STELLA DEL NORD
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PARTE: 8/?
AUTORE: Dhely
SERIE: Xmen con notevoli variazioni sul tema.
Spero che tutto sia sufficientemente comprensibile anche a chi non ha mai
seguito i fumetti!
PAIRING:
RATING: NC-17-V Ricordi di violenze subite in passato,e
violenze presenti. Linguaggio volgare. Temi non proprio gradevoli. Angst.
NOTE: i pg non sono miei ma li amo tutti, uno per uno, anche se appartengono alla perfidissima signora Marvel - la quale, ovviamente, non mi passa mezzo cent. per scrivere questa roba-. I pairing,
le coppie, il passato di questi tizi è stato manipolato e/o mezzo inventato per
riuscire a tirare in piedi una trama decente, anche se ho cercato di non
cambiare troppo 'cio' che è stato'.
NOTE 2: chiunque abbia bisogno di maggiori informazioni sui pg
trattati in questa fic, può tranquillamente chiedere
a me, o consultare uno dei tremila siti di continuità Marvel
per comprendere che è tutto un gran casino e che è forse meglio chiedere a *me*
così vi dico solo le cose che potrebbero essere utili per capire di *chi* sto
parlando! (adoro essere modesta.)
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Le sei meno dieci.
Di mattina, ovviamente.
Jean Paul sospirò piano all’orologio, si vestì, dando così inizio alla giornata.
Uscì dal campus che era divenuta, negli ultimi mesi, la sua casa, raggiunse l’edicola internazionale che preferiva in tutta New York, sei chilometri ad andare e altrettanti a tornare, i suoi soliti 18 dollari e 75 cent quotidiani, poi di nuovo il campus
L’ala professori.
La cucina.
E una tazza di caffè.
Le sei meno cinque: non era andato così di fretta come aveva creduto.
Spalancò The Economist e vi sprofondò dentro lanciando a Scott, che era di turno alla cucina quella mattina, un breve saluto.
I corridoi erano ancora ben lontani dall’essere l’allegra e rumorosa ressa di troppe voci e di troppe persone: a quell’ora gli studenti dormivano ancora tutti; solo alcuni degli Xmen avevano fissate delle sessioni di allenamento che, comunque, erano a libera scelta visto che coloro che gradivano alzarsi all’alba erano comunque rari, mutanti o meno che fossero.
Non che a Jean Paul *piacesse* effettivamente alzarsi presto, semplicemente non poteva farne a meno visto che, per il suo metabolismo, tre o quattro ore di sonno di fila erano più che sufficienti. Avrebbe potuto stare a poltrire fra le coperte se ci fosse stato qualcuno con cui farlo, se ci fosse stato un motivo… il motivo però non c’era.
Corrugò appena la fronte: merde! Le azioni della Pol.corp avevano perso il 15% nell’ultimo semestre! Che razza di manager avevano?! Calcolò rapidamente quanto avesse perso del suo investimento iniziale e decise che quella giornata stava cominciando decisamente male, anche se Scott non avesse intavolato uno dei suoi soliti discorsi da: ‘io sono il capo di una squadra che deve essere coesa per cui mi sforzerò di parlare con te anche se non ne ho per nulla voglia e mi farò i fatti tuoi senza che m’interessi davvero la minima cosa che mi dirai, per cui vedi di collaborare’.
“Allora, come ti trovi con la squadra?”
Appunto.
“Bene, Scott. - un’occhiata da oltre la leggera cortina dei fogli grigiastri del quotidiano - Non credevo di darti pensieri per gli allenamenti o la preparazione.”
L’altro si mosse lievemente nervoso.
“No, infatti. Chiedevo per il resto.”
Jean Paul aveva già pronta, sulla punta della lingua, una risposta tagliente e terribile, all’acido fenico, ma si accorse, quasi tristemente, che non ce n’era alcun bisogno: Scott si stava sforzando di parlargli tanto quanto lo stava facendo lui e non gli importava davvero un accidente di quello che Jean Paul avrebbe potuto dirgli, a meno che fossero informazioni fondamentali riguardo il gruppo e la squadra. Una di quelle cose che potevano interessare un buon capo, in sintesi.
Oh, sì, perché Scott era un ottimo capo, però era noioso e pedante oltre ogni limite. Non valeva la pena sprecare il proprio sarcasmo per uno così.
“Tutto perfetto.”
“Bene.”
“Già.”
Jean Paul affondò di nuovo il naso nelle sue notizie, indifferente al mondo. Registrò appena il muoversi di Scott per la cucina e l’arrivo di Ororo a riferirgli un problema tecnico con i simulatori.
La solitudine di quella stanza bianca, a quel punto, l’avvolse come se fosse un abbraccio morbido. Solitudine ma non freddo, nessun dolore, nessun idiota fra i piedi e una tazza di caffè, lungo e bollente, a portata di mano. Il paradiso doveva somigliare a qualcosa di molto simile.
Poi Logan, l’odore inconfondibile del suo sigaro. La sua presenza silenziosa e lievemente inquietante: niente parole, nulla da dirsi. Jean Paul sapeva che a Logan bastava annusare l’aria per sapere ogni cosa e lui, per quanto lo riguardava, non era certo che bisognasse proprio parlarsi ogni secondo per trasmettere qualcosa, per comprendere.
Le sei e venti.
Aveva terminato di leggere per la terza volta i quotidiani: a volte odiava il suo essere così rapido… ora però c’era tempo per le riviste di gossip, fondamentali per un buon investimento tanto quelle di economia. Chissà se davvero il presidente del comitato sui bilanci statali avesse davvero una nuova amante: poteva essere un buon momento, quello, per prepararsi a nuovi investimenti attendendo il gonfiarsi dello scandalo. E poi la cugina di Ricky Martin…
“Professoreeee! – Jean Paul si accorse della presenza di Kitty al suo fianco solo in quell’istante, e per poco non gli venne un colpo – Ma possibile che non pensi mai a nulla che non sia serio e che non ti faccia mettere il broncio?!”
Lei cinguettò con fare sornione, Jean Paul sospirò abbattuto.
“Kitty, che fai qui? E’ una sala privata, questa.”
Lei sbatté le palpebre poi sorrise.
“Ma professore! – sospirò appena poi cercò una scusa , la trovò, illuminandosi – Stavo passando di qui e volevo vedere se c’era Bobby…”
“Alle sei?”
“Bhè … magari … magari s’era svegliato presto…”
“Robert?”
“Bhè magari… - non trovò una risposta, arrossì – e poi dovevo parlare con Scott.”
“Scott è in palestra.”
“Ah.”
Sguardo fisso e nessuna intenzione di andarsene.
“Kitty?”
“Sì, prof!”
“Non poi stare qui a contemplarmi. A lezione puoi. Nelle aree comuni pure, ma non qui. E’ il regolamento, ricordi?”
Il suo viso falsamente contrito e acremente beffardo fece sorridere Logan, ma portò la ragazza alla soglia delle lacrime.
“Ma professore…”
“Kitty.”
Lei sospirò affranta, sollevando lo sguardo pure su Logan, come per cercare un appoggio che ovviamente non venne. Si limitò ad obbedire, in un silenzio mesto.
“Sei stato stranamente poco caustico, Northstar – notò Logan
– Di solito strapazzi le tue fans
con molta più verve.”
”Di solito non vengono a infastidirmi alle sei del mattino.”
Scosse il capo stringendosi nelle spalle.
“Gira proprio male, eh?”
Uno sguardo freddo.
“Non peggio del solito.”
“Da quel che ne so, e da quel che sento – Logan sollevò il capo con uno strano ghigno sul volto – passi molto del tuo tempo a divertirti.”
“Oh! – sussurrò Jean Paul uno dei suoi soliti sorrisi felini e luminosi, intriganti. - Divertire mi diverto, te lo assicuro.”
Uno sbuffo, una risata trattenuta, quella voce roca che si confondeva con le spire dense del fumo.
“Niente di meglio che stare in compagnia.”
Jean paul sorrise in risposta.
“Se vuoi ti lascio un invito per il prossimo ‘incontro.”
“Sai che non mi piace condividere la preda.”
Jean Paul osservò quegli occhi lampeggiare, scintillando, sotto le ciglia scure e gli parvero pieni di così tante cose da sembrare impossibile decifrarle tutte.. Tante cose che provenivano da un passato denso, tante cose che gli nascevano dentro ogni singola volta. Sguardi. Sensazioni. Certezze. E tutto era lì, prepotentemente presente nel suo essere appena nascosto dal silenzio.
E tutto era muto e indicibile, ma presente. In quella presenza in cui Jean Paul amava sciogliersi.
Torbido: in Logan non c’era nulla di torbido, di sporco. A guardarlo negli occhi sentiva che quelle cose avevano origine dentro di sé. Sporcare, confondere le idee, sguazzare nel torbido di una passione che amava fosse dai contorni sfumati, dalle lunghe ombre intossicanti: ecco la sua idea di lussuria, di piacere. Logan era diverso, egli viveva e godeva in un’immediatezza pulita, piana, lontana un’intera galassia dalla sua tortuosa sensualità. Logan era tutto ciò che gli sarebbe sempre stato precluso.
‘Non sei mai stato innamorato.’
No, lui non era mai stato innamorato.
Logan amava. Non lo dava a vedere, ma amava ogni cosa lo circondasse, ogni persona: sapeva aver rispetto senza annullarsi in essa senza perdere sé stesso o la propria dignità.
Jean Paul non aveva mai amato. Forse non sapeva farlo.
Sorrise, a Logan, e parve un sorriso stanco, tirato. Ma fu solo un attimo.
“Non sai che ti perdi, vecchio mio. – si mise in piedi con un movimento fluido ed elegante, terribilmente sensuale anche se non voluto – Ora vado, ho gli allenamenti.”
Logan tacque, osservando Jean Paul scomparire in un flusso d’aria più forte.
Erano le sei e trentadue.
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“JP, andiamo! Non puoi fare il recluso a vita qua dentro!”
“Robert, andare a Times Square il sabato pomeriggio non collima affatto con la mia idea di divertimento.”
“Piantala di fare l’asociale! – sbuffò scrollando le spalle – Andremo a Times Square, poi a cena in qualche posto carino e a ballare per tutta la notte: questo campus somiglia sempre più a un convento e la noia mi ucciderà presto se non farò qualcosa di divertente… ti assicuro sarà un pomeriggio e una serata fantastiche, ho organizzato tutto!”
“Non lo metto in dubbio, ma perché non ci vai con Remy. Non sarebbe più…”
“Ci verrà. E ci verrai pure tu! Ho convinto anche un paio degli altri e tu non puoi essere più duro da convincere di Hank!”
“Robert…”
“Lo faccio per il tuo bene! Ti stai deprimendo e la cosa non fa affatto bene alla squadra!”
Un tono deciso, un’espressione quasi buffa su quel viso giovane. Jean Paul gli scoccò un’occhiata scintillante e incredulo.
“Da quando la squadra è una tua priorità?”
“Santo cielo, JP! Da *mai*, ovvio! Ma è un’ottima scusa da presentare a Scott quando si lamenterà della cosa… e tu non puoi essere noioso come Scott!”
Jean Paul sospirò.
“Tu non hai idea di…”
“Andiamo! Sei carino, ricco e famoso! Dovresti passare la vita la vita a divertirti come un matto!”
Mettersi a discutere con Robert di ciò che trovasse divertente e di cosa odiasse a morte non era proprio il caso. In più temeva che sarebbe stato del tutto inutile.
“Robert, sii ragionevole: da come la racconti sembra molto un’uscita fra amici di vecchia data e io non faccio parte di quel gruppo. Vai e divertiti, ma …”
“Oh andiamo! Andiamo! Andiamo! Voglio che vieni anche tu! Ci sarà molta gente!”
“Sì?”
Non molta curiosità, ma Robert proseguì come se nulla fosse.
“Sì! Oggi pomeriggio ci sarà una conferenza pubblica, con Capitan America, i Fantastici 4, Thor e tutti i Vendicatori!”
“Pure l’Uomo Ragno?”
“Bhè – un po’ di titubanza, poi un enorme sorriso – magari c’è anche lui…”
“E Batman l’hai invitato?”
Robert mise il broncio.
“Piantala, JP, di fare l’acido! Batman è un fumetto, se non lo fosse forse ci verrebbe pure lui! – gli mostrò la lingua – Non mi ricordo che si inaugura però noi andiamo là per mostrare la nostra concordanza d’intenti con…”
“Robert, non m’importa cosa hai propinato come scusa al professor Xavier …”
“Smettila di interrompere! E comunque sono sicuro che Johnny, appena sarà terminata quella noiosissima cerimonia, sarà dei nostri!”
“Johnny?”
“Vedi che non conosci nessuno?! Devi allargare i tuoi orizzonti! Non accetto un no!”
Jean Paul sollevò appena un sopraciglio con fare seccato e infastidito.
“Robert…”
“Vedi di metterti figo!”
“Robert, forse non hai ben compreso…”
Robert si puntò i pugni nei fianchi.
“Sii pronto per le cinque, non farmi aspettare.”
“Robert!”
“JP! – Robert gli puntò un dito sotto il naso – se non vieni con le buone ti giuro ti ci trascinerò a forza. Sono stato chiaro?!”
Jean Paul sospirò e si diede per sconfitto, lì su due piedi. Pessima giornata: iniziata male, non poteva che terminare peggio.
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I giornalisti: croce e delizia.
I flash.
Le domande idiote.
I fotografi.
Sapevano essere terribili, quasi quanto lo erano le fans.
Gli svenimenti in diretta.
Gli urletti isterici.
Gli autografi.
Insieme le due cose erano insopportabili: Robert lo guardò ammirato sorridere di fronte alla trecentesima domanda banale sparata dal giornalista di turno che non si aspettava la presenza del famoso Jean Paul Beaubet, lì, ma: ‘hei! Non puoi essere qui e passare inosservato! Che nuovo, terribile particolare piccante della tua vita sentimentale potremo scoprire, oggi?!’, alla quale, ovviamente, aveva risposto con un’occhiata luminosa e una posa da attore consumato, snocciolando un sorriso fascinoso e una battuta brillante, in grado di spezzare grappoli di cuori e di strappare sospiri innamorati a iosa.
In quei momenti odiava i giornalisti, ma stare al centro dell’attenzione gli veniva bene, dannatamente naturale, spontaneo.
Lo sguardo di Robert avrebbe potuto ripagarlo di molti fastidi.
“Hei, JP, ma sei *davvero* famoso”
“Pare. – si strinse appena nelle spalle – Questo è uno dei motivi per cui non volevo venire.”
“Oh. – Robert tacque il tempo di altre tredici foto, ventisette autografi e un numero imprecisato di sorrisi schioccati a fior di labbra – Però non è giusto!”
“Cosa?”
“*Io* non ce l’ho un tuo autografo!”
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I giornalisti.
Odiava i giornalisti.
I fotografi.
Le interviste.
I flash.
Le telecamere.
La ressa di gente intorno che toglieva l’aria, che stava addosso, appesantiva, rallentava.
Odiava le persone che facevano domande, che s’impicciavano di affari che non dovevano riguardarli.
Detestava questi corteggiatori sguaiati di scoop a tutti i costi che lo guardavano e non sapevano se vedere ‘Pietro Maximoff, il mutante supereroe che aiuta a salvare il mondo’ oppure ‘il figlio di Magneto, del più potente terrorista vivente’ e facevano mille supposizioni e pretendevano di capire, di sapere.
Non comprendevano un accidente di niente: lui non era un figlio eccentrico e indipendente che si rifiutava di seguire la strada che suo padre aveva scelto per lui. Lui non era quello che doveva essere sempre guardato con sospetto perché: “suo padre è un delinquente, cosa può aver generato di tanto diverso?”. Lui non era qualcuno che si rodeva dai sensi di colpa e affrontava il rischio per cercare un riconoscimento, una assoluzione.
No. Loro dicevano, e scrivevano quello e non capivano nulla.
Lui, Pietro Quicksilver Maximoff, era solo se stesso.
Loro non capivano e non sapevano.
Non sapevano che quello che non poteva essere nascosto; realmente: non sapevano nulla. Lo guardavano, gli ponevano domande, ma Quicksilver, anche se lavorava per il governo, non amava farsi pubblicità, era un mutante eppure, al posto di vergognarsene, li guardava arrogante, arricciando appena le labbra, quegli occhi azzurri e limpidi si riempivano di qualcosa che somigliava al disgusto e spostava appena il capo di lato, negando una qualsiasi risposta.
In anni nessun microfono aveva mai catturato la sua voce.
I mass media non lo amavano, ricambiando, quasi con la stessa intensità, ciò che Pietro provava per loro. E poi, esteticamente, somigliava troppo a suo padre: i capelli di platino tanto pallido che parevano bianchi, gli occhi d’un azzurro trasparente di ghiaccio tagliente, in grado di assorbire un’anima … non fosse stato per la divisa bianca e blu, al posto di quella rosso sangue di suo padre … eppure era altrettanto altero, altrettanto freddo: non incarnava una buona immagine per gli esperti di marketing che avevano esultato solamente quando avevano saputo del suo matrimonio, fiutando una possibilità sfumatasi quasi immediatamente. Al grande pubblico non erano mai giunte le immagini, non solo della cerimonia, ma pure di una pallida ombra di cosa potesse essere la sua vita coniugale: un lavoro particolare, pericoloso, e un carattere troppo schivo rendevano impossibile ‘rubare’ immagini che sarebbero servite. Non sapevano neppure che faccia avesse sua figlia.
Pietro evitò di ascoltare la domanda che una signorina con un microfono in mano gli aveva rivolto, fissando Capitan America con uno sguardo gelido, irritatissimo. Perché diavolo gli aveva ordinato di essere presente a quella stupida cerimonia? Per mostrare la squadra al completo? Che scusa idiota! Il fatto era che non esisteva un solo, stupidissimo motivo per cui lui dovesse esser presente, lì.
Nervoso lo era sempre, irritato idem e quello non era che uno degli ultimi posti in cui avrebbe voluto essere.
Quasi avrebbe preferito incontrare suo padre.
Quasi, ovviamente.
Sospirò, annoiato a morte. Seccato oltre ogni dire.
Avrebbe dovuto insistere con sua moglie e convincerla a lasciargli loro figlia, e non spedirla dai nonni, dall’altra parte della galassia, così avrebbe avuto una scusa per non esserci. Perché poi aveva sposato un’aliena? Per non avercela troppo fra i piedi, era presumibile, anche se poteva giurare che l’aveva amata… avrebbe potuto giurare di amarla pure ora se non fosse stato che lei negava questa possibilità con tutto se stessa.
Pietro tese le spalle all’indietro, scacciando questi pensieri: sua figlia Luna non c’era, ma sua mo… la sua *ex* moglie era fuori col suo nuovo fidanzato, che aveva avuto la premura di presentargli giusto un paio di giorni prima, e lui era inchiodato lì a fare la bella statuina per fotografi e giornalisti.
Potevano le cose andar peggio di così?
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Cena a buffet. Sorrisi, strette di mano. Una sala riservata, la strana sensazione di sentirsi tra ‘colleghi’, conoscendo tutti di vista eppure non avendo scambiato con loro se non un paio di battute in tutta la vita.
Jean Paul sorrise, luminosissimo, voltandosi sui tacchi con un’espressione interessata. Robert gli si avvicinò.
“Tutto bene?”
“Perfettamente.”
Lo guardò un attimo in silenzio. Robert sorrideva, sembrava felice, realmente: lo sguardo lucido e gli occhi che sfioravano spesso quelli di Remy, il quale cinguettava sfacciato con una ragazza in un abito rosso fuoco. Era bello, più che grazioso. E sembrava dolcissimo… così dolce che, se non l’avesse assaggiato, gli sarebbe sembrato quasi incredibile.
Poi distolse l’attenzione falciando la sala con lo sguardo.
“Chi cerchi?”
Jean Paul sorrise acre.
“Qualcuno di interessante.”
“Non ti basto io?”
L’occhiata di JP lo fece arrossire e tacere nello stesso tempo.
“Robert, sei solo un bimbo, non pretendere di capire ciò che non è alla tua portata.”
Era un’offesa, ma detta con quel suo solito tono, morbido e suadente e Robert non riuscì a replicare.
A Robert parve, in quel momento, che avrebbe benissimo potuto innamorarsi di quell’arrogante, bellissimo canadese, se non fosse stato così preso da Remy…
“Bhè, ciò significa che non tornerai con noi?”
Un sogghigno sghembo, un qualcosa di ferino sul fondo di quegli occhi d’acciaio. Una sfida lanciata a se stesso e poi una mossa delicata, secca della mano a solcare l’aria.
“Decisamente no.”
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