É forse la fic cui mi sto dedicando con maggiore impegno... per la difficoltà del genere (western) che non ho mai trattato! La dedico a Mercy che mi ha aiutato con i nomi e che per ora studia lontano lontano!!! ^*^


Sfida all'OK Corral
di Fiorediloto

TITOLO: Sfida all'OK Corral
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 4/???
RATING: AU/NC-17
PAIRING: tutti i canonici
DISCLAIMERS: I personaggi non sono miei ma del divino Inoue!!!
I personaggi stanno sprofondando sempre più nell'OOC.... ma non ci fate caso, mi servono così!!!
In questo capitolo mi preparo la strada per l'HanaRu (o RuHana, non ho deciso), ma non aspettatevi molto da questa coppia perchè sì, la metterò, ma la detesto profondamente!!! (nonmiuccidetenonmiuccideteperfavoreeeee)
Questo cap. è più breve degli altri, ma finiva esattamente dove doveva finire. Ho in mente grandi cose per il prossimo. Bacio collettivo e..... COMMENTI!!!!!!



CAPITOLO QUARTO: LA MANCANZA


Kay Earp lasciò la casa di famiglia in preda a una strana agitazione. Non ne capiva il motivo. Aveva dormito benissimo, e niente aveva turbato lo scorrere del giorno prima. Il suo corpo era sveglio e rilassato. La mente tranquilla.
Ma sentiva palpitazioni sospette all’interno del torace. Afferrò il calcio della pistola e la sguainò, di scatto, puntandola nell’aria di fronte a sé. Tutto regolare. Neanche un tremito. Rinfoderò, meditabondo. Il contenuto della sacca tintinnava.
Lo spiazzo che aveva rivendicato per sé sarebbe stato abbandonato, come al solito – non sapeva se ciò fosse dovuto alla sua inutilità, uno dei mille spiazzi di deserto della città inospitale, o perché si fosse sparsa la voce che vi si recava lui. Ma una volta giuntovi, dovette ricredersi. Il rumore inconfondibile di uno sparo lo fece trasalire.
Colt. Modello vecchio, ma di buona fattura. Richiedeva notevole forza e mano ferma.
Era infastidito dall’invasione, e il fastidio gli avrebbe suggerito di andarsene. Tuttavia era anche incuriosito, e la curiosità lo spinse a muovere i primi passi nello spiazzo.
Un lampo rosso fiammante, riflesso dal sole, gli ferì lo sguardo. Perse un battito. Mitch? Rimasticò e ingoiò la propria curiosità in un solo, ingombrante boccone. Che diavolo ci faceva quella piaga d’un Clanton nel suo spiazzo?
Girò sui tacchi, deciso a evitare di rovinarsi la giornata, ma le bottiglie chiuse nella sacca sbatterono e tintinnarono ferocemente.
«Chi c’è?»
Si morse la guancia, seccato. Non sapeva perché, ma quella sottospecie di idiota si era messo in testa di ammazzarlo. Anzi, lo sapeva benissimo perché. Perché era un do’hao. Tormentò la guancia tra i denti, rimuginando. Che fare? I duelli di prima mattina gli facevano passare l’appetito.
«T’avanza mica un colpo?»
Corrugò la fronte. Quando l’avesse visto in faccia, do’hao com’era, l’avrebbe sfidato subito. E lui non si sarebbe potuto sottrarre. «No» rispose.
«Hai due cartucciere piene» gli fece notare il rosso, che fissava le due cinture di proiettili che gli stringevano i fianchi.
Kaede proseguì per la sua strada.
«Ehi ehi!» gridò il rosso. Gli corse dietro – sentì gli stivali marcare la terra polverosa – lo raggiunse e gli si parò davanti, incrociando le braccia al petto. «T’ho chiesto un proiettile» ripeté Mitch Clanton, con una voce che nelle intenzioni avrebbe voluto suonare minacciosa.
Kaede lo guardò negli occhi per un lungo istante. Mitch aveva grandi occhi nocciola, profondi e mutevoli come mari in tempesta, screziati d’oro. Non l’aveva riconosciuto. Possibile? Stava leggermente ingobbito benché non vi fosse differenza d’altezza tra loro, probabilmente per abitudine al resto dell’umanità, che lo guardava dal basso in alto. Da un orlo di camicia strappata occhieggiavano gli addominali perfetti, e due riccioli di acerba peluria rossastra. «A che ti serve uno solo?» domandò, scostante.
«Fatti i fattacci tuoi e dammelo» sbottò Hanamichi, impaziente.
Con la coda dell’occhio, Kaede scorse le bottiglie ormai ridotte a cocci sulla pila di mattoni apparecchiata più in là. Una sola, intatta, raccoglieva il riverbero del sole.
Senza degnare Mitch di una nuova occhiata, fece dietro-front e raggiunse la sua pila di mattoni. La bottiglia era una di quelle squadrate che contenevano il whisky. Posò la sacca sui cocci infranti e la aprì.
«Ma che fai?»
Mise in fila le proprie bottiglie accanto alla superstite. Se gli avesse dato il suo proiettile e l’avesse lasciato sparare se lo sarebbe tolto dai piedi, probabilmente, ma la curiosità si era fatta forte, e poi… voleva vedere fino a che punto sarebbe arrivata la dabbenaggine del rosso.
Aveva creduto di trovarsi di fronte un ragazzino magro, alto al più quanto suo fratello Ricky. Invece era un gigante. Nel corpo a corpo l’avrebbe vinto senza difficoltà. «Tieni» disse, concluso il suo lavoro, sfilando una cartuccia e lanciandogliela. «Spara.»
Hanamichi sistemò il colpo nel caricatore, poi andò a piazzarsi a una sessantina di passi dal bersaglio. Kaede incrociò le braccia al petto, osservando.
«Ma tu lo sai chi sono io?» domandò Mitch, a voce alta.
«Dovrebbe interessarmi?»
«Certo, perché io sono il miglior pistolero di Tucson!» rispose l’altro, con alterigia, e poi fece fuoco.
La bottiglia tintinnò, tremando leggermente, come scossa da un alito di vento.
Mancata.
Una costernazione assoluta e imbarazzata tinse di fuoco le guance di Mitch. «Quello era un tiro di prova» avvisò in tutta fretta.
Kay aveva una gran voglia di ridere – o di cacciarlo a calci dal suo spazio, non sapeva. Certo è che poche persone riuscivano a fargli nascere un’ilarità tanto improvvisa. Ma Mitch c’era sempre riuscito.
Do’hao, pensò. Che bandito sei se giri senza proiettili?
Constatato che l’altro non l’aveva riconosciuto, si sentiva ora molto più tranquillo. Gli si accostò e sparò sei colpi, in successione – l’intero caricatore.
Quattro bottiglie esplosero in cocci ai piedi del basamento improvvisato.
«Ne hai mancate due» lo sfotté Mitch.
In realtà le aveva mancate di proposito. E non per sminuire l’umiliazione dell’altro, ma per non fargli nascere neanche un sospetto che lui fosse sé stesso.
«Insomma, possibile che non sai chi sono?» borbottò Mitch, gonfiando il petto.
Difficile. Con quei capelli da irlandese… Sistemò nuove cartucce nel caricatore, senza degnarlo di uno sguardo. «Hn.»
«Io sono Mitch Clanton, il miglior pistolero…»
«Ma sta’ zitto» sbottò dando una scossa al tamburo, che frullò un attimo prima di assestarsi nella chiusa della pistola. Puntò davanti a sé, fissando le bottiglie superstiti. Quante ne buttava giù, stavolta? Il rossino si stava rivelando una discreta rottura di scatole. Non era abituato a sprecare proiettili. «Tiè.» Gli lanciò sei cartucce e attese che le sistemasse tutte.
«Vuoi sfidarmi, volpastra? Ah ah! Perderai miseramente!» sghignazzò il bandito.
«Hn. Dieci bottiglie. Chi ne butta giù sei.»
«Le butterò giù tutte e dieci, ah ah ah!»
Kaede lo guardò con un sopracciglio inarcato.
«Come farò, ti chiedi? Ne butto giù due con un solo proiettile! I dilettanti come te non avranno neanche idea…»
«È per questo che prendi l’aria tra una e l’altra?» osservò Kay, tranquillo. Non attese la replica. Sollevò la pistola e «Via» mormorò.
Colpì le sue sei bottiglie senza sforzo – poi guardò quelle dalla parte di Mitch. Tre erano ancora in piedi, ma aveva sentito distintamente sei colpi anche da parte sua.
Si passò il dorso della mano sulla fronte. Il sole batteva impietoso, quella mattina.
«I tuoi proiettili hanno qualcosa che non va» borbottò Mitch Clanton, guardando con sospetto la sua ordinata fila di cocci.
Proiettili comandati, pensò Kaede. Anche quand’erano bambini, una volta, se n’era uscito con quella scusa. Sempre lo stesso do’hao.
Eppure era rassicurante, in un certo modo, non averlo trovato cambiato. I suoi occhi – uguali a un tempo – non erano gli occhi di un assassino. Non erano gli occhi di Hike – e li aveva visti bene, gli occhi di Hike, freddi come il ghiaccio, grigi come se il colore, e la vita, li avessero abbandonati da tempo. Li ricordava azzurro intenso, gli occhi di Akira Clanton.
«Conosci Kay Earp, tu?»
Alzò il viso. «Che vuoi da lui?»
Mitch accarezzò la canna della propria colt, lentamente. Parve pensieroso un attimo. «Va a dire in giro di essere più bravo di me, non è così?»
«Hn.»
«Come pensavo… quel cane! Cinque anni non gli hanno fatto passare la boria!» Un fuoco strano si era acceso negli occhi di Mitch. Kay lo guardò senza capire. Do’hao. Quando si sarebbe stancato di inventarsi un mondo tutto suo?
«Lo conosci o no?» ripeté, guardandolo negli occhi.
Gli occhi di Kaede erano di un blu tanto profondo che sembrava nero. Earp distolse lo sguardo. «Di vista.»
«E com’è? Io l’ho visto l’ultima volta cinque anni fa… era un soldo di cacio e pure brutto, pallido come un morto, con le orecchie a sventola.» Ghignò. «Le prendeva sempre.»
«Mpf.»
Kaede gli voltò le spalle e andò a raccogliere la sacca. Era ancora piena per metà. Per colpa del rossino, il suo allenamento quotidiano era andato in fumo. E poi quand’erano bambini era lui a prenderle – sempre.
«Cos’è, ti sei spaventato?» lo sfotté Mitch. «Già scappi?»
Kay si volse a lanciargli uno sguardo penetrante. «Che hai detto?»
«Ti è passata la voglia di sfidarmi, eh? Come pensavo… sei solo un dilettante! Ah ah ah!»
Una pallottola fischiò a un pollice dal suo orecchio destro, lasciandosi dietro una scia d’aria fresca. Una gocciolina di sudore scese lenta lungo la tempia di Mitch Clanton. «Ma… ma… sei impazzito?» ruggì.
«Idiota» commentò Kaede – e aveva dovuto trattenersi, spasmodicamente, dal rivolgergli la parola più spontanea, che avrebbe subito riconosciuto.
Rinfoderò la pistola. Era buffo, il do’hao, ma non era cattivo.
E in quel momento un pugno si schiantò contro la sua mascella, mandando la sua lucidità a far compagnia agli dèi. Barcollò, scuotendo forte la testa, poi piantò i piedi a terra e si massaggiò la mandibola dolorante. Coniglio! Gli si scagliò addosso e sapeva che avrebbe perso, ma non poteva lasciargli passare impunita quella vigliaccata. E la dignità, Mitch Clanton? Dove l’hai lasciata la dignità, Mitch Clanton? Bandito di strada…!
Gliene diede più che poteva – era sempre così, non aveva mai sopportato di perdere, il rosso. Ma alla fine fu lui a soccombere. Si trovò steso sulla schiena – un dolore sordo lungo la spina dorsale – con il ginocchio sinistro di Mitch piantato nello stomaco.
Non riusciva a respirare. «Ah… do’… Mi… le…va…ti…»
La pressione diminuì leggermente, poi venne sostituita da tutto il peso del bandito, che gli si sedette comodo sul basso ventre. Così poteva respirare, ma appena quanto bastava per non morire soffocato.
«Strano, mi sembra di averla già fatta, ’sta cosa» commentò Mitch, ansante.
«Idio…ta… leva…ti!»
Mitch lo guardò con attenzione. «Come hai detto di chiamarti, tu?»
«Non l’ho… detto… idiota!» ruggì Kaede, bloccato sotto il suo peso nient’affatto lieve.
«Embè? Come ti chiami?» insistette. Poi ghignò. «Pensa se viene fuori che tu sei Kaede… sai le risate!» Si alzò dal suo ventre e gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi.
Kay non la prese. «Idiota» ripeté, acidamente.
«Come? Ti chiami “idiota”?» sghignazzò Mitch Clanton.
Ma bravo il nostro rossino. Ha imparato pure a rispondere alle battute.
«Fottiti.»
Dolorante, ma dritto sulle gambe per non mostrare la minima debolezza, raccolse la sacca e se la buttò in spalla. Trattenne un gemito tra i denti. L’aveva ammaccato per bene, quel figlio d’una baldracca.
«Batti in ritirata, eh?» sbuffò Mitch, i pugni sui fianchi. «Se vedi Kay Earp, riferiscigli da parte mia che ha i giorni contati! Io lo batterò!»
Prima nevicherà all’inferno, pensò Kaede, ferocemente. Se Hanamichi avesse avuto veramente la dabbenaggine di sfidarlo, non sarebbe intercorso un attimo tra il momento in cui Kay avrebbe sguainato la pistola e quello in cui una lucida pallottola di piombo si sarebbe piantata nella fronte del rossino.
Le palpitazioni anomale erano cresciute di volume e d’intensità, e vi si era unito un senso di disagio convulso allo stomaco.
Lo imputò alla scazzottata.

«Capisco che tu mi voglia bene, Ryota, ma sono troppo giovane per sposarmi.»
«Se mi risponde così mi ammazzo» mormorò il più basso dei gemelli, in tono cupo.
Kiminobu scosse la testa, le labbra rischiarate da un sorriso gentile. Era la prima volta da quando era tornato che qualcosa lo faceva davvero sentire bene – fosse anche la gioia d’un altro, come in quel caso.
Prese la scatolina che il fratello gli porgeva e ne trasse fuori l’anello, con la massima attenzione.
Era molto, molto bello.
Lo rimise a posto. «Ah, ne dubito.»
«Che mi ammazzo?»
«Che Aya ti dirà di no.»
«E tu come fai a dirlo?» borbottò Ryota.
Kiminobu corrugò la fronte. «Ma tu vuoi essere incoraggiato o scoraggiato, fammi capire?»
«Ah, è che non lo so… Io… e se mi dice di no? Che faccio? Mi sparo?»
«Ma se le hai comprato l’anello vuol dire che hai una certa ragionevole certezza di…» Si fermò, bloccato dall’espressione stralunata e colpevole del fratello. «… o no?»
«Ecco, io… diciamo che… ecco…», il fratello minore era avvampato, «diciamo che io ho dei… sospetti… diciamo fondati, sì… fondati sospetti che… lei… lei… lei è bellissima, Kiminobu» ululò, affondandogli la faccia nell’incavo del collo. «Se mi dice di no mi ammazzo, giuro che mi ammazzo…»
Kiminobu strabuzzò un attimo gli occhi, stretto nell’abbraccio inaspettato del fratello, poi lentamente riprese possesso del proprio corpo. Gli batté qualche colpetto sulla spalla, dolcemente. «Su, su» borbottò. «Se non ti volesse bene a quest’ora… uh… ti avrebbe già mandato al diavolo… io credo. Animo… se vuoi sposarla dovrai chiederglielo, prima o poi, no? E poi avrà tanti corteggiatori, però non si è ancora impegnata, no?»
Ryota rialzò il capo, annuendo. «Hai ragione, Kiminobu. Hai ragione come sempre. Devo mostrarmi… forte. Forte e deciso.»
«Bravo, Ryo. Ora… ti dispiace lasciarmi?»
Il fratello si scostò subito. Finalmente libero, Kiminobu tornò a voltarsi verso il tagliere, dove stava affettando un mazzo di verdure.
«Va bene» disse Ryota, lasciandosi cadere su una sedia. «Va bene. Dopo pranzo vado… a parlarle.»
«Perché dopo pranzo?»
«Perché ora ci sarà un sacco di gente, al saloon. Voglio…» deglutì, «che sia un momento intimo.»
«Stai tranquillo. Sarà tutto perfetto.»
«Va bene… va bene» ripeté il fratello, sottovoce. «Allora…» si schiarì la voce, «… Aya. Mia dolce, bellissima Aya…»
«Bell’inizio, continua» lo incoraggiò Kiminobu, riprendendo ad affettare.
«Bello, vero? Dunque… Aya. Sin dal primo momento che le mie pupille si sono posate su di te, ho capito di amarti. Amo tutto di te. I tuoi capelli, la tua faccia, il profumo della tua pelle… i tuoi…»
«… occhi?»
«… bellissimi seni…»
Kiminobu si voltò di profilo, un sopracciglio inarcato.
«I tuoi seni sono il capolavoro di Madre Natura, e secondo me lei stessa te li invidia un po’. Vorrei essere di nuovo bambino, Aya, per succhiare i tuoi seni e il tuo latte, e…»
Kiminobu si schiarì rumorosamente la voce.
«E… non ti piace, Kim?»
Il fratello scosse la testa, lentamente. «Ryota… le donne hanno bisogno di dolcezza…»
«Certo, dolcezza! Il latte! In questo modo le faccio capire che voglio che sia la madre dei miei figli!» esclamò il fratello, infervorato.
«Ryota… non credo che parlare dei suoi seni sia il modo migliore per farle capire che vuoi dei figli» gli fece notare Kiminobu, discretamente.
Ryota sbuffò. «E allora?»
«Che ne dici di togliere i seni e parlare dei suoi… ehm… occhi?»
La fronte di Ryota si corrugò in così tante pieghe che per un attimo parve un mastino.
«Quelli veri, Ryota. Quelli in faccia.»
«Ah» disse lui. «Quelli.» Rimuginò a lungo, mentre Kiminobu tornava ad affettare, finché non gli scappò un: «Ma io preferivo i seni. Degli occhi che c’è da dire?»
«… be’. Ci vuole un po’ di romanticismo. Che so… i tuoi occhi sono due stelle cadute dal cielo…»
«Bella, questa!»
«Oppure… i tuoi occhi sono diamanti splendenti…»
«Diamanti…» Ryota cercò di mandare a memoria tutto quanto.
«Nei tuoi occhi vedo il mare, vorrei annegarci e perdermici…»
«Bella anche que… no! Kim, Aya ha gli occhi neri!»
«Vorrei chiuderli sotto le mie labbra e baciarli per impedirti di riaprirli… perché i tuoi occhi sono bellissimi… così belli che guardarli è uno strazio, perché la loro bellezza non è umana… perché quando si posano su di me mi trovano così sporco… indegno…»
Un silenzio strano, rotto solo dai colpi decisi del coltello, calò sulla cucina. La voce di Kiminobu si spense.
«Kiminobu? Ma piangi?»
«È la cipolla… Ryota.»
Non gli fece notare che non aveva mai visto una cipolla lunga e affusolata e di colore arancio intenso.
Ryota sospirò. «Cercherò di ricordarmi questo discorso sugli occhi. Dici che alle donne piace?»
«Ma sì… le donne adorano le frasi romantiche» mormorò Kiminobu.
«Ma tu non sei stato cinque anni in mezzo agli uomini?» ribatté Ryota, perplesso.
«C’erano anche le donne» rispose l’altro, distrattamente.
E di nuovo quel silenzio ovattato, irreale.
«Kiminobu?»
«Dimmi.»
«Sei stato con qualcuno, tra i musi… tra gli indiani?»
La mano ferma si irrigidì convulsamente intorno alla carota sminuzzata per metà – e con essa il braccio, e la schiena.
«Sì» rispose, con un filo di voce.
«E perché… sei tornato?»
Kiminobu posò il coltello e si volse, lentamente. Spinse gli occhiali alla radice del naso. «Perché il mio tempo lì era finito» rispose, calmo.
«E… quella persona non ti manca?»
Voltò il capo, fissando il ripiano della cucina e i brandelli di verdura multicolori ammucchiati sul tagliere. «Sì.»
Ryota si umettò le labbra, incapace di trovare le parole giuste. «Forse… forse saresti dovuto restare, sai?»
«Vi sono d’impiccio, Ryota? Se non altro cucino per voi.» Un tono tagliente che non gli aveva sentito usare mai, poi Kiminobu si volse e riprese ad affettare, ferocemente.
«Io sono felice che tu sia qui, Kimi. Sei tu… sei tu che non sei felice.»
«Non chiedo più di esserlo.»
«Ma…»
«La felicità la lascio a te e ad Ayako, Ryo. Non ti preoccupare.»
«Un tempo non parlavi così.»
«Un tempo…», la porta di casa sbatté, «ero una persona diversa.» Un sorriso amaro, che l’altro non vide, gli tese le labbra. «Papà non mi riconoscerebbe neanche… credo.»
«Kiminobu…»
«La cipolla, è la cipolla…»

Rimasto solo, sporco di terra e con le braccia doloranti, Mitch Clanton si lasciò cadere seduto. Trasse un lento sospiro. A che gli era servito pestare quel ragazzo? Ruotò vigorosamente una spalla, massaggiandosela con l’altra mano. Be’. Se non altro si era divertito.
Quasi come quando picchiava Kay Earp. Certo, allora erano altri tempi – allora probabilmente avevano la forza di due pulci. Ma ricordava i lividi, belli estesi, e l’espressione cocciuta e accigliata di Kaede, che rifiutava sempre di lasciarsi atterrare.
Le avevano prese e se l’erano date – di santa ragione. Bei tempi.
Si strofinò la faccia con le mani. Quando se lo fosse trovato davanti, che avrebbe fatto? Gli avrebbe detto: “Volpe, ho giurato di ucciderti, duella con me”? Oppure soltanto avrebbe sfoderato la pistola e pum!, come diceva Nobu, pum, un colpo in fronte? O l’avrebbe colpito al cuore? La sua mano sarebbe stata salda? O avrebbe cercato il punto non vitale – conosceva tanti punti che non ti ammazzavano, o potevano ammazzarti, ma se non lo facevano ti lasciavano storpio, o paralizzato, o vegetale per tutta la vita. Dio, no. Questo no.
Strinse le mani l’una con l’altra, forte. Voleva convincersi di poter fare qualsiasi cosa – qualsiasi cosa volesse. Ma la verità era che le mani gli tremavano. Erano i nervi, maledetti nervi, ma perché non era glaciale come Hike? Perché aveva preso il carattere febbrile di Saeko?
Sarebbe stato tutto più facile se, ad esempio, Kay fosse stato quel ragazzo, quello appena andato via? Sarebbe stato più facile, dopo averlo rivisto negli occhi, dopo aver constatato chi era, com’era diventato?
… no. Meglio così. Quando se lo fosse trovato davanti, sarebbe stato come avere di fronte un estraneo – non il compagno di giochi – e non avrebbe avvertito alcun senso di colpa. Una cartuccia. Ne sarebbe bastata una sola.
Come quella che aveva chiesto al ragazzo.
Come si chiamava?…
… l’aveva dimenticato.

«Ci… servono… soldi» scandì Akira, con voce più dura del solito. Si sfilò il pugnale dalla fondina e lo piantò nel legno martoriato del tavolo. «Dubbi?»
Ash continuò a masticare pigramente il suo tabacco. «Limpido.»
«Nobu?»
Il più giovane scosse la testa. Non diceva una parola dalla sera prima, ed era meglio così. Dopo quello che aveva combinato… Akira strinse l’elsa del pugnale. «Dov’è Hana?»
«’ndato a sparare» rispose Ash.
«Chi gliel’ha detto?»
«Io.»
Gli occhi di Akira sfavillarono un istante – ma non trovava mai nulla da ridire sulle decisioni di Ash. «Soldi» ripeté, in uno sbuffo di fiato. «Come sta la cassa?»
«Piange» rispose il secondo, laconico.
«Appunto. Vediamo di metterci dentro qualcosa.»
«’nquillo, ’kira. Nel metterlo dentro non mi batte nessuno» ghignò Hisashi.

Ricky impiegò un istante ad abituarsi alla semioscurità dell’ingresso. Fuori il sole scintillava violento, ma casa Earp riposava in una grata penombra. Sbatté le palpebre. Odore di cucina permeava la casa intera. Si lasciò scappare un lieve sorriso.
Non aveva mai pensato a Kim come ad una mogliettina premurosa, ma doveva ammettere che da quando era tornato finalmente si respirava aria di casa. Spinse la porta con la punta dello stivale, e quella si chiuse con un tonfo.
Entrò in cucina. Kiminobu era chino sul tagliere; Ryota più in là, a cavalcioni di una sedia, i gomiti sullo schienale. «Buongiorno» salutò, gettando il cappello a tesa larga sul tavolo sgombro.
«È quasi pronto, apparecchiate» disse Kim, con uno strano tremito nella voce.
Hiroaki inarcò un sopracciglio, lanciò uno sguardo a Ryota ma quello rispose con una scrollata di spalle.
«Hiro?»
«Che c’è?»
«Guarda qui.»
Prese la scatolina con un vago presentimento del contenuto. La aprì.
«Che te ne pare?»
«Ti cadrà ai piedi» rispose, restituendogliela. «Quando glielo dici?»
«Oggi» rispose Ray, nervoso. «Tra un po’.»
«Dritto alla meta, Ryo.»
Il fratello sorrise. «Dritto alla meta.» Poi affermò di dover andare a fare un bisogno – il nervosismo, probabilmente. Hiro sorrise.
Sistemò alla meno peggio la tovaglia sul tavolo – abitudine riacquisita con Kimi, prima mangiavano sul legno ruvido – e le posate e i piatti. Kiminobu continuava ad affettare. Gli sarebbe venuto un crampo, continuando a quel ritmo.
«Kiminobu? Non è abbastanza?» commentò Hiro, osservando il mucchio di verdura sminuzzata sul tagliere.
Il fratello si arrestò. «Sì, hai ragione.» Si voltò, improvvisando un sorriso. «Avete sempre tanto appetito, voialtri, è per questo.»
Hiroaki percepì la nota stonata dietro il sorriso e la gentile ironia, ma non ne diede segno. Pensò ai Clanton – già, i Clanton. Era effettivamente tempo di pensarci.
«Kaede?»
«Deve ancora tornare.»
«Hai sentito di Mitch?»
«Cosa?»
«Vuole ammazzarlo.»
Kiminobu non disse nulla.
«È finita la pace» sospirò il primogenito.
Un nuovo tonfo della porta li avvisò che anche Kaede aveva fatto ritorno.
«Per chi l’ha avuta» mormorò Kiminobu, tra sé.

Poche cose erano in grado di turbare seriamente l’equilibrio della famiglia Clanton. Poche – anzi, pochissime. Ma la prima, la peggiore, era che si attentasse all’autorità di Akira. In quel caso – apriti cielo – era il caso di rispolverare il rosario.
Peccato che a casa Clanton un rosario non ci fosse mai entrato.

Il rumore dello schiaffo faceva immaginare un segno rossastro che non sarebbe andato via tanto presto.
Senza scomporsi, Akira sillabò a bassa voce – gentilmente: «Ripeti».
Nobunaga non portò la mano alla guancia formicolante – strinse anzi il pugno con tutte le sue forze, per impedire al palmo di risalire fino alla faccia. Nessuna debolezza, per un Clanton. Ricorda, Nobu.
Cocciutamente, ripeté: «Si può fare anche senza svaligiare il saloon».
Il secondo schiaffo calò con lentezza disarmante. Lo sapevano tutti e tre che Nobu avrebbe potuto schivarlo.
Ma non lo fece – meglio per lui.
«Non ho capito» mormorò Akira.
«Aki, non abbiamo bisogno di...»
Ash sbuffò rumorosamente. Si annoiava. Quella scena era patetica e Nobu era patetico. L’aveva sempre detto a Hike – sempre – di togliergli dalla testa quella mezza sega di Sean – di fare pressione, Cristo, di farlo diventare un vero uomo. Lui con Hana ci era riuscito perfettamente. E allora perché Nobu no? Masticò il tabacco che aveva tra i denti, a bocca aperta. Che aveva di sbagliato quel ragazzo?
«... di svaligiarlo» proseguì Nobu, ignorandolo.
Gli occhi di Hike si raffreddarono, paurosamente, e l’ultimogenito sentì un brivido serpeggiargli su per la schiena. «Ma certo» disse Hike Clanton, sottovoce. «A che vuoi che ci serva, Nobu? Noi non dobbiamo mangiare, Nobu… noi andiamo avanti ad aria… noi non abbiamo nessun fottutissimo bisogno di mangiare. Vero?»
«Non… non scherzare, Akira, dico sul serio» rispose Nobu, con la voce che tremava.
Hike gli posò la mano sulla guancia due volte offesa. Allungò le dita affusolate a stringere il mento del fratello. «E io scherzo?» chiese sottovoce. «Ho la faccia di uno che sta scherzando, Nobu? Dimmi se ho la faccia di uno che scherza.»
«È solo che…»
«Cosa?» La mano strinse più forte. «Che… cosa… c’è» scandì. «Ieri e poi oggi, Nobu, no, no. Dimmi qual è il problema… dimmi chi è il problema.»
Nobunaga si conficcò le unghie nei palmi. «Non c’è nessun problema, Akira. Nessun problema.»
«Sicuro, Nobu?»
«Sicuro, Akira.»
«Bene.» La mano scivolò giù dalla guancia in una lunga carezza.
«Ma…»
Akira gli appuntò gli occhi addosso. «Ma?»
«… se svaligiamo il saloon… ce li tiriamo addosso. Ce li tiriamo addosso, Akira. Non mi sembra… non mi sembra una buona idea» pigolò Nobunaga, con un filo di voce.
«Si fa di notte» intervenne Ash, con voce annoiata. «Che ci vuole?»
«Quelli ci vengono addosso uguale» ribatté Nobu, cocciuto.
«E tu cosa proponi?» chiese Hike.
«Io… be’… io…» balbettò – e poi la sua voce si spense in un mormorio indistinto.
Akira e Hisashi si lanciarono un lungo, significativo sguardo, poi Akira staccò il pugnale dal tavolo. «Si fa. Stanotte.»
«Stanotte?» ripeté Nobu, spalancando gli occhi.
«Ah, finalmente un po’ di movimento» sibilò Ash, facendo crocchiare rumorosamente le nocche.
«Stanotte» confermò Akira. «Voi due. Hana serve a me.»


PERSONAGGI E INTERPRETI (in ordine di apparizione):

Ricky Earp ------> Hiroaki Koshino
Hike Clanton ------> Akira Sendo
Ash Clanton ------> Hisashi Mitsui
Kim Earp -------> Kiminobu Kogure
Mitch Clanton ------> Hanamichi Sakuragi
Kay Earp --------> Kaede Rukawa
Bob Clanton ------> Nobunaga Kiyota
Ray Earp -------> Ryota Miyagi
Mean Casemite ------> Minori Kishimoto
Josh Meenham ------> Tsuyoshi Minami
Keith McPerson ------> Kitcho Fukuda
Geene McPerson ------> Soichiro Jin
Sean O' Connor ------> Shin'ichi Maki
Aya O' Connor ------> Ayako (ma ce l'ha un cognome, 'sta ragazza???)


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