Sottosopra

di Fiorediloto


TITOLO: Sottosopra
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PAIRING: MitKo & SenKosh
RATING: AU, R
DISCLAIMER: I personaggi non sono miei ma dell’autore della serie, Takehiko Inoue, ed io non ricavo nulla dal loro utilizzo.
NOTE: Essendo la mia prima fic su Slam Dunk, probabile che sia una ciofeca assoluta... siate clementi, e sia che vi faccia schifo sia che non ve ne faccia mandatemi un commento!


Un luogo qualunque
Un giorno qualunque
dell’era moderna


Hisashi Mitsui si svegliò, come ogni mattina, diversi minuti prima del suono della sveglia. Aprì gli occhi. La stanza era una macchia sfocata.
Tirò un braccio fuori dal tepore delle coperte e schiacciò il palmo sulla testa del coniglietto meccanico, incassandola nelle spalle di morbido pelo bianco. Come ogni giorno, era riuscito ad evitare di larga misura che partisse la canzoncina: “Siam tre piccoli porcellin”. Poi raccolse gli occhiali dal comodino e li inforcò.
Kiminobu…
Non aveva voglia di alzarsi, quella mattina, e la colpa era tutta sua. Di Kiminobu. L’aveva pensato tutta la notte, da sveglio e nel sonno, e adesso… Sospirò. Inutile tormentarsi ancora. Avrebbe avuto tutto il giorno per farlo.
Scivolò fuori dal caldo intossicante della sua trapunta preferita, quella con i pesci palla che boccheggiavano tra i coralli come festoni colorati. Grattandosi la testa, ciabattò nel corridoio, diretto al bagno.
Il leggero odore di fumo che permeava casa sua, colpa di suo padre, gli restituì l’immagine di Kiminobu intento ad aspirare indolentemente dalla sua sigaretta
«Buongiorno Hisa-chan, dormito be…» E la voce di sua madre si strozzò in gola.
Hisashi infilò l’indice sotto la lente destra, a strofinarsi la palpebra appesantita dal sonno, e borbottò: «Mmm… sì…» Poi l’occhio gli cadde in basso e… avvampando si fiondò in bagno. Come aveva fatto a non accorgersi che… che…
«Questa è colpa tua» gemette, come se Kogure potesse sentirlo. «Tutta colpa tua!»
Ma Kiminobu Kogure non era lì. Conoscendolo, non sarebbe venuto a scuola neanche quel giorno, troppo stanco dopo una nottata di scorribande e alcool con quei quattro teppisti che era tornato a capeggiare… come si chiamava quello? Tetsuo? Una montagna di arroganza e muscoli da pesista. Quanto lo odiava…!
Aveva giurato che sarebbe cambiato. L’aveva giurato. E aveva mentito, come sempre.
Davvero Hisashi non ne poteva più di vederlo in quel fango nel quale si era abituato a sguazzare.
Alzò il viso sullo specchio. Stringeva i bordi del lavandino con le mani, le nocche impallidite nello sforzo. Il suo viso era diventato del colore dei capelli di Kaede Rukawa, e non per l’imbarazzo – già dimenticato.
Rabbia.
Se solo ne avesse avuto la forza, l’avrebbe preso a schiaffi. L’avrebbe preso a schiaffi come il teppista aveva fatto con lui, in palestra, non più tardi di un mese.
«Sei un cretino, Kiminobu Kogure» scandì alla sua immagine riflessa, e si tolse gli occhiali per lavarsi la faccia.

Non provvisto del dono della puntualità e neppure di una bicicletta intera, dopo che quello scimmione di Tetsuo gliel’aveva messa sotto con la sua moto, Kaede Rukawa correva per la strada come un dannato. Era tardissimo.
«Ma porca miseria…» bofonchiò, sputacchiando briciole della fetta biscottata che teneva tra i denti – surrogato di una colazione civile. «Porca miseria!» E la fetta scivolò dalla sua bocca cadendo sulla strada. Per un lunghissimo, amletico istante si chiese se raccoglierla o meno. Aveva anche dimenticato il bento a casa, quindi quel giorno niente pranzo. Niente… pranzo… meglio la morte! Ma in quella un cane, sbucato da chissà dove, gli passò tra le gambe e, rubata la sua colazione, andò a gustarsela in separata sede.
Kaede ruggì e riprese a correre. Qualcuno ne avrebbe fatto le spese… qualcuno… prestissimo…
E in quella la familiare ruota della familiare bicicletta del familiare, maledetto, stramaledetto Hanamichi Sakuragi lo colpì in mezzo alla schiena e, arrampicandosi sulla sua spina dorsale, lo atterrò proseguendo oltre. «Sakuragiiiiiiiiiiiiiiii!» ringhiò, mentre l’assassino, incurante, continuava a pedalare addormentato con il walkman nelle orecchie.
Accelerando la corsa, Rukawa si massaggiò furiosamente la nuca. Se aveva infangato il carminio bellissimo dei suoi capelli – tinti, sì, ma sempre bellissimi – con il sudiciume delle sue ruote scassate, come minimo gli avrebbe spaccato la faccia!
Oh be’, si disse. Gliel’avrebbe spaccata comunque!
«Io quello lo ammazzo!» borbottò spalancando la porta della classe. «Lo ammazzo!»
Il professore, un ometto di mezza età con un circolo abbondante di tigna sulla testa, assistette con gli occhi sbarrati allo spettacolo della nuova leva dello Shohoku, Kaede Rukawa, anni 15, 187 cm di basketman, capelli rosso fuoco da teppista, che sbatteva la cartella sul banco e si lasciava cadere di malagrazia sulla sedia.
Solo allora l’interessato notò il silenzio che gli si era fatto intorno e l’appannamento improvviso degli occhiali del professore. Avvampò, raggiungendo la tonalità precisa della sua lunga frangetta. «Continui, prego» lo invitò, con il suo miglior tono da persona gentile.
«Sakuragi?» ghignò Yohei alla sua destra.
Rukawa strinse il pugno. «Questa è la volta che lo disintegro!»
Mito scosse la testa, il ghigno sempre più largo. «Lo dici ogni volta. Non sarà mica più forte di te, eh?»
«Cooooooooooooooosa?»
L’urlo di Kaede Rukawa giunse fino alla classe di Sakuragi, il quale, senza alzare la faccia dal banco su cui dormiva, si limitò a borbottare un: «Do’ hao», per poi tornarsene nel mondo dei sogni.

«Lo sai, Akira, la tua vita migliorerebbe se ogni tanto facessi un sorriso.»
Quella mattina Hiroaki non voleva proprio saperne di lasciarlo in pace. «Dai, non è così difficile!» insistette il playmaker. «Gli angoli della bocca vanno su… aspetta, ti faccio vedere…» E tese le mani, premuroso, per fargli un’efficace dimostrazione pratica di come stendere le labbra nel modo giusto.
«Ahi! Molla, Akira! Mi stai facendo male!» gemette Hiroaki, tentando di sottrarre un indice incolpevole alla stretta canina del capitano. «Akiiiii!»
Fukuda entrò negli spogliatoi e li guardò per un lungo istante, scoppiando poi a ridere forte.
«Che hai da starnazzare, scimmia?» ringhiò Akira Sendo, liberando Koshino dalla stretta dei suoi denti.
Fukuda continuò, incurante, ma tra le risate giunse ad entrambi, distintamente, la parola: «piccioncini».
«Piccioncino a chi?» ruggì il capitano del Ryonan, saltando addosso a Fukuda che però, più lesto di lui, si sottrasse in tempo al colpo basso che mirava a privarlo della virilità. «Ma io ti distruggo…»
Hiroaki sorrise, succhiando il dito martoriato. Chissà perché, quella mattina il comportamento di Akira gli ricordava in modo preoccupante quello di Kaede Rukawa dello Shohoku. Tolto il sorriso, certo. E l’arroganza. E il suo ingozzarsi come un maiale. E l’essere sempre in ritardo. E…
A che stava pensando?
Da fuori gli urli di Taoka superavano la soglia di tolleranza dell’udito umano, mentre dentro gli spogliatoi Akira Sendo si ritirava dallo scontro, soddisfatto, lasciando Kitcho Fukuda più morto che vivo sul pavimento.
«Che hai da ridere?» borbottò a Hiroaki, rovistando nella sacca.
Koshino, l’indice ancora stretto tra le labbra, dischiuse appena la bocca in un sorriso sensuale. «Sei bellissimo quando ti arrabbi» disse piano.
Sendo strinse le palpebre fino a ridurle a due fessure sottilissime. «Dillo un’altra volta e sei morto, Hiroaki Koshino.»
Ma Hiro, con scioltezza, si portò sotto il suo viso e premendogli la mano sulla nuca lo obbligò a piegare le labbra sulle sue in un rapido bacio.
«Ma sei pazzo…» mormorò Akira, immobilizzato. Voltò il capo verso Fukuda, che, ancora intontito dalle botte ricevute, non si era accorto di niente.
«Certo, amore, come dici tu» ghignò Hiroaki, e nel momento esatto in cui Fukuda si voltava verso di loro, gli assestò un bacio sulla punta del naso.
Scappò via degli spogliatoi. Meno tre… due… uno…
«Koshinoooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!»

«Qualcosa non va.»
«Signore?»
«Qualcosa non è al suo posto.»
«Be’…», il segretario si aggiustò gli occhialetti sul naso a proboscide, «ricontrollo la lista, signore.» Si schiarì la voce, facendo comparire sul palmo un rotolo di pergamena e aprendolo con nervosismo. Se aveva commesso un altro errore, le vacanze su Venere se le poteva scordare! Addio abbronzatura… addio bagni di lava rovente… minimo l’avrebbero mandato su Plutone, in mezzo ai… brrr… ghiacci… Non riuscì a trattenere un brivido. Era a linfa fredda, lui, che credevano?
«Allora?» lo incalzò il direttore, spazientito.
«Subito, signore. Ecco… capelli rossi, presuntuoso, schiappa a basket… c’è!» Fece un segnetto accanto alla voce. «Quattr’occhi, ottimi voti, magliette da bambini…» controllò lo schermo, cos’era quello? Un coniglietto? Si ritirò rasserenato. «… c’è! Brutto carattere, tendenza a manifestazioni canine, ottimo giocatore… c’è!» Anche il suo sorriso andava aumentando di momento in momento, ne mancava solo uno… «Probabile maniaco, sorriso eccessivo, ottimo giocatore… capelli a punta… c’eeeeeehhh?»
Capelli a punta? Ma… ma… ma…
«Da’ qua, idiota!» sbottò il direttore, strappandogli di mano la pergamena. Le sue sopracciglia, già di solito cespugliose, gli ricoprirono d’un tratto tutta la faccia, come ogni volta che era arrabbiato. «I nomi! Avanzo di sterco di pulce, ma dove ce l’hai la testa? I nomi!»
Il segretario gemette. Plutone… oh Plutone, perché sei così freddo?…
«L’Ufficio Regolazione del Sotto e del Sopra non può permettersi nessun errore!» sbraitò il direttore, mentre le sue arcate sopraccigliari divenivano portici, palazzi e grattacieli di pelo scuro. Se le riportò dietro la testa per evitare il soffocamento. «A tutto l’Ufficio, a tutto l’Ufficio!» gridò nell’interfono. «Codice Violetto! Codice Violetto! E tu,» si voltò verso il segretario tremebondo, «dai le coordinate per rimettere tutto a posto! Subito! E poi fai le valigie!»
«D-d-d-dove m-m-mi m-manda, si-signore?» balbettò l’omuncolo.
«Sono indeciso» rispose il direttore, «tra i satelliti di Nettuno e la più lontana delle lune di Vallattrovà!»
«Noooooo» piagnucolò il segretario, «Vallattrovà noooooo! Tutto ma questo noooooo!»
«E invece ci andrai!» stabilì il direttore, mentre le sopracciglia cominciavano a ritirarsi lentamente. «Subito!»


Hisashi Mitsui aveva le palle rotte di stare insieme a Tetsuo e agli altri. Era da quando aveva ripreso a giocare a basket che non aveva rapporti con loro, e sinceramente, se ne rallegrava.
E allora perché adesso stava lì con loro, appoggiato alla transenna, a fingere di fumare la sigaretta? Gli occorse un attimo per ricordarselo. La consapevolezza che quella storia sarebbe durata ancora indefinitamente, a piacere di Tetsuo, lo infastidì oltremodo.
Non gli piaceva stare nelle mani di qualcun altro. L’avrebbe ammesso in un caso, e uno solo.
E non era quello.
«Ehi, Mitsui, non te la fumi, quella?»
«Fumata metà» borbottò. Non era vero, aveva lasciato che si consumasse da sola, tra l’indice e il medio della sua mano. Buttò la mezza cicca a terra, e la calpestò con indolenza.
Non ne poteva più.
«Mitsui, Mitsui… non vuoi farti neanche una sigaretta intera con gli amici?» sibilò Tetsuo, suadente.
Hisashi costrinse le labbra in un sorriso senza allegria. «Mi toglie il fiato» replicò.
«Allora hai smesso… Il quattr’occhi ne sarà contento…» gli mormorò Tetsuo all’orecchio.
«Se non la finisci…»
«Cosa? Mi fai la bua?»
Mitsui strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi. Aveva le mani legate; peggio, incatenate. «Andiamocene» disse. Gli altri, per abitudine, fecero per seguire il vecchio capo, ma Tetsuo non si mosse. «Non si chiede per favore?» ghignò con il suo tono più cortese.
Mitsui, girato di spalle, ebbe un singolo istante di esitazione. Gli vorticavano in testa ben chiare le minacce del teppista: “Potrei dirgli tutto, lo sai? Ma non lo farò se torni con noi… come mio secondo, beninteso che il capo adesso sono io…”
Si voltò e fulmineo gli schiantò un pugno, uno di quelli trattenuti fino a quel momento, direttamente sulla mandibola.
E se ne andò con il suono gradevolissimo, rimbombante nelle orecchie, di qualcosa che si rompeva intorno alla bocca di Tetsuo.

Non gli ho detto cose di me che nessun altro sa perché le tradisse.
Non mi sono costretto a ingoiare la vergogna con lui perché la rendesse pubblica.
Non ho dato via la maschera perché mi obbligasse a indossarla di nuovo.
Non ne posso più.


Entrò nel cortile – non c’era – in palestra – non c’era – negli spogliatoi – era lì. Lo spinse contro il muro e senza dolcezza lo baciò.

La faccia di Hanamichi Sakuragi superò, in un nanosecondo, il colorito acceso dei propri capelli, dopodiché la sua pelle si orientò verso un verdognolo malsano fino ad approdare a un viola cinereo. Sull’orlo del collasso, lo raggiunse la voce – se voce si poteva chiamare quel bisbiglio – di Kaede Rukawa, che come al solito: «Do’ hao» sibilò, prima di scivolare in silenzio fuori dagli spogliatoi.
Sakuragi lo inseguì, passando dal viola cinereo al rosso camionetta dei pompieri, e agguantandolo per una spalla sbraitò un: «Come ti permetti, razza di volpino spelacchiato?», giusto prima di tentare di affondare tutto il braccio nel suo stomaco… tentare, perché Rukawa si sottrasse senza sforzo e andò a recuperare un pallone dalla cesta metallica.
«Mi stai sfidando?» ruggì Hanamichi, fiondandosi sui palloni restanti – deciso a rovesciarglieli tutti in testa come l’ultima volta.
Ma il pugno del gorillone lo raggiunse prima, e fra il tenersi il capo dolorante, giurare vendetta a Kaede Rukawa e fare gli occhi dolci ad Haruko, affacciatasi in quel momento sulla porta della palestra, quel che aveva visto gli scappò di mente.
Almeno per un po’.

Lo sfregiato avvinghiato al quattr’occhi negli spogliatoi… e il quattr’occhi che lo bacia come una piovra?
Ma dico…
Ma dico…
Ma dico…
Perché il Tensai non ne era stato informato?!


Kaede Rukawa avvertiva un senso di disagio strano, quella mattina, e in special modo quando lo sguardo gli cadeva sulla scimmia rossa. Non ne avrebbe avuto motivo. Quella notte aveva dormito perfettamente, un sonno lungo e senza sogni, e proseguito il pisolino sul suo solito banco. Nessuna ragione per innervosirsi, nessuna tensione, si sentiva calmo e rilassato.
Entrò negli spogliatoi, si cambiò senza rivolgere una parola a Kogure e senza dar segni di interesse per la maglietta che indossava – cos’era, un coniglietto? – poi sistemò all’avambraccio destro la sua fascia preferita.
Fu in quel momento che Mitsui entrò negli spogliatoi di corsa, un fulmine che camminava, e afferrato il vice-capitano per un braccio lo sbatté spalle al muro.
Rukawa alzò gli occhi, sorpreso. Giusto in tempo per vedere Mitsui divorare la bocca dell’altro in un bacio senza respiro. Scrollò impercettibilmente le spalle. Avrebbe potuto rimandare a fuori. Ma comunque la cosa non lo riguardava.
E fece per andarsene, ma Sakuragi era lì piazzato sulla porta, il solito idiota, a boccheggiare come un pesce in astinenza da ossigeno e ad attraversare con la faccia tutti i colori dell’arcobaleno.
«Do’ hao» sussurrò, più seccamente del solito. Sakuragi, come era naturale, lo seguì.
E nell’attimo preciso in cui schivò il suo pugno – ma si sfiorarono, e lo sentì, si sfiorarono distintamente – il disagio tornò prepotente.
Un pensiero molesto gli tolse la concentrazione.

E se io fossi lui e lui fosse me?

«Akira…»
«Hiro?»
«Qualcosa non va.»
«Te ne sei accorto anche tu?»
Hiroaki si voltò verso di lui, compiendo un mezzo giro tra le coperte calde e profumate di bucato. «Da stamattina.»
«Abbiamo giocato malissimo, oggi.»
La considerazione poteva sembrare estranea al discorso, ma Hiroaki ne colse il motivo. Raramente capitava loro di giocare così male, specie quando, come in quel caso, non ve n’era ragione.
Avevano giocato così male che Taoka li aveva rispediti a casa con abbondante anticipo… il massimo della punizione, a suo avviso.
Non che fosse proprio così. Avevano impegnato il tempo ugualmente.
Hiroaki poggiò l’indice sinistro sulla punta di una delle ciocchette irte del capitano, lasciandoselo punzecchiare. Lo trovava rilassante. Akira lo lasciò fare.
«Mi sento strano» mormorò.
«Anch’io» rispose Hiro. «Per esempio…» e arrossì.
«Per esempio?»
Koshino si allontanò. «Mmm.»
«Per esempio?» insistette Sendo.
«Prima… come l’abbiamo fatto?» E avvampò furiosamente.
Akira fece un gran sorriso. «Cos’è, la vecchiaia avanza?»
«Scemo.» Hiro evitò di guardarlo. «Me lo ricordo, ma… non lo so…»
«Be’, al solito modo, tu non vuoi mai farmi sperimentare qualche giochetto…» sogghignò Akira Sendo.
«Scemo!» ripeté il compagno. «Dico sul serio.»
«Uff.» Akira lo abbracciò, cominciando a riempirgli di baci l’incavo della spalla. «Io ti ho abbracciato così…»
«Ti sbagli, sono stato io a cominciare…»
«Tu non cominci mai niente, fai sempre il prezioso…»
«Io non faccio il prezioso!» sbottò Hiroaki.
« … comunque ho iniziato io. E poi ho infilato le mani sotto la tua maglietta…» in mancanza di una maglietta da sfilare, gli accarezzò il torace nudo, «e ti ho baciato…»
«Sono sicuro di essere stato io, questa volta, Akira…» sospirò Hiroaki.
Akira alzò gli occhi. «No… non è possibile…» esitò, «però…»
«Appunto» mormorò il playmaker.

Come se in un momento – quanto lungo, quanto breve, non so – io fossi stato te. E tu me.

«Ihih.»
«Ihihih!»
«Ihihihih!»
«Cos’avete da ridere?»
I tre folletti si voltarono insieme, come un sol essere, alla voce severa della Madre. Immediatamente il primo fece scomparire in una nuvola trasparente il piccolo globo di cristallo.
«Madre… niente!» esclamò il secondo.
«Niente di niente!» esclamò il terzo.
«Fate vedere le mani!» ordinò la Madre.
«Ecco qui!» Il primo alzò le mani vuote.
«Vuote vuotissime!» esclamò il secondo.
«Vuote come il vuoto più vuoto del vuoto!» rincarò il terzo.
«Anche le ali…» insistette la Madre, sospettosa.
Ma anche quelle erano vuote, e la Madre se ne andò senza scoprire nulla.
«Quanto sono scemi quelli dell’Ufficio?» ghignò il primo.
«Mai quanto gli umani!» ridacchiò il secondo.
«Mai quanto la Madre!» sussurrò il terzo.


Hisashi Mitsui credeva di non essersi mai sentito più felice in tutta la sua vita. Mai, in assoluto. Le mani del vice-capitano, quelle che l’avevano bloccato contro il muro, erano scese ad abbracciargli dolcemente la vita, ma non prima di essersi portate le sue al collo. E adesso lo stava baciando. Baciando.
Kami.
La bocca di Kogure sapeva leggermente di sigaretta, un retrogusto lontano che non lo infastidiva. Se Kiminobu aveva cominciato a fumare… be’… se lo sarebbe fatto piacere. Giusto prima di costringerlo a smettere, chiaro.
«Senti…»
Aveva smesso di baciarlo… Hisashi aprì gli occhi di scatto.
«Sashi…»
«Dimmi» sussurrò.
«Tetsuo te l’avrebbe detto, se non avessi accettato di tornare con loro.»
Hisashi inspirò profondamente. Non era chiaro il senso di ciò che gli aveva detto? «Non gli avrei creduto.»
«Ma io avevo paura…»
«Quindi ora… non c’è più bisogno… giusto?»
«Credo di no» ammise il vice-capitano, con un pallido sorriso.
Hisashi annuì senza aggiungere altro.
«Allora…?»
«Vuoi che dica qualcosa?»
«Impegnerebbe il silenzio…»
C’era qualcosa di incredibilmente sbagliato, in quella scena. E non era certo il fatto che Kogure l’avesse così ardentemente baciato, e neppure il fatto che lui gli avesse risposto con totale abbandono. No. Quello andava benissimo, anzi, forse era l’unico tassello veramente al suo posto in tutto il quadro. Ma c’era qualcos’altro che non tornava, e… stare lì addossato al muro, il corpo dell’ex teppista premuto contro il suo, non lo aiutava a ragionare.
«Che c’è?» sussurrò Kiminobu.
«Mi sento… strano» mormorò.
Vide una luce addolorata passare negli occhi castani dell’altro, e capì di essere stato frainteso. «No… non riguardo noi» soggiunse. «Qualcos’altro, qualcosa che non c’entra niente… o forse…»
«Dimmi cos’è, non ti capisco…»
«Non lo so. Ci devo pensare.»
Ma davvero non aveva voglia di pensarci. Chiuse gli occhi e la mente e riprese a baciarlo.
Si sentiva così bene nel suo abbraccio… così… protetto…
Non voglio, voglio essere io a proteggerti!
Boccheggiò. Non era un pensiero suo, no, negò con tutte le forze di averlo mai partorito.
Qualcosa non andava.
Kami.
Qualcosa di importante.
Qualcosa di strano.
Adesso Hisashi aveva paura.
«Sashi… ma che ti prende…»
«Accompagnami a casa… per favore…»
«Ti senti male?»
«A casa…» Hisashi chiuse gli occhi, e sotto le palpebre chiuse ebbe il flash di una camera da letto all’occidentale, una scrivania sul lato destro, un canestro appeso al muro dall’altra parte, e un pallone da basket sul pavimento vicino al comodino. Non era la sua. Non l’aveva mai neppure…

«E tieni un canestro sopra la porta?»
«Certo, per allenarmi nei tiri da tre. Se mi metto con le spalle alla finestra la distanza è perfetta, lo sai?»
«Ah, mia madre avrebbe paura di entrare e prendere pallonate in faccia…»
«Ma la mia sa che non ne manco uno…!»


E poi il mondo gli si chiuse addosso.

«Che è successo?» esclamò Kaede Rukawa, non appena vide l’ex teppista uscire dagli spogliatoi con Mitsui svenuto in braccio. «Di’ un po’, sfregiato, che hai fatto al quattr’occhi? Gli hai messo le mani addosso?»
«Taci, do’ hao» sibilò Sakuragi.
«Sta’ zitto, scimmia, non ho fatto niente…» mormorò Kogure, stringendosi meglio il ragazzo al petto.
Kiminobu aveva una forza notevole per la sua scarsa altezza, messa ancor più in evidenza dal fatto che Mitsui era invece un ragazzo molto alto. I muscoli tesi sotto l’uniforme scolastica pulsavano per lo sforzo.
«Ti do una mano.»
Kogure alzò gli occhi sul capitano, annuendo appena. «Lo porto a casa mia, è più vicino» mormorò, nel silenzio generale della palestra. Lo mise giù in posizione verticale e si passò il suo braccio destro intorno alle spalle, mentre Akagi faceva lo stesso col sinistro.
«Ryota, prendi le cose di Mitsui negli spogliatoi» ordinò il gorilla, prima di avviarsi con Kogure fuori dalla palestra.
«Come lo porti a casa?» domandò poi, una volta fuori.
«Ho la moto qui davanti.»
«Non sapevo che avessi una moto.»
«Regalo dei miei.» Da quanto ho ripreso a studiare. E solo per merito tuo, Sashi-kun…
Anche se non aveva lasciato trapelare nulla, Kogure era spaventato a morte. Perché era svenuto in quel modo? Non era normale che perdesse i sensi così… senza motivo… e poi quella luce di paura che gli aveva visto in viso prima che gli crollasse tra le braccia… no, non era normale…
«Che cosa è successo?»
«Non lo so» mormorò, sinceramente.
Sistemarono Hisashi a cavalcioni della moto, Kogure gli si sedette dietro e passò le braccia intorno alle sue spalle per trattenerlo. Poi arrivò Ryota con la sacca di Mitsui. La posò ai suoi piedi.
«Forse è solo un calo di zuccheri» azzardò, in tono pratico. «Oggi aveva l’aria stanca.»
Kogure annuì distrattamente. Un calo di zuccheri… sì, doveva pensarla così, in modo razionale.
Salutandoli stancamente, diede gas e partì.

«To’.»
Sendo si voltò verso il compagno, inarcando un sopracciglio. «Cosa?»
«Il teppista e il quattr’occhi dello Shohoku in moto. Non sapevo che Kogure avesse la moto…»
Il capitano del Ryonan scrutò tra la folla di macchine ferme al semaforo, poi li individuò. «Hn. Ma il quattr’occhi che fa, dorme?»
Hiroaki guardò meglio. «Pare di sì.» Sogghignò. «O magari è svenuto tra le braccia del teppista…»
«Svenuto?»
Koshino si buttò la sacca sulla spalla, mentre il sorriso gli si allargava sempre più, fino ad abbracciare tutti i denti possibili. «Magari dopo un bacio mozzafiato…»
«Aglio e topi morti?»
«Aki! Non sei affatto poetico!»
«E tu sei un hentai» ribatté Sendo, freddamente.
Hiroaki perse un po’ del suo sorriso. Possibile che dopo tre mesi il suo Aki-chan dovesse ancora trattarlo così? Come una pezza?
Alzò gli occhi. Il semaforo era scattato, e con lui se n’erano andati i due dello Shohoku. «Va bene, andiamo» borbottò. Era offeso, e forse anche un po’ ferito. Non era piacevole essere trattati in quel modo, non lo era affatto, ma Akira non se ne accorgeva mai. Poteva essere taciturno e scorbutico quanto voleva, ma da lì a umiliarlo per ogni parola ne correva… ne correva tanto!
«Scusa.»
«A volte mi sembra che non mi sopporti, Aki-kun.»
«Sei tu che mi sopporti» mormorò Akira, «e a volte non so come ci riesci…»
«Perché ti amo?» suggerì Hiroaki, lasciando affiorare un sorriso più contenuto del solito… più serio, in effetti.
«Non lo so e non mi interessa… basta che continui…»
«Attento, Akira Sendo, stai per essere baciato in mezzo alla strada… quindi se hai da ridire fammelo sapere prima di stendermi con un pummm…»
Non se l’era aspettato, d’accordo, ma non v’era motivo di sottrarsi. Non era da Akira prendere l’iniziativa così… non era… da Akira… Non è da Akira? Ma che sto dicendo?
Si scostò con un brivido.
«Hiro?»
Inspirò.
«Ancora quella sensazione?»
«Tu no?»
«A tratti…»
«Forse è il tempo» mormorò Hiroaki, alzando gli occhi al cielo. Non c’entrava niente, ma quando sentì il primo gocciolone di pioggia bagnargli il naso non poté fare a meno di dirsi che era tremendamente a tema con il suo umore.
Il suo nuovo umore.

«Non è possibile!» ruggì il direttore. Le sue sopracciglia erano cresciute in modo spropositato. Erano lunghe ormai fino a fuori la porta del suo ufficio. «Chi è stato?»
Il nuovo segretario si strinse nelle piume, tremando. «N-non lo so s-signore, g-guardi, i r-r-registri sono a p-posto…» E gli tese la cartelletta, stendendo appena l’ala verso di lui.
Un istante solo nello studio dei registri, e le sopracciglia del direttore rischiarono di soffocare l’intero ufficio. «Tutto a posto? Ma io ti mando a spulciare le antenne dal culo degli Zeberdiani! Che cos’è tutto a posto? Sai leggere?»
Gli sbatté la cartelletta in faccia. Il segretario la aprì, già fra sé immaginandosi ad accudire quei gorilloni troppo cresciuti del sistema zeberdiano. Lesse e sbiancò.
Era tutto al contrario.
Un’altra volta.
«S-signore le g-giuro che… io…»
«A tutto l’ufficio! Codice Violetto! Codice Violetto!»
Decisamente stava diventando una situazione troppo familiare.


«Ehi…»
Kiminobu riprese i sensi con il viso di Hisashi premurosamente chino sul suo. Sbatté le palpebre.
«Mi hai fatto spaventare, lo sai?»
Era disteso su un letto… di certo non il suo. Kiminobu si tirò a sedere di scatto. «Sono svenuto?» domandò, incredulo. Non gli era mai capitato di svenire in tutta la sua vita.
«Sì… forse sei ancora un po’ debole, rimettiti giù…» disse Hisashi, premuroso, accompagnandolo disteso con una mano. «Come ti senti?»
Kiminobu arrossì. Disteso sul letto di Hisashi… con Hisashi seduto lì accanto… era troppo. «Bene, ora… è meglio se mi alzo, magari… magari me ne vado a casa, mia madre si preoccupa se non torno…»
«L’ho chiamata io. Le ho detto che resti qui a cena da me.» Abbassò gli occhi. «Forse non è stata proprio la scelta più giusta, mi è sembrato che non mi avesse molto in simpatia… è comprensibile…»
Kiminobu si tirò su un gomito, scuotendo la testa. «Mia madre non sa niente, le ho sempre parlato bene di te…»
«Davvero?»
«Davvero.» Il suo viso così vicino… troppo vicino… «E il mio numero chi te l’ha dato?»
«Ce l’ho dal primo anno, Kimi-kun…»
Kogure arrossì dietro gli occhiali. Avrebbe voluto domandargli spiegazioni circa il bacio di prima, tanto più che il senso di disagio, qualunque fosse stata la causa, era del tutto svanito, ma Mitsui lo precedette.
«Senti, se non vuoi… io mi fermo…» Aveva le labbra sulle sue, ormai, un millimetro d’aria tra le loro bocche riscaldate dal reciproco fiato.
Kiminobu colmò la distanza e lo baciò. Il sentore di sigaretta era svanito del tutto, sostituito da un sapore leggero di caffè…
«Sashi…»
«Kimi…?»
«Sono molto contento che tu non frequenti più Tetsuo e gli altri.»
«Io non volevo, ma Tetsuo mi ricattava…»
«Bastardo…»
Mitsui sorrise. «Chi te le insegna le parolacce, megane-kun?» Era così scomodo, piegato sulla sedia… domandandogli permesso con lo sguardo, montò sul letto accanto a lui e lo abbracciò.
«Non c’è nessuno in casa?» sussurrò Kiminobu, alitandogli sul collo.
Con un brivido, rispose di no.
«Potrei restare a dormire…»
Mitsui spalancò gli occhi. Era proprio Kogure, quello? Lo guardò impietrito.
«Era solo un’idea, non fa niente» mormorò Kiminobu, avvampando. «Era solo un’idea così.»
Hisashi ridacchiò, abbracciandolo più strettamente. «Non è che per caso ultimamente frequenti cattive compagnie, Kimi-kun? Dici parolacce, fai proposte oscene…»
«Ma veramente io… pensavo di dormire sulla poltrona…» mormorò Kogure.
Sì, come no. «E se poi senti freddo? No, tu dormi qui… ti scaldo io…» Avvertì il brivido dell’altro. «O no?»
Kogure sospirò contro la sua spalla, rumorosamente.
«Non vuoi?» mormorò Hisashi, accarezzandogli la schiena sotto la maglietta.
«Sì…»
Ripresero a baciarsi, e stringendolo a sé Mitsui si sentì bene come non gli era mai successo… pensò che non sarebbe riuscito a controllarsi, se Kiminobu insisteva nello strusciarsi così sfacciatamente contro di lui…
Groan.
Kiminobu avvampò.
«Hai fame…?» domandò Hisashi, con un sorriso.
«Non è ancora ora di cena?»
Tregua. Almeno per il momento.
«Vado a prenderti qualcosa… aspettami qui.» Gli baciò le labbra e rapido scivolò fuori dalla stanza.
Mangiarono in silenzio, sul letto di Hisashi. L’ex teppista aveva ben poco in casa – non aveva avuto il tempo di fare la spesa – ma era riuscito comunque a rimediare l’occorrente per due panini ben farciti. «Non è il massimo, ma non ho altro» si era scusato, arrossendo leggermente.
A Kiminobu della cena importava poco, del resto. Mangiò perché aveva fame, ma senza sentire sapori. Il colorito delle sue guance si era stabilizzato sul rosso acceso.
Fu solo verso gli ultimi bocconi che si accorse del pacchetto di sigarette sulla scrivania. «Ti tolgono il fiato, quelle» mormorò, accennando col capo.
«Ho smesso, infatti» rispose Mitsui.
Un nuovo silenzio cadde tra loro, ma di breve durata.
«Kimi-kun?»
«Sì?»
«Non è cambiato nulla, vero?»
Kiminobu impallidì leggermente. Non era cambiato nulla?
«A me sembra che sia cambiato tutto.»
«Non mi fraintendere, intendevo… in peggio. Non sei deluso, o arrabbiato, vero?»
«No… certo che no» mormorò Kiminobu, sfilandosi gli occhiali. Apparentemente per pulirli con la stoffa del maglione, in realtà per non doverlo guardare in faccia.
«Kimi, guardami.»
Con un sospiro leggero, Hisashi abbandonò gli occhiali sul comodino e lo guardò. Il suo Sashi… perché era suo, no? Chiuse gli occhi e, mentre lo baciava, si lasciò guidare disteso con la testa sul cuscino.

Era già il tramonto.
«… no, i miei sono a casa. Da te?»
«I miei non ci sono.» Akira si chinò leggermente sull’orecchio dell’amico, in teoria per dirgli qualcosa in segreto, in pratica per sfiorarlo in una carezza con le labbra. «Papà porta la mamma a ballare. Ci crederesti?»
Hiroaki lo guardò. «Hanno fatto pace?»
«Così pare» sorrise Akira, più del solito.
«Casa tua, allora.»
«Ci stavamo già andando, non te ne sei accorto?»
Hiroaki alzò lo sguardo sulla strada, scrollando le spalle. Non se n’era accorto, no – non che avesse importanza, in fondo. L’acquazzone si era spento tanto rapidamente quanto era scoppiato, ma la pioggia gli lasciava sempre un senso di straniamento addosso. Sentirsi avvolto da quel bozzolo umido e freddo, anche sotto l’ombrello, non era una sensazione piacevole. Gli restava appiccicata alla pelle, gli penetrava nelle ossa e a svanire impiegava molto tempo. Troppo.
E poi era bagnato fradicio, e la sensazione malefica era più forte che mai. Pensò a casa di Akira, alla vasca idromassaggio e ai termosifoni accesi al massimo. Sospirò… gli scappò uno starnuto.
«Mi ricordi perché siamo usciti con questo tempaccio?» domandò Akira, passandogli un braccio intorno alle spalle con noncuranza. Se non si scostava…
Non si scostò. «Sei tu che sei voluto uscire» mormorò Hiroaki, tirando col naso.
«Potevamo restare a casa… a letto…»
«I melon pan» suggerì il playmaker, scuotendo la testa.
Al ricordo dei piccoli panini ricoperti di zucchero, gli occhi di Sendo si illuminarono.
«Sì, potevamo restare a casa» ripeté Hiroaki.
«Ma erano buonissimi…» sospirò Sendo, leccandosi le labbra.
Hiro guardò con apparente distacco la punta della lingua di Akira percorrere in corsa l’orlo rosa della bocca. Poi ritirò gli occhi.
«Comunque io conosco una cosa più buona…»
Hiroaki si lasciò sfuggire un sorriso, brevissimo. Il naso di Akira era gelido, un freddo inaspettato, nell’ansa tiepida del suo collo. Si ritrasse con una debole protesta.
«Adesso facciamo un bel bagno caldo…»
«Akira sei un hentai» replicò, in automatico.
«Sì, quello che vuoi… Siamo arrivati…»
Entrarono in casa. Inspirando grato l’aria calda dell’interno, Hiroaki gettò subito il giubbotto fradicio sul divano e si diresse in bagno.
Nel frattempo Akira staccò il telefono e spense il cellulare, poi lo raggiunse. Ma la porta era chiusa a chiave. «Hiro?»
Da dentro gli giunse il suono inconfondibile della vasca che si riempiva.
«Hiro-kun? Mi fai entrare?»
Ancora rumore di acqua, e nessuna risposta.
«Hiro…» uggiolò Akira Sendo, nella sua migliore interpretazione canina.
La porta si aprì.
Hiro era completamente nudo.

«Ihih! Vedete un po’ che vi combiniamo!»
«Ihihih! Adesso sì che ci divertiamo!»
«Ihihihih! Ridiamo ridiamo!»
Il primo folletto alzò il piccolo globo che teneva nella sinistra e lo sfiorò con l’indice della destra. Le scintille che partirono dalla punta, di un fucsia acceso, penetrarono nella sfera e poi si diffusero in un rosa pastello prima di svanire del tutto.
«Piccoli folletti dispettosi!» esclamò la Madre. «Ecco cosa stavate facendo!» E prima che potessero far scomparire il globo, con un sussurro a fior di labbra lo fece volare sino al palmo della sua mano.
Vi guardò dentro…


D’accordo, non se l’era aspettato. Neppure nei suoi sogni più splendidi, nei suoi momenti più positivi, aveva mai sperato che sarebbero arrivati a quello. No. Quando gli aveva chiesto di restare a dormire, Hisashi aveva avuto la visione dolce e idilliaca di due ragazzi stesi sotto la stessa trapunta, intenti a baciarsi teneramente. Stop.
Ma anche così non gli dispiaceva poi troppo.
Giacevano, avvinghiati – ché abbracciati era un eufemismo – su quello stesso letto, i vestiti stropicciati e rappresi alle estremità, la biancheria intima tesa fino allo spasimo e in procinto di raggiungere il resto.
Con un sospiro – un mugolio, un gemito, un ansimo – Kiminobu liberò Hisashi dall’ingombro della stoffa, e subito tolse a entrambi i pantaloni raccolti alle caviglie, gettandoli sul pavimento. «Ti amo… Sashi-kun… ti amo da morire…»
Hisashi avrebbe voluto rispondere allo stesso modo, davvero avrebbe voluto, ma una carezza lì in basso l’aveva privato del dono della parola. Gli offrì la bocca, non sapendo in che altro modo impegnarla, e Kogure la divorò senza complimenti. Era così bello…
Quasi si sentì morire quando non avvertì più il corpo dell’altro sul suo. Ma cosa…? Dove stava…? Sarebbe morto davvero, oh sì. Kami, sto per morire… Oh, Kami… Kami… Che modo meraviglioso di morire… Hisashi era convinto che se l’avessero istituito al posto dell’iniezione letale, la gente avrebbe fatto a gara per entrare nel braccio della morte.
«Kimi… Kiminobu…»
L’altro sollevò appena il viso. «Mmm?»
«Ti amo…»
Allora Kogure lo lasciò, risalì rapidamente il suo corpo e lo baciò con violenza. Voleva di più. Hisashi lo avvertì chiaramente. Ma non sapeva se…
«Rilassati» sussurrò Kogure. «Ti aiuto io.»
All’inizio fu un’agonia, e Hisashi si pentì d’averglielo permesso. Non avrebbe dovuto, no, non avrebbe dovuto chiederglielo… sapeva che lui… che… Gemette. Il dolore andava perdendosi in un fastidio soffuso… sopportabile… Si inarcò. Possibile che si stesse tramutando in… in… piacere? Spalancò gli occhi.
«Ancora…»
Kiminobu si fermò. «Cosa?»
«Ancora…» ripeté, senza fiato.
Kiminobu sorrise, meravigliosamente, e subito lo accontentò.

D’accordo, non se l’era aspettato. Neppure nei suoi sogni più splendidi, nei suoi momenti più positivi, aveva mai sperato che sarebbero arrivati a quello. No. Ma non era un sogno che Akira fosse lì di fronte a lui, completamente nudo, e che gli stesse sorridendo – leggermente, è chiaro – senza minacciarlo di niente.
«Muoviti, sento freddo» borbottò il capitano, scostandosi dalla porta.
Hiroaki la richiuse prontamente, poi si fece avanti per abbracciarlo. «Ti riscaldo io, Aki-kun…»
«Hn…» mormorò Akira, un verso tremendamente simile a un mugolio, visto che Hiro aveva preso a strusciarglisi contro. «Sempre il solito hentai… Spogliati.»
Era la meglio riuscita delle sue tecniche di seduzione: far finta di non volerne sapere per poi devastarlo con un ordine del genere. Una volta era perfino arrivato a borbottare: «Scopiamo o no?», dopo mezz’ora di inutili tentativi di corruzione da parte di Hiroaki.
(Di Hiroaki… giusto?)
Senza farselo ripetere, Hiro si liberò dei vestiti, ma mentre perdeva la vista dentro la stoffa del maglione, Akira si accostò rapido alla vasca e, attivato l’idromassaggio, vi si immerse con un brivido d’appagamento.
Hiroaki lo seguì dopo un secondo esatto.
«Lo sai che qui non l’abbiamo mai fatto…?» sussurrò, baciandogli l’orecchio.
Akira lo abbracciò, lasciandosi andare al calore dell’acqua e del corpo dell’altro. «Meglio rimediare…» La carezza dell’acqua, agitata sensualmente dall’impianto, era quanto di più piacevole avesse mai provato. Dopo quelle di Hiro, chiaro. Si sentì ribollire mentre il ragazzo lasciava scivolare giù una mano… con noncuranza…
«Ti amo, sai?» bisbigliò Hiroaki.
«Tu parli troppo, Hiro-kun…»
Il borbottio dell’acqua, il suo ondeggiare violento, non era quanto di meglio ci fosse per propiziare la dolcezza. Anzi. Gli smuoveva dentro un desiderio di violenza che… Alzò lo sguardo. Anche il suo Aki-kun non sembrava particolarmente languido, quella sera.
«Ti avverto, non sono in vena di preliminari…» sussurrò, con voce roca.
«Mmm… okay…»
«Okay?» Minimo si era aspettato un pugno. Un pugnetto di quelli gentili. L’avrebbe schivato e avrebbe avuto la scusa per vendicarsi a suo modo. Però in effetti Akira gli aveva detto di sì. Poteva “vendicarsi” ugualmente… «Allora…»
Si lasciò andare seduto con la schiena contro il bordo della vasca, accanto ad uno dei bocchettoni che gorgogliavano forte, e fece cenno ad Akira di raggiungerlo. Gli scappò un sorriso quando l’altro si sistemò, senza farsi pregare, a cavalcioni sulle sue cosce.
Akira che prendeva l’iniziativa… ancora una volta ne ebbe un senso di straniamento, ma lo ignorò. Aki gli aveva chiuso la bocca con la sua. E sotto era il paradiso. No, non era il momento di pensare… Gli posò le mani sui fianchi mentre Akira, con lentezza, si lasciava scivolare su di lui.

«Incoscienti… siete degli incoscienti» disse la Madre, e con un tocco leggero al globo di cristallo rimise tutto a posto. «E meritate una punizione esemplare!»
«Ma… ma… Madre…» piagnucolò il primo folletto.
«Noi non… non volevamo…» rincarò il secondo
«Era solo uno scherzo…» tentò il terzo.
«Silenzio! So io la vostra punizione!» Sollevò l’indice destro, intenzionata a far scomparire per un po’ le loro belle ali di farfalla… ma poi ci ripensò. No. Non sarebbe stato abbastanza. Quegli incoscienti, cosa potevano sapere dei rischi che avevano fatto a correre a quei poverini… un altro paio di mutamenti e avrebbero perso la ragione… è così fragile l’essere umano… così fragile… sì. Aveva deciso.
Sussurrò e l’incantesimo prese forma.


Solo un istante… un istante solo… Kiminobu si aggrappò alle braccia di Hisashi, tremando di piacere. Era così vicino… Avvertì un dolore improvviso, come uno strappo all’altezza dell’ombelico, che gli fece spalancare gli occhi… ma poi il piacere lo avvolse, e si ritrovò colmato dell’amore di Hisashi, svuotato e felice. Si abbandonò sul cuscino.
«Pensavo che avremmo aspettato almeno la notte…» mormorò, chiudendo gli occhi. Il cielo rosseggiava ancora, al tramonto.
«È colpa tua…»
«Mia…?»
«… che sei così bello… come si fa a resistere…» Hisashi intrufolò il naso tra la curva del suo orecchio e il cuscino, respirandogli contro. «Allora…»
«Allora?»
«Mi ami?»
Kiminobu sorrise, schiudendo le palpebre. «Devo pensarci…»
«Kimi!»
Meglio il silenzio… Gli prese il viso tra le mani e seguendo la sua (sua?) stessa lezione gli tappò la bocca a dovere.

Hiroaki si abbandonò contro il petto di Akira, squassato dai brividi. Era stato… Kami… inspirò per ossigenare il cervello… diverso. Diverso. Nel momento più alto aveva percepito come uno strattone, e subito dopo, quando si era liberato tra i gorgoglii dell’acqua, uno strano senso di pace. Diverso dall’appagamento, che pure c’era stato.
Le braccia al collo di Sendo, appoggiò la fronte sulla sua spalla.
«Stanco?» mormorò Akira, accarezzandogli la nuca.
«Un po’…»
«Adesso ce ne andiamo a letto…»
L’automatico “Akira sei un hentai” stavolta non scattò. «Va bene…»
«È bello quando prendi tu l’iniziativa…» sussurrò ancora Sendo. La sua mano scivolava su e giù lungo la falcata della sua schiena, leggera.
Vero. Aveva preso lui l’iniziativa, quella volta. Che strano… gli sembrava che, ancora una volta, qualche pezzo non combaciasse. Ma non aveva importanza. Adesso si sentiva bene.
«Ma non prenderci troppo gusto…» l’ammonì Akira.
«No problem…»
«Hiro?»
«Dimmi…»
«Ti amo.»
Hiroaki alzò gli occhi, si lasciò sfuggire un piccolo sorriso e… «Non te lo dico», accompagnato da una linguaccia.
«Ma amore!» urlò Akira, indignato.
Anche se ne aveva ricordi confusi, gli era piaciuto prendere l’iniziativa. Doveva farlo più spesso. E in preda a questi buoni e cari sentimenti, baciò Akira e gli sussurrò, piano piano: «Solo per questa volta. Ai shiteru».

EPILOGO

«Non è giusto, no.»
«Non lo è affatto!»
«Uffa!»
Vivere un po’ da mortali non vi farà male… così vi passerà la voglia di giocare con le loro vite!
Così aveva detto la Madre.
«E poi, questo corpo…» mormorò il primo folletto, scuotendo i lunghi capelli neri. Un folletto dotato come lui avrebbe dovuto avere il meglio del meglio! Anche se quello, in effetti, non gli dispiaceva… era giovane, pieno di vita… forse anche bello, per i canoni umani… Raccolse i capelli in un codino sottile e sbuffò. Senza poter volare, non si sentiva se stesso. E poi lo vide… volava. Sì. Stava volando.
Sul piccolo campetto di basket, sospeso in aria per un tempo lunghissimo, vide saltare un umano.
Canestro.
Un folletto come lui avrebbe saputo fare di meglio, anche senza ali! Senza dir niente, corse verso il campetto e urlò: «Fate largo a Nobunaga Kiyota,» il nome che si era scelto, «il miglior fol… giocatore di basket del mondo!»
Certo, inciampare nella palla non fu un grande inizio. Ma l’umano che prima aveva fatto canestro gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi, sorridendo leggermente. «Allora vediamo che sai fare, Kiyota. Io sono Maki. Shin’ ichi Maki.»
Il secondo e il terzo folletto scrollarono le ali… pardon, le spalle, e proseguirono soli.
Il secondo in particolare si sentiva in vena di lagnanze… Almeno al primo era toccato un corpo sottile, che ricordava il suo, mentre quello che la Madre aveva affibbiato a lui non ci assomigliava proprio. Era agile ma robusto, e le mani in particolare erano grandi e forti. Aveva una gran voglia di menarle, quelle mani…
Senza accorgersene sbatté addosso a uno, che gli ringhiò contro: «Dove cazzo guardi, deficiente?»
Ecco il suo avversario. Caricò il pugno e, con un sorriso sulle labbra, glielo ficcò nello stomaco. «Così impari a dare del deficiente a…» esitò, qual era il nome?, ah sì, «Minori Kishimoto!»
Il terzo folletto scosse la testa e proseguì da solo. Fu solo verso la fine della scazzottata, finita in parità, che da buoni amici decisero di andare a mangiare qualcosa per rifocillarsi. «Offro io!» esclamò il folletto, che esibiva un vistoso occhio nero e contusioni sparse.
«Prego!» ribatté l’altro, massaggiandosi le braccia indolenzite.
«A proposito… come ti chiami tu?»
«Tsuyoshi Minami» rispose quello. «Per i nemici…» ghignò, «Ace Killer!»
Il terzo folletto, rimasto solo, si strinse nelle spalle. Come il primo fratello, avrebbe voluto continuare a volare. Relegato a terra, be’… Si massaggiò le scapole. La mancanza delle ali era quasi un dolore fisico. Alzò il viso, scostando i lunghi capelli ricci che lo incorniciavano.
I folletti non hanno sesso, ma lui si era sempre sentito diverso dagli altri due. La Madre lo sapeva, e aveva scelto di conseguenza.
Il corpo che possedeva era quello di una giovane donna. Bello, secondo lui… lei. Si passò una mano tra i capelli, riportando un ciuffo dietro l’orecchio.
Un ragazzo la fissava con gli occhi sbarrati, come folgorato. Trasalì. Lo conosceva… era uno di quelli… un amico di quelli con cui avevano giocato! Ma chi? I nomi non avevano importanza, per loro…
«Ciao…» mormorò il ragazzo, cercando di darsi un contegno.
«Ciao» rispose.
«Io… ah… s-sono… Miyagi. Ryota Miyagi.» E stese la mano verso di lei, rigidamente.
Lei la strinse senza convinzione. Eppure sembrava simpatico…
«E tu?»
«E io?»
«Sì… come ti chiami?»
«Ah. Io…» Ci pensò un attimo. Non aveva ancora deciso. Ma lì per lì sentì un ragazzo parlare al telefono: «… sì, lo dici tu ad Ayako?…»
«Ayako» rispose, al volo.
«Un nome bellissimo» sussurrò il ragazzo, estasiato. «Posso… posso offrirti qualcosa al bar?»
Ayako sorrise. Da quando aveva quel nuovo corpo, una decina d’ore circa, aveva provato le più svariate sensazioni umane… caldo, freddo, bisogno di fare pipì, sete… Adesso ne era in arrivo giusto un’altra, che riconobbe come fame. «Certo!»
E seguendo il ragazzo lungo la via, si disse che be’, dopotutto quella punizione non sarebbe stata poi così male.




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