É forse la fic cui mi sto dedicando con maggiore impegno... per la difficoltà del genere (western) che non ho mai trattato! La dedico a Mercy che mi ha aiutato con i nomi e che per ora studia lontano lontano!!! ^*^


Sfida all'OK Corral
di Fiorediloto

TITOLO: Sfida all'OK Corral
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 3/???
RATING: AU/NC-17
PAIRING: tutti i canonici
DISCLAIMERS: I personaggi non sono miei ma del divino Inoue!!!



CAPITOLO TERZO: FIERO D'ESSERE CLANTON

A nessuno, neppure ad Ash Clanton, era dato conoscere cosa passasse esattamente per la mente di Hike. Troppo difficile, troppo sfuggevole per sua stessa natura, troppo controllato per lasciar trasparire più di un niente, e mai senza un preciso intento. Il viso e i pensieri di Hike Clanton erano un muro, uno schermo che nessuno mai era riuscito a penetrare – e sì che qualcuno avrebbe dato l’anima pur di riuscirci una volta, una volta almeno. Nessuno ce l’aveva fatta. Tranne lui. Ma era stato un tempo così lontano, pur in una tanto breve vita, che la memoria dei contorni già sbiadiva, e restava l’accenno di una sensazione – quella non sarebbe sbiadita mai, perché non poteva cancellarsi. La morte, prima, la morte vigliacca – la morte puttana – sarebbe sopraggiunta e l’avrebbe preso alle spalle, come aveva fatto con suo padre… prima che il ricordo sparisse dal suo animo.

«Hiro…?»
«Mmm?»
«Hiro…»
«Cosa?»
Due labbra sul collo, e una mano curiosa a intrufolarsi più sotto, e per Dio, chi l’ha detto che sono i diavoli a indurci in tentazione? In fede, costui non aveva mai visto la faccia d’angelo di Hike Clanton.
«Ma che fai?.»
«Dai, lo so che ti piace…»
«Smettila.»
«Il tuo amico non è tanto d’accordo…»
«Smettila!»
Del sentimento – delusione, probabilmente – era passato nei suoi occhi, poi era svanito. «Va bene.» Sussurrato, senza spavalderia. «Va bene.»
«Hi… Hiro?»
Era la prima volta che Kiminobu li sorprendeva insieme. E notando l’imbarazzo e l’ostilità sul dolce viso del secondogenito degli Earp, Akira si ripromise che sarebbe stata l’ultima. La porta sarebbe stata sprangata, e lui sarebbe stato più attento, la prossima volta… avrebbe fatto come diceva Hisashi… già… Hisashi… Squadrò Kiminobu da capo a piedi, increspando le labbra.
Hiro era fuggito. Ma non si sarebbe ripetuto.
«Non fraintendere, Kim» sussurrò al fratello, pieno d’imbarazzo.
Kiminobu scosse la testa, senza smettere di fissare Akira. «Non ti preoccupare.» Esitò un attimo. «Vuoi che vi lasci soli?»
«No!» esclamò, quasi gridò Hiro. Ma non era paura. Non aveva paura di lui. E allora cosa… disgusto? Ribrezzo? Dio del cielo, quel ragazzo lo bramava come lo bramava lui! Perché negarlo? Gliel’avrebbe fatto capire. Con la forza, magari. Ma presto – prestissimo – sentiva il tempo scemare, scivolare rapido nella metà inferiore della clessidra, e non sapeva perché – voleva Hiro e lo voleva subito – tempo odioso! averne un granello, un niente di più… – avere
lui
«Mi amerai, prima o poi, dolcezza. Tu lo sai» aveva sussurrato.
Entrambi i fratelli erano stati colti dal medesimo brivido – Hiro perché colpito dalle sue parole, Kiminobu perché le aveva già sentite da qualcun altro, e sapeva chi.
«Ho il tempo di aspettarti» aggiunse, mentendo. Non ne aveva più. Il tempo gli scivolava addosso – ma perché, perché poi? Non c’era motivo, non c’era alcun ragionevole motivo per cui…
Hiro era fuggito – definitivamente, stavolta. E Kiminobu fermato dalle sue parole l’aveva guardato – non lo disprezzava perché non ne era capace, ma Dio, rimpiangeva di non riuscirci – provava tanti sentimenti per lui e nessuno buono, nessuno, e il peggiore era quel tiepido fastidio che non era disprezzo e neppure odio, solo… “vorrei non averti mai conosciuto” dicevano i suoi occhi.
Gli occhi di Kiminobu erano un libro aperto.
Akira chiuse i suoi. «Lo sai che mio fratello impazzisce per i tuoi begl’occhi, Kiminobu?»
«Lui non è come te», un sibilo offeso.
«Hai ragione» e avrebbe voluto aggiungere: “Lui è peggio”, ma non poteva fargli questo – caro, caro Hisashi, gli voleva bene come alla sua anima – che facesse come credeva. Solo di lui gli importava – Hiro, Hiro, il tempo è maligno con me, il tempo mi sfugge, ma credi che ti lascerò andar via? Sulla tomba di mia madre, Hiroaki Earp, tu sarai mio.


Ricky Clanton premette indice e medio uniti sulla tempia, a massaggiarla. La tranquilla inerzia di qualche giorno prima sembra svanita, evaporata nel sogno – adesso c’era Kim, e c’erano i Clanton, e dovevano essere intimamente legate, le sorti di suo fratello e di quei banditi, se erano riusciti a fare ritorno insieme così puntualmente.
Squadrò Hike Clanton da capo a piedi. Desiderava rovinar loro anche quella giornata, non era forse così? Quando mai gli era riuscito bene altro che questo? Rovinare le vite altrui. Porco d’un Clanton.
«Che diavolo volete?» ringhiò, nel gelido silenzio del saloon. Posò la mano sulla pistola, ma non la sfoderò. Le leggi del West – se di leggi si poteva parlare – erano chiare: chi sfoderava per primo aveva torto. Anche lo sceriffo.
Hike Clanton ficcò le mani in tasca, tranquillo. «Passavamo di qui… per caso.» Sorrise dolcemente. «Volete mandarci via?»
Ottima idea, pensò Ricky, mordendosi a sangue l’interno della guancia.
Hike avanzò nella luce specchiata del saloon, ma Bob rimase indietro, sulla soglia. «Ben tornato, Kim» sorrise al secondo Earp. «Ti trovo in buona salute. I selvaggi ti hanno preso in simpatia?» Poi si chinò sul suo orecchio e mormorò parole che Ricky non comprese. «Oh, i McPerson… avete già convolato a nozze, ragazzi?» Rise con voce limpida – era sempre stata così, la sua voce, angelica e dolce come la sua faccia, ma era solo il mezzo datogli dalla natura per nascondere la sua anima nera.
«Aya…» Prese la mano della ragazza e fece per baciarla – sciocco sfoggio di galanteria europea – ma lei si ritrasse con uno scatto e Ryota si frappose subito tra loro.
«Ray» lo salutò Hike, poi guardò il gemello e rimase in silenzio per un lungo istante. Gli occhi di Kaede, probabilmente, parlavano quanto la sua lingua non avrebbe fatto mai. Ricky sapeva che un giorno, in un momento imprecisato, Kaede aveva giurato vendetta per l’uccisione del loro padre. Lo sapeva perché ognuno di loro segretamente aveva fatto quel giuramento, altrimenti non sarebbero stati quelli che erano – i fratelli Earp. Ma Kay era anche il solo – Ricky lo sapeva – che avesse qualche speranza di ottenerla.
Poi gli occhi di Hike Clanton si appuntarono sui suoi, e il freddo cedette il passo a qualcosa di appena più tiepido. Ma non se ne accorse.
«Salve, Ricky» disse Hike Clanton, imperturbabile.
«Ci siamo già salutati» ringhiò, stringendo forte il calcio della pistola.
«Sì. Mi sarebbe piaciuto in modo più adeguato, ma va bene anche così… pazienza» sorrise, con grazia.
«Vattene.»
«Non sei gentile, Ricky. Non lo sei mai stato.»
«Vattene o ti pianto una pallottola in fronte.»
«E neppure convincente.»
«Basta» interloquì Kiminobu, con voce pacata. «Non sei il benvenuto qui, Hike. Vattene.»
«Non sto infrangendo alcuna legge, mi pare, vice-sceriffo» replicò, disarmante.
«Se non sbaglio c’è un mazzo di taglie sulla tua testa» sibilò Ray, facendo scattare il cane della sua pistola, già sfoderata da un pezzo. «Potrebbe riscuoterle chiunque di noi…»
Hike neppure gli rivolse uno sguardo, né replicò. Continuava a fissare gli occhi di Ricky.
Poi una voce incerta ma coraggiosamente spavalda spezzò il silenzio: «Ragazzi, insomma, finitela. Non stiamo facendo niente di male…»
Tutti videro Hike Clanton rivoltarsi come un serpente e rivolgere al fratello uno sguardo avvelenato. Chi lo conosceva meglio dubitò che quello sguardo promettesse niente di buono. Ricky, il solo, forse, che avrebbe saputo correttamente interpretarlo, non lo vide perché Hike gli volgeva ora le spalle.
Bob Clanton colse lo sguardo assassino del fratello, celato dietro il solito sorriso, e abbassò immediatamente gli occhi.
«Clanton. Il saloon è chiuso.»
A quella voce, Bob rialzò subito gli occhi. Guardò il viso di Sean con leggera ansia – e sentì una fitta di fastidio e dolore stringerlo allo stomaco. Si sarebbe detto che cinque anni lo abituassero a quel tipo di sguardi, no? E lui si era abituato. Sì. Era forte e ragionevolmente cresciuto. Sedici anni erano sufficienti a dargli l’appellativo di uomo. E allora perché… perché?
Non era rivolto a lui. Guardava Hike. Ma faceva male lo stesso – perché lui era fiero, sì, fiero di ciò che era, e del nome che portava, Clanton, fiero di Joe Clanton che era morto colpito a tradimento, fiero di Hike e di Ash, e li amava tutti e tre, i suoi fratelli, d’identico inesauribile amore, e se Sean odiava Hike odiava anche lui – perché non erano che una cosa sola, tutti e quattro, una cosa sola, e non si poteva odiare uno di loro senza odiarli tutti – e dunque Sean lo odiava, ed era lui Nobunaga Clanton che stava guardando come a volerlo uccidere, lui che stava guardando con disprezzo e disgusto, lui che volentieri avrebbe cancellato dal mondo.
Dio, faceva un male cane.
«Dai, andiamo via» mormorò, nella lingua che solo loro e gli Earp conoscevano. «Akira, andiamo via.»
«Sta’ zitto, Nobu» sibilò il primogenito.
«Il saloon è chiuso» ripeté Sean, con la sua voce profonda e calma, appena vibrante di tensione. «Tornate più tardi.»
Nobunaga incassò. Distolse lo sguardo, già pronto a girare sui tacchi, ma placidamente il proprietario del saloon soggiunse: «Se vuole, Bob può restare».
Le labbra di Akira si tesero nel suo sorriso più falso – quello che non ingannava i suoi fratelli. «Ebbene, se non siamo desiderati…» Fece un mezzo giro su se stesso, raggiunge Bob e lo oltrepassò, aprendo con calma le porte ondeggianti del saloon.
Nobunaga, già mezzo voltato verso l’uscita, si arrestò. Straziato dalla scelta. Fuori c’era il suo mondo – la sua famiglia – i suoi fratelli. Fuori era l’ombra di Joe Clanton e fuori era il ricordo. Dentro c’era della gente. Non li conosceva bene. Ma se solo loro avessero potuto conoscerlo…! L’avrebbero amato. Lo sapeva. Avrebbero smesso di odiarlo, di odiare lui Nobunaga Clanton, forse non avrebbero smesso di odiare gli altri ma lui… lui… Dio, quanto voleva restare. Ma fuori era Hike, e Hike non gliel’avrebbe perdonata.
Guardò Sean, implorando consiglio.
«Puoi restare, se vuoi.»
«Sono i miei fratelli» mormorò.
Silenzio.
«Sono i miei fratelli» ripeté.
Ray ebbe un sospiro, subito represso. «Tuo fratello ha ucciso nostro padre» disse, con voce dura.
«Il vostro ha ucciso il mio» ribatté Bob.
«Finitela» s’interpose Kim. «È inutile.»
Bob Clanton scosse la testa. La sua famiglia era fuori, e lo attendeva. Doveva andare. A meno che… Rise di sé stesso, aspramente. Nessuno l’avrebbe fermato. Era un Clanton – un bandito, un poco di buono, un pericolo. Era un Clanton. Nessuno avrebbe speso una parola gentile per lui.
Si maledisse per ciò che era e per quelli che amava – e per quelli, meno colpevoli, che lo guardavano da lontano e lo giudicavano senza sapere. Non ce l’aveva con loro, in fondo. Ma era meglio andarsene subito.
«Addio» mormorò, e uscì.
Akira non era in vista. Socchiuse le palpebre. Ma se non fosse uscito dal saloon per raggiungerlo se la sarebbe presa – si sarebbe offeso a morte. E allora dov’era?
«Bob.»
Si volse, con un sussulto.
«Torna dentro» disse Sean, con gentilezza. «È rimasto ancora un po’ di torta, l’ha fatta Aya. Non vuoi assaggiarla?»
Dio se voleva. Alzò la mano con l’intento di posarla in quella che l’altro gli tendeva – le mani di Sean erano grandi e larghe e calde in ogni stagione – ma in ultimo la ritirò. «Devo tornare dai miei fratelli» disse, senza guardarlo.
«Lo so che vuoi restare, Bob. Non hai fretta di tornare…»
«… devo andare, Sean, davvero… devo…»
«Insisto.»
Nobunaga alzò gli occhi neri sui suoi, d’un caldo nocciola. «Non è il mio posto, Sean. Tu mi capisci. Torno dai miei fra…»
«Tu non c’entri niente con loro, Bob.»
Gli aveva posato un braccio sulla spalla, con foga. Se lo scrollò di dosso con uno scatto. «Sono i miei fratelli» sibilò, per la terza volta, «hai capito, Sean? Sono i miei fratelli! Io sono uno di loro! Non dire mai più quello che hai detto, tu non sai niente, Sean, non parlare perché tu non sai niente!» Stava gridando. Strinse i denti e lo guardò con un’aria che fatalmente, se avesse potuto vedersi, gli sarebbe parsa quella di un cane bastonato.
Il proprietario del saloon non accennò a distogliere lo sguardo dal suo. «Cercavo solo di dirti che in città nessuno incolpa te, o Mitch» spiegò, pacato. «Eravate solo due bambini.»
Questo ero io per te? Solo un bambino?
Si calcò la tesa del cappellaccio sugli occhi, con un gesto evidente. «Be’, adesso il… i bambini sono cresciuti. E sono due pistoleri. Tra i migliori di Tucson! E sono Clanton. Vedi di non dimenticartelo.»
Hike sarebbe stato fiero di lui. Sarebbe stato fiero della risposta che aveva dato. Un Clanton! Che altro poteva mai essere? Un Clanton. Ce l’aveva nel sangue.
Ce l’hai nel sangue, Nobu. Come me, e Hana, e Hisashi. Ce l’abbiamo nel sangue, questo nome che portiamo. E ricordatelo – ricordatelo sempre – il sangue di papà grida ancora vendetta. Sempre. Non dimenticarlo, Nobu, mai, pure quando vedrai la morte negli occhi tu non dimenticare – non dimenticare che il sangue di papà grida e non serve tapparti le orecchie – ce l’hai nelle vene.
Voltò le spalle a Sean e mosse i piedi sullo sterrato polveroso.
«È stato tutto inutile, insomma.»
Si fermò – paralizzato.
«Non ti ho insegnato a sparare perché diventassi come loro.»
«Io sono fiero di loro» sibilò, aspramente.
«Questo non è vero.»
«Che cosa ne sai?» gridò, rivoltandosi come un cobra del deserto. «Chi sei tu per dire come sono e come dovrei essere?»
Sean non rispose, impassibile. «La torta ti aspetta ancora, se la vuoi.»
«Dannazione, Sean! Lo vuoi capire che io non sono uno di voi?»
Il proprietario del saloon sorrise, lievemente. Dolcemente. «Questa, Bob Clanton, è la tua personalissima opinione.»

Non era venuto – ma questo era stato già previsto. Non era venuto. «Vigliacco! Lo sapevo! Lo sapevo! Ha avuto paura del miglior pistolero di tutto il West!»
Macerando rabbia fumosa tra gli incisivi, Mitch Clanton girò sui tacchi e alzò una mano per difenderla da un raggio di sole, appena nato e già cocente, venuto fuori dalla prima pioggia della stagione. Era tardi – mezzogiorno fatto – e doveva far ritorno alla vecchia casa Clanton.
Era stato così naturale, così spontaneo per loro tornare ad occupare la vecchia casa fatiscente che nessuno aveva toccato, che non sembrava fossero passati cinque lunghi anni. Cinque anni. Se ne ripeté il suono nella mente, gettando il capo all’indietro verso un angolo di sole meno accecante. Cinque anni e non era cambiato nulla. La stupida kitsune continuava a tremare al pensiero di sfidarlo, e Mitch Clanton era sempre il migliore dei due. Il migliore in assoluto. Chiuse gli occhi, e le sue palpebre sotto il sole s’infuocarono d’un arancio intenso.
Dopotutto avrebbero potuto continuare da lì – ma si spaventò del suo pensiero, non il primo che faceva. Avrebbero potuto – eresia, eresia – trovarsi un lavoro onesto, e poi – ma che dici, Hana, che pensi? finiscila – poi condurre una vita… – che stai per dire, scimmia rossa? che stai per dire? – una vita normale…
In una vita normale, lui sarebbe stato un mastro ferraio – gli piaceva il suono del martello sull’incudine, gli piaceva la forma dei ferri. Un mastro ferraio. O un garzone di stalla, un sindaco, un maestro elementare, uno sceriffo, un barbiere. Un vincente o un fallito o entrambi. Un mendicante. Qualsiasi cosa – in una vita normale. Ma dal momento che a un Clanton non era data una vita normale – e lui non se ne rammaricava, oh no, a che pro rammaricarsi?, glielo diceva sempre papà – dal momento che a un Clanton era dato solo essere un Clanton, be’, lui sarebbe stato un Clanton nel migliore dei modi. All’altezza – sempre e comunque.
«Non è venuto.»
«Se l’è fatta sotto.»
«Non dire cazzate, Mitch.»
«È così, sfregiato! Se l’è fatta sotto, ha paura di me!»
«Peccato che la tua… com’è che l’hai chiamata? lettera di sfida?… non gli sia mai arrivata!» Hisashi strinse le palpebre. «Chi ti credi di essere? Idiota!» Gli assestò uno schiaffo vibrante sulla guancia. «Devi sempre fare di testa tua!»
Hanamichi mandò un ruggito. «Ma che cazzo…»
Hisashi tirò fuori dalla tasca il biglietto di sfida e lo strappò sotto i suoi occhi. «Hike ed io ti avevamo detto di stare buono, o sbaglio?»
«Io sono molto più bravo di lui! Molto più bravo di tutti e quattro loro! Posso batterli a occhi chiusi! Se tu lasciavi arrivare quel…»
«… a quest’ora eri già morto! E che cazzo, Mitch, possibile che sei così ottuso?»
L’insulto mandò il sangue alla testa di Hanamichi, che si scaraventò con un pugno addosso al fratello maggiore – ma quello parò senza problemi, e gli bloccò ambo le mani nelle sue. «Adesso stammi a sentire, scimmia rossa!» sibilò. «Credi che noi non lo vogliamo morto, Kay Earp? Li vogliamo morti tutti, dal primo all’ultimo! O sei così coglione da non averlo ancora capito?»
Hanamichi impallidì, poi si ritrasse lentamente. «Allora… allora perché non mi hai lasciato…»
«Perché non è tempo! Non è tempo ancora!» ribatté Hisashi. «Quando sarà il momento ti serviremo Kay Earp su un vassoio d’argento, con una mela in bocca e un ramoscello di rosmarino nel culo, e lì potrai farlo a pezzi come ti pare! Non ora! Hai capito, Mitch? O vuoi rovinare tutto come al solito?»
Hana impallidì ancora di più. Il ricordo di passati fallimenti bruciava, intenso come non mai. «Non avrei rovinato niente» insistette comunque, testardo. «Uno in meno. Sarebbe stato uno in meno per noi…» Non disse che non avrebbe trovato la forza di ucciderlo, di uccidere, questo non lo disse.
«E avremmo avuto gli altri tre addosso! Cristo, Hana, ragiona! Quando sarà tempo li faremo fuori tutti insieme… tutti e quattro insieme! Hai capito ora?»
Il rossino distolse lo sguardo, contrariato. «Tu non vuoi ammazzare Kiminobu» mormorò.
L’espressione di Hisashi restò immutata. «Stammi a sentire, sgorbio: quella specie di checca paurosa sarà la prima a ritrovarsi una palla in fronte. Chiaro?» Gli torse il viso nella sua direzione, senza gentilezza. «Anche se me lo voglio scopare un’ultima volta, questo non significa che poi non gli farò lo scalpo come quegli indiani che gli piacciono tanto. Mmm? E tu se lo nomini un’altra volta ti trovi la canna della tua pistola su per il culo, e chiedilo a lui se non fa un male del diavolo.»
Hanamichi scostò la sua mano, cupamente. Non parlò, ma ciò che pensava era chiaro ad entrambi – e purtroppo per Hisashi, tremendamente vero. Tu non mi freghi, Hisa. Se l’avessi qui te lo sbatteresti – sì. Ma poi lo terresti con te per sempre. Quanto a lui, era già abbastanza indispettito per il fallimento del suo duello, e Kay Earp avrebbe dovuto aspettare.
Aspettami, sì. Aspetta, volpe. Vedremo presto chi è il migliore dei due.

Più in là il sole cuoceva la terra, e all’ombra preziosa di un albero Mean Casemite si tirava i capelli in uno stretto codino – con gesti duri, da persona spiccia. Josh era in ritardo, e questo, come al solito, lo inquietava.
Non perché credesse veramente che a Meenham potesse essere accaduto qualcosa – quell’uomo aveva sette vite come i gatti. Solo, lo infastidiva.
Alla sua destra, un cimitero di roba gettata di malagrazia lo guardava con disapprovazione: la giacca dalle maniche sfilacciate, il cappello con un doppio foro al centro, la cartucciera mezza vuota e mezza caricata a salve. La pistola no – quella stava al suo posto.
Erano tempi duri.
Tirò fuori dall’interno del gilet l’involto col tabacco. Anche quello scarseggiava. Rullò una sigaretta e si appoggiò con la schiena al tronco, sfumacchiando pigramente.
Dov’era finito?
Non perché credesse davvero che qualcuno gli avrebbe torto un capello – troppo veloce, troppo forte, troppo in gamba. Solo, non potevano permettersi di perdere tempo.
Espirò una lunga voluta grigiastra. Avrebbe potuto accompagnarlo, ad esempio. Non v’era ragione per cui restasse ad attenderlo lì. Cercò di rammentare perché ci fosse rimasto – già, perché?
«Perché lì c’è una taglia sulla tua testa, ecco perché!», la voce aspra di Josh l’aveva rimproverato senza mezzi termini.
«Ce n’è una anche sulla tua» aveva replicato – era sempre così, sempre appaiati, “i banditi gemelli” li chiamavano.
«Peccato che tu non ti sai camuffare neanche a cambiarti i connotati!»
Era andato solo. Mean era rimasto in mezzo al nulla ad aspettarlo – e a sventagliarsi col cappello nella speranza di allontanare quel caldo soffocante venuto fuori tutto insieme. I capelli lunghi lo tormentavano, ma non li avrebbe recisi mai e poi mai – piuttosto si sarebbe fatto tagliare un braccio.
Appoggiò il capo al tronco e chiuse gli occhi, tendendo bene le orecchie in sostituzione del senso obliato. Strano, gli pareva di risentire lo sciabordio delle onde. La Queen Victoria ballava nella tempesta – l’Atlantico ruggiva contro di loro, o con loro, chissà. Meenham era una figura confusa nel buio, saltuariamente rischiarata da un lampo. Aveva i lineamenti contratti – ma non era un problema, il dolore, non lo era mai stato. Gli occhi semiaperti lo guardavano, pure in quel momento, con la solita aria di sfida.
Il rumore di un passo lo riscosse bruscamente, sfoderò la pistola e la puntò – poi riaprì gli occhi. «Era ora» borbottò, riponendola.
«Sacco di merda, stai sveglio invece di dormire!» sbottò Meenham, assestandogli un calcio sulla coscia. La punta rinforzata dello stivale gli strappò un lamento. Casemite lo afferrò per un polso, lo strattonò giù, e salendogli sopra gli puntò la canna della colt alle cervella. «Stronzo figlio di puttana, ci devi solo riprovare!» ruggì.
Meenham lo guardò senza lasciarsi spaventare. Non si sopportavano. Si odiavano a morte. «Allora ti prendo a calci in culo, ti piace di più?» Guardò la pistola in tralice. «Abbassa quella cosa, imbecille.»
«Non ci metto niente a fartela pagare.»
«Ma sta’ zitto.» Scocciato, se lo scrollò di dosso e si tirò in piedi – gesto al quale contribuì, bisogna dirlo, la poca resistenza opposta dal più forte. «E sta’ a sentire.»
«Che notizie?»
«Buone. Buonissime.» Sogghignò, strappandogli dalla bocca la sigaretta mezza consumata. Ne prese ampie due boccate, poi la gettò via. «I Clanton.»
«Si sono decisi a schiattare?» borbottò Casemite, raccogliendo la giacca.
«Imbecille» lo apostrofò l’altro. «Non capisci mai un cazzo, eh?»
«Senti un po’…»
«Sono tornati a Tucson.»
Mean Casemite si fermò, col pugno levato verso il compagno di scorribande. «Eh?»
«Eh» ripeté Meenham. «Sei pure sordo?»
«Ma che vuoi che me ne fotta di quei quattro? Mi hai fatto aspettare un’ora per questo?» gridò Casemite, affondando il pugno nel suo stomaco.
Meenham gli si piegò addosso, sputando il fiato – poi, con una ripresa eccezionale, rispose all’attacco con un calcio in mezzo alle gambe dell’altro. Casemite rotolò a terra, ululando selvaggiamente.
«God damn’ it! Figlio d’una baldracca! Mi stai ad ascoltare?» gridò Josh Meenham. Gli calcò il piede sopra il fianco, nella posizione di certe statue che avevano in patria – quelle col vincitore trionfale sopra il vinto schiacciato. «Che cos’è che i Clanton vogliono? Eh? Che cos’è?»
«Il… il ranch degli occhi a mandorla!» ansimò Casemite, dolorante.
«E secondo te gli Earp li fermeranno?»
«Ma che ne so… e levati di sopra!»
Meenham appoggiò un palmo al tronco dell’albero, guardandolo mentre a fatica si rialzava. Avrebbe potuto fare più piano, dopotutto. «Gli Earp la prenderanno in culo sana sana» scandì.
«E a noi che ce ne fotte?»
«Imbecille! Quante taglie ci sono sopra quel tuo sacco di merdate?»
Mean Casemite lo guardò inferocito. «Ventiquattro» ringhiò.
«E sulla mia pure. E non si dà il caso che chi collabora con la… giustizia…» sputò a terra, «in questo Stato si ritrova libero e leggero come l’aria?»
L’altro scoppiò a ridere, sguaiato. «Collaborare? Ma tu ti sei fottuto il cervello!»
«Noi collaboreremo» sibilò Meenham, afferrandogli il colletto della camicia frusta e sporca. «E non solo ci togliamo le taglie dalla testa, ma ci togliamo di mezzo pure i Clanton… pezzo d’imbecille! E mentre gli occhi a mandorla festeggiano…»
Gli occhi di Casemite si dilatarono, finalmente, nella comprensione. «Ho capito! Va bene, va bene! È una bella idea!»
«Questo era ovvio» ribatté l’altro, lasciandolo andare. «È un’idea mia.»

Hike mi ucciderà. Mi ucciderà.
Bob Clanton scosse la testa, leccandosi le dita impiastricciate di panna – annegando nella dolcezza della torta di Aya l’amarezza per ciò che l’attendeva fuori. Hike l’avrebbe fatto a pezzi. Ne era sicuro com’era sicuro che quella notte il sole sarebbe tramontato, e di nuovo sorto il giorno dopo.
«Ti picchia, Hike?»
La domanda lo colse del tutto impreparato. La voce – calda, morbida come sempre – affondò nelle pieghe della sua coscienza con dolcezza impietosa.
Succhiò un indice senza guardarlo in faccia. «Ogni tanto» mormorò.
Erano rimasti soli, nel vasto saloon vuoto e perciò d’aspetto ancora più grande. Quanto tempo era passato? Un’ora almeno, forse due. Non riusciva a ricordare.
Non osò alzare gli occhi sui suoi. Che c’è di strano? È mio fratello, pensò, ma non trovò il coraggio di dirlo. Il solo fatto che Sean gli avesse posto la domanda implicava che disapprovasse la risposta.
«Perché?»
Deglutì. «È normale… i fratelli maggiori… Tuo padre non ti picchiava mai?»
«No.»
«Non mi fa mai tanto male, comunque» borbottò.
«Io non ti picchierei mai.»
Alzò gli occhi – il medio stretto tra le labbra a succhiare la panna depositata sul polpastrello. Lo guardò, in silenzio.
«Non è giusto alzare le mani su chi è più… giovane di te.»
«Volevi dire debole.»
«Non penso che tu sia debole.»
Anche l’anulare passò l’ispezione delle sue labbra, ma la panna non aveva più alcun sapore. «Hike è un buon fratello. Voi non lo conoscete. È un buon fratello, è… una persona giusta.» Lo fissò negli occhi, sfidandolo a contraddirlo. «Nessuno di voi lo conosce davvero.»
Sean sorrise, come intenerito. «Questo è certo.»
Non trovò altro da dire. Succhiò il mignolo, fissando il legno del tavolo.
«Ti sporchi ancora la faccia come quando eri un bambino?» Un polpastrello morbido passò sull’angolo della sua bocca, in una carezza. Arrossì furiosamente, prima di rendersi conto della macchiolina di panna sulla punta del dito di Sean.
«Era buonissima» mormorò, fissando come allucinato quel pollice macchiato di bianco. «Fai i miei complimenti ad Aya…»
«È vero» disse Sean, portandosi il dito alla bocca. «Nessuno batte mia sorella in cucina.»
La visione di quel polpastrello mollemente prigioniero tra le labbra di Sean procurò a Nobu un fremito che non volle o non poté reprimere. Ma non era la prima volta e lo riconobbe – di cos’era quel fremito. Ne provò paura. Si alzò di scatto.
«Ora è meglio che vada.»
«Puoi restare quanto vuoi» scattò Sean, automaticamente.
«Lo so» mormorò, con dolcezza. «Ma devo tornare a casa.»
Casa… fratelli. Il pensiero fu come una doccia fredda per il sentimento che gli aveva percorso la spina dorsale. Lo accolse, per il senso di colpa che portava, e quello scacciò tutto il resto. «Se capita ripasso…» tentò, contrastandosi.
«Quando vuoi.» Il più grande si accostò, gli tolse il cappellaccio e gli scompigliò affettuosamente i capelli. «Quando vuoi» ripeté, «e magari ti farò assaggiare…» rise del suo tentativo di riprendere l’adorato copricapo, fermò il braccio che si tendeva in alto e lo strinse – era così sottile, il suo polso, «… ti farò assaggiare… inutile, non te lo ridò…» rise ancora, dolcemente, «… qualcuno dei piatti che preparo io. Hai lo stomaco forte, Bob?»
Erano così vicini che poteva sentire il suo fiato – odorava di vino dolce. Sentì le guance avvampare. Meglio andar via. Erano rimasti paralizzati in una buffa posa plastica, il braccio sinistro di Sean teso alto con il cappello nella mano e il destro di Nobu fallito nell’inseguimento, che si era fermato con le dita sul suo polso. I visi incollati. Ancora un pollice e…
Ma erano impazziti?
Si tirò indietro, sorridendo, imbarazzato come non mai. «Ridammelo.»
«Che mi dai in cambio?» patteggiò Sean.
«Ridammelo.»
«Che mi dai in cambio?»
Nobunaga sbuffò. «Cosa vuoi?»
Sean colmò la distanza che li separava – un passo – e calcò con ambo le mani il cappello sugli occhi di Bob Clanton. Poi, sotto la tesa larga del vecchio copricapo, prese il mento del ragazzo nella mano e gli dischiuse le labbra con il pollice. «Che torni domani» disse piano. L’avrebbe baciato – Nobu ne era certo. Invece si allontanò e scomparì in una porticina dietro il bancone, senza aggiungere altro.
Nobunaga rimase infiniti attimi con le dita poggiate sulla bocca. Là dove Sean l’aveva toccato, la pelle bruciava.

Keith McPerson si destò dolcemente, riemergendo piano dalla bruma grigiastra dei sogni. Il sole filtrava dalle imposte socchiuse, ma di questo si sarebbe accorto dopo. La prima cosa di cui ebbe coscienza fu un peso sullo stomaco, che lo fece sussultare. Poi si rese conto che era Geene, sdraiato con il capo sul suo petto, e si rasserenò. Era da molto tempo che suo cugino – il suo compagno – non cercava un simile contatto – tanto che aveva creduto e temuto, disperato, di poter riavere quei pochi momenti di calore al risveglio, quel piacere di ritrovarselo addosso.
Affondò le dita tra i suoi capelli lisci e Geene si svegliò.
«Buongiorno, amore…» mormorò il più giovane, con voce impastata. Posò le labbra sulle sue, un istante. Poi lasciò scivolare il capo sulla sua spalla e lo guardò da sotto in su. «Confesso… non me l’aspettavo» sorrise.
Keith arrossì appena sotto l’abbronzatura. Non era stato premeditato e neppure regolare. Ma mentre si trovavano al saloon, e lo baciava mangiando la panna che aveva sulla bocca, assaporando beato in egual misura il sapore del dolce e quello del suo adorato, aveva ritrovato il piacere di avventarsi su di lui con amore sì, sempre – ma senza gentilezze. Aveva preso Geene per mano e l’aveva trascinato a casa.
Era tanto che non lo facevano così.
No. Era tanto che non lo facevano.
«Meglio. Ti è piaciuta la sorpresa?»
Geene gli posò un bacio sul petto. «Hai parlato con Tower stamattina, non è vero?»
«…in che senso?» nicchiò Keith. Non sarebbe stato carino confessargli che le parole dell’allevatore l’avevano scosso enormemente, che si era sentito morire quando Tower gli aveva rivelato sottovoce: Ero stato a un passo dal perderlo, e non me n’ero accorto.
«Non importa.» Geene lo abbracciò, con un sospiro appagato. «Non importa davvero. Pensi mai al tempo che passa, Keith?»
«Che strana domanda per un orologiaio.» «Ma tu ci pensi?»
«Stai pensando che stiamo insieme da troppo tempo?» mormorò Keith, d’improvviso preoccupato.
«Ma no. Pensavo a Kim.»
«Ah.»
«Era angustiato. Diceva di averci trovati tutti cambiati… dopo cinque anni… ma sono così tanti, Keith?»
Keith scosse la testa. «Non saprei. No. Non credo.»
«Secondo me è lui il più cambiato» continuò Geene. «A malapena sorride, prima era sempre allegro…»
«Neppure noi eravamo gli stessi, cinque anni fa.»
«… noi sì, Keith. Non siamo cambiati di una virgola.»
Le dita del più vecchio si fecero strada tra i suoi capelli, lentamente. «Perché ti preoccupi così?»
«… non so, mi dispiace per Kim.»
«Si riprenderà. Un po’ di tempo e tornerà quello di sempre, deve solo riabituarsi alla civiltà…» mormorò Keith.
«Io credo che certe cose non si dimenticano mai.»
«Quali cose?»
Geene si accucciò ancora più strettamente al suo petto. «Non ne ho idea. So solo che sta soffrendo come un cane.»
«Lo sai anche tu il perché. Non sarebbe dovuto andar via. È così semplice! Qui c’erano i suoi fratelli – c’eravamo noi. I selvaggi chissà cosa gli hanno messo in testa.»
Geene alzò il viso, perplesso. «Non li chiamare così, quando c’è lui. Mi ha detto che si è trovato bene. Che lo trattavano come uno di loro.»
«Bah.»
«Tu non ci credi.»
«Sono selvaggi.»
«Ne sei sicuro?»
Keith scosse la testa – neppure vagliò l’ipotesi di avere, non torto, ma meno ragione del solito. «Sono selvaggi» ripeté, come se quello potesse spiegare ogni cosa, e così dicendo pose fine alla discussione.

Nahuel era alto, aveva lunghi capelli neri e occhi d’ugual colore, la pelle cotta e dorata dal sole. Parlava poco, ma i suoi occhi cantavano. E il sorriso – Dio, il sorriso – era il più dolce che avesse mai visto.
Ti amo, Isi, gli sussurrava la notte, stringendolo forte sotto le coperte di pelliccia. Il buio del tepee era caldo, e odorava di terra.
Gli rispondeva nella sua lingua – era il primo che volesse impararla, e l’unico cui lui volesse insegnarla: ti amo, ai shiteru, ai shiteru, non hai bisogno di chiedermelo.
E lui?
Non penso più a lui.
Parole! Dolci le parole: volano. Altrimenti, se fossero state macigni, come avrebbe sopportato il loro peso bugiardo premergli senza pietà sopra il petto?



PERSONAGGI E INTERPRETI (in ordine di apparizione):

Ricky Earp ------> Hiroaki Koshino
Hike Clanton ------> Akira Sendo
Ash Clanton ------> Hisashi Mitsui
Kim Earp -------> Kiminobu Kogure
Mitch Clanton ------> Hanamichi Sakuragi
Kay Earp --------> Kaede Rukawa
Bob Clanton ------> Nobunaga Kiyota
Ray Earp -------> Ryota Miyagi
Mean Casemite ------> Minori Kishimoto
Josh Meenham ------> Tsuyoshi Minami
Keith McPerson ------> Kitcho Fukuda
Geene McPerson ------> Soichiro Jin
Sean O' Connor ------> Shin'ichi Maki
Aya O' Connor ------> Ayako (ma ce l'ha un cognome, 'sta ragazza???)


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