Stanotte ti ho sognato

di Dhely


Stanotte ti ho sognato. E' la prima volta da quando te ne sei andato.
La prima volta dopo sei anni.
Proprio stanotte.
Gli antichi dicevano che il sonno è fratello della morte e che nei sogni c'è la possibilità per chi non c'è più di parlare con chi è rimasto.
Ma tu non sei mai venuto.
Fino a stanotte.
Ricordo bene, eravamo in una chiesa.
Una chiesa strana dal soffitto alto, le colonne sottili che si perdevano in una penombra gentile ferita solo dalle stilettate di luce colorata che scendeva dalle ampie finestre istoriate.. Sembrava . . no, non ricordo, forse un insieme di tante chiese, forse solo un sogno . .
Ricordo bene l'altare, addobbato di bianco, stracarico di fiori chiari, bianchi e gialli, l'aria resa fragrante e non opprimente.
Sembrava di essere all'aperto, tutto profumava come se fossimo in collina, come quando quei sabati mattina ti svegliavi e decidevi che avevi voglia di andare da qualche parte e si partiva in macchina per non si sa dove e cantavamo perché l'autoradio chi se la poteva permettere, e la strada che cambiava lentamente fuori dal finestrino diventando via via sempre più ondulata e verde e poi i fiumi che avevano scavato il proprio letto e piccole cascatine che gorgogliavano. E tu che ti fermavi a guardare quell'acqua che non si poteva bere, il suono delicato degli schizzi che rimbalzavano sulle rocce e, se cambiava il vento, le goccioline che bagnavano i nostri volti. E ridevamo.
Ecco, dentro quella chiesa c'era quell'atmosfera.
E c'eri tu.
Non hai detto niente, come il tuo solito.
Non parlavi mai.
I tuoi lunghi silenzi che mi riempivano il cuore. Ogni tanto sorridevi e
dicevi che bastavo io a saturare l'universo di chiacchiere. Io ridevo e non mi offendevo. Solo tu potevi dirmi certe cose.
I tuoi  silenzi che divennero sempre più profondi, la mia risata che andava spegnendosi.
Ma non c'era traccia di tutto questo sul tuo volto silenzioso in quella chiesa. C'eri tu, tranquillo, rilassato, il volto disteso in un sorriso pacato, uno dei tuoi.
E mi porgevi qualcosa.
Un piccolo portagioie aperto.
Un anello.
Un anello da mignolo. Un rubino. La lavorazione che pareva antica. Ce l'ho ancora davanti agli occhi ma non so descriverlo. Era . . bellissimo. 
Ho sollevato il volto per dirti qualcosa ma tu sorridevi, sembravi felice e io mi ricordai che nell'ultimo periodo che stavamo insieme mi era venuta la fissazione sul significato delle pietre preziose.
Il rubino significa forza.
E tu che scuotevi il capo dolcemente e dicevi che se mi piaceva una cosa non dovevo per forza trovarci un significato, non dovevo per forza smontarla, e forse romperla, e forse perderla , per capire. In certe cose si può anche non capire . .
E io che ti dicevo che eri tu a non capire.
Non mi hai mai capito.
E io non ho mai capito te.
Il rubino significa forza e coraggio.
La forza e il coraggio che hai dimostrato tu nel combattere il dolore, la malattia, nell'ingoiare l'umiliazione che il non essere più autosufficienti porta con sé. La tua ferrea volontà che segnava insieme al dolore il tuo viso che tanto amavo. Il tuo desiderio di bruciare quel cancro che ti mordeva le ossa facendoti impazzire dal dolore, tu che non ti eri mai lamentato di niente.
Il tuo silenzioso sorriso che si spegneva, il mio che si tramutava in pietra, col mio orgoglio che costruiva muri su muri per il terrore, la disperazione, per abituarsi già a stare soli perché la solitudine era ciò che mi aspettava.
E io sempre più forte fuori e tu sempre più debole.
E io sempre più furente dentro e tu sempre più dolce.
Tu sopportavi il dolore e tacevi, io urlavo dentro e tacevo.
Ricordo bene quel giorno, quando hai voluto ricevere l'estrema unzione, tu tanto credente . . e il prete è venuto e ti sorrideva e diceva che è un sacramento che non si dà ai moribondi, ma è un augurio di guarigione . . lo diceva per te e anche per me.
Io lo sapevo.
Tu meglio di me.
Quando se n'è andato tu mi guardasti, i tuoi occhi grigi pieni di un pacato amore. "Mi spiace, magari non volevi assistere e non te l'ho neppure chiesto."
E io col volto di bronzo, un ghigno beffardo e la mia nuova posa strafottente a scrollare le spalle.
Balle!
Tutte storie!
Io non ci credo, tu lo sai!
Volevo urlarti di non sognarti neppure di morire, volevo dirti che dovevi stare con me, che ti volevo con me ancora per tanto, che io . .
Ti amo.
Non te l'ho mai detto.
Ti ho lasciato morire senza avertelo mai detto.
Non era una cosa difficile, dopo tutto.
Ma non te l'ho mai detto.
Allora sapevo che tu lo sapevi, ne ero certo. Ma ora, dopo sei anni . . magari mi sbagliavo, magari non l'hai mai saputo, magari avresti voluto sentirtelo dire.
Tu che ti preoccupavi per me, "perché chissà quante cose hai da fare oltre a stare qui, vai."
E io che tentennavo ore sull'uscio di quella stanza d'ospedale come se non fosse vero che volessi scappare, come se non fosse vero che volevo che finisse.
Mi odio per quel che pensavo in quei momenti.
Mi odio per non averti mai detto che ti amo.
Perché ti ho sempre amato.
Talmente tanto che dopo aver provato e riprovato, dopo sei anni avevo deciso che non riuscivo più a vivere. Nonostante lo psicologo, gli antidepressivi, l'orgoglio e tutto il resto.
Oggi non avrei avuto nessuno fra i piedi. Mai dare psicofarmaci a chi ha anche una labile tendenza suicida... così dolce l'idea di morire dormendo.
Non sopporto il dolore, non l'ho mai sopportato, non avrei mai potuto farlo in altro modo.
Essere ancora insieme, io e te. In un 'dopo' se esiste. Oppure essere entrambi semplicemente morti. Ma insieme.
E dirti finalmente che ti amo.
E distruggere i muri che l'orgoglio ha creato perché non crollassi e ammettere la sconfitta, che anch'io per vivere ho bisogno degli altri.
Era tutto pronto.
Pianificato.
Hai sempre sorriso di fronte al mio bisogno di organizzare e controllare tutto quando poi, dicevi, la mia stanza era sempre un caos infernale e la mia testa un coacervo di idee, pensieri, sensazioni . .
Sapevo cosa andava fatto per . . essere con te.
Ma stanotte sei venuto tu.
Stanotte dopo sei anni di tormenti e lacrime nascoste e sensi di colpa, sei venuto.
E mi hai portato un rubino.
Coraggio e forza.
Il tuo coraggio e la tua forza.
Ciò che ti ho sempre invidiato.
Ciò per cui ti ho amato.
E c'eri tu, il tuo viso disteso, sereno, sorridente, senza più traccia del dolore o della sofferenza che hai dovuto sopportare.
Hai combattuto.
E hai vinto.
Hai vinto al punto da non aver più bisogno della tua forza e del tuo coraggio.
E li hai donati a me.
Avrei voluto dirti che anch'io ti amo, che continuo ad amarti, ma sei andato via subito . .
Era solo un sogno.
Solo uno stupidissimo sogno.
Ma io accetto il tuo dono, Francesco, in ritardo di una settimana com'è il tuo solito, e rimetto al loro posto le boccette di medicinali.
Apro la finestra e respiro a fondo: il cielo è coperto ma volano le rondini.
Da qualche parte un neonato piange.
C'è un gatto che dorme steso in cortile.
Stringo gli occhi con forza, le lacrime bruciano e pungono sotto le palpebre.
Grazie per il regalo.
Buon anniversario anche a te.








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