Questo racconto
prende spunto da un episodio che mi fu riferito da un amico anni fa: mi
disse che era stato in una villa dove si diceva apparisse il fantasma di un
soldato tedesco che suonava il pianoforte.
Io ho registrato l'evento e pian piano mi si è concretizzata in testa questa
storia.
I luoghi che descrivo esistono veramente, i personaggi sono tutti inventati
e la loro scaturigine è la mia fantasia malata.
Sonata
quasi una fantasia
di Hyoga
"Ci
sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua
filosofia." (Amleto, atto I, scena V)
14/08/2005
Mi chiamo Dario Lambertini, sono ricercatore presso il Dipartimento di
Storia Contemporanea dell’Università di Bologna.
Voglio raccontarvi un fatto curioso che mi è successo circa un anno fa. È
una storia strana, faccio fatica ad interpretarla secondo i criteri
illuministi e positivisti che caratterizzano la mia formazione scientifica,
tuttavia è la vicenda che ho vissuto. Posso aggiungere solo una cosa: prima
di questo pensavo che certe cose succedessero solo nei film o nei romanzi.
La vicenda cominciò il 13 agosto dell’anno scorso, me lo ricordo bene, con
una telefonata della mia amica Pippi.
Pippi, il cui vero nome è Anna Matilde Albergati, è una mia amica d’infanzia
con la quale non abbiamo mai smesso di frequentarci. Deve il suo soprannome
al fatto che da piccola era una monella magra e dispettosa, con le treccine
come Pippi Calzelunghe. Assieme al fratello Giovanangelo vive nella dimora
di famiglia, Villa Albergati, un bel palazzo neoclassico situato un po’
fuori Bologna. Il resto della famiglia, disastrata come la maggior parte
delle famiglie ricche, è sparso un po’ per tutta Europa. Il padre e la madre
della Pippi, rigorosamente separati, vivono uno a Londra e l’altra a Parigi.
Il fratello minore coltiva malinconie da regista d’essai e divide il suo
tempo tra Berlino e Cannes.
Lei e il fratello maggiore fanno finta di frequentare l’Università e intanto
si godono senza problemi dimora e patrimonio di famiglia.
La sua telefonata mi arrivò nel primo pomeriggio, nel mio studio presso il
dipartimento di Storia Contemporanea, mentre l’afa stava mettendo a dura
prova la mia abnegazione per la ricerca.
Con la sua solita verve, Pippi mi
invitava ad una festa che si sarebbe tenuta a Villa Albergati la sera
stessa.
“Ciao, studioso. Stasera ci sei, vero?”
“Non saprei. Ho un sacco di roba da sbrigare.” Ed era vero. Approfittavo
delle ore serali per evitare di dover lavorare durante la canicola
pomeridiana.
“Ma Dario! Devi assolutamente venire! Mio fratello ci tiene tantissimo!”
“Oh, dai, Pippi! Ma se tuo fratello sa a malapena come mi chiamo.”
Rimase per un attimo interdetta, realizzando che la storia del fratello non
attaccava. Esitò qualche secondo per cercare nuovi argomenti in grado di
persuadermi. Francamente non credo che la mia presenza fosse di
un’importanza capitale, ma quando Pippi desiderava qualcosa era difficile
convincerla a rinunciarvi.
“Ci sono i fuochi d’artificio. Tu adori
i fuochi d’artificio, vero?”
Sospirai. Di solito bastava un educato diniego, magari un paio. Ma stavolta
non voleva prenderla persa. “Pippi, dai, ho un sacco di lavoro arretrato…”
La mia garrula interlocutrice esitò, nuovamente alla ricerca di ispirazione.
Infine decise di giocarsi il jolly. Io non so perché diavolo ci tenesse così
tanto ad avermi proprio a quella
festa, fatto sta che usò un argomento che mi convinse in un attimo e che nel
contempo diede inizio alla storia che vado a raccontarvi.
Con tono misterioso, mi disse: “Dario, se vieni stasera ti racconto del
fantasma.”
“Il fantasma? Che fantasma?”
“Il soldato che suona il pianoforte!” rispose lei con tono compiaciuto.
Mi ci volle qualche secondo per realizzare.
“Il soldato che suona il pianoforte?” ripetei infine stupito. “Cosa sarebbe
questa storia?”
In venti e più anni di conoscenza, non me ne aveva mai parlato. Sospettai
che fosse una specie di scherzo.
“Guarda che non ti sto prendendo in giro,” ribatté lei, come in risposta ad
una mia domanda inespressa, “se vieni stasera ti racconto tutto!”
“Ma Pippi, io non…”
“Allora a stasera. Ciao!”
E chiuse la comunicazione. Detestavo quando faceva così.
Ma andai, ovviamente. La curiosità per la storia del fantasma era troppo
forte.
Ero già stato molte volte a Villa Albergati, per cui parcheggiai ed entrai
senza esitazione. Pippi mi venne incontro già a metà della scala nobile. Una
bella scala ovale, capolavoro del Vignola, se non vado errato.
Come tutte le ragazze bellocce e consapevoli di esserlo, anche lei aveva una
predilezione per gli abbigliamenti eccentrici. Quella sera indossava un
sari di seta scarlatta con opulenti
ricami d’oro. Sull’ombelico scoperto aveva incastonato una pietra rossa e ai
polsi portava una collezione di bracciali dorati.
“Ti piace?” mi chiese facendo un giro su sé stessa, “l’ho comprato in Sri
Lanka.”
Senza attendere risposta mi precedette verso il salone, che era già gremito
di gente.
Salutai un po’ di persone che conoscevo, scambiai due parole con il fratello
di Pippi, il marchese Giovanangelo Albergati. Mi diede l’impressione di
essere vagamente a disagio. Normalmente mondano e disinvolto, quella sera
sembrava seduto sui carboni ardenti. Benché facesse di tutto per
dissimularlo, continuava a guardare l’orologio e a lanciare occhiate
preoccupate ad un angolo del salone. Guardai anch’io in quella direzione:
c’era un vecchio pianoforte a coda.
Mi volsi verso di lui interrogativo, ma prima che potessi formulare
qualsiasi domanda, Pippi mi presse sottobraccio e mi condusse in disparte.
“Hai visto mio fratello? Nervosetto, eh?” mi chiese con aria astuta.
Lanciai uno sguardo a Giovanangelo. Stava raccontando una storiella
divertente. Lo udii ridere con affettazione, come se si stesse sforzando.
Mi voltai verso Pippi con sguardo interrogativo.
"Vieni di là," mi disse lei, "ora ti spiego come mai Giovi è così teso."
La seguii lungo un corridoio. Uscimmo dalla zona aperta agli ospiti ed
arrivammo ad una sala da pranzo interamente affrescata con un trompe l'oeil
che raffigurava un giardino. Tralci di vite si intrecciavano sul soffitto.
Pippi chiuse la porta. Nella penombra della stanza, il sari di lucida seta
rossa brillava mutevole come una fiamma.
Aprì un armadio a muro, ne trasse una bottiglia e due bicchieri. Li riempì e
me ne tese uno.
"Ti avevo promesso di parlarti del fantasma," disse.
Annuii. Bevvi un sorso di quello che mi aveva dato. Era gin, se non ricordo
male.
Con aria teatrale, Pippi cominciò: "In tutte le magioni nobiliari c'è un
fantasma. Dall'ultima guerra anche noi abbiamo il nostro."
Rise e mi guardò, per valutare l'impatto che la rivelazione aveva avuto su
di me.
Io rimasi abbastanza indifferente. All'epoca possiamo dire che non credevo
affatto ai fantasmi e che anzi con una certa sufficienza davo al fenomeno
una miriade di spiegazioni antropologiche e psicodinamiche.
Pippi riprese a parlare: "Dal 1944, ogni anno la notte del 13 agosto, alle
23 precise, il fantasma dà segno di sé. Chi l'ha visto dice che è un soldato
tedesco che suona il pianoforte.”
Una pausa, un altro sorso di gin.
"Appare nel salone, dove c'è quel pianoforte a coda che hai visto. Non
sempre si vede. A volte si sente la musica e basta, la Sonata ‘Al chiaro di
luna’ di Beethoven, oppure si sente una voce che parla in tedesco, o
misteriose correnti d'aria, ombre, movimenti."
Parlando, Pippi aveva abbassato via via il tono, fino ad un mormorio carico
di mistero.
La fissai diffidente, pronto ad uno scoppio di risa. Tipico della mia
eccentrica amica, del resto, era proprio organizzare
coup de théatre di questo genere.
Ma lo scoppio di risa non arrivò. Pippi vuotò d'un fiato il bicchiere e si
strinse nell'abito di seta come se avesse freddo.
"Io una volta l'ho visto," disse poi."Un'ombra, si vedeva solo contro la
parete chiara. Ma suonava. Suona sempre la stessa musica: ‘Al chiaro di
luna’ di Beethoven."
La fissai sbalordito, non l'avevo mai vista così seria.
"Il giorno dopo ho controllato il pianoforte, tutta la zona intorno. Inutile
dirti che non c'era nulla di anomalo. Da allora, il 13 agosto evito il
salone."
"Ma dai, Pippi," interloquii, "se stasera ci avete addirittura organizzato
una festa!"
"Mio fratello è talmente stupido che se n'è dimenticato," ribatté lei, "e
quando se n'è reso conto era troppo tardi per spostare la data. Ha
organizzato in tutta fretta i fuochi artificiali, così gli invitati saranno
fuori a godersi lo spettacolo e il nostro fantasma passerà inosservato."
Una pausa.
“Almeno si spera."
Guardai l'orologio: le 22,30.
"Che ne dici, torniamo di là?" le chiesi.
Ci incamminammo.
“Ma da dove viene questo fantasma?” non potei fare a meno di chiederle
strada facendo.
“E che ne so?”
“Sarà pur stato qualcuno in vita.”
“Boh? Un soldato tedesco.”
In effetti, da quelle parti ne erano morti tanti di soldati tedeschi. Mi
piacerebbe sapere chi è, pensai, e perché proprio lui è un fantasma mentre
gli altri riposano in pace.
C’è qualche Ente che registra i desideri? In base a quello che successe
dopo, direi proprio di sì.
Giungemmo infine nel salone.
Nonostante tutto, ero ancora piuttosto scettico. La Pippi, del resto, nella
sua breve e dissoluta vita aveva anche sperimentato vari tipi di sostanze
psicotrope e non era impossibile che tali sostanze avessero contribuito in
maniera preponderante all'apparizione del cosiddetto fantasma.
Certo, questa teoria non spiegava la reale e tangibile agitazione del
fratello Giovanangelo, ma una teoria non può essere perfetta, in fin dei
conti.
Quando tornammo nel salone, il padrone di casa stava radunando gli ospiti e
li incanalava verso il giardino con la meticolosità di un cane da pastore.
"I fuochi d'artificio!” diceva, "Ho fatto venire apposta gli specialisti che
organizzano gli spettacoli per il veglione di Capodanno in Piazza Maggiore,
dovete assolutamente vederli!"
Rastrellò con cura ogni invitato, compresa una coppietta che si era
imboscata sul terrazzo.
Solo allora parve rilassarsi un po'.
Guardai l'orologio: le 22,50.
Cominciarono i fuochi, effettivamente grandiosi. Ben presto l'attenzione
degli ospiti fu assorbita dal magnifico spettacolo.
Io non so cosa mi prese. Curiosità scientifica, forse. O qualche altro
impulso della cui vera natura non sono ancora consapevole.
Fatto sta che indietreggiai pian piano e quando fui certo che nessuno mi
avesse visto mi diressi rapido verso il salone.
Il posto, ora deserto, illuminato dalle candele, aveva in effetti un'aria
spettrale. Il soffitto era buio, gli stucchi ornamentali spuntavano dalle
ombre con forme bizzarre. L'impressione generale era piuttosto inquietante.
Il silenzio era totale, a parte l'eco ovattata delle esplosioni all'esterno.
I miei passi rimbombavano sul pavimento di marmo dandomi l'impressione di
trovarmi in un mausoleo.
Il campanile della chiesa vicina batté undici colpi.
E sull’eco dell’ultimo rintocco cominciai a sentire la musica. Era
inequivocabilmente l'adagio della sonata "Quasi una fantasia", comunemente
detta "Al chiaro di luna", di Beethoven.
La fiamma delle candele oscillò, alcune si spensero. Era piena estate, ma
sentii un freddo glaciale penetrarmi nelle ossa. Provai l'impulso di
voltarmi e fuggire a gambe levate. Quello a cui stavo assistendo non era uno
scherzo di cattivo gusto della Pippi.
Non avevo mai visto fenomeni paranormali prima di allora, ma capii subito
che ciò che stava succedendo davanti ai miei occhi non poteva avere altra
spiegazione.
Nell'arco di pochi secondi, il mio sano positivismo abdicò e tutte le mie
teorie scientifiche divennero inservibili.
Si impadronì di me una paura ancestrale e profonda. Mi sentii gelare il
sangue nelle vene. L’espressione “avere i capelli dritti” cessò di essere
una vuota figura retorica.
Nonostante tutto questo, feci qualche passo verso il pianoforte, dal quale
inequivocabilmente stava provenendo la musica.
E a quel punto lo vidi.
Non un'ombra o una sagoma indistinta, ma una figura nitida e precisa. Si
sarebbe detta in carne ed ossa se non fosse stato per la strana luminescenza
diafana che sembrava emanare.
Era senza dubbio un soldato tedesco, con l'uniforme grigioverde, le spalline
profilate di bianco della fanteria e l'aquila sul petto.
Un ragazzo molto giovane. I lineamenti si distinguevano perfettamente: aveva
il volto ovale, i capelli biondi, il naso dritto e sottile, la fronte alta,
le labbra pallide, dalla piega morbida.
Era il viso di una persona profondamente sensibile ed intelligente. In quel
momento aveva un'espressione assorta, si sarebbe detto concentrato sul brano
che stava suonando.
Feci un altro passo, completamente affascinato dal fenomeno cui stavo
assistendo.
A quel punto, successe una cosa che mi fece letteralmente annichilire dal
terrore: il soldato sembrò accorgersi di me. Smise di suonare. Ci fu un
secondo di silenzio cristallizzato.
Alzò gli occhi dalla tastiera e li fissò nei miei.
Non guardava genericamente nella mia direzione, guardava proprio me.
Inequivocabilmente me.
Sentii che si era stabilito un tramite tra me e lui.
Come si può rimanere quando viene aperta una via di comunicazione fra il
mondo di qua e il mondo di là? Decisamente, è una situazione alla quale
nessun seminario dell'Università è in grado di prepararti.
Non feci nulla. Col senno di poi, rimpiango di non averlo tartassato di
domande, ma sul momento mi preoccupai solo di non farmela addosso.
Il fantasma, se di questo si trattava, fissò dunque lo sguardo nel mio.
Aveva grandi occhi grigio-azzurri, dall'espressione al tempo stesso
intelligente e appassionata. Profondi e tristi.
Mosse le labbra. "Hilf mir," aiutami,
sentii echeggiare in qualche recesso della mia mente.
La voce aveva un che di ineffabile, del resto non saprei proprio come
definire la caratteristica precipua di una voce che viene dall'oltretomba.
Posso dire tuttavia che era dolce, gentile e al tempo stesso malinconica.
Conteneva uno struggente senso di rimpianto per cose ormai perdute.
Furono tali lo stupore e il terrore che l’esperienza mi instillò, che senza
accorgermene lasciai scivolare a terra il bicchiere che tenevo in mano.
Il rumore del vetro infranto attirò bruscamente la mia attenzione
inducendomi ad abbassare lo sguardo. Quando lo rialzai non c’era più nessun
soldato. Il pianoforte era silenzioso, la figura era scomparsa, il gelo
siderale mi aveva abbandonato.
Come se non ci fosse mai stato nulla.
Mi avvicinai titubante allo strumento, lo osservai. Non vidi niente di
strano, ma del resto non avrei neppure saputo cosa cercare. Non avevo idea –
e non ce l’ho tuttora, direi – di quali tracce possa lasciare un fantasma,
se mai ne lascia.
Tornai rabbrividendo verso il centro del salone. Avevo la fronte e il labbro
superiore imperlati di sudore, le mani mi tremavano, avevo le punte delle
dita ghiacciate e tutto il mio corpo era teso come per balzare via
all’improvviso. Inutile dire che l’apparizione mi aveva lasciato
completamente sconvolto.
Mi ritrovai di colpo nella necessità di rivedere tutte le mie teorie sulla
trascendenza e fu una cosa piuttosto spiazzante.
Ripensai al fantasma, o qualsiasi cosa fosse stata quell’apparizione. Mi
resi conto comunque che si era stabilito un tramite fra me e lui; per un
attimo ci eravamo trovati in sintonia, avevamo
comunicato. E comunicare con un
morto non è esattamente una cosa rilassante. Muove troppe paure, troppi tabù
ancestrali.
Mi trovai a speculare sulla richiesta di aiuto che mi aveva rivolto. Perché
a me? Perché in quel modo?
Non sapevo nulla di fantasmi e simili, ma già la mia mente addestrata da una
vita di metodo scientifico cominciava a fare ipotesi, a ponderare, a
valutare.
Forse mi aveva scelto perché Pippi mi aveva parlato di lui? O forse lui era
in qualche modo in grado di influenzare le azioni umane? Di spingere Pippi a
parlarmi di lui, per esempio, o di spingere me ad entrare nella sala quando
tutti erano a vedere i fuochi d’artificio?
E che dire di quelle leggende, ne avevo sentite innumerevoli, in cui
un’entità malefica si metteva a tormentare il malcapitato di turno
utilizzando proprio un metodo del genere per stabilire un iniziale contatto?
Alla luce degli ultimi accadimenti, non mi sentivo neppure più di
considerarle leggende e basta.
Quindi che fare? Fidarmi della misteriosa entità? Aiutarla? Chiedere
consiglio? E a chi, nel caso? E, last but
not least, perché non consultare anche uno psichiatra, hai visto mai?
Immerso in queste meditazioni, tornai lentamente all’aperto, dove il gran
finale dello spettacolo pirotecnico stava illuminando a giorno il parco e
gli invitati.
Le detonazioni mi evocarono la guerra e ad un tratto immaginai, più che
vederle chiaramente, sagome di elmetti tedeschi stagliarsi contro un muro
alla luce di un bengala.
Ma non fu che un attimo, ad una seconda occhiata la parete era liscia e
attraversata solo da magri rami d’edera.
L’ultimo razzo schizzò sibilando verso il cielo, esplose in una sontuosa
fontana blu elettrico e oro, poi calarono di colpo tenebre e silenzio. I
grilli tornarono imperturbabili a macinare la loro canzone, le stelle
ripresero a tremolare nella geometria delle costellazioni estive. Gli ospiti
si dispersero ondeggiando, lodando i fuochi d’artificio, facendo tintinnare
il ghiaccio nei bicchieri.
Intravidi Giovanangelo che guardava l’orologio e sospirava di sollievo.
Scambiò due parole con sua sorella e tutti e due si diressero verso il
salone. Gli altri li imitarono e la festa riprese come se l’interruzione non
avesse mai avuto luogo. Persino la coppietta di prima tornò ad imboscarsi in
terrazzo.
I cocci del bicchiere che mi era caduto furono scavalcati con indifferenza
dalla padrona di casa e scopati via con solerzia da una cameriera e tutto
tornò come prima.
Ero io quello che non si decideva a tornare come prima.
Ogni esperienza vissuta ci cambia, del resto, e il lettore mi darà atto che
l’esperienza che avevo appena fatto era stata quanto meno inconsueta. Per lo
meno, potevo dire di aver capito perché ad una persona dall’aria sconvolta
si chiede se ha visto un fantasma.
Rimasi un altro po’, rigirandomi in mano con aria irresoluta un Tequila
Sunrise, poi decisi di andare via. L’esperienza mi aveva suggestionato
negativamente, ed ora vedevo il soldato dappertutto, me lo sentivo accanto,
avevo l’impressione che mi scrutasse ansioso, per carpire l’eventuale segno
della mia decisione di aiutarlo. Forse aveva già provato a chiedere aiuto ad
altri e non l’aveva ottenuto? Perché voleva aiuto? E soprattutto, che genere
di aiuto voleva? Magari il bicchiere che mi era caduto gli aveva impedito di
spiegarmelo.
Bevvi un sorso svogliato, il cocktail stava già diventando caldo, chissà per
quanto l’avevo tenuto in mano senza berlo.
Mentre tornavo verso casa mi chiesi cosa sarebbe successo dopo quella notte.
Mi sarei trovato davanti il fantasma nei luoghi più impensati? Avrei
cominciato a ricevere misteriose comunicazioni all’Università? Le pareti
avrebbero trasudato sangue?
A parte film e racconti dell’orrore, non avevo molti altri strumenti per
interpretare quello che mi era appena accaduto. E avevo paura, inutile
negarlo. Il terrore ancestrale dell’uomo di fronte all’ignoto.
Mi venne l’idea di raccontare alla mia amica quello che era successo, ma la
scartai immediatamente: nonostante Pippi fosse vissuta lì dalla nascita,
l’entità, chiamiamola così, aveva scelto di comunicare con me e non con lei.
Ebbi la sensazione che non sarebbe stato appropriato parlarle della mia
esperienza paranormale, era come se tra me e il fantasma si fosse stabilito
una sorta di legame. Assurdamente, condividere l’accaduto con altri mi
avrebbe dato l’impressione di tradire la sua fiducia.
Entrai nel mio appartamento con un sospiro di sollievo, camminare
nell’oscurità dei portici non mi era mai parso così spaventoso. Avevo fatto
il breve percorso dalla macchina al portone scrutando ansioso ogni anfratto,
mentre ombre fino a quel momento familiari – un lampione in ferro battuto,
l’insegna spenta di un locale – mi sembravano cariche di oscura minaccia.
Mi rifugiai nel mio letto e riuscii persino a dormire, sebbene non troppo
tranquillamente. Tenni le finestre chiuse, nonostante fosse una tiepida
notte d’agosto. Chissà cosa credevo di fare: lo sanno tutti che i fantasmi
sono incorporei e vanno dove vogliono.
Indubbiamente, la paura mi spingeva ad irrazionali quanto generici
comportamenti difensivi.
Il giorno dopo, comunque, con la luce del sole, le cose mi sembrarono molto
meno spaventose e mi ritrovai quasi disposto a pensare che la storia del
fantasma fosse stata solo una specie di allucinazione o autosuggestione.
Feci qualche svogliata ricerca in internet, scoprendo termini come aura,
elementale o sdoppiamento sensoriale della persona ed imparando storie
raccapriccianti.
Poi lasciai perdere. Stavo lavorando ad un progetto che mi prendeva molto,
era piena estate, era tempo di vacanze. Mi convinsi che la sera del 13
agosto mi ero immaginato tutto e lasciai perdere il soldato tedesco.
Poco dopo lo sognai. Era lui, ma non stava suonando il pianoforte. Sembrava
avesse il volto insanguinato e di nuovo mi chiedeva di aiutarlo.
Il sogno non durò che un attimo, poi mi svegliai sudato e ansimante come
nelle migliori storie gotiche. Non c’era verso, aveva scelto me, e con la
tenacia tipica dei tedeschi non mi mollava.
Mi resi conto allora della mia ignoranza: confondevo allegramente metafisica
e parapsicologia, satanismo e spiritismo. Era tutta roba che fino a quel
momento avevo disinvoltamente relegato tra le cose che non esistevano,
fenomeni antropologici da studiare con distacco.
Ora che stava capitando a me, sentivo il bisogno di un approccio più
scientifico all’argomento.
Andai alla biblioteca Bozzano De Boni.
Si tratta di una collezione di libri sullo spiritismo, una delle più vaste
del mondo a quanto dicono, che fu raccolta da due medici appassionati
dell’argomento, Bozzano e De Boni, per l’appunto. Alla loro morte fu donata
al Comune di Bologna ed è disponibile per la consultazione.
Feci un po’ fatica a trovarla, era imbucata in un cortile interno, e quando
la identificai ebbi il dubbio di aver sbagliato posto: era una vetrina
oscurata da tende di listelli verticali, faceva pensare ad un ufficio di
assicurazioni o di pompe funebri, entrambi piuttosto dimessi. L’unica cosa
che ricordava il reale status della struttura era un poster che riproduceva
il trompe l’oeil di una libreria appeso al vetro col nastro adesivo.
Entrai scettico, già convinto di andare a finire in una sala col tavolino a
tre gambe e un branco di esaltati che dicevano “se ci sei batti un colpo”.
Mi venne incontro una signora sui sessant’anni, seria, compunta, vestita in
maniera un po’ demodé.
Chiese se poteva essermi utile.
Assolutamente sì, pensai. Ero entrato in quel posto perché aveva a che fare
col mondo del paranormale, ma mi rendevo conto che non avrei neppure saputo
cosa cercare e dove. Suppongo che anche in un istituto di meccanica
quantistica mi sarei mosso con più disinvoltura.
Annuii dunque con entusiasmo, ma poi rimasi a fissare la bibliotecaria
irresoluto.
Infine, le chiesi di getto: “Signora, lei crede ai fantasmi?”
Domanda banale e un po’ sciocca, potrà osservare il lettore, ma le mie
conoscenze in materia di occultismo erano talmente lacunose che non potei
fare altro che partire dalle basi.
La mia interlocutrice annuì senza scomporsi, come se le avessi domandato la
cosa più normale del mondo, poi mi chiese a sua volta: “Era interessato a
qualcosa in particolare o sta cercando solo informazioni generiche?”
Pensai di sfruttare quella donna come una sorta di “libro umano”,
consultando lei invece dei tomi di Montague Summers. “Le racconto cosa mi è
capitato, signora,” le dissi. Poi incominciai a narrare.
Ascoltò attentamente tutta la vicenda che le riferii, ponendomi domande con
l’accuratezza di un medico che raccoglie l’anamnesi, infine mi disse:
“Dovrebbe cercare di scoprire se in quel posto è successo un fatto di
sangue, oppure se ci sono cose rimaste in sospeso a causa della morte di una
persona. I fantasmi sono anime che rimangono legate al mondo dei vivi per
qualche motivo e devono essere liberate.”
“Credevo che certe cose succedessero solo nei film,” dissi quasi tra me e
me.
“Da qualche parte gli sceneggiatori e i registi avranno dovuto prendere
spunto, non le pare?”
Uscii ringraziando compitamente. Non so dire come mi aveva lasciato quell’incontro.
Mi sembrava quasi impossibile da prendere sul serio: una delle protagoniste
di Arsenico e vecchi merletti mi
suggeriva di scoprire se ci fossero stati fatti di sangue a Villa Albergati,
come se in una dimora nobiliare del seicento non fosse mai stato ammazzato
nessuno. Se la teoria delle anime che rimangono legate a fatti violenti
fosse stata vera, avrei dovuto vedere fantasmi tutti i giorni, non solo la
notte del 13 agosto.
Ma transeat, ancora oggi le mie
competenze in materia di questioni occulte rimangono insufficienti a
spiegare questo genere di fenomeni.
Gironzolai un po’ per il centro, finalmente mezzo vuoto per via della gente
in vacanza. Era una mattina stranamente poco afosa e mi godevo i soffi
d’aria fredda che uscivano dai finestrini delle cantine che si aprono sotto
i portici a livello del pavimento. Il loro odore antico faceva pensare a
qualcosa di ombroso e segreto, ad un mistero nascosto. O forse ero io che mi
facevo venire strane idee suggestionato dalla mia vicenda paranormale.
Pian piano mi spostai verso Piazza Maggiore, mi infilai su per le stradine
del vecchio mercato, via Drapperie coi suoi negozi storici e i palazzi
medievali, via Marchesana sulla quale si affaccia il Portico della Morte, e
intanto riflettevo. Fatti di sangue, mi dicevo. Se fosse così, anche in
queste strade antiche dovrei vedere fantasmi su fantasmi. I morti di tutte
le guerre che sono state combattute a Bologna, oppure semplicemente coloro
che sono stati uccisi da rapinatori, o le vittime di delitti. Cosa avrebbero
potuto raccontare quelle pietre, se solo avessero potuto parlare?
Ma le pietre non parlano. E nemmeno i morti, di solito. Giacciono lì in
silenzio, senza chiedere la giustizia che eventualmente spetterebbe loro.
Oppure facendolo in modo criptico, come il mio soldato tedesco.
La mia mente scientifica e digiuna delle più elementari basi dello
spiritismo si arrovellava anche su questo punto: ma perché dire “aiutami” e
basta? Non poteva fornirmi maggiori particolari? Era stato il bicchiere
caduto a distoglierlo?
Dopo una vita di logica aristotelica e positivismo è difficile muoversi con
disinvoltura nell’irrazionale.
Mi fermai a bere un aperitivo nel dehors
di un piccolo caffè. Seduto al fresco con una bibita davanti, sgranocchiando
salatini cercai di ragionare in maniera il più possibile razionale. Evitai
tutte le considerazioni sul fatto che la faccenda di razionale aveva ben
poco e mi misi all’opera.
Primo: avevo visto un soldato tedesco del Terzo Reich, quindi si doveva
trattare di un fatto avvenuto nella seconda guerra mondiale. Secondo: ero
entrato in contatto con lui a Villa Albergati, quindi il famoso fatto di
sangue, che evidentemente l’aveva visto protagonista, o se vogliamo vittima,
doveva essersi svolto lì.
Il ricercatore di Storia Contemporanea cominciò ad attivarsi. Occorreva
trovare documenti su quello che era successo alla villa durante l’ultima
guerra. L’archivio storico della Resistenza avrebbe potuto fare al caso mio.
Vi andai subito, la cosa cominciava anche ad incuriosirmi. Fra l’altro era
vicino, in via Castiglione 25. Un posticino dimesso ricavato da un anfratto
di un palazzo patrizio, che conteneva materiale storico sulla Resistenza,
libri, documenti e testimonianze varie. Il genere di posto in cui uno come
me sguazzava come un pesce nell’acqua.
Dato il periodo estivo, a far funzionare la piccola biblioteca c’era solo un
volontario, un vecchietto più che ottantenne, naturalmente ex-partigiano,
che rispondeva al nome di signor Tonino.
Mi venne incontro salutandomi. Parlava in dialetto strettissimo, che io
tradurrò scrupolosamente a beneficio del lettore.
“Signor Tonino, come va?” mi informai cortesemente.
“Eh, professore, come vuole che vada? Meno male che con questo caldo almeno
non mi fanno male le ossa.”
Mi chiamava scrupolosamente professore, sebbene gli avessi spiegato varie
volte che ero solo un ricercatore.
“Ha molto lavoro oggi?”
“Macché. A parte lei non ho visto nessuno.” Rispose con aria vagamente
contrariata. Sembrava che non si capacitasse del disinteresse del pubblico
per la Resistenza. Speranzoso, mi chiese: “È venuto per fare delle ricerche,
professore?”
“Sì, signor Tonino. Sto facendo uno studio su Villa Albergati durante la
guerra. Lei ne sa qualcosa?”
Assunse un’aria meditabonda. “Villa Albergati… Villa Albergati… è quella di
Zola, vero?”
“Sì, proprio quella,” risposi immediatamente. Quando era in vena, il signor
Tonino era una fonte di informazioni ben più preziosa di tutti i tomi
dell’archivio messi insieme.
“C’erano i tedeschi,” disse con una smorfia di disgusto, “ci avevano fatto
il Comando di Divisione. E il marchese Albergati li aveva accolti a braccia
aperte, quel…” si interruppe brontolando qualcosa di poco gentile.
Io annuii cortesemente. Sbagliatissimo contraddire il signor Tonino in una
delle sue invettive: chiudeva l’archivio della memoria e non c’era più verso
di convincerlo a parlare.
“Non ne so molto,” riprese, “io durante la guerra ero in montagna, a Vado di
Grizzana. Però mi sa che giù in cantina c’è della roba.”
“Che roba?”
“Boh, una scatola. È qui da alcuni anni, c’è dentro della roba scritta in
tedesco. Ma viene da Villa Albergati, sono sicuro, perché la portò il povero
Commendator Laffi…” le spiegazioni si persero con la voce chioccia del
signor Tonino che scompariva verso la scala della cantina.
Stette via un bel po’, tanto che ad un certo punto cominciai anche a
chiedermi che fine avesse fatto. Devo confessare a mio disdoro che mi
vennero in mente quei film dove tutti coloro che entrano in contatto con un
determinato fenomeno paranormale vengono uccisi barbaramente e già mi
immaginavo una misteriosa entità che faceva a brani l’incolpevole signor
Tonino nei sotterranei.
Per fortuna il vecchietto tornò dopo poco con una scatola di cartone
sottobraccio. Mi raggiunse imprecando in dialetto contro la sciatica e le
scale ripide, poi posò il suo fardello su un tavolo.
“Ecco, professore.” Disse tutto fiero, “Guardi pure: c’è dentro della roba
dei tedeschi e viene da Villa Albergati.”
Il brivido del ricercatore che ha trovato materiale interessante mi
percorse. Sollevai il coperchio. Dentro c’erano documenti ingialliti con
timbri del Terzo Reich, buste, Soldbuch
e la metà inferiore di alcune piastrine di riconoscimento, ovvero la parte
che veniva staccata quando un militare cadeva in combattimento. Gli spicchi
di metallo erano tutti legati con uno spago passato attraverso un foro
centrale e quando li sollevai tintinnarono mandando il suono ottuso
dell’alluminio.
“Era quello che cercava, professore?” si informò il signor Tonino scrutando
a sua volta nella scatola.
“Sì, è materiale molto interessante, grazie. Dove posso mettermi per
consultarlo in pace?”
Il vecchietto diede un’occhiata all’orologio della parete, constatò che era
quasi l’ora di chiusura.
“Ma se lo porti ben a casa, professore,” mi disse, “così se lo guarda con
comodo.”
“Io non so se…”
“Ma sì, se la porti pure via quella scatola. Poi me la restituisce con calma
quando ha fatto. Tanto lo so che lei è uno preciso, che non perde la roba.”
Che dire dopo una simile manifestazione di fiducia? Ringraziando
profusamente il signor Tonino, agguantai il prezioso materiale e mi diressi
al mio studio in Università per inventariarlo con calma.
Appena giunto a destinazione sparsi il contenuto della scatola sulla
scrivania e lo fissai desolato. Io so il tedesco, ma a leggere documenti
ufficiali faccio un po’ di fatica. Non mi andava di perdere ore a sfogliare
il dizionario come quando facevo le versioni di latino.
Contattai telefonicamente un professore dell’istituto di Germanistica,
Alexander von Salza, un affascinante aristocratico tedesco che sembrava
uscito da un film dell’UFA. Personaggio di cultura eccelsa e cortesia
squisita, più di una volta mi aveva aiutato a fare delle traduzioni.
Lo trovai in studio, sarei per dire ovviamente. Sembrava non avvertire
neppure le condizioni atmosferiche e la canicola estiva non lo disturbava
per nulla.
Gli esposi il mio problema.
“Ma certo, Dottor Lambertini,” mi disse, “venga pure, io ho un momento
libero anche ora.”
Il suo accento marcato faceva sembrare persino quel gentile invito un ordine
perentorio.
Raccolsi il mio materiale, lo riposi nella scatola e mi recai all’istituto
di Germanistica. Il professore aveva lo studio in fondo ad un corridoio, per
accedervi bisognava salire due o tre gradini. Era un’antica cella monastica
e conservava sulla volta a sesto acuto frammenti di affreschi del
quattrocento.
Sedeva alla scrivania, dritto e composto come al solito. Mi accolse con un
sorriso. “Venga, Dottor Lambertini. Si accomodi, prego.” E mi indicò una
sedia.
Io non potei fare a meno di lanciare un’occhiata agli affreschi. C’erano i
morti, rappresentati come scheletri, che uscivano dalle tombe.
“Le piace la mia… come si dice qui? Danza macabra?” mi chiese von Salza.
Annuii, più che altro per cortesia. A me avrebbe fatto impressione lavorare
tutti i giorni con un carosello di cadaveri intorno.
“Mi tengono compagnia,” aggiunse distrattamente il professore, “Vede? Là ci
sono il papa, l’imperatore, l’abate, il cavaliere e così via. Un tema tipico
del medioevo, la morte che alla fine prende tutti, ricchi e poveri, potenti
e umili. Ma sto divagando, lei era venuto qui per i suoi documenti in
tedesco.”
“Sì, in effetti, io…” Il professore era cortesissimo, eppure non mancava mai
di suscitarmi una vaga soggezione.
“Faccia vedere, prego.” E mi indicò il piano della scrivania.
Vi posai la scatola.
“È tutto qui, professore,” dissi aprendola e tirando fuori i documenti.
“Vede, sto facendo una ricerca su Villa Albergati durante l’ultima guerra e
ho trovato questo materiale.”
“Ach so, molto interessante,” osservò scorrendo i fogli che gli avevo teso,
“sì, davvero molto interessante.”
Poi guardò ancora nella scatola. “E qui ci sono dei
Soldbücher,” disse, tirando fuori
una serie di libretti color beige con l’aquila del Reich stampigliata sopra.
“Come si chiama in italiano il Soldbuch?”
“Non c’è una vera e propria traduzione, professore,” gli risposi, attingendo
ai miei ricordi di quando ero sotto le armi, “si potrebbe dire libretto di
servizio, ma da noi non esiste.”
“Libretto di servizio, certo, molto appropriato,” commentò von Salza. Poi ne
aprì uno a caso.
Se non caddi dalla sedia fu un miracolo: c’era la foto del mio soldato.
Rimasi annichilito. Per svariati secondi l’unico pensiero che riuscii a
formulare fu: no, dai, non può essere vero. Non sta capitando a me.
“Hermann Linde, soldato semplice,” recitava intanto il professore, “nato a
Weimar il 21/03/1924.”
Al mio silenzio si interruppe e alzò gli occhi su di me. “Qualcosa non va?”
chiese.
“No, io… è che…” mi interruppi. Inventai una scusa. Di certo se gli avessi
raccontato del fantasma mi avrebbe preso per matto.
Leggemmo i documenti. Appresi che il mio soldato risultava essere stato
ucciso dai partigiani il 13 agosto del ’44. Quel giorno erano stati uccisi
in un agguato altri quattro militari, e di tutti era stata recuperata la
piastrina di riconoscimento. Solo quella di Linde mancava, perché il corpo
non era mai stato ritrovato.
“In quest’altro documento c’è scritto disperso, infatti,” constatò il
professore, dopo aver letto una comunicazione di servizio.
“Questo è interessante,” soggiunse poi, “quel soldato, quel Linde non era
con gli altri quando sono stati uccisi. Quel giorno non era uscito dalla
villa.” Fece una pausa, sembrava che gli scheletri dell’affresco ci
fissassero ghignando. “Dev’essere morto lì,” disse poi, “ma allora perché
non è stato trovato il cadavere?”
Ci guardammo perplessi.
“Forse non è morto in quella data,” ipotizzò von Salza, “Forse ha disertato,
oppure è stato preso prigioniero?”
“No, professore, è proprio morto quel giorno,” risposi con sicurezza.
Non gli spiegai come facevo ad avere quella certezza matematica, perché era
una motivazione che io per primo faticavo ad accettare: i fantasmi esistono
e comunicano coi vivi.
A questo punto dovetti arrendermi: un’anima in pena voleva il mio aiuto. Era
tutto vero, niente autosuggestione, niente scherzi di cattivo gusto della
Pippi.
Giunto nel mio studio, riguardai il Soldbuch di Hermann Linde, soldato
semplice, nato a Weimar il 21/03/24. Lo sfogliai lentamente, soffermandomi a
lungo sulla fotografia in bianco e nero, in cui il giovane in uniforme aveva
l’espressione di ardente malinconia di un poeta romantico.
Chi sei, pensai, cosa vuoi da me? Come posso aiutarti?
Mi concentrai sui fatti: una piastrina di riconoscimento non trovata,
quattro militari uccisi da una parte e uno da tutt’altra, un soldato
considerato prima disperso e poi morto senza che il corpo fosse mai stato
ritrovato.
Constatai che stavo applicando alla vicenda le mie competenze di
ricercatore. Un fantasma può venire a sapere che lavoro fai? Un altro
quesito sullo spiritismo destinato a rimanere senza risposta.
Mi misi in contatto con l’inossidabile Pippi. Le spiegai che stavo facendo
delle ricerche su alcune vicende di Villa Albergati durante la seconda
guerra mondiale e le chiesi se potevo andare a spulciare le vecchie carte di
famiglia.
Ritenni opportuno non dirle il vero motivo della mia ricerca. Se l’avessi
fatto, il fantasma sarebbe diventato entro poche ore il principale argomento
di conversazione dei salotti della Bologna-bene. Dall’idea che mi ero fatto
di lui, stabilii che Hermann Linde non sarebbe stato contento di diventare
oggetto di pettegolezzi mondani.
Quindi mi recai dalla mia amica con la motivazione ufficiale di raccogliere
documenti sul comando di divisione che era stato installato nella villa nel
1944.
Pippi mi accolse nel parco, seduta sotto un elegante gazebo in ferro
battuto. Davanti aveva un tavolino sul quale erano disposti due bicchieri da
long drink. Secondo il suo punto di vista, era bene che qualsiasi
interazione cominciasse con una piacevole bevuta. Poi, dopo, si parlava.
Mi sottoposi dunque al rituale, che per lei aveva quasi la valenza del
calumet della pace tra i pellerossa.
Manhattan Cooler. Ottimo. Peccato solo che fossero le dieci di mattino.
“Allora, studioso, cosa ti porta da queste parti?” mi chiese poi.
“Ricerche, Pippi. Mi risulta che nel 1944 qui ci fosse un Comando di
Divisione tedesco. Che tu sappia, la famiglia Albergati conserva documenti
al riguardo?”
La mia interlocutrice mi fissò alzando un sopracciglio e disse: “Ah, il
1944. La guerra fu uno dei periodi più cupi della storia della mia
famiglia.”
Alla fase seguirono alcuni secondi di silenzio, rotti solo dai rumori della
campagna in lontananza. Le campane della chiesa suonarono, battendo dieci
colpi e ricordandomi l’apparizione di qualche sera prima.
“Il mio bisnonno era al fronte,” proseguì Pippi, “qui erano rimasti sua
moglie e i due figli. Prospero, di venticinque anni, congedato dopo aver
perso un occhio in guerra, e Filippo Maria, di diciassette, ancora troppo
giovane per andare sotto le armi.”
Mi chiesi come facesse a sapere tutte quelle cose. L’avevo sempre
considerata fatua e poco interessata alle vicende storiche, evidentemente mi
sbagliavo.
“Come mai dici che fu un periodo cupo?” le chiesi.
“Essendo il capofamiglia al fronte, la gestione di tutto era affidata a
Prospero, che già di base era una persona di carattere dispotico e
autoritario, inoltre dopo la menomazione lo era diventato ancora di più.
Dicono che fu lui a mettere a disposizione dei tedeschi la villa. In realtà
non fece proprio niente, la villa fu requisita e basta, lui poté solo
adattarsi.” Fece una pausa, chiamò la cameriera per farsi portare un altro
long drink.
“Prospero non ebbe responsabilità nell’insediamento del comando tedesco,”
riprese, “ma comunque per tutta l’assenza del padre gestì la tenuta con i
modi di un feudatario. Anche i familiari ne risentirono. Filippo Maria, che
era giovane e un po’ fragile, addirittura ne morì, a quanto dicono.”
“In che senso, scusa?” la interruppi stupito.
“Era un ragazzo molto delicato, molto introverso. Si mormora che avesse
tendenze omosessuali, anche se poi come fai a dirlo di un ragazzo così
giovane? Magari era solo timido con le ragazze. In ogni caso, ad un certo
punto morì in circostanze misteriose. Nessuno l’ha mai detto esplicitamente,
ma il sospetto è che si sia suicidato.”
“Come sai tutte queste cose?”
“Chiacchiere di vecchie zie che mi credevano troppo piccola per capire.”
Si alzò poi risolutamente e aggiunse: “Vieni, andiamo a vedere se nelle
carte di mio nonno è rimasto qualcosa di interessante.”
Ci dirigemmo verso la villa. Dopo un dedalo di corridoi raggiungemmo un
grande studio arredato in noce scuro. Aveva al centro un’imponente scrivania
sulla quale erano disposti pochi oggetti essenziali. Ai lati c’erano mobili
da archivio a cassetti. Il tutto dava l’idea di essere rimasto intatto e
uguale a se stesso da decenni.
“Qui lavorava mio nonno Prospero,” mi spiegò infatti Pippi. “Dalla sua
morte, avvenuta negli anni ‘60, nessuno ha più toccato nulla.”
Io mi limitai a guardarmi intorno, constatando quanto quella stanza severa
fosse in linea col personaggio che mi era stato tratteggiato poco prima.
“Mio nonno teneva tutto catalogato,” diceva frattanto la padrona di casa
aprendo i cassetti, “tutto in ordine. Aveva la mania di annotare ogni cosa.
Diceva che ciò che non è scritto non esiste, come l’Imperatore Francesco
Giuseppe.”
“Cosa?”
“Franz Josef, studioso! Non lo sai che tutti i giorni passava delle ore allo
scrittoio?”
Lo sapevo, certo. Ma non avrei mai immaginato che lo sapesse anche lei.
Mi avvicinai alla scrivania. Pippi stava esaminando dei classificatori
etichettati. Ad un certo punto si fermò, parve stupita. “Ma guarda,” disse,
“allora esiste ancora!”
“Cosa?”
“Questo ti potrebbe interessare: testimonianze di prima mano.”
Mi mostrò una busta di carta ingiallita grande come quello che adesso
chiamiamo formato A4. Dentro c’era qualcosa di forma vagamente rettangolare.
Era stata chiusa, legata con dello spago e sigillata con la ceralacca.
Portava, vergata in bella grafia, la seguente dicitura:
Diario F.M.
“Ma guarda un po’, credevamo che l’avesse bruciato, e invece…” commentò
soppesandola.
“Cos’è?” domandai incuriosito.
Pippi mi porse l’involto e rispose: “Sapevo che Filippo Maria teneva un
diario dove annotava tutto quello che gli succedeva. Alla sua morte, mio
nonno Prospero lo requisì e non se ne seppe mai più nulla. Tutti hanno
sempre pensato che l’avesse distrutto, invece eccolo qui.”
“Tu l’hai letto?”
“Non l’ha letto nessuno. In famiglia si credeva che non esistesse neanche
più. E poi scommetto che dev’essere noiosissimo.”
Abbassai lo sguardo sulla busta di ruvida carta da pacchi: il diario di un
adolescente inquieto e probabilmente suicida. Roba più adatta ad uno
psicologo dell’età evolutiva che ad uno storico.
“Portatelo a casa,” mi disse Pippi distogliendomi dalle mie meditazioni,
“leggilo, magari tu ci trovi qualcosa che ti può interessare.”
“Pippi, ma io non so se…”
“Ma dai, studioso! Se non te lo leggi tu rimane qui a prendere la polvere
fino alla fine dei tempi. A chi vuoi che interessi?”
Prima ancora di avere il tempo di organizzare una risposta mi trovai con la
busta sotto il braccio e Pippi che mi spingeva verso il gazebo per un altro
long drink.
E così mi ritrovai nel mio studio, comodamente seduto, con la busta
sigillata fra le mani. La fissai a lungo, rigirandola sotto la luce dello
scrittoio. Avevo recuperato anche altra roba a Villa Albergati, documenti,
fotografie, ma quel diario mi incuriosiva particolarmente. Feci saltare i
sigilli, tagliai lo spago. Tirai fuori dalla busta un quaderno piuttosto
spesso, dalla copertina scura e rigida, con le pagine ingiallite. Lo aprii,
cominciai a sfogliarlo lentamente. Mi accorsi che era scritto fino a circa
metà.
Mi misi a leggere.
Dapprima lo stile eccessivamente romantico mi infastidì. Era tutto un
fiorire di esclamazioni accorate e di turbamenti da signorina ottocentesca,
sembrava di leggere Piccole Donne.
Ma la lettura divenne sempre più angosciante man mano che svelava lo
svolgersi di una tragedia. Voglio riportare per intero, a beneficio del
lettore, l’ultima parte del diario, nella quale è descritta per filo e per
segno la triste vicenda di Hermann Linde.
20/05/44
Oggi sono arrivati i tedeschi.
Sono giunti verso l’alba, io ero sveglio e ho visto la colonna avvicinarsi
lentamente. Era come un lungo serpente nero nella luce incerta che precede
il sorgere del sole. I motori in lontananza emanavano un rombo cupo, che
echeggiava nell’aria come una minaccia.
Speravo che la guerra ci avrebbe dimenticati. Quale presunzione! Tutto il
mondo è straziato, distrutto, arso da questa assurda violenza ed io avrei
avuto la pretesa di uscirne indenne.
Si sono fermati all’ingresso nord, il loro comandante è sceso dalla
macchina, ha parlato a lungo con mio fratello, che nel frattempo era andato
loro incontro. Io ero lontano, non sentivo, ma ho visto Prospero fare un
gesto come di impotenza ed indicare all’ufficiale tedesco il viale che
giunge alla villa.
La colonna si è messa in moto. Non una voce, non un movimento dei soldati.
Solo il rumore sinistro dei motori.
Si sono sistemati al piano terra, nei locali dove una volta c’erano le
carrozze. Mi fa paura pensare che siano così vicini a noi, addirittura sotto
lo stesso tetto.
Hanno portato su al piano nobile cartine, plastici e altre cose, ho sentito
dire che installeranno qui il Comando di Divisione. Io non ho più il
coraggio di attraversare quelle stanze, mi chiedo come farò quando dovrò
uscire. Prospero mi ha detto che sono sciocco, che mi spavento per nulla, ma
io non sono un eroe di guerra come lui e i soldati mi fanno paura.
31/05/44
Stamani Prospero ha di nuovo urlato contro Giustina. L’avrebbe battuta, se
mamma non si fosse messa di mezzo. La povera ragazza ha rotto un bicchiere
sparecchiando e mio fratello si è adirato.
Da quando è tornato dalla guerra, Prospero è diventato cattivo.
Già prima mi metteva soggezione, diario mio, ma ora è diventato un demone
dell’inferno. È dispotico, freddo, insensibile. La servitù ha paura di lui.
Io credo che scapperebbero in massa, se non fosse che con la guerra non si
trovano altri lavori.
Penso che dipenda dalla sua menomazione. Prima della ferita era bello come
un divo del cinema, adesso la gente ha ritegno a guardarlo in viso. Io
stesso, che pure sono suo fratello, devo impormi di non distogliere lo
sguardo quando parlo con lui: ha una benda nera che gli copre l’occhio
sinistro e un’orribile cicatrice frastagliata che gli va dalla guancia alla
fronte. Mi fa paura.
E guai a fare un’allusione alla sua ferita: appena tornato a casa provai a
chiedergli come se l’era fatta. Mi diede uno schiaffo così forte che ne
portai il segno per giorni.
02/06/44
Oggi sono rimasto in cucina assieme alle ragazze della servitù. Mio fratello
non vuole che ci vada, ma a me piace: almeno posso parlare con qualcuno.
Giustina e Novella parlavano dei rispettivi fidanzati e di quello che
avevano intenzione di fare una volta finita la guerra. Una diceva che
avrebbe voluto prendere un negozio di merciaia, l’altra invece rispondeva
che voleva tanti bambini. Diario mio, era una gioia ascoltarle,
cinguettavano come due uccellini. Finché non è arrivata la cuoca Adalgisa,
che è la decana del personale di servizio, e le ha zittite dicendo che
invece di ciarlare come due stupide avrebbero fatto meglio a pregare la
Madonna affinché facesse tornare i loro fidanzati dalla guerra sani e salvi.
Novella si è messa a piangere, caro diario. Ha cercato di non farsi vedere,
ma io me ne sono accorto. Ah, perché dobbiamo vivere in tempi così crudeli?
05/06/44
I tedeschi non sono come me li avevano sempre descritti, caro diario. Mi
aspettavo che avrebbero messo a ferro e fuoco la proprietà come gli eserciti
di Giorgio Frundsberg, invece sono assai rispettosi. L’altro giorno due
soldati avevano rubato una gallina. Oggi un ufficiale si è presentato da mio
fratello e l’ha pagata in moneta sonante, pregando Prospero di far avere il
denaro alla famiglia che aveva subito il furto.
La truppa è silente e operosa. Forse anche per tenere gli uomini occupati, i
sottufficiali hanno dato ordine di provvedere alla manutenzione del parco.
Non abbiamo mai avuto l’erba rasata così bene.
Io avevo paura, diario mio, ma praticamente è come se fossi trasparente, mi
ignorano.
11/06/44
Ah, diario mio, perché devo soffrire in questo modo? Perché mio fratello è
così crudele? In questi giorni terribili tu sei l’unico amico a cui posso
confidare tutti i turbamenti del mio animo. Sei l’unico che mi sta a
sentire, che mi comprende.
Forse sono stupido a parlarti come se tu potessi darmi veramente ascolto, ma
sono solo, non ho nessuno che parla con me e allora affido la mia sofferenza
alle tue pagine.
Prospero è cattivo, amico diario. Cattivo, perfido nel più profondo
dell’animo.
Oggi ha vietato a me e a mamma di andare a messa nella parrocchia di Rigosa.
Ci proibisce di allontanarci, ha addirittura obbligato padre Benedetto a
venire ad officiare il servizio divino nella cappella di famiglia.
E così l’unica occasione che avevo di parlare con qualcuno durante la
settimana mi è stata strappata via. Con la servitù scambio sì e no due
parole di cortesia, mamma è sempre chiusa nelle sue stanze, mio fratello mi
fa paura, è crudele, non voglio parlare con lui. I tedeschi alle volte mi
salutano, giusto un cenno della mano quando passo, ma io scappo via, anche
di loro ho paura, nonostante tutto.
Mi resta solo la mia vecchia cagna da caccia, Lilla, che non manca mai di
scodinzolarmi quando mi vede.
16/06/44
Mamma è sempre più taciturna. Adesso trascorre le giornate impegnata in
esercizi spirituali, a volte con padre Benedetto, più spesso da sola. Viene
a malapena a tavola con noi, ma mangia pochissimo. A forza di fare digiuni e
penitenze ha le occhiaie scure e il volto scavato. I vestiti le ballano
addosso come sacchi vuoti.
Diario mio, che sarà di me?
19/06/44
Oh, amato diario, sapessi quanto sono emozionato! Ho pianto e ho riso e ho
pianto ancora incapace di controllarmi! Ho il cuore che sembra volermi
scoppiare nel petto, finalmente assaporo la felicità! Non so dirti da quanto
tempo non bevevo a questa coppa, diario mio. Io credo fin da bambino.
Ma lascia che ti racconti quello che mi è accaduto, perché non vedo l’ora di
condividerlo con qualcuno.
È così singolare, caro diario: dal più acerbo dolore può nascere la più pura
gioia, così come l’oro viene forgiato nella fornace ardente.
Stamani Prospero ha fatto abbattere Lilla. La conoscevo fin da quando ero
piccolo. Ha detto che era vecchia e che non valeva la pena di continuare a
nutrirla perché tanto non serviva più per la caccia e non sapeva fare la
guardia. Io ho pianto disperatamente, ho implorato, ma è stato inutile. Non
voglio descrivere, diario mio, la scena cui ho dovuto assistere, mi è troppo
straziante e neppure le tue pagine, che tante volte mi hanno confortato,
potrebbero accogliere un episodio così doloroso. Un giorno, forse, potrò
narrartelo, ma ora no, non ce la faccio. Voglio solo dimenticare.
Ma lascia che ti racconti cosa accadde dopo, amato diario, perché è stato
come un raggio di luce purissima nelle tenebre in cui sono costretto a
vivere.
Ero dunque accoccolato a terra e spargevo amare lacrime sul corpo senza vita
della mia Lilla, quando ho sentito una mano accarezzarmi i capelli.
Oh, ricorderò quel tocco finché avrò vita! Così premuroso e saldo a un
tempo. Mi ha donato in un istante calore e tenerezza.
Mi sono voltato stupito: era un soldato tedesco. Diario mio, se tu sapessi
quanto era bello! Pareva un angelo, aveva occhi azzurri come il cielo e
l’espressione più dolce che avessi mai visto.
“Lui… tuo cane?” mi ha chiesto indicando il corpo senza vita che tenevo
sulle ginocchia.
Ho accennato di sì, il nodo alla gola mi impediva di parlare. Le lacrime mi
scorrevano liberamente sulle guance.
Il soldato mi ha accarezzato di nuovo, ha tirato fuori di tasca un
fazzoletto e mi ha asciugato il viso, poi ha abbassato lo sguardo sulla
cagna e ha fatto scorrere le dita anche sulla sua pelliccia ispida. Aveva
mani bellissime, forti e nervose a un tempo.
“Ora noi facciamo tomba per lui,” mi ha detto dopo un po’.
“È una lei. Voglio dire, era.”
“Ach so, era femmina. Allora noi mettiamo anche fiori, vieni.”
Detto questo, ha sollevato le spoglie di Lilla e mi ha chiesto se avevo un
posto speciale dove metterla. L’ho portato vicino alla vecchia conserva,
dove c’è una macchia ombrosa di edera e caprifoglio.
Ha scavato una fossa. In men che non si dica, di Lilla è rimasto solo un
mucchietto di terra.
“Ora cerca fiori,” mi ha suggerito.
Ma a quel punto sono crollato e ho cominciato a singhiozzare incapace di
fermarmi. Lui mi ha stretto fra le braccia e siamo rimasti lì, davanti alla
tomba della mia cagna, non so per quanto tempo. E frattanto io pensavo che
quel soldato doveva essere un angelo che il Signore aveva voluto donarmi
nella sua infinita bontà.
Oh, diario mio, non so descriverti la sensazione meravigliosa che mi ha
colto quando lui mi ha abbracciato. È stato il momento più bello della mia
vita.
25/06/44
Oggi sono andato a curiosare in soffitta. Ricordo quando ero più piccolo,
caro diario. Quelli erano tempi felici. Allora c’erano i miei amici con me,
e giocavamo tutto il giorno in mezzo alle vecchie cose. Quanto è assurdo ora
pensare a quando giocavamo alla guerra. Sembra impossibile che non ci
rendessimo conto di quanto in realtà essa sia orribile.
La guerra strazia, brucia, uccide, distrugge. Costringe la gente a soffrire,
ad abbandonare la propria casa ed i propri affetti. Rovina le persone, le
rende dure, crudeli, inasprite ed assetate di vendetta come mio fratello
Prospero.
26/06/44
Così come mi ha donato un angelo, evidentemente il Signore deve aver
ritenuto di infliggermi anche un demonio, mio povero diario.
Mio fratello Prospero è spaventoso. Ho imparato a temerlo, a guardarmi da
lui come da un nemico. Ha scatti d’ira furiosa nei quali perde il dominio di
sé e fa cose indicibili.
Ieri mi ha dato uno schiaffo perché gli ho raccontato che un soldato tedesco
mi aveva aiutato a seppellire Lilla. Ha urlato che non devo avere a che fare
con i tedeschi, che sono tutti assassini e delinquenti, che se potessero ci
ammazzerebbero tutti.
Io ascoltavo terrorizzato, diario mio, e intanto pensavo a quel soldato
dagli occhi azzurri come il cielo. Assassino? Delinquente? Mio Dio, no! È
stato l’unico che ha avuto pietà di me, che mi ha confortato.
Ricordo ancora il calore del suo abbraccio, il tocco della sua mano sulla
guancia. E gli occhi… ah, il mio povero cuore! Quegli occhi erano splendidi
come gemme!
Chissà dove sarà ora? Chissà cosa farà? Potessi solo rivederlo, parlare
ancora con lui. Questa sarebbe la più grande felicità per la mia povera
anima sofferente.
29/06/44
Mamma se ne va. Ha deciso di ritirarsi nel convento delle Carmelitane a
Bologna. Ha detto che non se la sente più di rimanere qui, che vuole
dedicarsi solo a Nostro Signore. Ha occhiaie sempre più profonde, sembra che
abbia un qualche male. In realtà sono le veglie di preghiera che le hanno
fatto questo effetto. Se la vedesse papà non so che farebbe. Ma papà è
lontano, mentre qui Prospero semina il terrore come i cavalieri
dell’Apocalisse.
01/07/44
Diario mio, il mio cuore è ricolmo di gioia! Sono così felice che vorrei
gridare al mondo quello che sento!
Stavo leggendo in camera mia quando ho sentito suonare il pianoforte.
Siccome era sempre mamma che lo suonava, sono corso giù certo che fosse
tornata, ed ero indicibilmente felice al pensiero di rivederla.
Ma non era mamma che suonava, diario caro. Sai chi era? Ah, non indovinerai
mai, neppure dopo mille tentativi! Scherzo, mio caro amico e compagno,
faccio una piccola burla perché la gioia mi rende ardito! Non pensare che io
voglia prendermi gioco di te.
Era il mio angelo! Il soldato tedesco dai grandi occhi azzurri.
Non si era accorto di me, per cui ho potuto osservarlo da dietro una colonna
mentre suonava assorto, le labbra atteggiate ad un lieve sorriso,
un’espressione di rapita estasi sul volto. Oh, quale visione fu mai quella!
Io ti giuro, diario mio, che mai ho visto qualcosa di più bello del suo viso
su questa terra.
L’adagio della Sonata “Quasi una fantasia” di Beethoven vibrava nella sala
come la superficie calma di un grande fiume placido. Pareva di immaginare le
canne che ondeggiavano pigramente sulle sponde, le barche all’orizzonte e
l’acqua scura che si increspava appena. E nel cielo una luna pallida,
benigna, che accarezzava le onde lievi coi suoi riflessi morbidi.
Mio dolce amico, ho provato un’emozione meravigliosa. Mi ha invaso un senso
di pace, di amore per tutte le cose. Ho dimenticato la guerra, la
solitudine, le cattiverie di mio fratello, il senso di incertezza dolorosa
nel quale tutti noi siamo costretti a vivere.
Questa è stata la magia di quella musica meravigliosa e struggente.
Io ti giuro, diario mio, che ho provato un senso di commozione quasi
doloroso e mentre una forza irresistibile mi spingeva ad avvicinarmi al
soldato, le lacrime mi sono scese lungo le guance.
Lui si è accorto di me e ha smesso di suonare. Sulle prime sembrava
imbarazzato, era evidente che era entrato nel salone di nascosto.
Ha cercato di alzarsi, ma io gli ho fatto cenno di rimanere, gli ho detto
che suonava molto bene, che mi piaceva ascoltarlo.
Quando sono stato più vicino si è accorto che stavo piangendo. Ne è rimasto
colpito, si vedeva che stava cercando qualcosa da dirmi ma non riusciva a
trovare le parole giuste.
Allora ha indicato la panca su cui era seduto, facendomi cenno di
accomodarmi al suo fianco.
Diario mio, io ti giuro che in quel momento ho avuto un tuffo al cuore! Non
sai l’emozione che mi ha invaso al pensiero di essergli accanto.
Mi sono dunque seduto. Lui mi ha circondato le spalle con un braccio e mi ha
tratto a sé, abbracciandomi con tenerezza.
Mi sono abbandonato contro il mio angelo con un sospiro. Ricordavo bene la
sensazione di protezione e affetto che avevo provato fra le sue braccia, e
l’ho ritrovata con commossa gioia.
A bassa voce, asciugandomi le lacrime, mi ha chiesto perché piangevo.
Non ho saputo cosa rispondere, diario mio. Cos’avrei potuto dirgli? Che lui
era come un raggio di luce nella cella buia di un condannato? Che la mia
vita era solo tristezza, dolore e solitudine? Che la sua musica struggente
mi aveva fatto pensare alla pace eterna e a quanto disperatamente l’avevo
bramata prima di incontrarlo?
Mi sono stretto a lui senza rispondere, gli ho carezzato la mano che mi
stava asciugando le lacrime.
Non ho trovato parole, amico mio. Non le ho trovate.
03/07/44
Caro diario, da qualche giorno non vedo il mio angelo. Persino Giustina si è
accorta che sono più triste del solito. Mi ha condotto in cucina e mi ha
dato una fetta di dolce sperando che questo potesse risollevarmi.
Ho mangiato per cortesia, diario mio. Come avrei potuto rifiutare? Ne
sarebbe stata mortificata.
Nel frattempo passava la cuoca, Adalgisa, una signora imponente che non
manca mai di mettermi in soggezione. “Non va bene far crescere i ragazzi
così da soli,” ha sentenziato, come se la colpa fosse stata di Giustina,
“poi si mettono in testa strane idee!” E se n’è andata brontolando come suo
solito.
08/07/44
Ah, mio caro diario, sono ossessionato! Una dolce follia si è impadronita di
me…
Non penso che a lui, non vedo altro che il suo volto bellissimo e le sue
mani eleganti.
Mi perdo nel rievocare particolari di quel viso che al tempo stesso riesce
ad essere dolce e severo.
È una contraddizione, mio dolce amico? Sono dunque così folle?
No! Mille volte no!
O meglio sì, sono folle, ebbro di felicità nel pensare al mio angelo, ma
tante volte ho contemplato quel volto adorato che ne ho colto ogni più
riposta sfumatura.
Conosco ad esempio la piccola ruga verticale che gli si disegna sulla fronte
quando suona i passaggi più impegnativi. Oppure il suo vezzo di prendersi
appena il labbro inferiore fra i denti quando è imbarazzato o impegnato a
cercare una parola d’italiano, così come conosco – oh, raggio di sole nelle
tenebre – la tranquilla dolcezza del suo sorriso.
Da una parte vorrei sapere tutto di lui, dall’altra mi sento come se lo
conoscessi da una vita.
Sono felice, diario mio, felice.
Lo aspetto con trepidazione presso il pianoforte. Gli ho fatto sapere quali
sono gli orari in cui mio fratello non c’è – non oso immaginare, mio dolce
amico, cos’accadrebbe se lo trovasse qui – e quando lui è libero dai servizi
viene qui.
È così bello vederlo suonare, vedere la sua espressione di felicità, sapere
di essere in grado di donarla, una tale felicità.
Lui è così contento.
È stupendo vederlo così, perché quando è contento i suoi occhi diventano
ancora più puri e trasparenti. È stupendo vederlo quando suona il
pianoforte. Ogni preoccupazione umana sembra abbandonarlo, ha un’espressione
assorta, persa in pensieri che non sono di questo mondo.
Il suo brano preferito è la Sonata “Quasi una Fantasia” di Beethoven. Quando
esegue quella è trasfigurato. Oh, diario mio, sembra di vedere l’estasi di
un santo martire, tanto straziante e ardente è la passione che vi mette.
14/07/44
Incredibile come la comunicazione possa seguire vie diverse dal linguaggio.
Lui non parla che poche frasi di italiano, io non parlo tedesco, eppure non
aneliamo ad altro che a stare insieme.
Mi piace guardarlo quando entra nel salone per suonare: non ha
l’atteggiamento spavaldo di chi usufruisce di un privilegio ormai
consolidato. Al contrario è sempre guardingo, schivo. E la prima cosa che fa
è cercarmi con gli occhi. Il sorriso che fa quando mi vede non manca mai di
farmi battere più forte il cuore, diario mio.
18/07/44
Hermann! Hermann, Hermann, Hermann…
Vorrei riempire pagine e pagine di questo nome, ripeterlo all’infinito,
gridarlo!
È il suo nome, diario mio. Il nome del mio angelo.
E sentire lui che pronuncia il mio! Oh, amico diario, che meraviglia! Provo
un brivido ogni volta che lo fa!
Oggi credevo che non venisse più nel salone. L’ho aspettato a lungo, ma solo
Giustina si affacciava di tanto in tanto. Ero anche preoccupato, perché si
avvicinava l’ora del rientro di mio fratello.
Ma poi, gioia infinita: l’ho visto giungere.
Ha suonato un po’, ma si vedeva che era inquieto. Avrei voluto chiedergli
cosa l’angustiava, sostenerlo, confortarlo, ma come avrei potuto? Mi sono
limitato a sedergli accanto, ad accarezzargli piano i capelli per fargli
capire che gli ero vicino.
Gli sarà successo qualcosa, diario mio? Avrà ricevuto una brutta notizia,
magari dalla sua famiglia in Germania?
Gli ho preso le mani, gliele ho strette fra le mie. Lui mi ha sorriso – ah,
la meraviglia di quel sorriso – mi ha detto qualcosa in tedesco e mi ha
baciato sulla fronte.
Amico mio, ho rischiato di morire per l’emozione! Se mi avessero detto che
sarei morto subito dopo quel bacio avrei abbandonato la vita, questa
miserevole, meschina vita, senza rimpianti, perché avevo l’affetto del mio
angelo.
Siamo rimasti così, abbracciati, fino a dimenticare tutto il resto. Fino a
dimenticare la guerra e la cattiveria del mondo. Solo io e lui e il resto
non contava più.
Poi lui si è tolto una catenina d’oro. Non c’erano ciondoli, era solo un
sottile filo di maglie metalliche. Prima che io potessi capire le sue
intenzioni, me l’ha allacciata al collo.
“Per te.” Ha detto con uno dei suoi sorrisi, poi mi ha posato un bacio sulla
guancia.
Oh, diario mio, è stata un’emozione indicibile!
L’ho abbracciato d’impulso, l’ho stretto a me e sono rimasto così, il capo
contro il suo petto, incapace di staccarmi.
Successivamente ho preso la mia catenina d’oro, quella con la croce, e
gliel’ho donata. Ho fatto male, diario mio? Il mio cuore mi dice di no.
E dopo esserci scambiati i doni ci siamo scambiati anche il nome.
Ho la sua catenina sempre al collo, ce l’ho anche adesso mentre sto
scrivendo. Non me la voglio togliere mai più.
La nascondo, non voglio che Prospero la veda, me la strapperebbe via e ne
morirei come se mi strappasse il cuore dal petto. Sempre che questo non sia
davvero il disegno di quell’uomo incrudelito.
Se io perdessi il mio angelo ne morirei.
21/07/44
Diario mio, sono talmente felice che quasi mi sento in colpa vedendo la
sofferenza e la morte che mi circondano da ogni parte.
Dovrei essere triste, lo so. Dovrei dimenticare come si ride, come si
esulta, ma credimi, non ce la faccio.
Il colpevole di questa gioia impenitente è il mio angelo.
È lui che colma la mia anima e i miei pensieri. È a lui che penso appena
apro gli occhi al mattino, è a lui che rivolgo l’ultimo pensiero prima di
chiudere gli occhi la sera. È lui che sogno tutte le notti.
È tardi, dovrei coricarmi, tutti sono immersi nel sonno. Solo io veglio
incapace di calmare il tumulto del mio cuore. Ogni giorno ringrazio Dio per
avermi mandato il mio angelo.
La sua catenina mi accarezza come fosse la sua mano, mi sfiora le labbra
mentre la tormento con le dita ed è come se fosse lui a sfiorarmele.
Ma che dico, diario mio? Sì, vorrei che lui mi baciasse le labbra!
Penserai che sono impudico e svergognato, diario paziente, ma io sento che
nulla di sporco o di sbagliato può venirmi da lui.
22/07/44
Potrei fargli vedere la scala doppia, che ne dici, diario mio? O magari la
scala zoppa. Un giorno che ha un po’ di tempo lo voglio portare su a
vederle. Credo che gli piaceranno, caro diario. Di solito agli ospiti queste
curiosità piacciono.
Vorrei averlo sempre con me, mostrargli ogni segreto di questa dimora
antica.
Alle volte giro per questi corridoi enormi e vuoti e sento un’angoscia
terribile. Mi sembra che le pareti mi si chiudano addosso, mi soffochino.
Basterebbe una parola amica in quei momenti. forse è proprio la solitudine
che mi da questa sensazione, diario mio.
25/07/44
Stamani ero preso la tomba della mia cagna. Ci vado spesso, sia perché vi
giace una bestia fedele e buona uccisa senza colpa, sia perché mi ricorda il
primo incontro col mio angelo.
Ero triste, pensavo alla mia Lilla, la immaginavo sola nella terra fredda,
lei che con tanto entusiasmo ricercava la compagnia degli esseri umani.
Sei stata ben ripagata della tua fedeltà, cara amica, pensavo con amarezza,
il compenso dei tuoi servigi è stato strapparti la vita. Come potrai
conservare l’amore e la fiducia per la gente? Come potrai di lassù – perché
tu sei in paradiso come tutte le creature buone – guardare a me con occhio
benigno? Non fu mia colpa, io implorai per te mia Lilla, ma fui sopraffatto
dalla violenza.
Perdonami, brava bestia, perdonami se fui debole e non seppi proteggerti.
Immerso in questi tormentosi pensieri, d’un tratto mi sono sentito
abbracciare da dietro e posare un dolce bacio sulla nuca. Ah, diario mio,
come ha galoppato il mio cuore in quel momento, come ha palpitato la mia
anima!
Il mio angelo! Il mio angelo giungeva come inviato dal Cielo a confortarmi e
a donarmi un po’ di calore per scacciare il gelo che mi aveva invaso.
Siamo rimasti così, abbracciati, la mia schiena contro il suo petto, le sue
mani allacciate a cingermi, le sue labbra a sfiorarmi leggere la nuca.
Che momento è stato quello, diario mio! Prima il dolore e poi la gioia.
Prima la disperazione e poi l’estasi.
Perdonami, Lilla cara, se in quel momento mi dimenticai di te. Può dunque
contenere un solo affetto questo mio piccolo cuore?
27/07/44
Mio povero cuore, perché ti mettono a tali torture? Non vi è dunque pietà
per un’anima che non chiede altro che d’amare e di donarsi?
Questa mattina ho visto il mio angelo, ma ero insieme a Prospero e ho dovuto
farmi violenza per non far trapelare nulla.
Che farebbe quel demonio dell’inferno se s’avvedesse dell’affetto che mi
lega a lui? Egli è capace di tutto, non oso pensare a ciò che la sua furia
gli suggerirebbe.
L’ho fissato rapidamente, appena un’occhiata, e simultaneamente egli ha
levato gli occhi su di me.
Oh, diario mio! Il cuore mi ha fatto un balzo nel petto! Ho dovuto impormi
l’indifferenza, Prospero mi stava guardando, ma quale momento meraviglioso è
stato mai quello!
Siamo legati, diario mio, ora l’ho capito. Perché altrimenti avremmo alzato
lo sguardo nello stesso istante?
02/08/44
Ah! Lo amo…
Lo amo con tutto il mio cuore, questo piccolo cuore che non anela ad altro
che ad amare a donarsi completamente.
Perché non possiamo fuggire lontano io e lui, dimenticando questa guerra
orribile che strazia e uccide?
Lo amo, diario mio. Lo amo più di mamma, di Prospero, di qualsiasi cosa. Più
della mia stessa vita. La mia anima palpita solo per lui.
Vorrei dirti di più, ma la mia mente è invasa dall’amore per lui come una
campagna è invasa dall’onda di piena di un fiume straripato. Ed esattamente
come l’acqua del fiume copre tutto, così l’amore nel mio animo sopraffa ogni
altra cosa.
E quindi sii pago di questo, caro diario: lo amo.
09/08/44
Diario mio! Oh, mio caro amico… vorrei affidare alle tue pagine fedeli
quello che sento, ma questa volta è troppo, non ce la faccio. L’emozione
minaccia di sopraffarmi, di farmi perdere il senno e la ragione.
Ma lascia che ti racconti ciò che è successo, diario mio, se la mia mano
smette di tremare e il mio cuore di palpitare come se volesse balzarmi fuori
dal petto.
È venuto al pianoforte come fa ormai quasi ogni giorno. Era più bello che
mai: un angelo mandato sulla terra per mostrare agli uomini la perfezione
del Creato.
Ci siamo scambiati le solite poche frasi, i sorrisi, le carezze che ormai ci
sono solite. Il nostro linguaggio è semplice, ma non ci vuole altro per
esprimere il sentimento al tempo stesso più forte e più semplice del mondo,
ovvero l’amore.
Si è seduto,ha cominciato a suonare. Io lo ascoltavo rapito. Era l’adagio
della Sonata “Quasi una Fantasia”, ma ci metteva una passione che non gli
avevo mai sentito.
Ad un tratto – oh, diario mio, che momento meraviglioso è stato quello – si
è interrotto, ha teso una mano verso di me invitandomi a sedere al suo
fianco. Quando sono stato lì mi ha abbracciato e guardandomi negli occhi,
con le guance soffuse di rossore ha mormorato: “Ich liebe dich.”
Ah, cuore mio, perché non ti sei spezzato in quel momento? Come hai fatto a
resistere ad un’emozione così intensa, tu che sei così delicato e fragile?
Ci siamo baciati come credo si bacino gli amanti. Non lo so, diario mio, non
avevo mai baciato nessuno così prima d’ora, però è successo veramente quello
che si legge nei libri: ho sentito il cuore palpitare, l’anima librarsi ed
il corpo farsi leggero.
Avevo quasi la sensazione che da noi due irradiasse una luce celeste mentre
le nostre bocche erano unite sempre più profondamente.
Di nuovo non so che dire, amato diario. Ti trascuro, caro amico di giorni
cupi. Dirai che sono un ingrato, e con ragione! Ora che ho Hermann, il mio
angelo, il mio sole, il mio tutto, è come se il resto del mondo non
esistesse più. Ma come posso distogliere la mia mente ed il mio cuore da
lui? Ah, diario mio, l’amore per lui penetra ogni fibra del mio essere! È
così radicato in me che strapparlo via equivarrebbe a stapparmi via l’anima
tutta!
12/08/44
Diario mio, la disperazione più cupa si è impadronita di me. Com’è
possibile, dirai tu? Tu che solo pochi giorni fa eri ebbro di felicità? Cosa
mai può averti gettato nello sconforto?
Prospero si è accorto di noi! Quel demonio crudele ci ha scorti seduti
insieme al pianoforte. Ha atteso che il mio angelo se ne andasse, poi mi è
piombato addosso come una belva si avventa sull’incolpevole preda.
Mi ha battuto, diario mio, accanendosi crudelmente su di me. Ha voluto
sapere cosa c’era tra me e il mio angelo, e più tacevo più si infuriava e mi
percuoteva.
Avevo paura, piangevo e mi raccomandavo a Dio, perché mio fratello era
terribile nella sua collera: il volto contratto, deturpato dalla ferita, era
spaventoso a vedersi. L’occhio superstite, fiammeggiante d’ira, mi
trapassava come una lama tagliente.
Neppure il sangue che mi imbrattava il viso l’ha convinto a desistere: ha
continuato a battermi finché non ho confessato. Mi ha detto parole orribili,
che non voglio ripetere. Poi mi ha spinto via e se n’è andato come una
furia.
Ora ho tanta paura, diario mio. Non temo per me: anche se giungesse la
morte, essa non sarebbe altro che un’agognata liberazione da un tormento che
sembra non avere mai fine.
Io temo per il mio amato. Ho il terrore che la vendetta di quell’uomo
perfido e crudele si abbatta sull’incolpevole angelo che mi ha tratto dalle
tenebre nelle quali fino a poco tempo fa mi dibattevo gemendo.
13/08/44
Diario mio, il più cupo terrore mi attanaglia. Oggi il mio amato angelo non
è venuto presso il pianoforte. Avevamo appuntamento alle undici di notte,
ora in cui mio fratello dorme ormai profondamente, ma egli non è apparso.
Gli sarà accaduto qualcosa? Vorrei avvertirlo della minaccia tremenda che
pende sul suo capo, ma non so come fare. Mi struggo nell’angoscia al
pensiero di ciò che può fare mio fratello.
Sono chiuso a chiave nella mia camera, non posso uscire. Fuori le tenebre
incombono. Che sarà di noi, mio Dio, che sarà? Non abbiamo fatto male a
nessuno, non chiediamo altro che di amarci. Perché dobbiamo soffrire così?
14/08/44
Mio fratello ha detto che il mio angelo è stato ucciso dai partigiani. Io
non ci credo. I partigiani qui non vengono.
15/08/44
Oggi i muratori hanno lavorato tutto il giorno in cantina sotto la
supervisione di mio fratello. Ho capito.
L’ultima frase, vergata con grafia incerta e tremante, concludeva il diario.
C’erano macchie rotonde leggermente scure sulle pagine, verosimilmente erano
lacrime. Quel povero ragazzo doveva aver pianto disperatamente, senza
nessuno che lo consolasse, che gli dicesse anche solo una parola gentile.
Potevo immaginare lo strazio e la disperazione che doveva aver sofferto.
Decisi di telefonare a Pippi, c’erano alcune cose che dovevo assolutamente
sapere.
Mi misi comodo, mi procurai il portatile e composi il numero. Mi rispose
dopo un bel po’ di squilli. Dalla voce leggermente ansimante, dovevo averla
interrotta durante la sua lezione di tennis.
“Ciao Pippi. Senti, sono Dario e…”
“Lo so che sei tu, studioso!” mi interruppe, “C’è il tuo numero sul display.
Cosa posso fare per te? Di nuovo alle prese con le ricerche sulla villa?”
“Sì, in un certo senso.” Risposi. Stavo per porle un paio di domande
fatidiche. Se la risposta fosse stata quella che mi aspettavo, mi sarei
trovato nella necessità di metterla a parte della vicenda del fantasma.
“Che posso fare per te?” mi chiese.
“Senti, hai presente il ragazzo del diario? Filippo Maria Albergati?”
“Certo.”
“Avrei bisogno di sapere quando è morto.”
Ci furono alcuni secondi di silenzio, poi la mia interlocutrice rispose:
“Devo chiedere alla zia Clerice, è lei che tiene il computo dei morti di
famiglia. Te lo so dire domani.” Poi, come c’era da aspettarsi, soggiunse:
“Ma perché lo vuoi sapere?”
Con un sospiro, risposi: “Te lo dirò a tempo debito, Pippi. Dimmi un’altra
cosa, già che ci sei: hai mai notato cose strane in cantina?”
“Cose strane in che senso?”
In che senso, bella domanda. Non lo sapevo. “Devo visitare i sotterranei di
Villa Albergati,” dissi cercando di tagliare corto.
“Tu non me la conti giusta, studioso,” rispose la Pippi prima di chiudere la
comunicazione con un risolino astuto.
Riposi il telefono con un sospiro di sconforto. Non sapevo se sperare che le
mie domande ricevessero la risposta che mi aspettavo oppure no. Devo dire
che la vicenda stava diventando fastidiosamente sempre più simile a un
horror di serie B e questo non mi piaceva per nulla.
Il giorno dopo andai a trovare la mia amica. Se le risposte fossero state
quelle che mi aspettavo ci tenevo a parlarle di persona. Nel frattempo ero
andato in Comune e mi ero procurato le planimetrie della villa.
Partecipai al solito rito della bevuta, poi la mia ospite mi chiese:
“Allora, caro studioso: cosa ti porta qui?”
“Ricordi che ti avevo chiesto di Filippo Maria?” risposi dubbioso. Alle
volte la Pippi era terribilmente svampita e non era affatto da escludersi
che avesse dimenticato di interpellare la zia Clerice sulla questione che mi
stava tanto a cuore.
“Ma certo!” disse lei, “ieri sera ho telefonato alla vecchiarda. Guarda che
l’ho fatto solo per te, sai? Mezz’ora di telefonata, credevo di morire. Mi
ha fatto un interrogatorio peggio della Gestapo. Ha voluto sapere perché non
mi sposo, perché non si sposa nemmeno Giovi, perché non l’andiamo mai a
trovare… insomma, un sacco di cose. Mi ha talmente rincretinita che quasi
dimenticavo di chiedergli quell’informazione su Filippo Maria.”
“Ma gliel’hai chiesta, vero?”
“Certo, uomo di poca fede. Il giovane Filippo Maria Albergati ha lasciato
questa valle di lacrime il 16 agosto del ’44 in circostanze quantomeno
misteriose. Tutto farebbe pensare che si sia suicidato.”
Deglutii a vuoto. Ecco la risposta che aspettavo.
“Com’è morto?”
“Sembra che sia annegato nel Lavino, il torrente che passa laggiù,” fece un
gesto vago verso est con la mano, “una cosa strana, perché in agosto nel
Lavino doveva esserci ben poca acqua. O perlomeno, non certo la quantità
d’acqua in cui una persona potrebbe rischiare di annegare.”
Inspirai, vuotai il mio bicchiere con un unico lungo sorso e solennemente
dissi: “Pippi, ti devo dire una cosa importante.”
E per la successiva mezz’ora le narrai l’apparizione del fantasma e tutta la
vicenda come l’avevo ricostruita. Ovvero, il tenero idillio fra i due
ragazzi brutalmente troncato dal dispotico fratello. Le dissi che sospettavo
che Prospero avesse ucciso il soldato. Osservai che siccome Filippo Maria
nel suo diario parlava di cantina e di muratori, secondo me nei sotterranei
avremmo trovato qualche altro tassello della vicenda.
“Ci vorranno le mappe,” osservò Pippi dopo un lungo silenzio meditativo.
“Ecco qui,” le risposi mostrandole le planimetrie.
Le aprii sul tavolino, le guardammo attentamente, ma viste così erano solo
linee ortogonali che si intersecavano in modo asettico su fogli indicati
come mappale 1, mappale 2 e così via.
“Ma poveracci,” disse la Pippi dopo un silenzio, apparentemente senza
rivolgersi a nessuno in particolare, “che cosa gli costava a quello stronzo
di mio nonno lasciarli in pace?”
Anni di ricerca mi avevano addestrato a mantenere il distacco dello studioso
e a non dare mai pareri personali sui fatti storici di cui venivo a
conoscenza, tuttavia non mi sentii di disapprovare in pieno il punto di
vista della mia amica.
“Sarà meglio scendere,” dissi raccogliendo le mappe.
Le cantine della villa si compongono di tre piani e ne occupano tutto il
perimetro. Consultando le planimetrie si notavano anche due tunnel diretti
verso l’esterno, verosimilmente alle due conserve, situate agli angoli
nord-est e nord-ovest del parco.
“In realtà non so nemmeno cosa stiamo andando a cercare,” ammisi, “magari
non c’è niente, o magari quello che c’è non risulta dal confronto con le
planimetrie.”
Con un’espressione strana, la Pippi mi rispose: “Vuoi che ti abbiano fatto
arrivare fin qui per poi lasciarti a bocca asciutta?”
“Di chi stai parlando?” le chiesi ingenuamente.
“Dei due piccioncini.”
Repressi un brivido al pensiero di un’entità incorporea che stava
controllando e indirizzando i miei movimenti.
Con la solita curiosità scientifica mi chiesi dove fosse, in che modo mi
controllasse e soprattutto in che modo riuscisse ad orientarmi verso i vari
indizi.
Devo ammettere che mi faceva anche un po’ impressione pensare di avere un
fantasma che mi seguiva da presso.
Il primo piano delle cantine si componeva di ampi locali con volte a sesto
acuto sostenute da colonne. I soffitti erano imbiancati e le pareti avevano
alte feritoie che davano sull’esterno, per cui era anche relativamente
luminoso. Controllammo ogni muro, ma tutto era dove sarebbe dovuto essere.
C’erano botti per il vino, bottiglie, derrate alimentari non deperibili e
altro che non ricordo, ma niente di interessante ai nostri fini.
Il secondo piano, meno esteso e più profondo, era invece buio. L’aria era
fredda e sapeva di salnitro. Pippi azionò un interruttore accendendo una
fila di lampadine fioche, ragni e scolopendre si diedero alla fuga lungo i
muri grezzi.
C’era un silenzio denso, sepolcrale.
“Da brividi,” commentò la mia accompagnatrice.
“Non farmici pensare,” le risposi a denti stretti.
Ci incamminammo cauti, controllando le planimetrie. A giudicare dalla
polvere che c’era per terra, nessuno era sceso da molti anni. C’erano vecchi
oggetti coperti di muffa e poco altro.
Neppure lì trovammo niente di interessante. Valutammo l’eventualità di
ispezionare anche i due tunnel, di cui avevamo trovato gli imbocchi serrati
da pesanti portoni di rovere, ma decidemmo di dedicarci prima all’ultimo e
più profondo piano di sotterranei.
Lì non c’era neppure la luce elettrica, trovammo solo alcune candele. L’aria
era ancora più fredda, umida e aveva un forte sentore di chiuso e limo di
fiume. La sensazione di essere osservati con fastidio da qualcuno che
stavamo disturbando era sgradevolmente intensa.
“Tira fuori quella mappa,” mi disse la Pippi con voce un po’ stridula, “mi
sa che sono allergica alla polvere, prima usciamo di qui e meglio è.”
“Si chiama allergia alla polvere adesso.” Commentai.
Se era la stessa cosa che stavo provando io, si trattava di un’onesta fifa.
La zona comprendeva essenzialmente un atrio centrale da cui si dipartivano
due corridoi sui quali si aprivano quelle che parevano cellette per stivare
generi alimentari o altro. Ne percorremmo uno, aveva tre porte per lato e
una centrale in fondo. Guardai la planimetria alla luce incerta della
candela. “Qui niente di strano,” dissi, “l’altro dovrebbe essere uguale.
Nella mappa ha la stessa struttura.”
Tornammo verso l’atrio.
“Bingo,” disse la Pippi quando ci affacciammo sul secondo corridoio.
Mi bastò un’occhiata: mancava la porta in fondo. Al suo posto c’era un muro
in tutto e per tutto simile a quelli che lo circondavano, grezzo, con
l’intonaco scrostato e macchie grigiastre di umidità.
Ci avvicinammo. Osservammo accuratamente la parete, la toccammo titubanti.
“Qui dietro c’è una stanza murata,” mormorò la mia amica.
La constatazione, per quanto ovvia, mi spedì un brivido lungo la schiena. Lì
dietro, per l’appunto nella stanza murata, c’era la soluzione del mistero.
Picchiai sulla parete con le nocche, traendone un suono sordo. Mattoni
pieni, un lavoro fatto per durare secoli. “Bisognerà buttarla giù,” osservai
pensosamente.
“Faccio chiamare i muratori?”
“Aspetta,” le dissi, prendendole un polso come se fosse stata in procinto di
chiamarli in quel preciso momento, “non sappiamo cosa troveremo di là. Se
per caso c’è… insomma, può non essere roba da far vedere a estranei. Di
buttare giù un muro siamo capaci anche noi, basta avere gli attrezzi.”
“Lo facciamo adesso?”
“No, ho bisogno di un po’ di materiale.” Risposi, e già meditavo di fare una
spedizione al dipartimento di Archeologia. Servivano un paio di fari a
batteria di quelli che si usano negli scavi e almeno una mazza e uno
scalpello.
Abbandonammo dunque la cantina e i suoi segreti. Tornare all’aria aperta
dissolse la cappa di angoscia che ci era calata addosso, anche se non del
tutto. Il passaggio nel mondo ctonio non aveva mancato di lasciarci il
segno.
Quando pochi giorni dopo portammo giù due lampade alogene da mille watt
ciascuna, pensai che da quando quel sotterraneo esisteva non vi era mai
entrata tanta luce. Una cosa simbolica, se vogliamo: la luce della
conoscenza che scacciava le tenebre dell’ignoranza.
Le sistemammo nel corridoio sui loro treppiedi, le puntammo verso la parete.
Emanavano un fascio bianco-azzurrino, freddo, che metteva in risalto il
colore livido dell’intonaco e le macchie scure di muffa.
Sotto quei raggi impietosi puntai lo scalpello nella commessura che si
indovinava fra due pietre e diedi la prima martellata, che risuonò sinistra
come i colpi che Poe descrisse parlando di Casa Usher.
“Dietro è vuoto,” commentai. E subito dopo mi resi conto dell’ovvietà
dell’affermazione. Pippi non rispose, mi accorsi che stava tormentando
freneticamente l’orlo della vestina di seta indiana.
“Nervosa?”
“Secondo te?” fu la tagliente risposta. Mi rimisi a lavorare senza fare
altre domande.
Altri colpi risuonarono, seguiti dal rotolio dei frammenti di intonaco e
mattoni che cadevano a terra. Era un lavoraccio, il muro era solidissimo, ma
pian piano cedette fino a che non fu possibile sfilare alcuni mattoni.
Avevo quasi paura di guardare dentro. Mi voltai verso la Pippi. Fece un
gesto di diniego che risultò comico nella sua enfasi.
“D’accordo, ho capito,” sospirai e orientai una delle lampade in modo che un
fascio di luce frugasse il buco che si era creato.
Le nostre aspettative furono deluse: dietro il muro c’era un’intercapedine
di circa dieci centimetri e poi la porta di rovere della celletta,
ovviamente chiusa.
“Bisogna spaccare tutto.” Constatai.
Andammo avanti. Io abbattevo il muro, Pippi mi spostava di sotto i piedi i
mattoni e i calcinacci. Il lavoro era diventato per fortuna abbastanza
agevole, perché verso il basso l’umidità aveva pian piano infiltrato l’opera
rendendola meno robusta.
Mi fermai comunque per riposare. Ormai la parete era caduta per metà. Si
vedeva bene la porta, che aveva uno spioncino centrale tappato dall’interno
mediante una lastra di metallo, e lo stipite in pietra grezza. C’era anche
un chiavistello con un lucchetto.
Mi sedetti, mi tersi il sudore. “Ci vorrebbe qualcosa da bere,” dissi. La
voce sembrava venire assorbita dall’oscurità densa che ci circondava.
Scrutare oltre il cono di luce degli alogeni era angosciante. Il buio pareva
solido, una gelatina che i raggi bianchi erodevano con fatica.
“La prossima volta mi porto il frigo da campeggio,” commentò Pippi con voce
lugubre.
Non aggiungemmo altro. Il modo in cui ogni suono era risucchiato da quell’abisso
di buio era spaventoso. Molto meglio produrre meno rumore possibile.
Mi alzai e ripresi il lavoro. Cominciavo a sentire un crescente disagio,
avevo necessità di tornare in superficie. Temetti per un attimo che stesse
per venirmi un attacco di panico. Non ne avevo mai avuti, ma la tachicardia
e la sensazione di soffocamento le stavo provando. Bel momento per farsene
venire uno, pensai.
Ci volle ancora un po’ di tempo, poi riuscii a liberare completamente la
porta. Nell’intercapedine, per terra, trovammo anche una chiave arrugginita,
verosimilmente quella del lucchetto, abbandonata lì affinché nessuno la
trovasse mai più.
Posai gli attrezzi. Con un sospiro dissi: “Ora dobbiamo aprirla, credo.”
“Sì, credo anch’io.”
Ma nessuno si mosse.
Giocherellai irresoluto con la chiave, guardai di sottecchi la porta, ma non
mi avvicinai.
Parlò di nuovo la Pippi, che in quel caso assunse il ruolo di voce della
saggezza. Gravemente mi disse: “Non ci succederà nulla, lui vuole che
guardiamo dentro a quella stanza.”
Fissai ancora una volta la porta, che il fascio degli alogeni rendeva simile
ad una fotografia sovresposta.
Cercai di evitare di pensare alle conseguenze di ciò che stavo per fare e
soprattutto mi impedii di fare ipotesi su quello che avrei trovato. Avere a
che fare con la parapsicologia rendeva teoricamente possibile il
rinvenimento di qualsiasi cosa all’interno di quella stanza.
Infine stabilii che era inutile tirarla in lungo: presi la chiave, la
infilai nel lucchetto, la girai. La serratura scattò quasi subito.
“Bene. Ci siamo.” Commentai, poi feci scorrere il chiavistello. Spinsi la
porta, che cedette stridendo sui cardini.
Un freddo gelido ci penetrò nelle ossa facendoci rabbrividire, le lampade
ebbero un’oscillazione e per pochi secondi la luce divenne fioca e
tremolante.
“Oh mio Dio!” esclamò Pippi con voce strozzata dall’orrore.
La stanza era piccola, grezza, col soffitto basso. Vi stagnava l’odore di
ossario che talvolta si percepisce nelle vecchie cripte.
Seguii lo sguardo inorridito della mia amica e vidi in un angolo i resti di
un corpo riverso.
Non c’era rimasto molto, ormai. Solo ossa biancastre e brandelli consunti di
cuoio e panno militare grigioverde.
Ci avvicinammo cautamente, il freddo e l’orrore ci facevano rabbrividire
mentre le lampade alogene erano puntate su quelle spoglie come riflettori
impietosi.
Mi chinai ed esaminai le ossa. Il cranio era spaccato in più punti, si
vedeva chiaramente. Non c’era bisogno di essere medici per capire che quelle
fratture erano state la causa della morte.
Pippi mi indicò una mazza da fabbro buttata in un angolo: verosimilmente
l’arma del delitto.
Scostai delicatamente un lembo di stoffa in corrispondenza di quello che una
volta era stato il collo. Trovai la piastrina di riconoscimento ovale.
Previdentemente mi ero infilato in tasca il Soldbuch di Linde, quindi lo
tirai fuori e confrontai i dati.
“È lui,” dissi solennemente.
Assieme alla piastrina di riconoscimento trovai un’altra cosa: una catenina
con una piccola croce d’oro.
“Credo di aver capito cos’è successo,” dissi quasi parlando fra me e me,
“Prospero l’ha attirato quaggiù con qualche scusa, poi l’ha ucciso, ha
sigillato la stanza e l’ha fatta murare. Nessuno si è accorto di nulla, il
soldato è stato considerato disperso e la questione è stata archiviata.”
Feci una pausa, lanciai un’altra occhiata allo scheletro, poi proseguii: “mi
chiedo cosa voglia, però, dal momento che il suo assassino è morto da
decenni. Come possiamo rendergli giustizia?”
“Io credo che non voglia giustizia,” mormorò la mia amica chinandosi al mio
fianco. Prese fra le dita la piccola croce d’oro, la lasciò ricadere. “O
meglio, c’è qualcosa che gli preme più della giustizia.”
“Sarebbe?”
“Vuole stare con lui.”
Mi parve che alle parole di Pippi la morsa di freddo che ci attanagliava
diventasse meno intensa.
“Non ti preoccupare,” disse lei, evidentemente rivolgendosi al fantasma,
“faremo quello che chiedi.”
Forse fu l’immaginazione, forse un effetto di quei sotterranei dagli echi
bizzarri, ma ci parve di sentire una voce umana che mormorava qualcosa nel
buio alle nostre spalle.
Non voglio annoiare il lettore con la descrizione di tutta la burocrazia che
ci venne richiesta da Questura, Medicina Legale, Procura, Ufficio d’Igiene,
Curia, Associazione dei Caduti Germanici in Italia e quant’altro. Ci vollero
settimane di pratiche e qualche telefonata della marchesa Anna Matilde
Albergati alle persone giuste, ma alla fine riuscimmo ad ottenere il
permesso di tumulare le spoglie del soldato semplice Hermann Linde nella
tomba di famiglia degli Albergati presso la Certosa.
Alla cerimonia, se possiamo chiamarla così, eravamo presenti solo io e la
Pippi, vestiti come si conviene. Avevamo messo le ossa in una cassetta di
legno, ma l’intenzione era quella di trasferirle poi nella bara di Filippo
Maria Albergati.
Ci recammo dunque presso il mausoleo di famiglia, facemmo togliere la lapide
e aprire la tomba. La cosa non ci turbò particolarmente, anzi posso dire che
ci sentivamo quasi felici. Facemmo quello che si doveva, poi Pippi fece
portare un’altra lapide per sostituire quella presente. Era di marmo bianco,
con eleganti bassorilievi classici. Sopra c’era scritto: Filippo Maria
Albergati e Hermann Linde.
“Molto commovente,” commentai.
“Il solito cinico,” ribatté lei asciugandosi furtivamente una lacrima.
A conclusione della vicenda, posso dire che ieri sera – il lettore ricorderà
che era il 13 agosto – io e la Pippi abbiamo atteso le undici nel salone del
pianoforte.
Il fantasma non è apparso.
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