STELLA DEL NORD
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PARTE: 6/?
AUTORE: Dhely
SERIE: Xmen con notevoli variazioni sul tema. Spero
che tutto sia sufficientemente comprensibile anche a chi non ha mai seguito i
fumetti!
PAIRING: LoganXJeanPaul
RATING: NC-17-V Ricordi di violenze subite in passato,e violenze presenti. Linguaggio
volgare. Temi non proprio gradevoli. Angst.
NOTE: i pg non sono miei ma li amo tutti, uno per
uno, anche se appartengono alla perfidissima signora Marvel
- la quale, ovviamente, non mi passa mezzo cent. per
scrivere questa roba-. I pairing, le coppie, il passato
di questi tizi è stato manipolato e/o mezzo inventato per riuscire a tirare in
piedi una trama decente, anche se ho cercato di non cambiare troppo 'cio' che è stato'.
NOTE 2: chiunque abbia bisogno di maggiori informazioni sui pg
trattati in questa fic, può tranquillamente chiedere
a me, o consultare uno dei tremila siti di continuità Marvel
per comprendere che è tutto un gran casino e che è forse meglio chiedere a *me*
così vi dico solo le cose che potrebbero essere utili per capire di *chi* sto
parlando! (adoro essere modesta.)
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“Sta per piovere.”
Robert sollevò il naso, puntando la sua attenzione sul cielo fuori dalla finestra ampia della sala comune. Il furetto scorrazzava nella stanza come se fosse sempre stata sua, utilizzando il tappeto folto come piccolo prato personale. Probabilmente lo considerava un suo territorio e manifestava questo suo pensiero divertendosi a rosicchiare tutto quello che gli capitava a tiro.
Jean Paul seguì lo sguardo del ragazzo, sollevandolo dal giornale di economia in cui era sprofondato da ore.
“Non ti piace la pioggia, Robert?”
Che domanda strana, da uno come JP, pensò Bobby, ma sorrise. Nonostante tutto … bhè, nonostante proprio *tutto* si sentiva a suo agio con JP, gli piaceva parlare con lui, e poi era così… strano … non perché fosse gay, almeno, non solo per quello. Erano le domande che faceva, il modo che aveva di guardarti come se, insieme, fossi una creatura di nessunissima importanza a cui aveva rivolto la parola così, solo per vedere se sapevi rispondere e, insieme, ti investiva di una tale… luminosità che ti faceva sentire al centro del mondo.
Robert scosse un po’ il capo mettendosi a carponi per cavare il furetto da sotto la libreria, dove s’era ficcato: se si fosse messo a sgranocchiare libri, il Professor Xavier non l’avrebbe mai perdonato. Già aveva fatto un sacco di storie perché potesse tenerlo, gli avesse pure rovinato la biblioteca, probabilmente lo avrebbe scuoiato vivo e, col pelo, ci si sarebbe fatto riempire i guanti di pelle.
“No, mi fa diventare malinconico. E poi non posso uscire coi ragazzi a giocare – Jean Paul arricciò appena un labbro a pensare al ‘compito’ di Robert all’interno della scuola: come arbitro ufficiale di qualunque tipo di competizione, era a metà strada tra un allenatore e un animatore turistico di un villaggio ai tropici. Neppure da dire che i ragazzi lo adoravano. – E poi gli animali si innervosiscono con i temporali. Il mio cane li odiava…”
“Fido.”
Robert sollevò gli occhi, stupito all’inverosimile. Come faceva JP a conoscere il nome del suo ... poi scoppiò a ridere. Certo, gliel’aveva detto lui! Il furetto uscì dal suo nascondiglio, annusando l’aria, per vedere cosa volesse dire quel suono così cristallino proveniente dal suo padrone.
“Già, Fido. – si mise un po’ composto, guardando di nuovo fuori dalla finestra – E poi fanno diventare anche *me* malinconico.”
Un piccolo broncio. Jean Paul piegò il giornale con una classe impossibile, posandolo alla fine sul tavolino che aveva al fianco, e sembrava proprio che quelle pagine non fossero mai state aperte.
“Non dovresti, può essere molto piacevole quando c’è un temporale. A me la pioggia, invece, fa venire in mente solo cose confortevoli, tiepide, morbide. Invitanti.”
La malizia si stemperò immediatamente in un sorriso pacato. Robert si posò le dita sulle guance e si accorse di essere arrossito. Di colpo si accorse di averne compreso *benissimo* il motivo, ma si rifiutò semplicemente di riflettersi copra.
“Non è detto che ci sia sempre l’opportunità. Con ... con la persona che ci interessa, intendo.”
“Già. – un piccolo sorriso – Hai già deciso che nome dargli? Al furetto.”
Un nuovo sospiro affranto, forse come già una risposta, forse per la brusca inversione che aveva fatto il discorso. Era tutto più complicato di quanto Bobby si fosse mai immaginato.
“E’ un periodaccio, JP! Mi sento tutto sotto sopra, e anche una cosa così idiota come trovare un nome al mio topolino mi sembra… mi giudicherai un idiota.”
Pareva davvero abbattuto, e vedere Robert triste non doveva essere cosa da tutti i giorni.
“No, affatto, Robert. Era solo una domanda trasversale, per sapere se, alla fine, avevi deciso per il regalo.”
Il rossore sulle guance di Robert divenne di una tonalità quasi impossibile. Ecco, ora era chiaro. Bobby avrebbe voluto sprofondare da qualche parte. Sottoterra, magari. Ma *molto* in fondo.
“Ma và! Non riesco a pensare a una cosa per più di due secondi e poi… poi mi si confonde tutto, nella testa. – sbuffò seccato – Non è che potresti darmi una mano, JP? Sono davvero nei guai. E non posso aspettare troppo tempo, se no sembrerebbe…”
“Cresci, Robert.”
Un insulto col tono pacato di un’affermazione ovvia. Robert si voltò verso JP che non aveva mosso un solo muscolo e …
“Scusa?! Credo di aver capito male.”
“No, Robert. – occhi, questa volta, piantati negli occhi, ed erano terribili, e facevano quasi male. Parevano potere spogliare un anima, far schiantare un cuore con un semplice battito di ciglia. JP, in quel momento gli apparve terribile e crudele, perché abile, e perché ambizioso, uno di quegli uomini che ottenevano sempre ciò che desideravano – Non hai capito male: è ora che tu cresca. Che capisca cosa vuoi tu: è l’unico modo per sapere cosa vuoi e cosa puoi dare agli altri. Potrebbe essere un buon punto d’inizio, non credi?”
Robert scattò in piedi, le mani strette a pugno.
“Mi stai dicendo gentilmente che sono infantile? E com’è che il mio essere ‘non cresciuto’ non ti ha mai dato problemi fino ad ora? Fino a quando non è …”
La voce mancò timoroso di svelare troppo anche a se stesso.
“Fino a quando non è arrivato Remy. E’ stato quello il punto di rottura, sì. – sorrise acidissimo – Devi iniziare ad essere sincero almeno con te stesso, visto che i tuoi atteggiamenti sono tanto ovvi che potrebbe comprenderli pure un neonato.”
“Tu sei …”
Rabbia, rabbia pura e scintillante in quegli occhi verdi, ma era una rabbia pulita, che non faceva paura, non era vischiosa, era liquida, e bella. Pareva l’acqua di un qualche mare tropicale in cui sarebbe stato un piacere bagnarsi anche correndo il rischio di qualche medusa …
“Sincero, Robert. Ma devi crescere, perché solo tu puoi sapere che *regalo* vuoi fare a Remy, nessuno può levarti questa responsabilità. Nessuno può dirti quello che tu *sai già*. Mettiti davanti ad uno specchio e tira fuori tutto quello che devi. Allora troverai ciò che cerchi.”
“Chi ti da il diritto di rivolgerti a me con quel tono? Come se sapessi perfettamente chi sono e quel che sento e… e cosa diavolo vuoi saperne *tu* di cosa vuol dire ‘essere maturi’?! Posso accettare certe cose solo da … da persone serie. Non da quelli come te!”
“Quelli ‘come me’? – lo scherno raggiunse una punta di dolcezza che Jean Paul non avrebbe creduto potesse tenere sotto controllo – Puoi chiamarmi ‘sessualmente deviato’, se la cosa ti fa sentire ‘politicamente corretto’, Robert. A me non importa, e sai perché? Perché non importa se mi chiamano deviato o gay o un ‘frocio schifoso’: rimango sempre io. Non c’è nessuno che può cambiare ciò che sono solo perché mi appioppa un epiteto piuttosto che un altro. Se ti fai ancora spaventare dalle etichette che la gente ti può appiccicare addosso, Robert, lasciatelo dire: sbrigati a crescere oppure rassegnati a scegliere ciò che gli altri vorranno scegliere per te. Non ci sono altre possibilità.”
Silenzio.
Robert fumava di rabbia e di vergogna e di troppe cose che, Jean Paul sentiva, gli si agitavano nell’anima e che stavano lottando per farsi sentire, vedere, perché lui le prendesse in considerazione. Strinse i pugni, irritato e sconfitto, prima di chinarsi a raccogliere la piccola palla di pelo, nervosa per la troppa tensione accumulata in quella stanza.
Solo sulla soglia Robert si fermò, ma non osò guardarlo in volto.
“Ti augurerei di andare a farti fottere, JP, ma credo che
per te questa sia una cosa *bella*! Non voglio più
averti fra i piedi, hai capito?”
Jean Paul sollevò lentamente le mani, mostrando i palmi e un sorriso contorto e
lievemente contrito.
“D’accordo.”
Neppure più un’ultima occhiata da quello sguardo così bello, si rincrebbe Jean Paul. Ma non era quello il momento giusto per fermarlo. E forse l’aveva perduto per sempre, forse aveva frainteso tutto … forse.
Socchiuse appena gli occhi ritornando a sprofondare nella poltrona. Le dita corsero alla carta del giornale, lo spiegò di nuovo, un gesto secco per tenerlo aperto, e, a tenergli compagnia, solo la promessa d’un temporale lontano.
Insegnante lui? Forse iniziava a prenderci troppo gusto.
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Il temporale, fuori.
No, la fine del mondo.
Acqua che batteva a scrosci contro i vetri, ante socchiuse che lasciavano spiragli per la cruda luce dei lampi che precedevano tuoni rotolanti per le nubi scure e gonfie. Il vento che si mischiava a tutto quello e soffiava, furibondo.
E il desiderio che si concentrava in un unico punto, che faceva coagulare tutta la sua anima, che la faceva contrarre, spasmando un desiderio così doloroso da creare anch’essa lampi bianchi davanti agli occhi.
Regredire, era semplicemente quello: morsi non baci, graffi non carezze, e fame, fame assoluta, assurda, incredibile, impossibile da arginare.
Nessuno voleva arginarla. Anzi: affogarci, bisognava, entrambi. La pelle contro la pelle nella frizione teneva a battesimo una nebbia oscura che ovattava la mente, rendeva i sensi acuti, all’erta, come quelli di due predatori.
Dense le sensazioni scivolavano addosso, dentro le vene, come oro nero che colava e rendeva impossibile respirare, e tutto incatenava, inglobava, tutto faceva diventare vischioso. Tutto era una trappola in cui dibattersi per sempre.
Niente risvegli dolci, l’uno al fianco dell’altro, la mattina dopo, niente parole, niente frasi, niente richieste, niente spiegazioni: niente se non la foga selvaggia di chi doveva affondare i denti nei muscoli dell’altro per sentirsi vivo e per sentire che quello era ciò che voleva.
Essere preso, stretto, premuto contro una superficie dura, niente pazienza, niente dolcezza: le dita di Logan che gli affondavano nelle natiche, possedendolo anche solo con quel gesto che tendeva, obbligava, apriva.
Jean Paul tirò indietro il capo: non voleva bere pace, non poteva desiderare da Logan un’alba di primavera, di sole e placida brezza. Lividi, lividi addosso. Sulla pelle e sotto la pelle.
Crollare, rotolando sul divano, con l’ansia bloccata in gola che qualcuno, chiunque, potesse entrare e vederli, e insieme l’assurda eccitazione accompagnata da quel pensiero e fretta, allora, fretta, e fame. Più in fondo, e con più forza: gli passò le mani fra i capelli, strattonandoli come se fossero la criniera di un leone, e sorrise. Puntò i piedi, tese i muscoli, arcuò la schiena, aiutando l’affondo di Logan, e ancora e ancora…
I suoi denti gli morsero un labbro, succhiando, disperato, come se volesse strappargli quel sorriso, quella luce che gli covava nel fondo dello sguardo e che in quei momenti esplodeva come la supernova che era.
Brillare. Farsi *scopare* da Logan era brillare, splendere, talmente tanto che chiunque avrebbe dovuto distogliere gli occhi, con talmente tanta forza che avrebbe potuto incenerire chiunque gli si fosse avvicinato troppo.
Fame.
Una fame che non si estingueva mai, un desiderio che non era mai soddisfatto ma che per qualche istante poteva rendersi un poco opaco, dopo l’orgasmo … ma non era ancora esausto, ora, né lui né Logan e allora che importava tutto il resto?
Che importava farlo in piedi contro il muro di una doccia o sul tavolo della sala comune, nella penombra di quella notte di temporali, di elettricità e passione e sangue e di aria densa? Che importavano i vestiti, strapparsi appena di dosso il minimo indispensabile, indifferenti alla stoffa che si poteva strappare, alla pelle che si poteva graffiare? Che importava il passato e il futuro se lì c’era, forte, il piacere, l’eccitazione, il godimento?
L’orgasmo assoluto che spaccava la testa, che si scaricava attraverso i muscoli per attraversare il corpo intero come un arco dorato ed esplodere in un gemito soffocato sulla carne di un altro corpo.
Jean Paul si sentì crollare, esausto, quasi spezzato, un singhiozzo ovattato incastrato in gola, e fiorito in una specie di sibilo di piacere compiuto. Logan gli morse ancora, a sangue, la spalla, in un ultimo, terribile spasmo.
Un paio di respiri profondi, il tempo appena di sbattere le palpebre, per riaprire di nuovo gli occhi al mondo come se fossero due neonati sorpresi dalla nascita e Jean Paul si trovò a sorridere tra sé con Logan che non sapeva far altro che leccargli via la sottile striscia di sangue che gli solcava la pelle.
Il semicerchio rubino di un morso che spiccava, netto, contro la pelle, poi il rivolo sinuoso che seguiva la morbida curva della spalla e il braccio, per poi finire cancellato dalle piccole lappate golose di Logan: pareva interessato morbosamente solo a quello, come se nell’implosione del proprio piacere gli avesse portato la scoperta di altri profumi, altri sapori.
Sapori e odori che *erano* Jean Paul fin nella più infima fibra del suo essere. Nell’oscurità quello era l’unico modo di riconoscersi, e si riconoscevano, in quei momenti, solo così. Il sapore del seme, l’afrore dell’orgasmo sulla pelle, il sangue, la sua consistenza sulla lingua, mischiato al sudore, l’ansimare spezzato del fiato.
Logan l’avrebbe riconosciuto fra un miliardo di persone. Se lui prendeva, marchiava Jean Paul ogni volta, fisicamente, possedendolo con tutte le sue forze, con ogni stilla del suo essere, Jean Paul gli entrava così a fondo in una violenza silenziosa e non dolorosa che, Logan sapeva, si sarebbe portato distintamente addosso l’odore del canadese per mesi prima che potesse di nuovo ritornare a percepire anche altro oltre a quell’aroma intossicante, a quel sapore. E come poteva non desiderare quel corpo? Come poteva eliminare la fame, o arginarla, tenerla a bada, quando lui …
Ma perché avrebbe dovuto negarsi?
Perché?
Lo fissò in silenzio rotolare via da lui, un piccolo movimento del fianco, la torsione dei muscoli lucidi sotto il riverbero d’un ennesimo lampo che, ormai, si stava estinguendo accanto all’orizzonte. Jean Paul tirò indietro il capo, un gesto secco, la mano passata sulla fronte per tirarsi via dalla pelle i capelli appiccicati per il sudore. Movimenti rapidi, precisi, eleganti, con le mani sulla stoffa, a chiudere ciò che andava, sistemando, almeno, quello che non era resistito alla loro furia. E un sorriso. *Quel* maledetto, fottuto sorriso che era speciale, proprio ed esclusivo di Stellina, una sfida anche nella più ovvia spossatezza, una derisione e insieme una carezza dolce al suo egocentrismo. Carezze fatte con artigli di veleno, occhiate che imponevano di cercare un superiore, che svelavano, in ciò che era stato, una gerarchia.
Come animali utilizzavano il sesso per non doversi uccidere per il possesso del territorio. E non c’era alcun territorio da possedere se non il corpo l’uno dell’altro. Era un potere solo mentale, un qualcosa di contorto, finto forse. Ma profondo. Una sfida a cui non ci si poteva sottrarre, una sfida che non si poteva spiegare: nasceva come un tizzone ardente gettato in un deposito di dinamite, e allora era sempre troppo tardi, non si poteva dire di no, non ci si poteva tirare indietro.
Qualunque fosse stato l’esito della sfida, ci sarebbe stata una sfida successiva, che vedeva di nuovo in lizza i loro corpi per possedere ciò che volevano. Pronti a sbranarsi, a ferirsi, pronti a impazzire solo per ... per quello. Per il desiderio di ferire, di sbranare, di piegare, tendere, aprire, affondare, *sentire*…
Per questo Victor, con lui, era ancor più brutale di quello che tutti si potevano aspettare: Stellina poteva far impazzire con una sola occhiata, ma non era un’occhiata di desiderio, non solo. Era gettare una sfida, era sbeffeggiare, mostrare il proprio corpo come una fortezza che non poteva venir espugnata, e neppure il dolore più forte, neppure la violenza, neppure il piacere poteva spezzare i cardini d’oro di quella meraviglia che si poneva, senza alcuna vergogna, di fronte agli occhi del mondo. Logan comprendeva, non perdonava ma comprendeva e lo faceva fin troppo bene: sapeva, lui, come bruciavano dentro quegli occhi grigi come l’argento liquido e come corrodevano qualunque ferrea convinzione che un uomo avrebbe potuto costruire, come invitavano a possederlo, come chiamavano, sirene maledette, e come erano suadenti e come *non* si poteva dir no anche … no, non lo sapeva cosa si poteva fare se non si voleva possedere Jean Paul: a lui non era mai capitato. Lo vedeva e lo voleva: immediata, semplice conseguenza che Jean Paul coltivava con pazienza e sfacciata arroganza.
Jean Paul sapeva l’effetto che faceva su Logan ed era questo che cercava.
Logan poteva giurare che non sapeva se si sarebbe potuto fermare, se l’avesse voluto. Ma non s’era mai trovato indifferente a un Jean Paul quando indossava la maschera da cacciatore, quando si portava addosso quell’odore di desiderio di essere posseduto.
Logan lo guardò mettersi in piedi, sistemarsi proprio come se non fosse capitato un accidente di nulla e sorrise a pensare a chi sarebbe stato di turno, la mattina successiva, per le pulizie. Ma a Logan degli *scandali* non importava nulla e Stellina… bhè Stellina pareva divertirsi a tenere mille comportamenti contraddittori, apposta, per confondere … chi?
Logan a quel pensiero si ghiacciò, in silenzio quasi religioso. Lo sguardo di Jean Paul, ora, era chiarissimo, e fisso nel suo. Solo una strana ombra gli solcava il viso, una specie di muto rimprovero.
Logan non emise una sola sillaba.
Jean Paul scomparve elegante, come sempre, nella penombra appena più scura che si intravedeva da oltre la soglia, lungo il corridoio vuoto.
“La prossima volta – lo sentì sussurrare- voglio stare fuori. Sotto la pioggia.”
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“Non riesco proprio a immaginare cosa tu abbia potuto dirgli per farlo infuriare così.”
Jean Paul sorrise, pacato, le dita intrecciate in grembo, lo sguardo luminoso e tranquillo fisso in quello del professor Xavier.
“Robert sa essere più rancoroso di quel che ci aspettavamo tutti, pare. Ma non credo sia un male. Era ora che iniziasse a prendere i problemi di punta e non attendesse che, semplicemente, qualcuno li risolvesse al posto suo.”
Xavier sospirò.
“Jean Paul, io ammetto come indubitabile la tua buona fede, ma Robert era davvero furibondo. Sei qui per fare l’insegnante, non per gettare scompiglio.”
“E’ una delicata richiesta di andarmene?”
Xavier lo fissò, e quel sorriso pallido, un po’ contorto gli risultava incomprensibile. Non riusciva a comprendere se la cosa avrebbe potuto dispiacergli o meno, se quella fosse una richiesta, una battuta, una speranza o un timore.
“Non è questo ciò che ho detto. Lo sai quasi quanto me che Robert ha bisogno di rendersi conto della propria determinazione sessuale. Però lo si può aiutare in maniera meno brusca.”
“Brusca? – Jean Paul sorrise di nuovo, questa volta con una sfumatura amara, appoggiandosi più comodamente alla poltrona. – Mi chiedo, però, quanto possa essere utile parlare con un telepate, professore. Con qualcuno che può leggere dentro di noi, dentro la nostra testa come se fossimo un libro aperto. – un sospiro falso, due dita posate su una tempia. – A questo punto può dirmelo lei perché sono stato *così* brusco. Non ha bisogno di me. A meno che non stia esigendo un atto di contrizione.”
Cosa che, ovviamente, non avrebbe fatto. Non bisognava essere telepati per saperlo.
Xavier sospirò.
“Jean Paul, non passo la mia vita a leggere le menti spalancate che mi trovo di fronte agli occhi, e anche se a volte sarebbe più semplice, cerco di lasciare a chiunque il diritto alla propria intimità.”
“’Diritto alla propria intimità’. – scosse appena il capo, ghignando – Non riesco a capire se è così progressista proprio di natura, professore, o se deve, a tutti i costi, essere sempre politicamente corretto. Voi americani pare abbiate la fissa con queste scemenze.”
“Ottima tattica, la tua, come al solito. – Xavier sospirò
lieve – Ma io non sono Logan, non mi faccio sviare da piccoli insulti. E non
stavamo parlando di me.”
”E non stavamo neppure parlando di Robert, come lei mi voleva far credere,
Xavier. Stavamo parlando di *me* e io non ne voglio parlare.”
Xavier socchiuse gli occhi.
“Jean Paul…”
“Lei è uno psichiatra, vero? – il canadese sbuffò fuori dai denti – E mi va bene lavorare per uno psichiatra. Ma non voglio aver nulla a che fare con una persona che fa un lavoro simile per nessun altro motivo. Non mi vuole licenziare, voleva solo avvertirmi di utilizzare un atteggiamento meno brusco con i ragazzi. Va bene. Ma non accetto null’altro.”
I suoi occhi scintillarono come gocce di mercurio liquido sotto la luce della luna. Ed erano occhi affascinanti, pieni d’ombre insieme che di luce.
Xavier lo fissò in silenzio, alzarsi dalla poltrona elegante e morbido come un gatto e improvvisamente capì come Remy lo potesse trovare *così* attraente, perché Logan si sentisse così ‘teso’ verso di lui, perché Robert non trovasse il coraggio di ammettere a se stesso di scoprirlo mortalmente sexy…
E qualcosa vide, improvvisamente, anche se non voleva penetrargli dentro, anche se non voleva scavalcare le sue difese: qualcosa di doloroso, come una ventata trasparente che porti con sé l’odore del mare vicino. E Xavier lo percepì e comprese. E seppe senza conoscer nulla.
“Non sei mai stato innamorato, vero, Jean Paul?”
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