É forse la fic cui mi sto dedicando con maggiore impegno... per la difficoltà del genere (western) che non ho mai trattato! La dedico a Mercy che mi ha aiutato con i nomi e che per ora studia lontano lontano!!! ^*^
Sfida all'OK Corral
di Fiorediloto
TITOLO: Sfida all'OK Corral
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 5/???
RATING: AU/NC-17
PAIRING: tutti i canonici
DISCLAIMERS: I personaggi non sono miei ma del divino Inoue!!!
I personaggi stanno sprofondando sempre più nell'OOC.... ma non ci fate caso, mi servono così!!!
Altra noticina: i protagonisti di questo capitolo hanno fatto un po' quello che volevano loro, quindi non prendetevela con me... non c'entro niente, io!!!
COMMENTI!!!!!!
CAPITOLO QUINTO: IL SALOON
La notte dormiva, e i giusti con lei, quieti sotto un cielo trapunto di stelle. La luna si era nascosta – nessun faccione pallido illuminava la terra. La luna era morta, dicevano i Kanagawa in notti come quella, ma sarebbe risorta presto. Kiminobu si strinse nelle spalle, rabbrividendo. Dalla finestra proveniva un refolo gelido.
Aveva cattivi presentimenti.
Resta con me, Isi. Nessuno può amarti meglio di me.
Amore? Gli era scappata una risatina nervosa. Lo so. Lo so, Nahuel… Ma…
Ma?
Devo andare.
Perché?
No, non aveva chiesto “perché”. I Kanagawa non avevano una parola che significasse “perché”.
Quale vento ti allontana da me? – aveva chiesto.
Kiminobu chiuse gli occhi, inspirando forte l’odore secco che gli giungeva alle narici. Era vento di terra, asciutto e sgradevole. Niente a che vedere con il profumo del mare, della salsedine. Il deserto era la crudeltà di Dio verso la sua terra. La cicatrice ingiusta sulla faccia della Madre.
La cicatrice… Si toccò la clavicola segnata.
Quasi gli sfuggì un grido, quando si accorse di essersi portato le punte delle dita alle labbra.
Un’altra notte insonne. Si passò una mano sulla faccia. Un’altra notte insonne.
Quante ne aveva passate, al tempo…?
Appoggiò i gomiti sul davanzale.
Aveva cattivi presentimenti.
La notte dormiva, e i giusti con lei. Bob Clanton si diede uno schiaffo sulla guancia, forte, per impedirsi di vacillare.
«Che è stato?» sibilò Ash, voltandosi di scatto.
Nobu evitò il suo sguardo e non rispose.
Non voleva il suo disprezzo e non voleva la sua comprensione – non l’avrebbe ottenuta, comunque. Non voleva neanche guardarlo negli occhi. Perché lo costringeva a fare questo – perché era d’accordo con Akira.
Avevano ragione loro, lo sapeva. Avevano ragione loro, erano loro a pensare alla famiglia – mentre lui si sentiva sporco e abietto perché era il traditore.
Gliel’aveva detto, Hike…
Non farlo mai più, Nobu. Mi hai capito? Non farlo mai più. Noi siamo la tua famiglia. Ci vuoi tradire?
No, Akira, no, che dici?
Io lo so che non vuoi. Nobu, Nobu, fratellino…
Akira…
… il giorno che ci tradirai, ti pianterò una pallottola nella fronte.
La notte dormiva, e lui lo sapeva che non sarebbe riuscito a disobbedirgli.
Hisashi gli strinse il braccio, con forza, per scuoterlo. Ma che faceva? Si era imbambolato? Nobunaga scosse la testa in segno di scusa.
Entrare nel saloon era stato facile: non c’era lucchetto o cassaforte che sapesse resistere al suo tocco. Ci aveva messo più del previsto – volutamente. Aveva rimandato fino all’ultimo il momento in cui avrebbero messo piede sulle assi lisce del saloon, finché Hisashi non gli aveva inflitto una gomitata nel fianco e l’aveva esortato a darsi una mossa – condendo il tutto con una generosa bestemmia.
Era stranamente irritato, Hisashi, quella sera. Era stata forse la finestra illuminata di casa Earp, scorsa da lontano, a comunicargli quell’ansia? Nobu immaginava chi dovesse esserci dietro. Non poteva trattarsi che di lui, altrimenti Hisa non si sarebbe innervosito così tanto.
Poi erano entrati.
Nel buio, il saloon era un vasto stanzone senza sentimento – tuttavia conservava quel profumo, il profumo del legno vecchio e della birra e della polvere, e quel profumo gli ricordava lui. Lo aspirò a occhi socchiusi, per un attimo.
Un pizzicotto sul braccio lo fece sussultare.
«La finisci di addormentarti?» sibilò Hisashi, ferocemente.
Annuì, costernato.
Quando Sean gli insegnava a sparare, la cassaforte si trovava in un vecchio stanzino. Non sapeva perché la tenessero lì – il resto della gente teneva i propri risparmi in una cassa sotto il letto. Loro usavano così. Era uno stanzino al piano di sopra, in fondo al corridoio. Nobu ricordava che Sean, una volta, gli aveva rivelato di avere il sonno pesante – ma che Aya, in compenso, aveva l’udito di un felino.
Sapevano di non dover produrre neanche il minimo rumore, ma cinque anni di saccheggi avevano insegnato loro a controllare fino allo spasimo persino lo scricchiolio degli stivaloni in pelle. Si avviarono su verso il primo piano. Il cuore di Nobu non voleva saperne di stare al proprio posto, ed era curiosamente risalito fino alla gola. Se avesse aperto bocca, ne era certo, Hisashi avrebbe sentito distintamente il suo battito.
Cinque anni prima la camera da letto di Sean era in fondo al corridoio, dalla parte opposta della casa. La camera di Aya, invece, era giusto accanto allo stanzino.
E questo da un lato lo rassicurava enormemente, perché le probabilità che lui li scoprisse scendevano – ma lo preoccupava perché avrebbe dovuto fare ancora più silenziosamente e rapidamente. Non voleva essere scoperto. Non voleva essere scoperto da lui.
«Un colpo, Akira. Un colpo e ce lo togliamo di torno.»
«Mmm.»
«È un problema. O’ Connor è un problema.»
«… e noi i problemi li eliminiamo alla radice, vero Hisa?» aveva replicato Hike, citando uno dei più famosi proverbi di Joe Clanton.
«Esatto, Aki. Esatto.»
No! No!, aveva pensato, nascosto dietro la porta, le tempie in fiamme.
«Aspettiamo ancora un po’, Hisashi. Non c’è fretta. Se diventerà pericoloso…»
«È già pericoloso, Akira. Guarda Nobu.»
«Nobu ascolta me.»
«Sei sicuro?»
«Sì.» Una pausa. «Ancora sì. Al prossimo sgarro lo facciamo fuori.» Nuova pausa. «Sean, intendo.»
Non sapeva se tentare di sventare la loro rapina sarebbe stato considerato uno sgarro – ma non aveva alcuna voglia di scoprirlo. Di Aya non si preoccupava. Hisashi non l’avrebbe toccata.
Dio, vorrei essere in qualsiasi posto, qualsiasi tranne che questo.
La porta dello stanzino era sprangata. Hisashi si fece indietro, indicandogliela con un gesto teatrale. Bob si inginocchiò sul pavimento e strinse le mani intorno al lucchetto. Adesso aveva fretta. Una dannata, dannatissima fretta. Ma per qualche motivo le sue mani avevano deciso che era tempo di cominciare a tremare.
«Nobu!» sibilò Hisashi. «Che cazzo ti piglia?»
Posò le mani in grembo, stringendole l’una con l’altra, deglutì un groppo enorme e poi risollevò le dita verso il lucchetto. Non era difficile. Forza, Nobu, hai affrontato di peggio. Si staccò la forcina dai capelli – un piccolo attrezzo da lavoro che, nel tempo libero, gli teneva indietro un ciuffo ribelle.
Poi tutta la scena si srotolò in un attimo. La porta alla sua sinistra, quella che sarebbe dovuta essere di Aya e non lo era più, si aprì di colpo. Il cane del fucile si alzò con uno scatto, la doppia canna minacciosamente puntata alla tempia di Hisashi. «Alza le mani, Clanton» ringhiò Sean.
Paralizzato! Nobu non osò fare una mossa, Hisashi invece si tirò indietro nello stretto corridoio, il fucile tuonò, Bob si coprì la testa con le mani, e poi nel corridoio risuonò il gemito di Hisashi colpito, aprì gli occhi, alla gamba per fortuna. Un tonfo. Hisashi a terra.
«Non sparare!» Era la sua voce?, non si udiva. Deglutì varie volte, a mo’ di singhiozzi.
Sean lo guardò – inespressivo. Approfittando della distrazione, Nobu raggiunse Hisashi e gli si parò davanti. «Non sparare!» gridò, le braccia aperte, novello Cristo di fronte al fucile che doveva crocifiggerlo.
Hisashi gridò: «Stupido! Vattene!», e poi un nuovo urlo: Aya, che si era destata.
La pistola di Hisashi si levò contro la ragazza. «Se non abbassi il fucile l’ammazzo!»
«Che diavolo credi di fare?» gridò la ragazza. Sollevò un piede e gli inflisse un calcio, e più per la sorpresa che per la violenza la pistola venne sbalzata via, sul pavimento, rotolò e infine si arrestò contro il muro.
Nobu era in preda a un tremito incontrollabile. «Ce ne andiamo non sparare per l’amor di Dio Sean non sparare non sparare» gridò, pregò, piagnucolò, non lo sapeva più. La mano di Sean si chiuse intorno al suo polso e lo strattonò in piedi – Dio che male – lo tirò a sé e lo scaraventò nella camera. Richiuse la porta. Sbam.
«Esci da questa casa, Ash Clanton, o ti ficco un’altra pallottola in testa.»
I battiti impazziti del cuore gli stavano facendo perdere la ragione. Si aggrappò alla porta, la graffiò con le unghie, ma era bloccata.
«Senza mio fratello non vado da nessuna parte!» ringhiò Hisashi, oh, Hisashi, perché ho pensato così male di te?
«Fammi uscire! Fammi uscire!» gridò, prendendo a pugni la porta.
«Non gli farò niente» sibilò Sean. «Al contrario di voi banditi, io ho una parola sola. Fuori!»
«Te lo sbatterai come il finocchio che sei!» ruggì Clanton, inferocito.
«FUORI!» Un colpo – il cuore di Nobu tremò – che si piantò sul pavimento accanto alla mano del bandito – un colpo dimostrativo.
«Vai via, Hisashi!» gridò, disperato.
Seguì un silenzio quasi assoluto – poi sentì i passi zoppicanti di suo fratello allontanarsi con lentezza esasperante, e: «Controlla questa porta, Aya». I passi di Sean, più veloci, scortarono Ash Clanton fino al piano di sotto.
Sentì Aya sospirare profondamente. «Che sciocchezza che avete fatto, Bob, che sciocchezza…» La sua voce morbida e fatta di sonno frusciò al di là della porta.
E non lo sapeva, forse, lui? Chiuse gli occhi. Pungevano come non mai.
Sean richiuse il lucchetto che sprangava le porte del saloon. Era stato scassinato con maestria, la stessa con la quale Nobu avrebbe aperto lo stanzino, se non li avesse fermati in tempo. Già, lo stanzino… solo lui poteva sapere… e dire che Sean si era perfino dimenticato di averglielo detto, una volta.
È un bandito, Sean. Non dimenticarti che è un bandito.
Non aveva voluto ascoltare Keith. Si era rifiutato di ascoltarlo. E adesso ne pagava le conseguenze.
Raggiunse Aya e le posò una mano sulla guancia, cupo. «Vai a dormire.»
«Che gli vuoi fare?»
«Stai tranquilla.» Le diede un bacio in fronte. Quel cane d’un Clanton! Minacciare sua sorella… Aveva perso dieci anni di vita – ma Aya era più uomo di quel pendaglio da forca, altroché. «Vai a dormire. Non preoccuparti.»
«Oh, non sono preoccupata» sospirò Aya. Si allontanò verso la sua camera e poi vi rientrò, stringendosi nella camicia da notte leggera, perché non aveva fatto in tempo neppure a indossare una vestaglia.
Avrebbe voluto raccogliere i pensieri, Sean, ma in verità non aveva pensieri da raccogliere. Solo uno, martellante: anche lui. Anche lui. Avrebbe voluto prendere il muro a testate.
«Lo so che vuoi ammazzarmi. Avanti, fallo. Non ho paura di te.»
Non si era aspettato una frase del genere. Non si era aspettato nulla.
Nella non-luce della notte, Bob Clanton aveva una sua singolare bellezza. Lo guardava di tre quarti, di sbieco, le spalle alla finestra da cui proveniva il debole chiarore, unica illuminazione della stanza. Aveva i pugni serrati e il viso contratto. Il cappellaccio cui teneva tanto non c’era, perso chissà dove, e i capelli neri gli ricadevano in due morbide frange sugli occhi cupi.
Probabilmente lo odiava.
«Perché?»
«Muoviti» sibilò il più giovane. «Tanto se non mi ammazzi mi consegni agli Earp. Meglio impallinato che impiccato.»
«Smettila. Non ti voglio ammazzare.»
Gli occhi di Bob ebbero un cedimento – uno solo, brevissimo. Poi ripresero il controllo. «Allora aveva ragione mio fratello» sussurrò, con voce strana, gutturale. Distolse lo sguardo, gettandolo oltre la finestra, ai campi deserti dell’orizzonte. Parve sul punto di dire qualcos’altro, poi rinunciò.
I pugni tremavano.
«Ti ho chiesto perché» insistette Sean, posando delicatamente il fucile in un angolo.
«Perché!» Bob si rivoltò come una vipera. «Te l’avevo detto, Sean, io te l’avevo detto! Sono un Clanton. Clanton» scandì, ferocemente, con una cattiveria che gli fece male. «E questo è quello che fanno i Clanton.» Le labbra si tesero in un sorriso storto. «Rubano. Ammazzano. Tradiscono. Sei contento, ora, Sean? Ti ho dimostrato che avevo ragione io.»
«… sì. Pare proprio di sì» mormorò Sean, desolato.
Distolse ancora una volta gli occhi. Non aveva senso, quella conversazione. Gli dicesse cosa voleva fare di lui – fosse anche la cosa peggiore, quella che aveva predetto Hisashi – solo lo dicesse, e lo facesse in fretta. Non ce la faceva più a stare in quella stanza.
«Muoviti» sibilò, con voce malferma. «Dimmi cosa vuoi.»
«Io avevo creduto che tu fossi diverso» disse Sean, «perché di te avevo solo bei ricordi.»
Nobu strinse i denti. Cosa voleva dimostrare? Cosa voleva dirgli?
«Io ero convinto che non sarebbero riusciti a farti diventare come loro.»
«Allora si vede che lo ero già» ribatté, sarcastico.
«E quando parlavamo al saloon… qualche giorno fa… anche allora…?» Non terminò la frase.
«Sì.»
Sean ebbe un sorriso lieve – amaro. «No. Questo non è possibile.» I suoi occhi nocciola lo incatenarono a sé. «Altrimenti l’avrei capito» concluse, con disarmante tranquillità.
«Tu?» lo apostrofò Nobu, con un sorriso tirato e falso. Ridacchiò, nervosamente. «Tu non mi conosci.»
«Credi?» Lo raggiunse in due passi, due delle sue larghe falcate. Era più alto di lui, e gettò la propria ombra sul suo viso. «Ne sei convinto, Bob?»
Si tirò indietro, di scatto. Le sue dita sulle labbra… il fuoco di sentirsi sfiorato così dolcemente… «Smettila. Non mi interessa. Non… non voglio saperlo!»
Voglio andare via. Voglio scappare via. Lasciami andare, Dio, lasciami andare! Che vuoi da me?
«Cosa non vuoi sapere?» mormorò Sean, senza toccarlo.
Non rispose. Voleva che si allontanasse, ma Sean avanzò di un passo.
«Che cosa ti hanno fatto, Bob? Perché non vuoi dirmelo?»
«Non ci provare» sibilò. «Non ci provare neanche. Non attacca.»
«Cosa, Bob…?» Gli passò due dita tra i capelli, riportando l’ala sinistra dei capelli corvini dietro l’orecchio.
Quel calore… lo stesso. Si azzannò la lingua, ferocemente, per ridestarsi dall’incanto. Che gli stava facendo?
«Perché non sei venuto, oggi? Ti avevo chiesto di tornare…»
«Non… non volevo» mormorò. «Non potevo…»
«Hike ti ha punito?»
Smettila, smettila, non voglio parlarti! Non voglio dirti che… che…
«Lasciami andare, Sean.»
«Hai paura… di me?» Era sorpreso, nel dirlo.
«Lasciami andare» ripeté, in tono più fermo. «Devo vedere come sta Hisa. Se non vuoi ammazzarmi e non mi denunci, devo tornare a casa.»
Ecco. Aveva parlato con calma e logica. Adesso Sean l’avrebbe ascoltato.
«Perché non sei venuto, oggi?» ripeté invece l’altro, più lentamente.
Nobu inspirò. Gli pareva di non fare un passo avanti né indietro. La mano di Sean era ferma a mezz’aria, prossima al suo orecchio.
Deglutì. Poteva anche dirglielo, ormai. Che importanza aveva? Qualunque cosa fosse rimasta tra loro era già andata in frantumi. «Se mi trovano con te ti ammazzano» bisbigliò, e gli tremò la voce.
Il viso di Sean si incupì. «Perché?»
«Perché… perché… Sean. Basta. Lasciami andare.» Fece per tirarsi ancora indietro, ma con il tallone toccò il muro. Capolinea. Posò una mano gelida sul davanzale.
«Mi spieghi perché tremi, Bob? Non voglio farti niente. Calmati» disse il proprietario del saloon, ancora più cupo. Il suo sguardo si schiarì appena. «Non ti fidi, vero?»
Nobu lo guardò con la confusione e l’apprensione negli occhi.
«Non ti fidi di me» continuò Sean, con voce gentile.
«Finiscila!» disse Nobu, e c’era un che di supplichevole nella sua voce.
La mano di Sean si posò sui suoi capelli, stranamente leggera, scese in una carezza lungo la guancia, il collo… il petto. Si arrestò lì. «Non è assurdo, Bob? Ti conosco – ti conosco davvero – solo da pochi giorni, ed io non prendo le persone alla leggera – non l’ho mai fatto. Eppure… io…» Prese la mano del ragazzo nella sua, ne districò il pugno e la strinse forte, mentre si chinava sulla sua bocca per strappargli un bacio.
Le labbra di Sean erano morbide e calde. Le sentì forzare le proprie, e non ce la fece a resistere. La lingua di Sean – umida, calda, guizzante – gli si intrufolò in bocca con la dolcezza di un saluto.
Neppure se ne accorse, ma si era aggrappato alle sue spalle.
Si lasciarono lentamente, ma un sottile filo di saliva li univa ancora, resistente. La sinistra di Sean salì a spezzarlo, ad asciugare le labbra del ragazzo umide di saliva mista. Poi le baciò di nuovo. Nobu gli si avvinghiò addosso come un’edera a un cancello.
«Resta con me, stanotte» mormorò il più grande.
«Io… non so se…»
«Non ti faccio niente…» insistette, posandogli un bacio leggero nell’ansa del collo.
«Pensi che ho paura di te?» sibilò il ragazzo, offeso.
Gli occhi di Sean si appuntarono sui suoi. «Resti?…»
Quelle labbra e quei morsetti leggeri sul collo lo stavano facendo impazzire. Si strinse più forte a lui, ma forse non fu una mossa saggia.
«Dio… è la prima volta che faccio questo effetto a un ragazzo…» ridacchiò Sean, lasciando aderire maggiormente i loro corpi.
«Bene…»
Saperlo, stranamente, rassicurò Nobunaga. L’idea di essere il primo, per lui, ammantava di unicità quel che stavano facendo. Chiuse gli occhi e appoggiò la guancia sul suo petto.
«Vieni…»
Sean lo accompagnò fino al lettone, un lettone grande come Nobu non ne vedeva da tempo, e aspettò che il ragazzo si fosse seduto prima di accostarglisi e piegarsi lentamente su di lui. Il letto era ancora tiepido… Nobu ricordò che Sean stava dormendo, prima che arrivassero loro. Il proprietario del saloon indossava un lungo camicione da notte assai poco eccitante – ma che aveva l’innegabile pregio di potersi sfilare in un attimo.
I Clanton… i Clanton… non aveva il tempo di pensarci. La mano di Sean che lo sfiorava sotto la camicia, delicata quanto non avrebbe pensato possibile, spazzò via dalla sua mente Akira, Hana, e perfino Hisashi ferito. Scusatemi, scusatemi. Non ce la faccio. Devo…
Montò a cavalcioni sulle gambe del suo compagno. La camicia da notte era un ben misero scudo, ma non era ancora tempo di far cadere l’ultima barriera. Si chinò sulla bocca del più grande, sentendo il reciproco desiderio strofinare e rivelarsi in una languida carezza.
«Sean…»
Con uno scatto di reni, il proprietario del saloon lo gettò riverso sul letto. Una mano bollente gli si infilò sotto la camicia, torturando un capezzolo che, per tutta risposta, si tese a supplicare maggiori attenzioni. Sean afferrò i lembi della camicia e la tirò su fino al collo, avvoltolandola in un consunto salsicciotto di stoffa; poi tuffò il viso nella carne bianca del suo torace e prese a baciare – mordere – leccare tutto ciò che gli era offerto allo sguardo.
Nobu si contorceva buffamente, in preda a brividi che non aveva provato mai. Quella camicia, così ingombrante…! Domandò a Sean un po’ di spazio, afferrò la stoffa e se la sfilò, gettandola sul pavimento.
Il suo petto, nudo e candido, aveva però un altro ingombro: la fondina sottile che conteneva il pugnale. Lo sguardo di Sean vi si appuntò, per un attimo – attimo in cui Nobu temette la sua disapprovazione – poi le dita corsero alla fibbia, la sganciarono e liberarono il ragazzo dal cuoio consunto.
In corrispondenza della fondina, la pelle di Nobu era rossa e irruvidita dallo sfregamento del cuoio. La lingua di Sean accarezzò passo passo ogni pollice di quella distesa delicata e bianca, che nessuna fondina del mondo avrebbe mai dovuto toccare, tantomeno ferire.
Bandito… d’accordo, era un bandito.
Ma lo amava.
Le mani di Nobu esitarono a lungo, poi rapidamente gli tolsero il camicione da notte. Un attimo di stasi quando il viso di Sean scomparve dentro la stoffa… poi la bocca del più grande tornò a divorare la sua. Istintivamente allargò le gambe per stringergli i fianchi con le ginocchia.
«La pistola non ti serve…» mugugnò Sean, lasciando scivolare giù una mano larga. Ridacchiò di fronte all’espressione d’un tratto seria e confusa del ragazzo. «No, non quella, tesoro…» bisbigliò, prendendo la colt di Joe Clanton e sfilandola dalla fondina. Gliela fece passare davanti agli occhi, con un sorriso dolce, poi la posò sul comodino. «L’altra te la tieni, ma sappi che mi appartiene» sussurrò, possessivo.
«Aiutami» sorrise Nobu, infilando i pollici nell’orlo dei calzoni. Da diversi minuti tentava di sfilarsi uno stivale infilando nel tallone la punta dell’altro, ma senza risultato. E le due cartucciere legate ai fianchi gli schiacciavano dolorosamente la carne nuda. «Aiutami» ripeté, in tono vagamente supplichevole. «Sean…»
Quanto gli piacesse pronunciare il suo nome, l’altro neppure lo sapeva. E avrebbe voluto che anche lui… ma c’erano altre urgenze.
Nudo e bello come un dio, Sean si sollevò e gli sfilò ambo gli stivali, poi sganciò le cartucciere e via, tutto sul pavimento con pesanti e rapidi tonfi. I pantaloni, invece, li districò con lentezza voluta ed esasperante.
«Sean… basta… Sean… muoviti» ansimò Nobu, disteso a mo’ di vittima sacrificale su quel letto troppo grande per uno, troppo piccolo per due. L’altro obbedì con un sorriso. Erano nudi entrambi, adesso, e malgrado il suo corpo bruciasse tutto, un alito di vento più freddo fece rizzare la pelle di Nobu in un brivido.
«Andiamo sotto le coperte» mormorò il più vecchio, accompagnandolo premuroso sotto le lenzuola tiepide. Il gesto con cui le lasciò ricadere sui loro corpi sancì lo stacco definitivo.
Nobu si aggrappò a lui, a comunicargli lo strazio di quell’attesa che non trovava compimento.
«Piccolo… sei bellissimo, piccolo…» mormorò Sean, abbracciandolo forte. I brividi che gli lasciava addosso non erano di freddo. «Lascia fare a me…»
Gli occhi di Nobu lo fissarono, distanti, opachi di piacere. Forse voleva parlare, ma emise solo un mugolio gutturale, a labbra dischiuse. Un verso terribilmente sensuale.
Sean lo baciò, poi si lasciò scivolare sotto le coperte, richiudendosele sopra la testa.
La carne di Bob era un tripudio dei sensi – un urlo negato lo scosse tutto, quando Sean accostò le labbra. Che si lasciasse andare… nessuno li avrebbe disturbati. Nessuno avrebbe sentito… Oh, forse Aya. Ma non aveva importanza. Lo prese delicatamente in bocca e Bob sussultò come se gli avessero sparato, si tese, si inarcò, si contorse in una frenetica danza volta a negare il piacere che sentiva, piacere colpevole, Sean lo sapeva, piacere due volte colpevole… poi, con un lungo gemito di soddisfazione, ricadde disteso tra le coperte.
Sean riemerse dalle profondità del letto con un sorriso dolce. Bob non era consapevole della propria bellezza – non immaginava neanche lo splendore che l’appagamento gli donava. La sua pelle chiara pareva brillante di una lucentezza nuova, e non erano le stelle che facevano capolino dalla finestra, a rischiararla.
Era lui. Era stato lui.
Gli premette la bocca sulla bocca, prima di ricordare che non avrebbe dovuto farlo. Si tirò indietro. «Scusa…»
Gli occhi di Nobu, da lontani che erano, si appuntarono sui suoi con un meraviglioso sorriso. Accostò le labbra e dolcemente, con la punta della lingua, raccolse una goccia di seme scivolata all’angolo della sua bocca.
«Tu…?» mormorò poi, sentendo la sua erezione premergli contro la coscia.
«Decidi tu» rispose Sean, appoggiando la guancia sul suo petto. «Se non vuoi… io…»
Nobu lo guardò senza perplessità. Era sufficientemente grande da sapere come si svolgeva l’amore tra due uomini. Hisashi, poi, con loro non aveva mai fatto mistero del ruolo assunto con Kim Earp.
Ma filtrata dalle parole di Hisashi, gli era arrivata solo una cosa sporca, rapida e violenta – senza sentimento. Con Sean era tutto diverso. Proprio ora che i suoi battiti si andavano calmando, li sentì d’improvviso aumentare di velocità e forza. E sentì che anche lui aveva sentito.
«Che c’è, piccolo?…» mormorò il proprietario del saloon, alzando su di lui due occhi interrogativi.
«Facciamo tutto» rispose, di getto, e subito arrossì. «Perché no? Io voglio. E tu…?»
«Io voglio quello che vuoi tu» sussurrò Sean O’ Connor, baciandogli le labbra.
Dio, sono perso, pensò Nobu, attorcigliandogli i capelli con le dita sottili. Ma era così bello perdersi in quel modo…! Sollevò le caviglie e le strinse alte sopra i suoi fianchi. «Dai, sbrigati…» mugugnò, sentendosi sfiorare appena, con esitazione. «Non mi faccio male, non sono mica un moccioso…» lamentò, e i primi momenti diedero ragione a lui, ma poi, quando altre dita si aggiunsero al primo, gli scappò naturale un piccolo gemito.
«Non sei un moccioso… farebbe male a chiunque…» sussurrò Sean, sulle sue labbra. «Rilassati…»
Rilassarsi, una parola. Nobu chiuse gli occhi, affidandoglisi completamente… perché, se non poteva fidarsi di lui, allora di chi…? Tre visi amati gli sfiorarono la coscienza – poi svaporarono nell’oblio, spazzati via tutti d’un fiato da un dolore atroce.
«Sean!»
«Scusami, piccolo… dovevo fare più piano… Bob…» La voce di Sean era affannosa e preoccupata. «Bob…»
«Nobu… naga» ansimò, stringendoglisi addosso, gli occhi chiusi. «Nobunaga…»
«È…»
«Il mio nome… chiamami così… va bene?» Sollevò le palpebre pesanti. «Nobunaga…» ripeté, una terza volta.
«Nobunaga…» mormorò Sean, con accento atroce. Nobu sorrise, felice. L’avrebbero corretto insieme… ce ne sarebbe stato il tempo… dopo.
«Sean… continua… ti prego» mormorò, lui che non aveva mai pregato nessuno – nessuno – neppure i suoi fratelli. «Ti prego…»
E non aveva importanza se faceva male, e ancora più perché era un tradimento, non aveva importanza, voleva quel dolore fino alla fine, voleva gustarlo tutto, e poi forse piangerne di gioia mista a sofferenza, perché in quella violenza che l’altro gli infliggeva erano i germi del piacere che l’avrebbe preso subito dopo…
Sono perso, pensò, di nuovo. Sono perso… perso… E Sean era perso in lui… il paradiso. Lo sentì gridare e alla sua voce unì la propria, lo strazio di quella mano che lo accarezzava cadenzata… avvertì un lampo di luce dietro gli occhi chiusi e poi più niente, solo il suono scoordinato dei loro respiri. La schiena inarcata si distese improvvisamente, come se i muscoli non la sorreggessero più, e Nobu ricadde senza forze sul letto. La bocca di Sean rincorse la sua e vi lasciò dentro un gemito, mentre con gioia di entrambi si liberava nel suo corpo.
«Mmm… Sean…»
O’ Connor sorrise. Nobu si era appena addormentato. Sentiva il suo ronfare leggero. Ma nel sonno l’aveva chiamato. Gli posò un bacio tra i capelli, rilassato. «Sono qui» sussurrò, indifferente al fatto che l’altro non potesse sentirlo.
Invece Nobu si mosse e dopo un attimo era sveglio. «Sean…» bisbigliò, accarezzandogli il torace con una mano. «Sean…» ripeté, infelice.
«Che c’è, piccolo?» mormorò il proprietario del saloon.
«Io non volevo rubare in casa tua… gliel’ho detto, ad Hike, gliel’ho detto, ma non mi ha ascoltato…»
Sean sorrise, intenerito. «Non importa… non ci pensare.»
«… abbiamo bisogno di soldi. È stato per questo» mormorò Nobu, con un groppo in gola.
«No.» Sean gli sollevò delicatamente il viso. «Tu non hai più bisogno di niente.»
«Non mi dire questo, lo so cosa pensi, no» ribatté Nobunaga. «Io non li lascio i miei fratelli!»<br>
Sean sospirò. «Va bene, come non detto.» Distolse lo sguardo e un silenzio agitato, ostile, calò tra loro. Poi parlarono insieme:
«Quanto vi serve?»
«Devo andare via.»
Si guardarono. «Quanto vi serve?» ripeté Sean, lentamente.
Nobu scosse la testa. «Non la voglio da nessuno la carità, e poi da te… da te proprio no…»
«Non vuoi restare con me e pretendi che ti lasci fare la fame coi Clanton?» sbottò Sean. «Tu li accetterai fino all’ultimo centesimo.»
«No… non voglio.»
«Non è la carità, Dio santo! Se ti lascio andare via senza un penny poi mi ammazzo per l’ansia. Nobunaga. Per favore.» Gli posò un bacio sulle labbra. «Fammi contento.» Un altro sulla punta del naso. «Che ti costa?»
Il ragazzo gli artigliò i capelli – se li sarebbe lasciati crescere, fino al culo e più giù, si ripromise, quanto adorava sentirseli stringere così – e gli si attaccò alla bocca in un bacio feroce. Dio, che piccola belva. C’era ancora tempo…? Sì che c’era, sì…
Nobu lo lasciò e si sollevò in ginocchio di fronte a lui, le coperte che scivolavano morbide giù dalla sua pelle lattea. «Picchiami» gli disse, con voce chiara.
Sean si incupì. «Non mi piace farlo in quel modo, Nobu.»
«Ma cos’hai capito?» Il viso di Nobu si trasformò in un’unica, accesa chiazza rossastra. «Non voglio… non… porco!» Gli tolse il cuscino da sotto la testa e glielo sbatté forte in faccia, più volte, scoppiando a ridere improvvisamente quando una tempesta di piume d’oca prese il volo sopra il letto.
«Nobu… ma… io…»
«No.» Nobu mise giù il cuscino, mentre il sorriso gli scompariva dalle labbra. «Devi picchiarmi, Sean. Se torno a casa tranquillo con i tuoi soldi, poi cosa gli racconto? Così posso dire che abbiamo lottato un po’.»
Una pioggia di piume candide gli aveva imbiancato i capelli. Sean si tirò su e gliele tolse, una per una, in punta di dita.
«No, non sono d’accordo. Ti dovrei pestare? Io? Non se ne parla.»
«Sono abituato alle botte» disse Nobu, tranquillo. Scrollò il capo, facendo cadere tutte le piume residue. Prese la sua mano e la chiuse a pugno. «Dai, Sean… Non mi fai niente, non devi mica rompermi le ossa. Ora ti spiego dove restano i segni più grossi…»
«Devo farlo per forza?» borbottò Sean, preoccupato.
«Se non vuoi che poi Hike ammazza me e te insieme, ma per davvero» rispose Nobu, cupamente.
«Se ti alza mani gli spacco la faccia» sibilò Sean.
«È a me che devi spaccarla, Sean…» replicò Nobunaga, con un sospiro. «Scusami» disse poi. E gli schiantò un pugno sul naso, che cominciò a sanguinare abbondantemente.
«Ah… merda!» sbottò Sean.
«Scusami» ripeté Nobu, «ma tu non puoi stare senza un livido, altrimenti non mi crede. Dai, restituiscimelo…»
L’operazione fu penosa per entrambi, ma alla fine Nobu stimò di essere sufficientemente malconcio per tornare a casa. Avevano un po’ di lividi a testa, e sangue versato dal naso opportunamente sparso per la faccia e nel collo.
Dolorante, Nobu si rivestì.
«Ti ho fatto troppo male?»
Alzò gli occhi. Sorrise. «Sto una favola. Tranquillo.» Gli baciò le labbra, ma sentì solo il sapore metallico del sangue. «Dici che faccio paura?»
«… sì» borbottò Sean, cupo. «Se me lo chiedi un’altra volta vado e ammazzo tuo fratello, altro che alzarti mani!»
Nobu lo abbracciò, appoggiandogli la guancia sul cuore. Emise un lento, stanco sospiro. «Appena ci riesco torno. Va bene?»
«Nobu…»
«Mmm?»
«Mi ami?»
Lo guardò negli occhi, stupito. Era stato tutto un gigantesco errore – lo sapeva. Ma nonostante tutto non riusciva a pentirsene. E gli rispose nel modo più sincero che poté: «… non lo so. Va bene come risposta?»
«Me la farò andare bene» sussurrò Sean, con voce dolcemente esausta.
Dio… che male.
La mente di Hisashi Clanton era in fiamme per il dolore. Gli pareva che tutta la sua coscienza, anche quel poco che doveva servirgli per arrancare faticosamente un passo dopo l’altro, fosse concentrata in quel punto… in quella parte lacerata del suo corpo che urlava senza sosta.
Si fermò contro un muro, ansimando, la destra premuta contro la gamba. Quel pallettone di fucile, ma quant’era grosso? Non era la prima volta che prendeva una pallottola, ma stavolta ne sarebbe morto. Ne era certo. Morto. Si sarebbe accasciato contro quel muro… vi appoggiò la fronte… e poi la morte l’avrebbe preso.
Dio… che male…
No! Bestemmiò tra i denti, più volte. Nobu era rimasto prigioniero di quel… quel… doveva arrivare a casa, poi con Hike gli avrebbe fatto salire quel suo dannato fucile su per il culo. Che non osasse toccarlo, suo fratello! Un cedimento improvviso della gamba sana e sbatté contro il muro ruvido con tutto il fianco. Strabuzzò gli occhi. La luce della finestra poco distante gli parve tremolare, sfocarsi e poi spegnersi d’un colpo. O erano i suoi occhi che non funzionavano più bene?
Dio!
Non doveva, non doveva lasciarsi andare, ma stava scivolando a terra. «Akira… dove cazzo… sei…»
Poi un’ombra gli oscurò del tutto la vista. Earp! Non era Fletch Earp, quello che aveva davanti? Sgranò gli occhi, ma non gli riuscì di muoversi. La gamba… O’ Connor… Nobu… Nobunaga… dov’era la sua pistola? Tastò la fondina… vuota! «La mia…»
«Questa volta non te la cavi, bastardo.» Una suola dura gli schiacciò lo stomaco. Un ghigno. Fletch Earp? Era morto, lui era morto… l’aveva ammazzato Akira… Akira… «Comincia a pregare, Clanton.»
Il cane della pistola si sollevò con un leggerissimo scatto.
PERSONAGGI E INTERPRETI (in ordine di apparizione):
Ricky Earp ------> Hiroaki Koshino
Hike Clanton ------> Akira Sendo
Ash Clanton ------> Hisashi Mitsui
Kim Earp -------> Kiminobu Kogure
Mitch Clanton ------> Hanamichi Sakuragi
Kay Earp --------> Kaede Rukawa
Bob Clanton ------> Nobunaga Kiyota
Ray Earp -------> Ryota Miyagi
Mean Casemite ------> Minori Kishimoto
Josh Meenham ------> Tsuyoshi Minami
Keith McPerson ------> Kitcho Fukuda
Geene McPerson ------> Soichiro Jin
Sean O' Connor ------> Shin'ichi Maki
Aya O' Connor ------> Ayako (ma ce l'ha un cognome, 'sta ragazza???)
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