É forse la fic cui mi sto dedicando con maggiore impegno... per la difficoltà del genere (western) che non ho mai trattato! La dedico a Mercy che mi ha aiutato con i nomi e che per ora studia lontano lontano!!! ^*^
Sfida all'OK Corral
di Fiorediloto
TITOLO: Sfida all'OK Corral
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 2/???
RATING: AU/NC-17
PAIRING: tutti i canonici
DISCLAIMERS: I personaggi non sono miei ma del divino Inoue!!!
CAPITOLO SECONDO: ANGOSCE
Per prima cosa, le mani. Mani addosso, sopra, intorno, dovunque – mani bramose, furiose, grandi, forti – strazianti. Ne sente ogni centimetro e millimetro di pelle sulla propria – mani calde, mani infuocate, mani dure, mani violente. Ogni istante è uno strazio. Lasciami. Togli quelle mani. Togli le mani.
Poi la corda. La corda è stretta e fa male – la corda taglia, la corda sega, la corda tira e lacera e tortura. Si contorce – se riuscirà a farla scivolare un po’ più giù, il dolore sarà minore sulla carne ancora fresca e liscia – ma la corda resiste – dura, arsa, di piombo di canapa di fuoco, lacera e fa male, oh sì, fa male. Slegami. Slegami.
Poi l’inferno. È un po’ più in basso – non troppo – e brucia, come dicono. Brucia arde consuma grida profana, strappa e tortura. Inferno è le mani bramose furiose addosso, la corda dura arsa intorno, il fuoco – il fuoco bruciante – nelle viscere.
Smettila. Smettila.
L’aria passa nei polmoni, nella gola, nella bocca, ma il suono non esce. Non se ne cura e continua a gridare.
«Ah.»
Solo un suono – un piccolo, leggerissimo sbuffo – “Ah”. Kiminobu si passò una mano sulla fronte madida, il palmo e poi il dorso, asciugò gli occhi bagnati anch’essi di sudore, o forse no, respirò a fondo e respirò, più volte.
Aveva dimenticato di prendere l’infuso, quella sera. Che stupido.
Inspirò ed espirò, allungò una mano verso la sacca, ve la ficcò dentro. Trovò a tatto quello che gli serviva. Poi si alzò.
In cucina si mosse come un sonnambulo, al buio. Aveva conosciuto quella casa come il proprio corpo, cinque anni prima, e certe cose non si dimenticano. Conosceva il posto di ogni piatto e di ogni pentola, di ogni tazzina, di ogni sfregio sui muri. Non era cambiato niente.
Nel buio aprì un’anta, afferrò un pentolino, raccolse col mestolo un po’ d’acqua dal secchio, lo riempì, accese il fuoco e ve lo posò sopra, gettandovi dentro ciò che aveva tratto fuori dalla sua borsa.
Uno sbadiglio e la scintilla di un fiammifero accanto a sé lo fecero sobbalzare – come aveva fatto a non sentirlo prima?
Suo fratello ficcò la fiammella dentro la lampada ad olio e poi richiuse. Posò la lampada sul tavolo della cucina e si concesse un altro generoso sbadiglio. «Danne un po’ anche a me.»
«Ma lo sai, cos’è?»
«Qualcosa per dormire.»
Kiminobu si strofinò gli occhi. Anche prima, a volte, Kaede l’aveva lasciato spiazzato – capiva e sapeva molto più di quel che lasciasse intendere – ma da quando era tornato la sensazione si era acuita vertiginosamente. Naturale, si disse, non per la prima volta, cinque anni sono tanti.
Tanti, ma così tanti da parergli un’eternità – era ancora lo stesso Kim Earp che aveva lasciato Tucson? Abbassò gli occhi. Forse non lo era più già prima di partire.
«Come mai in piedi? Una volta non ti svegliavano neanche le schioppettate.»
«Hn. Mi hai svegliato tu.»
Kiminobu trattenne un brivido, appoggiato al ripiano della cucina. «Sì? Forse ho fatto rumore camminando nel corridoio.»
«Hn.»
Kiminobu rimase ad ascoltare, attendendosi un proseguimento che non ci fu. Si ritirò leggermente deluso – della delusione di chi aspetta qualcosa, non la desidera, non la cerca, non gliene frega, solo l’aspetta, e quella non viene.
Socchiuse gli occhi e ascoltò il fuoco sibilare piano sotto il pentolino.
Uno schizzo d’acqua bollente sulla mano lo fece riscuotere. Si era assopito in piedi, cosa da non crederci. Spense il fuoco, prese due tazze dalla credenza e le riempì.
Kay aveva il viso poggiato sul tavolo, le braccia abbandonate lungo i fianchi, e dormiva. Kiminobu gli posò la tazza sotto il naso e gli toccò gentilmente la spalla. «Ehi, ti verrà il mal di schiena a stare così» lo avvertì, a bassa voce.
Una mano lo afferrò alla gola. La voce di Kaede – non troppo cosciente – ringhiò: «Io non perdono chi disturba il mio sonno».
Si liberò con un gesto, sbarrando gli occhi. Che suo fratello soffrisse di qualche malattia della mente? «Kaede? Ma che dici?»
Il fratello si tirò indietro e affondò la faccia nella tazza. «Hn» borbottò. «Grazie.»
Scuotendo la testa, Kiminobu si sedette. Aspirò il profumo delicato della tisana. «Non mi sembra che tu abbia bisogno di tisane per dormire» mormorò, guardandolo.
«E tu?» ribatté Kaede. La luce sporca della lampada giocava strane piroette aranciate sul suo viso pallido.
Kiminobu abbassò lo sguardo. «Ogni tanto.»
«Hn.»
«Non eri così taciturno, quando sono andato via.»
«Neanche tu soffrivi d’insonnia.»
Ancora una volta Kiminobu si meravigliò – si meravigliò, e non riuscì a nasconderlo. «Non riesco a dormire, se sono troppo stanco.»
Kaede sorseggiò la sua tisana in silenzio.
«È bello essere a casa, comunque» mormorò Kiminobu.
«Tucson non è casa» disse Kaede, senza espressione.
A Kiminobu si strinse il cuore nel petto.
«Non finché ci sono i Clanton» concluse il fratello, in un sibilo.
Il più grande si concesse un lento, lentissimo sospiro. «Anche questo è essere a casa, per me. Non ricordo di aver visto mai Tucson senza Clanton. E mi piacerebbe poter credere che siano venuti in pace…»
«Hn.»
«Lo so che non è così. Eppure i Kanagawa sostengono che c’è del buono in ogni persona… in ognuno.»
«Tu ci credi?»
Kiminobu alzò gli occhi, incontrando quelli accigliati di Kaede. Li abbassò. «… no. Io non ci credo.»
Kaede spinse indietro la sedia e uscì dalla cucina – lasciandolo solo, il viso rosso per i fumi della tisana, a domandarsi cosa avrebbe fatto o dovuto fare per tener fede a ciò che aveva detto – come si sarebbe dovuto comportare, cosa avrebbe dovuto dire e pensare – a domandarsi perché la sua coerenza si sciogliesse in fumo – come il fumo caldo e profumato dell’infuso – quando pensava a lui.
Si coprì il viso con le mani e pianse. E d’un tratto – e se ne sarebbe pentito, poi – desiderò di non esser mai tornato.
Era una mattina cupa, rombante di tuoni lontani, che prometteva pioggia, e se c’era una cosa che terrorizzava Tempest, be’, quella era la pioggia. No, in verità erano due le cose: la pioggia e il fuoco. Ma anche una sola era sufficiente a farlo uscire di sé.
Il puledro continuava ad aggirarsi nel box come avesse il diavolo in corpo – in altri casi, si sarebbe limitato a rincantucciarsi in un angolino e tremare, ma no, quella mattina non voleva saperne di stare fermo – e di questo passo anche gli altri animali avrebbero cominciato a inquietarsi.
Kenji si avvicinò al recinto. Il puledro aveva smosso tutta la paglia con il suo inquieto girare in tondo. «Buono, buono…» sussurrò, alzando una mano per accarezzargli il muso.
Tempest si mosse di scatto per infliggergli un rapido quanto violento morso. Solo l’esperienza salvò Kenji dal perdere un dito – se non la mano intera. «E va bene» sibilò, contrariato. Sbloccò il saliscendi del box e si tirò indietro, mentre il puledro, di pochi mesi ancora, correva fuori e lasciava la stalla, diretto all’aria aperta.
Sarebbe tornato tremando, non appena i goccioloni avessero cominciato a cadere sulla terra scura del campo.
«Sempre la stessa storia?»
«Già» confermò, desolato.
Quel puledro era un caso difficile – uno dei più difficili che fossero mai capitati loro. Aveva perso la madre nell’incendio della passata estate, uno di quei roghi spontanei che a volte scoppiano quando la stagione è secca e da troppo tempo non piove. E proprio quella notte, benedizione o maledizione del cielo, le nuvole si erano addensate, dopo settimane di rifiuto, e avevano scatenato un acquazzone che aveva arginato i danni più consistenti. I cavalli più vecchi non ce l’avevano fatta, e neppure Layla, ancora provata dalle complicazioni sorte dopo il parto.
«Di solito riesco a calmarlo…» mormorò Kenji, con frustrazione.
La frase nascondeva un “ma” che l’altro non volle indagare. Gli posò le mani sugli avambracci e depose un bacio tra i suoi capelli. «Coraggio. Diamoci da fare.»
Kenji si rimboccò una manica, poi l’altra, con furia – troppa furia. Un rumore leggero e improvviso lo avvisò che aveva perso un bottone – eccolo lì, quel tondino bianco perlaceo sulla terra sporca della stalla. Inspirò, a denti stretti.
«Kenji? Cosa c’è?»
«Che diavolo, non lo so!» esclamò, assestando un pugno alla parete del box – con una violenza che non gli era abituale. I cavalli sollevarono la testa, spaventati. Kenji si prese i gomiti con le mani e appoggiò la fronte al legno ruvido – tremando.
«Kenji… ma…» Lo raggiunse e l’abbracciò, senza capire. «Kenji… che cosa c’è?» mormorò, preoccupato.
«Maledizione! Mille volte maledizione, che si fottano tutti quanti, quei figli di puttana!» gridò Kenji.
«Ma di chi parli…?»
Kenji si voltò di scatto. «I Clanton» sibilò. «I Clanton sono in città! Adesso capisci, Toru? Capisci? Tutto quello per cui abbiamo lavorato… tutto quello che abbiamo costruito insieme…» Scosse la testa, nervosamente. «Dovranno passare sul mio cadavere, prima di… di… oh, che si fottano!» ripeté, scostandosi dal compagno. «Che si fottano tutti e quattro, quei pendagli da forca…!»
Toru, detto Tower, rimase immobile, le braccia lungo i fianchi. Solo il suo sguardo, se l’altro l’avesse ricambiato, avrebbe dimostrato palesemente quanta poca inerzia era in lui. I suoi occhi bruciavano, dietro le lenti. «Da quanto sono tornati?»
«Ieri» rispose l’altro, mangiucchiandosi le unghie.
«E da quanto lo sai?»
Kenji alzò lo sguardo. «Ieri, Toru. Non… non ce l’ho fatta a dirtelo, va bene? Eri troppo stanco, e anch’io ero stanco, dopo il crollo di quel fottuto magazzino, e per ora non ne va una giusta, lo sai anche tu, no? Non te lo potevo dire, ieri. Scusami» concluse, senza guardarlo.
Toru scosse la testa. «Non importa» sibilò, in tono combattivo. «Non si prenderanno neppure uno stelo dell’erba che cresce nel nostro ranch. Dovessi spaccargli la testa uno ad uno a fucilate!»
«Mi hanno detto…»
«Chi te l’ha detto?»
«Geene McPerson. È passato mentre tu rimettevi a posto quella trave. Mi ha detto che Hike Clanton è andato da Ricky Earp, ma non sa cosa si sono detti.» Serrò il pugno. «Che io sia maledetto se quel delinquente metterà mai piede qui dentro! Fammi a pezzi se glielo permetto!» Sputò a terra, rumorosamente.
Toru gli posò una mano sulla guancia e gli sollevò il viso dolcemente con le dita callose. «Per questo stanotte non hai dormito un’ora?»
L’espressione di Kenji si addolcì. «Te ne sei accorto?»
«Pensavo che avessi la febbre, continuavi a girarti e smaniare…»
«Non ho fatto dormire neanche te, vero?»
Toru scrollò le spalle. «Non sono stanco.»
«Dovresti. Ieri ti sei distrutto per rimettere a posto quel… quel… ma possibile che non ne vada bene una, per ora?» proruppe, ancora a voce troppo alta.
«Shh… non spaventare i cavalli» mormorò Toru. «Non sono stanco» ripeté. «È vero, è un brutto periodo, ma niente che non si possa superare. Abbiamo superato tutto, insieme. Tutto. Ricordatelo, anata. Ricorda quando siamo venuti qui.»
Kenji sospirò. «Lo so, lo so, ma quest’ultimo mese… è stato un inferno, Toru. Un inferno. E ora, i Clanton…! Mi vien voglia di scendere in città e ammazzarli a fucilate, dal primo all’ultimo, prima ancora che…»
«Kenji» lo fermò il compagno, posando una mano sulla bocca. «Questo non è da te.»
L’altro baciò il suo palmo e scosse la testa. «No. Non è da me. Sarebbe un comportamento degno di altre persone… più forti, più virili. Forse ti piacerei di più se fossi così.» Senza rivolgergli un altro sguardo si rimboccò meglio le maniche e afferrò il manico del secchio con la biada.
«Da dove ti vengono queste idee?»
Si voltò. «Sono solo pensieri. È il nervosismo. Non farci caso.»
«Voglio saperlo, Kenji. Che razza di pensieri sono?»
L’altro si passò il dorso della mano sulla fronte accaldata. «Solo a volte penso che ti piacerebbe avere qualcuno… diverso da me. Qualcuno più forte, ad esempio. Ieri, quand’è crollato il magazzino, hai dovuto fare quasi tutto da solo, ed io…» Scosse la testa. «Non sono pensieri importanti, va bene? Fai finta che non ti ho detto niente.»
Toru colmò in un passo la distanza tra loro. «Dopo otto anni ancora riesci a dire queste sciocchezze?»
«Proprio perché sono passati otto anni, mi vengono questi pensieri, Toru. Ammettiamolo. Io… io non sono esattamente quello che vuoi. Non più. Forse un tempo, ma… ora…» Scosse la testa, di nuovo, ripetutamente. «Non ha importanza, va bene? L’importante è il ranch. Tutto quello che conta è il ranch.»
«Non sei quello che voglio? Kenji? Ma che diavolo…»
«Per Dio, Toru, non me lo sono sognato. Non me lo sono sognato che non mi tocchi da due mesi.» Distolse lo sguardo. «E a questo punto… io… me ne sono fatto una ragione. Si è spenta la fiamma. Comprensibile. Punto e chiusa discussione. Adesso ci mettiamo al lavoro?»
Si sentì artigliare gli avambracci, e in un attimo, senza capire come, si ritrovò con la schiena sbattuta contro la parete del box di Tempest (un gemito di dolore non riuscì a uscire), la bocca di Toru a coprire la sua, la lingua del compagno a battagliare con l’umida rivale, le sue mani grandi addosso, che lo stringevano con violenza. «Stupido… stupido…» ansimò Toru. «Se ti sbatto qui contro questa parete è una dimostrazione sufficiente? Tu e i tuoi ragionamenti…»
Kenji lo guardò con occhi pieni di rimorso. «Io… Toru…»
«Per Dio, Kenji, ti costava dirmelo prima? Perché hai aspettato tanto?»
«Dirti cosa? Che avevo paura che non mi volessi più? Toru, io… perché… due mesi…»
«Non lo so perché… è successo, non chiedermelo! È stato un bruttissimo periodo, anata, lo sai.» Gli baciò la bocca, furiosamente. «Lo facciamo qui.»
«O… ora?» mormorò Kenji, sgranando gli occhi.
«Ora. Chi vuoi che venga?» Lo spinse sulla paglia fresca ammonticchiata fuori dai box in attesa di essere cambiata con quella vecchia. «Ora» ripeté, vedendolo sul punto di compiere un qualche gesto.
Ma il gesto di Kenji era un semplice levarsi della mano verso l’alto, per chiamarlo a sé. Senza frasi pregare, Toru si distese con lui tra la paglia. «Sei bellissimo…» sussurrò, spogliandolo. «Sei bellissimo e faresti impazzire chiunque… chi ti ha messo in testa che non ti volevo più… chi…»
Kenji voltò il capo da un lato e dall’altro, smaniando. «Se non mi sbatti adesso impazzisco io… Toru… subito…»
«Senza neanche…»
«Subito!» ripeté, con urgenza. Poi gettò indietro la testa e il caschetto di morbidi capelli castani, che smise di coprire la fronte, e le palpebre socchiuse nascosero lo smeraldo degli occhi. Allacciò le caviglie sopra la sua schiena. «Ora, Toru… Toru…» E poi gridò, disperatamente, più di dolore che di piacere, ma per la prima volta dopo due mesi si sentì bene.
Toru poggiò il capo sul suo petto, ansimando. Gli accarezzò il viso. Gli aveva fatto male – tremendamente, lo sapeva. Non avrebbe voluto, maledizione. Posò un bacio sulle sue labbra, lacerate dai morsi che da solo si era inflitto. «Questa notte lo facciamo meglio» sussurrò, scostando i capelli umidi di sudore dalla sua fronte.
Kenji scosse la testa. «Va tutto bene… non ti preoccupare…»
«Questa notte ci sarà solo dolcezza…»
Kenji socchiuse le palpebre. «Non vedo l’ora…»
Leggeri colpetti di tosse imbarazzata li riscuoterono all’istante. «Pa-padroni, allora io… io… to-to-torno più tardi, va… va bene?»
Neanche a dirlo, era Johnny, uno dei loro aiutanti. «Ma tu non dovevi essere a casa, oggi?» proruppe Toru, coprendo malamente sé stesso e il compagno con i vestiti.
«No… no, padron Toru! Domani, padron Toru!»
«Be’, allora vacci e torna domani…» disse Kenji. «Che aspetti? Vai!» Sorrise mentre il ragazzo correva via congestionato in viso e malfermo sulle gambe. Se aveva visto anche solo la metà di quanto poteva immaginare, be’… dubitava che l’avrebbe dimenticato tanto facilmente.
E stranamente, la cosa non lo imbarazzava affatto. Allacciò le braccia al collo di Toru e lo attirò giù per un lungo bacio. «Ti amo, anata.»
«Ti amo anch’io» sussurrò Toru. «Né più né meno di otto anni fa.»
«Non più…?» mormorò Kenji.
«Come potrei? Già allora ero giunto al limite della capacità di amare di un uomo… Di più c’è solo Dio.»
Kenji sorrise, dolcemente. «C’è un altro guardone… Voltati…»
Era Tempest, che, tornato con la coda tra le gambe, bagnato e infreddolito, li fissava con gli occhioni scuri sgranati. Forse riusciva a percepire l’odore del desiderio che avevano consumato – per loro lieve, coperto dalla paglia e dal tanfo della stalla, ma i cavalli avevano un olfatto superiore.
Toru si tirò in piedi e si rivestì. «Che hai da guardare?» sbottò allegramente, assestandogli una manata sul fianco.
«Mettiamoci al lavoro» disse Kenji, andando a prendere il secchio con la biada. «Queste povere bestie stanno morendo di fame…»
Erano parecchio in ritardo sulla tabella di marcia. Ma, chissà perché, non gli dispiaceva particolarmente.
Fin da quando avevano lasciato Tucson, i Clanton avevano una foto. Era una foto piccola, ingiallita. Mitch ne era il custode.
La foto ritraeva il volo di un uomo – un uomo non già morto e non più vivo, imprigionato per sempre nel funambolico equilibrio tra l’aldiqua e l’aldilà.
Un altro uomo, con metodo e calma, aveva apparecchiato dinanzi allo spettacolo una macchina fotografica (aggeggio nuovo e fascinoso, in quello scoglio di mondo), poi era scomparso sotto la tendina a lutto della camera oscura e aveva atteso – la paletta con il magnesio levata nella destra a mo’ di bandiera. Aveva atteso che l’uomo della foto, che nella foto non c’era ancora, compisse il suo volo.
Lo scoppio del magnesio aveva segnato la prigione dell’uomo, per sempre rinchiuso, ormai, nella pellicola nascosta e già incisa.
La foto era piccola, ingiallita da varie vicissitudini che non l’avevano risparmiata.
Il suo custode era Mitch.
«Ehi, sgorbio.»
Il ragazzo dai capelli di fuoco alzò gli occhi sul fratello, indispettito. «Sgorbio a chi?»
Una dolcezza che nessuno aveva mai visto, nessuno che non avesse sangue di Clanton, tinse gli occhi di Hisashi mentre posava lo sguardo sul fratello. Gli passò la mano tra i capelli, a scompigliarli. «La solita foto…?»
«Già» borbottò Hanamichi, sollevando il pezzo di carta sbiadito dagli anni, rosicchiato agli angoli.
Hisashi guardò il fratello che guardava la foto, e meditò che forse era giunto il momento di smuovere un po’ le acque – quelle tormentate dell’animo di Mitch. Un Clanton non deve avere dubbi né ripensamenti, mai. Strinse il sigaro fra i denti e prese la foto dalle mani del fratello. «Guarda qui» disse. «Ora ti spiegherò una cosa. L’hai guardata bene, questa foto?»
Hanamichi annuì, senza capire.
«No. Non l’hai guardata bene. Non hai notato niente, di’?»
Hanamichi fissò la carta consunta come se dovesse rivelargli nuove verità. «C’è papà che sta cadendo. E poi?»
«Perché sta cadendo?»
«Perché ha la pallottola di Earp nel petto» mormorò Hanamichi.
«No. Guarda bene.»
Il ragazzo corrugò la fronte. «Ma che? Non c’è altro da vedere, Hisa. Che ci dovrei trovare?»
Hisashi aspirò e poi sputò una nuvola di fumo, pazientemente. «La vedi la traiettoria con cui sta cadendo? Uhm? La vedi?»
«La vedo, la vedo. E allora?»
«E allora, secondo te uno colpito al petto fa questo volo? Guarda bene, Hanamichi.»
Il ragazzo dai capelli di fuoco alzò lo sguardo, di scatto. «Ma che mi stai dicendo, Hisashi? Earp era di fronte, da dove poteva mai…» Si fermò. «Che mi stai dicendo?» ripeté, sottovoce.
Hisashi si limitò a guardarlo, in silenzio, per un lungo istante.
«Hisashi» lo incalzò Hanamichi, i cui occhi nocciola stavano assumendo una luce febbrile. «Earp gli ha piantato una pallottola in petto, no? No? Hisashi!»
Il fratello maggiore scosse la testa. «C’era uno, dietro. Su un tetto. Uno che sparava a pagamento. La pallottola di Earp era andata a vuoto. Non ci credi? Guarda,» aprì la camicia e si tolse dal collo il piccolo reliquiario di metallo, lo aprì, «questa è la pallottola di Fletch Earp.» Si tolse il sigaro dalla bocca e sputò a terra.
Hanamichi prese il bussolotto e impallidì. Sul proiettile erano incise le iniziali F.E.
«A tradimento» sibilò Hisashi, spietato. «L’ha ucciso a tradimento. Tu lo devi capire, Hana. Lo devi capire, perché Hike ammazzando Earp ci ha ridato l’onore. A papà e a noi.»
Hanamichi si rigirava freneticamente il bussolotto tra le mani, neanche scottasse. «Hike doveva vendicare papà…»
«Esatto. Hai capito perfettamente, Hana. Hike doveva vendicare papà.»
«È colpa degli Earp se papà è morto…»
«Guarda che hanno dovuto fare, per ammazzarlo. Papà non lo ammazzavano neanche le cannonate. Papà non lo ammazzava nessuno» sussurrò Hisashi.
«Era il migliore…»
«In assoluto.» Hisashi si ritirò, soddisfatto. Hanamichi sarebbe diventato un grande pistolero, se solo avesse fatto piazza pulita di quella sensibilità malata che lo prendeva nei momenti più impensati. Sentimenti? Loro erano banditi, ladri di cavalli – i migliori del West. Dei sentimenti non sapevano che farsene.
Hanamichi gli ricordava terribilmente una persona… terribilmente, perché mai e poi mai sarebbe dovuto diventare come lui. Una mammoletta, una checca paurosa? Uno che coglie fiori di campo? L’avrebbe ammazzato prima, con le sue stesse mani. Un colpo in fronte, prima di vederlo diventare come lui.
Lui. Socchiuse le palpebre. C’erano notti in cui gli mancava. Poche, ma terribili.
«Vai a esercitarti con Nobu.»
«Non ho bisogno di esercitarmi, le so già fare quelle cose…»
Rapido, quasi invisibile, Hisashi sfoderò la pistola e gliela puntò alla fronte. «A quest’ora eri già morto, Mitch. Sicuro che non hai bisogno di esercitarti?»
«Va bene, va bene…» borbottò il fratello minore, alzandosi. Gettò un ultimo sguardo inquieto alla foto e la ripose in tasca, poi si allontanò verso lo spiazzo dove Nobunaga sparava a un’ordinata fila di bottiglie – senza mancarne una.
«Saranno loro i migliori, dopo.»
Hisashi annuì. Dopo che loro fossero stati tolti di mezzo, intendeva. Si tolse il sigaro dalla bocca e lo porse al fratello. «Nobu o Hana?»
«Nobu» rispose Akira.
«Hana» replicò immediatamente.
Si fronteggiarono per un istante in silenzio, poi scrollarono minimamente le spalle. Non che avesse importanza, ma ognuno parteggiava per il proprio pupillo. «Nobu te lo sei fatto soffiare da Sean. Perché? La sa tenere in mano la pistola, quello?»
«Meglio di quanto pensi» sibilò Akira. «Nobu ha la mano ferma.»
«Per uno che a undici anni prende tutte le malattie che trova.»
«Si irrobustirà.»
«Se non morirà prima.» Fissò il fratello di nuovo in silenzio, poi scosse la testa. «Si irrobustirà.»
«È un Clanton.»
«Così pare.»
«Così è.»
«Non lo metto in dubbio. Sei nervoso, oggi, Hike?»
Il fratello maggiore rimase in silenzio. Si limitò ad accostarglisi e spostare la mano che, fino a quel momento, aveva tenuto premuta sul fianco.
Sanguinava copiosamente.
Hisashi fischiò a bassa voce. «E questa…?»
«Stanno arrivando. Leviamo le tende.»
«E sia.» Gettò a terra il sigaro, ormai ridotto a un mozzicone, e lo calpestò con la punta dello stivale. Si voltò come per un ripensamento. «Quanti sono?»
«Cinque.»
Uno sfavillio corse negli occhi del fratello. «Io e te si potrebbe…»
«E a loro chi ci pensa?»
Hisashi scosse la testa. «Mocciosi…» Alzò la voce. «Muovete le chiappe o vi lasciamo qui, capito, sgorbi?»
«Sgorbio a chi, sfregiato?!» ruggì Hanamichi.
Hisashi si passò il pollice sulla cicatrice fresca che aveva sul mento. Gliel’aveva fatta uno dei gemelli Earp… quale dei due? Kay o Ray? Il secondo, gli pareva di ricordare. Socchiuse gli occhi.
Io ti ammazzo, bastardo, hai capito? Ti ammazzo! (Mani tremanti di undicenne strette intorno al calcio di una pistola nuova fiammante) Tu mio fratello non lo dovevi toccare! (Un ruggito da cucciolo di leone, Hisashi ride, Hisashi non sfiora neanche la propria pistola, Hisashi sa che non lo colpirà) Peggio per te! (Lo scoppio e poi un sibilo, Hisashi vede la propria morte negli occhi dell’altro e volta il capo – fa appena in tempo a tirarsi indietro. Bruciore sul mento e poi sangue – poche gocce, ma è suo. Ryota urla di rabbia, Hisashi sfodera la pistola – lo ammazzerà, lo ammazzerà anche se è un bambino, che impari subito la lezione – possono i morti imparare? non importa, lo ammazzerà – alza il cane ed è un momento, la sua mira è perfetta, lo colpirà al centro della fronte o alla gola? O allo stomaco, dove l’agonia è infinita? Esita un attimo nell’indecisione e
lì un grido frusta l’aria alle sue spalle) Hisashi! Fermati! (Serra i denti, lui, lui perché? Perché lui? Si para di fronte al fratello e gli fa scudo) Ma sei impazzito? (grida, non si sa a chi parli, ma grida e lui non grida mai) Che diavolo state facendo? Ryota! Ti sei bevuto il cervello? (Gli strappa di mano la pistola) Perché? (Ryota ha un bagliore colpevole negli occhi, esita, poi urla senza lacrime una scusa) Hanno ammazzato papà! (Bestemmia, l’effetto sarebbe comico se non ci fosse tanta disperazione, ripete esausto) Hanno ammazzato papà! (Hisashi guarda la scena e ripone la pistola, sputa a terra, guarda gli occhi di Kiminobu e si domanda perché diavolo, perché diavolo gli piacciano così tanto i suoi occhi, glieli caverebbe per non vederli più, lo ammazzerebbe per non incrociarlo più per strada – guardarlo gli dà i brividi.
Kiminobu gli dà i brividi. Gira sui tacchi e se ne va, così, senza spiegazioni. Questione di tempo. Alla fronte o allo stomaco? Dov’è più lento morire? Aspetta, Ray Earp, aspetta…)
«Dovrai attendere, ma è solo questione di tempo» mormorò Akira.
Hisashi lo guardò di sbieco. Possibile che non gli sfuggisse mai niente, mai? Ma era per questo, e non per l’età, che era diventato il loro capo.
«Mi prudono già le mani» rispose, con una smorfia truce.
Fuori la pioggia era una cappa fredda e cupa, e le strade erano ammassi disabitati di fango appiccicoso. I muri e le finestre di casa Earp ticchettavano.
«Kiminobu?»
Era chino su un vecchio baule, talmente vecchio che non vi si riuscivano più a leggere le quattro lettere scavate grandi sul coperchio: la polvere aveva riempito le incisioni e formato un manto omogeneo. Adesso però la coperta polverosa recava il segno di una mano – molto più grande dell’ultima volta.
«Kiminobu?»
Una vecchia pistola arrugginita, del nonno, forse… No, T.E., del bisnonno Terence… un cinturone consumato, qualche proiettile… e poi giocattoli, pochissimi, e quello?, un dente da latte, chissà di chi… e poi… e poi… uno scialle azzurro di seta… L’aveva portato lei dal Giappone. Lo prese nelle mani e quello si aprì in un lungo strappo, tarmato com’era. Lo portò al viso. Odorava ancora di lei, dopo cinque anni e più, conservava ancora il suo profumo di vaniglia e d’Oriente…
«Kiminobu?»
Lo ripose, attirato da un’altra cosa. Raccolse la foto con un tremito nella mano. Erano stati tra i primi a farsene scattare una quando quello strampalato giovane dell’Est era venuto con la sua macchina in spalla. Era stato papà a volerlo. Diceva che un ritratto costava troppo e impiegava troppo tempo, e poi amava le cose strane, i marchingegni fantasiosi.
Nella foto, era seduto al centro insieme alla mamma. Lui alto, con un bel baio di baffoni come si usavano, una zazzera scomposta di capelli che la foto faceva sembrare neri, ma erano sempre stati d’un castano orgoglioso. Mamma minuta e dolcissima, seta corvina raccolta in una coda sulla spalla destra, pelle candida, e meravigliosi occhi a mandorla. Sorrideva, e quando mai non l’aveva fatto?
Ricky era in piedi accanto a papà e guardava l’obiettivo in cagnesco – non gli piaceva quella macchina. Kim era dall’altra parte, accanto a lei, e invece sorrideva apertamente. Ray e Kay erano accucciati ai piedi dei genitori – Ray sospettoso, Kay colto nel mezzo di un sonoro sbadiglio.
«Kiminobu?»
Voltò la foto e lesse la data. 3 Aprile 1875. Impallidì. Le foto erano due, incollate dall’umido. Staccò la seconda con delicatezza, ma sapeva già cosa aspettarsi.
Papà… papà che stramazza al suolo, ucciso da Hike Clanton. L’autore era riuscito a scattare due sole foto, lì a Tucson, prima che una pallottola vagante lo stroncasse. Una l’aveva lui in mano. L’altra era quella, gemella terribile, della morte di Joe Clanton.
«Kiminobu!»
Gettò la seconda foto nel baule e lo chiuse di scatto. «Ryota…? Che c’è?»
«… perché stai qui, Kim?»
«Niente, Ryo. Guardavo qualche cianfrusaglia.» Gli porse la foto di famiglia, con un lieve sorriso. «Ricordavo che doveva essere da qualche parte…»
Ryota la guardò e sorrise a sua volta. «Papà mi aveva dovuto costringere…»
«È una bella foto. Avrei dovuto portarmela» disse Kiminobu.
«Perché non l’hai fatto?»
Scrollò le spalle. «Pensavo di tornare presto.»
«E invece…?»
«Invece niente, Ryo. È andata in modo diverso.»
Sentì che voleva domandarglielo. Voleva chiedergli perché se ne fosse andato. Ma non l’avrebbe fatto e Kiminobu lo amò per questo. Era sempre stato eccezionalmente discreto.
Si tirò in piedi, spolverandosi le ginocchia. Aveva messo via gli abiti indiani e indossato un paio di pantaloni di Kay, tanto ormai portavano la stessa taglia. Avrebbe dovuto rifarsi il guardaroba, prima o poi.
«Kim…?»
«Sì?»
«Oggi cucini tu?»
Kiminobu sorrise. «Ma in questi cinque anni come avete fatto?»
Ray si grattò la nuca, scuotendo la testa. «… è stato un periodo difficile.»
«La dispensa è piena, almeno?»
«No… dobbiamo andare a comprare qualcosa.»
«Va bene. Scendiamo.»
Uscirono di casa diretti alla bottega, ma a metà strada Ray volle che si fermassero un attimo al saloon. «Saluto Aya, sai com’è» borbottò, con un sorrisino.
Ma da fuori era tutto buio. «Strano» mormorò Kimi. «Chiuso all’ora di pranzo?»
«Ma no, che chiuso, vieni…» Entrò per primo e Kiminobu lo seguì, vagamente perplesso, finché l’oscurità non lo inghiottì. «Aya?» disse Ryota a voce alta. Allora sentì un frastuono di serrande tirate su di scatto e la luce gli si riversò tutta insieme sulle pupille, violentemente. Sbatté le palpebre per mettere a fuoco.
Erano lì. Tutti.
C’erano Sean e Aya, al centro, e i suoi fratelli intorno – anche Kay, sì, stranamente sveglio, e Ricky che sembrava voler nascondere una certa commozione –, e poi Keith, con un braccio intorno alle spalle di Geene, e Geene con un sorriso più luminoso del solito, se mai era possibile.
«Un applauso per il nostro Kim che è tornato a casa!» gridò Aya. E poi, dal momento che l’applauso le era apparso fioco, soggiunse un ringhiante: «Spellatevi quelle mani o vi ficco una scopa nel culo!»
Kiminobu sentì un fuoco divampargli nelle guance. Al centro della sala, appositamente sgombrata, avevano posto un bel tavolo grande, e lì sopra la torta più colossale che avesse mai visto. Occupava tutto il tavolo. Era… gigantesca.
«Ma… ma…»
Sopra le teste dei presenti, alto su una trave, era stato assicurato un lungo lenzuolo a mo’ di striscione: “WELCOME BACK KIM”. Le lettere erano dipinte di rosso sgargiante.
«… non so che dire…» Si passò una mano sugli occhi, fugacemente. «Vi siete messi d’accordo tutti quanti…»
«L’idea è stata di Aya» disse Sean, con un sorriso.
«Ha fatto anche la torta» sottolineò Ray, che guardava d’identico amore il dolce e la sua adorata.
La ragazza si fece avanti ad abbracciarlo. «Non dovevi, non dovevi, Aya, è troppo…» mormorò Kiminobu.
«Che troppo e troppo?» squittì lei. «È il minimo.» Gli assestò un pugnetto sulla guancia. «E adesso si beve, chiaro?» Si voltò. «Brindiamo!» Prese un bicchiere, glielo mise a forza nelle mani, stappò la bottiglia – era vino vecchio, portato dall’Europa – e versò generosamente, poi la passò a Sean.
«Dio, Aya, ma questo è inglese! Ma ti sei ammattita?» esclamò Kiminobu, spalancando gli occhi.
Uno scappellotto pesante sulla nuca gli fece mordere la lingua. «Zitto e bevi» ordinò la ragazza, con cipiglio.
Kiminobu alzò una mano in segno di scusa. Guardò gli altri e poi buttò giù il vino tutto d’un sorso. «Vi ringra…»
«Discorso! Discorso!» urlò Aya, battendo selvaggiamente le mani.
Kiminobu si schiarì la gola. «Vi ringrazio tutti dal profondo del cuore. Davvero. Non dovevate. Ma visto che ci siamo… Aya, posso assaggiare la torta?»
Spartirono il dolce, apparentemente di dimensioni spropositate, ma che si rivelò invece della misura adatta a soddisfare la voracità dei presenti – di cui Keith, Ray e una sorprendente Aya si rivelarono gli elementi più rappresentativi. Quando i tre si lanciarono in una sfida privata a chi mangiava più torta senza usare le mani – sfida che si concluse in un delirio di panna in faccia – Kiminobu si sentì per la prima volta veramente a casa.
Quanto gli era mancato tutto questo?
«Tower e Ken si scusano, ma non potevano lasciare il ranch» disse Geene.
Kim annuì. «Andrò a trovarli più tardi.»
«Sono molto contenti che tu sia tornato, sarebbero voluti venire, ma… per ora, sai…»
Annuì di nuovo, incupendosi leggermente. «Purtroppo non c’è molto altro di valore, a Tucson… o almeno, non c’era quando sono partito» soggiunse, con un sorriso imbarazzato.
«È ancora così» disse Geene, posandogli una mano sul braccio. «Non è cambiato niente, Kim, non ti preoccupare.»
«Tranne le persone.»
«Neanche noi siamo cambiati, Kim…»
Kiminobu scosse la testa. «Io guardo i gemelli e non li riconosco, Geene.»
«Ma erano bambini, loro.»
«Lo so, ma sento che mi manca qualcosa e che non lo recupererò più. Io non c’ero quando sono cresciuti. Sono i miei fratelli. Forse sarei dovuto rimanere, chissà.»
Non avrebbe potuto, lo sapeva. Non ne avrebbe avuto la forza. Ma tutto quell’affetto sprecato per lui lo faceva sentire terribilmente in colpa.
«Cinque anni non sono così tanti, Kim. Basterà una settimana a recuperare. Mai vista una famiglia più bella della vostra» sorrise Geene.
Kiminobu sorrise di rimando, ma più per simpatia che per convinzione. Quando guardava i suoi fratelli – Kay in particolare – lo assaliva un senso di straniamento sgradevolissimo. Non altrettanto con Ricky, che era rimasto il solito – uguale a come lo ricordava financo nel modo di portare il bicchiere alle labbra.
Scrollò mentalmente le spalle. Aveva ragione Geene. Un po’ di tempo e tutto sarebbe tornato come prima. Tutto.
«Geene… a te piace la panna, vero?» sentì domandare da Keith.
«No… no… no, Keith!» gridò Geene, ridendo, ma era troppo tardi. Il cugino l’aveva afferrato per le braccia e aveva premuto sulla sua la bocca ricoperta di panna bianca. E mentre i McPerson sprofondavano in un bacio zuccheroso, Kim li guardava e rideva, e per un momento – malgrado i cattivi pensieri, i ricordi tristi che lo tormentavano e quelli allegri che gli mettevano malinconia – non poté fare a meno di sentirsi profondamente ottimista.
«Ma come? Una festa e non veniamo invitati?» Freddo improvviso. Il sorriso di Hike Clanton – Dio, avrebbe venduto l’anima pur di non vederlo mai, mai, non averlo mai visto, cancellarlo dalla memoria. «Non è gentile.»
PERSONAGGI E INTERPRETI (in ordine di apparizione):
Ricky Earp ------> Hiroaki Koshino
Hike Clanton ------> Akira Sendo
Ash Clanton ------> Hisashi Mitsui
Kim Earp -------> Kiminobu Kogure
Mitch Clanton ------> Hanamichi Sakuragi
Kay Earp --------> Kaede Rukawa
Bob Clanton ------> Nobunaga Kiyota
Ray Earp -------> Ryota Miyagi
Mean Casemite ------> sorpresa!
Josh Meenham ------> sorpresa!
Keith McPerson ------> Kitcho Fukuda
Geene McPerson ------> Soichiro Jin
Sean O' Connor ------> Shin'ichi Maki
Aya O' Connor ------> Ayako (ma ce l'ha un cognome, 'sta ragazza???)
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