscire da quello. Perché l’avevano cambiato troppo, l’avevano fatto diventare ciò che era… a volte Jean Paul aveva la netta impressione che se non fosse stato manipolato in quel modo ora sarebbe stato un uomo diverso, forse non migliore ma di certo meno amareggiato, meno caustico.
Meno spaventato.
Spaventato?
Da cosa?
Jean Paul sorrise, perché non c’era neppure da sprecare tempo e fatica a indagare per trovare chissà che risposta quando essa era lì chiara, ad ogni gesto, ad ogni pensiero di fronte a lui.
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Gli occhi di Scott, dietro la visiera di rubino, si assottigliarono dalla tensione e dalla preoccupazione. Tutto il gruppo era riunito nell’ampia sala sotterranea, intorno a un tavolo ovale che era insieme schermo e piano olografico: niente del genere serviva in quel momento, tanto che esso brillava liscio, pulito, e vuoto, se non fosse stato per un bigliettino. Carta bianca e inchiostro nero. Anche a prima vista, e senza l’ausilio di analisi particolari, quello era un normale foglio A4 su cui era stato scritto tramite una comunissima stampante a getto d’inchiostro. Neppure laser. *Getto d’inchiostro*. Ma le producevano ancora?
Nessuno parlava, i respiri erano ansiosi, preoccupati. Jean non doveva attivare il suo potere telepatico per leggere, nelle facce che la circondavano, lo stesso interrogativo.
E adesso?
Tutti loro avevano saputo, quando avevano cessato di nascondersi, quando avevano annunciato pubblicamente la fondazione di una scuola appositamente per studenti mutanti, che sarebbero andati incontro a difficoltà notevoli: davanti ai loro cancelli c’erano sit in di protesta o cose simili almeno una volta a settimana. Ma l’intolleranza andava sconfitta, e non sarebbe stato semplice, lo sapevano: così era successo per il voto alle donne, per i diritti dei neri, per gli omosessuali. L’unica cosa diversa da ciò che era stato in passato era che *davvero* in quella scuola c’erano ragazzi che potevano essere potenzialmente molto pericolosi. Molto.
Il loro compito, però, era proprio quello di insegnar loro a tenere il loro potere sotto controllo, e ad utilizzarlo solo se e quando ci fosse stato bisogno.
Questo era quello che aveva cercato di dire Charles durante una delle ultime interviste, e la cosa suonava sempre ragionevole e buona. Eppure i sit in continuavano, e le proteste. Avevano dovuto aumentare i controlli anti intrusioni nel perimetro della scuola e anche se nessuno era mai riuscito a metter piede nel giardino della tenuta, in molti ci avevano provato.
In questo clima non era strano vedersi recapitare lettere minatorie, delatrici di varie minacce, una peggio dell’altra. Ma era anche vero che, se avessero preso sul serio ogni spiffero di vento contrario, da anni avrebbero già chiuso tutto, e se ne sarebbero andati.
Ma quello era diverso.
Loro *erano* mutanti. Mutanti organizzati. Mutanti con enormi potere di controllo.
Controlli fisici e psichici. Controlli computerizzati, cibernetici. *Olfattivi*.
Neppure una mosca poteva entrare nel campus senza che, immediatamente, gli addetti alla sicurezza l’avessero saputo. Invece: quel foglio l’aveva trovato Charles una settimana prima sulla sua scrivania. La finestra spalancata e null’altro. Qualcuno era entrato ed uscito senza lasciare traccia. Senza lasciare *nessun* tipo di traccia.
Pure un fantasma avrebbe dovuto lasciare qualcosa. I telepati se ne sarebbero accorti. O Logan ne avrebbe intuito l’odore.
Invece niente.
‘Questo è un avvertimento. La prossima volta porterò una bomba nell’ala degli studenti.’
Niente firma. Niente di niente.
Panico tenuto appena sotto controllo grazie ad anni di addestramento e di pericoli affrontati e sconfitti. Nessuno di loro avrebbe battuto ciglio se avessero dovuto attraversare l’universo per combattere contro qualche nemico extraplanetario, o qualche nemico potentissimo e subdolo che abitava sulla terra. Missioni suicide o meno non preoccupavano nessuno di loro: ma i ragazzi…
I loro ragazzi erano inesperti e giovani. Venivano quasi tutti da situazioni difficili, da genitori che li avevano rifiutati per la loro mutazione, da angherie e soprusi. Tutti loro erano giovani e non avevano trovato che lì un posto tranquillo, nel quale potersi dire ragazzi, un posto dove fosse possibile per loro essere tranquillamente loro stessi, senza troppe paure. Un posto per crescere.
I ragazzi erano sacri: Ororo pensò a loro, e li paragonò a quella che era stata lei alla loro età, e sapeva che tutti quelli che erano lì l’avrebbero pensata come lei. I ragazzi andavano protetti. Ma non perché erano il futuro della razza o discorsi simili. No.
Più semplicemente.
Più egoisticamente: i loro ragazzi erano una parte della gioventù che loro non avevano potuto vivere. I loro ragazzi erano loro stessi se fossero nati una decade più tardi. Erano come se fossero i loro figli futuri.
Non *poteva* esser fatto loro del male.
Il professor Xavier entrò nella sala con uno sguardo cupo, e segnato.
“Inutile spiegare di nuovo ciò che è successo. Sono certo che lo sapete già tutti. - silenzio. – Bene. Ho dovuto informare il governo della gravità di questa minaccia…”
“Cos’è ci manderanno un paio di agenti?”
Qualcuno rise, il Professore sollevò una mano.
“No, meglio di quanto mi aspettassi: ci hanno mandato il loro miglior esperto in azioni terroristiche in servizio presso i Vendicatori.”
I Vendicatori erano un gruppo grande, famoso. Capitan America, Thor, Iron Man, e gli altri: erano tipi giusti. Lavoravano per il governo e per l’ONU, erano una ‘squadra speciale’ ben voluta anche dalla gente.
Era …
“E che cazzo, Charles, non *gli* avrai mica detto di sì, vero?”
“Logan…”
Un sospiro stanco, accanto alla sua sedia a rotelle un paio di gambe lunghe, avvolte in una divisa blu notte e argento, scavalcarono la distanza che lo divideva da Charles, posandosi al fianco del professore.
Tutti lo riconobbero, ovviamente.
Robert spalancò gli occhi dovendo ammettere che non se lo ricordava così carino.
Remy assunse la posa più affascinante che, istintivamente, gli venne.
Jean Paul era sul punto di avere un infarto. E pure Logan, ma per motivi decisamente differenti.
Scott assunse le incombenze da leader, che gli appartenevano da quando era entrato, anni prima, negli X Men.
“Quicksilver, benvenuto. Sono certo che con il tuo aiuto…”
“Ci farà saltare tutti per aria per poi danzare sui nostri cadaveri! – ringhiò Logan, furioso – Idioti! Stai lontano da noi o ti faccio secco, giuro!”
“Logan!”
Scoppiò una piccola rissa verbale, durante la quale Quicksilver non mosse un solo muscolo. Rimase lì, perfettamente immobile, perfettamente bello, perfettamente arrogante, con una espressione seccata sul volto e null’altro che quegli occhi troppo luminosi come manifesto del suo essere vivo.
“Logan! – il professore riuscì a imporsi sul vociare degli altri – Quicksilver è un esperto di attentati e attentatori: il governo ci ha mandato l’esperto che più potesse servirci, e non tollererò altri…”
“E’ un esperto di attentati, Chuck, perché era *lui* a mettere le bombe, prima!”
Jean Paul vide il fastidio ghiacciarsi su quel volto quasi tralucente, e quando parlò le sue parole sembravano lame.
“Già. E lo facevo *bene*, se tu ricordi. – un sorriso da sfinge - Anche tu sei un esperto ad ammazzare la gente, mi pare. Ma la tua abilità non è richiesta, per ora.”
Schioccò appena le labbra, non divertito, ma nel silenzio calato dopo la sua affermazione anche quel piccolo rumore si udì benissimo.
Poi Logan, furibondo, si voltò sui tacchi, e uscì dalla sala a grandi passi senza più una parola.
Il professore sospirò.
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Carezze. Carezze infinite: sulla pelle, i capelli, a seguire la linea dei muscoli, e le ossa che sull’anca spuntavano, per poi piegarsi e nascondersi ancora sotto strati di carne. Velluto e fuoco. Morbido contatto che incendiava i nervi e la mente.
Desiderio.
Sorrisi.
Robert aveva avuto paura. Non l’aveva detto a nessuno e forse non l’avrebbe detto mai, ma…
Ma.
Era stato JP a cambiare tutto. La sua semplice presenza aveva obbligato a rimanere a galla delle domande che, altrimenti sarebbero rimaste affogate giù, nella melma oscura che erano le fondamenta dell’anima di ciascuno. Quelle cose che ognuno sa di se stesso ma che preferisce non sapere. Non razionalizzare.
Era stato lui e non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza.
Non l’avrebbe mai ringraziato. Punto. Ma JP non era uno che se la poteva prendere per così poco: Bobby credeva che JP avesse capito tutto con un sola occhiata, e tutto ciò che era capitato era capitato perché lui aveva in qualche modo macchinato per…
Bobby sospirò, allungando la mano leggera fra le piume morbide di quel paio d’ali davvero d’Arcangelo. Warren era tornato da poco e solo ora che ce l’aveva di fronte, in tutta la sua gloria soffusa di luce dorata e ali piumose e candide, s’era accorto di quanto gli era mancato.
La sua voce, i suoi occhi: erano sempre stati amici, sempre, anche se in maniera diversa da Hank. Eppure loro, insieme a Scott, erano stati ‘i primi’. I fratelli grandi di una grande famiglia, e fra di loro era rimasto qualcosa.
Amico, confidente, e forse di più, come solo un vero amico può essere.
Bobby rise seduto sul prato, le braccia a stringersi le ginocchia al petto, mentre Warren, al suo fianco, in piedi, muoveva lentamente quelle ali candide… e lo faceva solo perché sapeva che gli piaceva guardarle.
Era un bambino, Bobby, che credeva ancora agli angeli che scendevano sulla terra con spade fiammeggianti a punire i bimbi cattivi quando, per la prima volta, a dodici anni, s’era trovato di fronte a un angelo vero. Bello e biondo, occhi azzurri. E le *ali*. Mancava solo l’aureola e poi… ma Warren non aveva una spada fiammeggiante, e per quanto continuasse, ogni singolo giorno, a comportarsi da megalomane, mandando a quel paese Scott e chiunque altro, fin dall’inizio aveva preso in simpatia il piccolo Robert.
Era da lì che Bobby aveva iniziato a indossare la divisa della piccola mascotte del gruppo. Era il bimbo, anche se era vecchio come gli altri, era quello che andava protetto, anche se era bravo tanto quanto gli altri, era quello di cui ci si doveva preoccupare, anche se il suo potere avrebbe potuto difenderlo molto meglio di tutti loro messi insieme. Era il loro jolly, la loro mascotte, il loro piccolo clown che si impegnava ogni volta a strappare un sorriso ad ognuno di loro. Ed anche se erano passati anni questo non era cambiato. Come se fosse divenuto un lavoro… era il suo ruolo all’interno del gruppo.
“ … nessuno saprebbe farlo meglio di te, Bobby.”
Sospirò.
“A volte però sono un po’ stanco. – un attimo di silenzio, una ruga pesante a solcare quel viso sempre giovane – Non lo so, Warren, non lo so. Non mi sembra giusto. E’ come se stessi perdendo qualcosa.”
“Che ti succede, piccolo amico?”
Preoccupazione in quella voce e un sorriso sincero: erano tutti sconvolti dall’aumento così drastico dei sistemi di sicurezza, pareva davvero di essere ritornati ai primi anni di guerra, come se nulla fosse cambiato, come se il timore e il dolore non potessero mai aver fine. Ma Warren era sempre lì per lui, anche se aveva appena mandato a farsi fottere il Professor Xavier, o aveva dato del pazzo egocentrico a Logan, oppure aveva fatto lo snob sbruffone con Scott.
“E’ difficile da dire… forse solo non si può dire, Warren. – occhi dorati che s’alzarono verso il cielo che scoloriva lentamente – A volte mi sento come intrappolato in un ruolo che … che mi è stato assegnato e che devo portare avanti a tutti i costi. E poi mi domando cosa saprei, o potrei fare d’altro, oltre che il buffone. Ed è amaro non sentirsi in grado di fare altro.”
Un nuovo sorriso, un corpo tiepido seduto accanto al suo e, alle sue spalle, un paio d’ali candide ad aprirsi, come a volerlo avvolgere in un bozzolo, come a volerlo proteggere. Un’ala d’un angelo che si apriva su una sua spalla, come scudo, come nido, difesa e protezione.
“Questa tua depressione, Bobby, ha forse a che fare con quello che ho sentito in giro? Che finalmente hai messo la testa a posto e ti sei infilato in una storia seria?”
“Lo sai *già*!?”
“Lo sanno tutti.”
Un piccolo broncio, poi nascose il viso fra le braccia serrate sul petto.
“Già, e con Remy ti sembra una cosa *seria*? Andiamo… lo sanno tutti che è un gigolo patentato…”
Sentì Warren tendersi, l’ira trasformata in un sibilo tenuto appena sotto controllo.
“Tu… tu lo ami?”
Ah, la domanda da un miliardo di dollari! Che ne sapeva lui se … se quando vedeva Remy e si sentiva tremare tutto, non solo le ginocchia, ma anche il cuore, e le idee gli si confondevano nel cervello, e si sentiva felice e insieme tristissimo e avrebbe fatto qualunque cosa per essere perfetto, per un suo sorriso, per un suo cenno … era quello essere innamorati? Essere innamorati era essere pazzi? Pazzi d’un sentimento che non si riusciva a spiegare, a dominare, a piegare? Neppure a dire?!
Essere innamorati era stare con un piede all’inferno e con l’altro al paradiso senza alcun motivo?
Era quello?
“Sì, Warren. Sì, dannazione… ho … ho paura.”
Lo disse ad occhi chiusi, temendo che se Warren avesse visto i suoi occhi si sarebbe arrabbiato nell’intuirli velati. E poi il suo amico era appena tornato e non voleva farsi vedere piangere e non… una mano gentile gli sfiorò i capelli. Un tocco che conosceva, anche se da anni non sentiva più addosso.
“E’ normale aver paura, Robert. – un sorriso che lo obbligò a sollevare il viso. Con i polpastrelli gli asciugò le lacrime che gli stavano sorgendo dagli angoli degli occhi – Tutti abbiamo sempre paura quando inizia una storia. Fidati.”
“Anche se è … - Robert arrossì ma non chinò lo sguardo – anche se io e lui siamo … cioè se lui è lui e io sono …”
“Anche se siete due uomini?”
Annuì.
“Non te l’ho detto prima, Warren, perché eri lontano, ma forse … forse se tu non l’avessi saputo da chissà chi non te l’avrei detto comunque. Io non voglio perdere nessuno di voi. E non posso scegliere tra te e lui.”
La sincerità diretta e senza doppi fini di Robert era sempre stata una cosa stupefacente. Warren gli sorrise scompigliandogli piano i capelli.
“Sei mio amico, ti voglio bene. Anzi, di più: ti conosco da anni, Bobby, ed è come se fossi mio fratello minore. Sono preoccupato per te, e lo sarò sempre, indipendentemente dalla persona con cui decidi di avere una relazione. Qualunque cosa ti faccia stare bene per me va bene. – poi divenne serio – Se Remy ti facesse male, in qualche modo, in *qualsiasi* modo, se la dovrà vedere con me.”
Il suo “fratellino piccolo”. Questo era sempre stato Robert ai suoi occhi: un cucciolo da proteggere, quel fratello minore con cui giocare, con cui divertirsi, con il quale ricordarsi di essere non solo un super eroe che salva il mondo una volta a settimana ma anche, e soprattutto, un ragazzo. Una persona. Sentimenti e dolori, passioni e amori di cui non ci si doveva vergognare perché era *normale* provare.
“Lui ti ama?”
Robert chiuse gli occhi, poi sorrise, arrossendo serio.
“Sì, credo di sì.”
“Bene.”
Warren scosse le ali: le piume finirono a fare il solletico a Bobby che rise, finalmente, e finalmente Warren si sentì a casa.
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Remy percorse il corridoio a lunghe falcate irritate.
Se fosse stato un altro avrebbe fatto una scenata con tanto di armi sfoderate, pronto a saltare alla gola del suo avversario.
Se fosse stato un altro avrebbe fatto un’uscita da grande star, sarcastica e irata, e gli sarebbe bastato uno schiocco di dita per far ritornare tutto al suo posto.
Se fosse stato un altro avrebbe finto di non aver visto, avrebbe finto che non fosse accaduto niente, che non aveva sentito il cuore spaccarsi in due dalla gelosia … come se lui, il grande Remy le Beau potesse soffrire di gelosia! Lui che aveva uno stuolo di spasimanti, lui che poteva avere *tutti* quelli che voleva! Lui che aveva perfino perso il conto di… si diede dell’idiota sbattendo la porta della propria stanza con un tonfo in grado di far tremare tutta la scuola fin nelle fondamenta.
Aveva incrociato Jean Paul, tre passi prima, ma non lo aveva degnato neppure d’uno sguardo. E poi cosa aveva mai da dirgli?
‘Hei, JP, guarda che probabilmente è arrivato l’amichetto serio di Bobby e da oggi in poi a giocare saremo solo noi due!’ Sai a Jean Paul cosa sarebbe importato! E se anche non fosse stato così… se non fosse stato così per cosa farlo preoccupare?
Remy digrignò i denti: già, adesso il problema era di non far preoccupare Jean Paul…
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“C’è qualcosa che non va, Jean Paul?”
Il professor Xavier lo fissava con uno sguardo di opaca curiosità, come se la sua mente fosse concentrata altrove, ma che fosse comunque troppo preoccupato per lui per poter non impicciarsi.
“No, nulla.”
Era un telepate, no? Doveva essere cieco per non aver visto che faccia aveva Remy prima di fiondarsi nella sua stanza. Non che Jean Paul credesse che Xavier potesse preoccuparsi di cose che davvero *meritavano* il suo interessamento… o per lo meno, la cosa sarebbe stato un bel cambiamento. In compenso lui non aveva nulla che non andasse, anzi!
Anzi.
Non avrebbe mai osato immaginare che, solo perché aveva preso parte ad un paio di missioni che avevano come oggetto degli spostati che volevano piazzare bombe un po’ ovunque, blaterando sull’indipendenza morale del Quebec dal Canada anglofono, potesse dargli il titolo di ‘esperto in antiterrorismo’.
“Ne sai un po’ più di noi comunque.”
Eccolo che ricominciava!
“E la privacy sui pensieri altrui?”
“Non serve essere un telepate per sapere a cosa stai pensando, Jean Paul.”
Oh, bene! Ma perché diavolo Xavier doveva mettersi d’impegno per rovinargli quell’attesa? In effetti rischiava di essere un po’ troppo ansiogena… Come se Jean Paul fosse poi un completo idiota. Come se avesse potuto non notare quell’occhiata, brevissima, ma di completa, totale fascinazione che Xavier aveva lanciato a Pietro un attimo prima di iniziare a parlare di qualcosa di assolutamente stupido.
Pietro si meritava questo ed altro, però Jean Paul aveva notato la discrezione assoluta del professore in certi campi, mentre, invece, per quell’attimo era stato dannatamente spudorato. Dovevano essere gli occhioni di ghiaccio. O il fondoschiena…
“Jean Paul!”
Sembrava che Xavier fosse divenuto d’una tonalità scarlatta impossibile da riprodurre. Jean Paul si limitò a sorridere, stringendosi nelle spalle, poi socchiuse gli occhi: aveva sempre preferito il silenzio. Aveva sempre preferito pensare, e ora l’idea che questi suoi segretissimi, preziosi pensieri potevano essere frugati con la semplicità dello sfogliare un giornale lo rendeva furioso. E spaventato insieme.
Non era di certo l’atteggiamento migliore da avere in un momento delicato come quello. E … aveva un potere simile, Jean Paul. Sapeva cosa volesse dire muoversi a una velocità vicina a quella del suono, e conosceva il *rumore*, quel sibilo leggero che poteva passare inascoltato, la leggera pressione dell’aria sulla pelle, sulle ciglia.
Pietro comparve letteralmente, a un palmo da lui: gli occhi negli occhi, un’espressione di indifferenza e gelo, mista a qualcos’altro, qualcosa che scomparve troppo in fretta per riuscire a dargli un nome. Poi scostò lo sguardo sul professor Xavier.
“Ti ho detto che non mi serve nessuno dei tuoi, Charles. E tantomeno mi serve uno che *non* è dei tuoi.”
Jean Paul arricciò appena un sopraciglio: era abbastanza chiaro che lui non fosse uno degli X Men in senso stretto, ma quello sembrava proprio un insulto.
“E’ stato addestrato dal governo Canadese per fronteggiare questi situazioni, Pietro. E’ sicuramente il miglior appoggio che posso offrirti. Anche se è abbastanza indipendente per non dirsi uno dei miei X Men.”
Jean Paul si scrollò nelle spalle con un gesto elegante.
“E’ sempre un piacere essere messo al centro dell’attenzione di ognuno. – un ghigno leggero, uno sguardo denso e luminoso. Sexy, spudoratamente, impassibilmente sexy. – Ad essere onesto non ho chiesto io di essere proposto per questa ‘collaborazione’. Di solito preferisco di gran lunga essere io lo snob arrogante del gruppo, forse, però, per te potrei fare un’eccezione.”
Non il minimo ammiccamento, Jean Paul stesso si stupì di tutta la freddezza che riuscì a sfoggiare in quel frangente decisamente imbarazzante. Pietro però parvi non farci caso.
Tacque, lo fissò quasi stupefatto, fu sul punto di ribattere ma all’ultimo istante preferì non aggiungere nulla. Gli mise semplicemente fra le mani un plico di carte.
“Allora ‘collega’, studia questi, poi vedremo di approntare un piano decentemente attuabile in questo dannato posto. – guardò Charles seccatissimo – Visto che qualcuno non vuole far saltare la festa della settimana prossima.”
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