É forse la fic cui mi sto dedicando con maggiore impegno... per la difficoltà del genere (western) che non ho mai trattato! La dedico a Mercy che mi ha aiutato con i nomi e che per ora studia lontano lontano!!! ^*^


Sfida all'OK Corral
di Fiorediloto

TITOLO: Sfida all'OK Corral
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 1/???
RATING: AU/NC-17
PAIRING: tutti i canonici
DISCLAIMERS: I personaggi non sono miei ma del divino Inoue!!!
NOTE: La storia di come io sia giunta a partorire questa ficcina ha del rocambolesco. Vuole essere una parodia, o meglio un seguito, di "Mezzogiorno di fuoco", ma io non ho mai visto "Mezzogiorno di fuoco" e al tempo, quando ho cominciato a scriverla, non sapevo neanche che questo fosse il titolo. Sono venuta a conoscenza del film attraverso una puntata di Star Trek (di cui invece sono appassionata fan), nella quale il capt. Kirk e compagnia bella venivano catapultati, appunto, nella trama di questo western.
I nomi dei personaggi sono tanti americanizzati. Li trovate tutti con i corrispettivi in fondo alla pagina, ma vi consiglio di leggere prima la storia e provare ad indovinarli da soli... alcuni sono molto facili, altri un po' meno. Spero che la ficcy vi piaccia e buona lettura!



Quattro paia d’occhi, a destra. Scrutano, aggrondati.
Altrettanti a sinistra.
Quattro menti, a destra. Pulsano d’impazienza.
Altrettante a sinistra.
Quattro cuori, a destra, che battono selvaggiamente.
Quattro paia di braccia, a destra, e gambe nervose.
Quattro pistole.
Niente che non ci sia anche dall’altra parte.
Non ha paura, Ricky Earp, anche se il suo avversario è il più forte dei quattro. L’ha scelto, e lui lo sa. Sa anche che gli sanguina il cuore, e che la stella dorata al petto gli pesa come mai nella vita.
Lo sa. Hike Clanton sa sempre tutto.
L’aria tra la mano e la pistola sfrigola. Che sia presto. Che sia presto ciò che deve essere.
E poi a Dio.
Ash Clanton è nervoso, e non va bene. Proprio lui? Il più freddo e distaccato dei quattro? Indaga tra le sensazioni, domanda risposte al suo corpo. Il suo corpo non risponde.
Kim Earp segue con gli occhi i movimenti del suo animo. Non lo abbandona un istante. Se si fermasse – se il cuore di Ash Clanton perdesse un battito – lui lo saprebbe. Lo capirebbe.
Ha l’aria triste e malinconica che da un po’ di tempo lo caratterizza. Ma è deciso. Sa cosa fare, ha fatto pace con la propria coscienza. E Ash non può neppure immaginare cosa abbia deciso.
Darebbe un braccio pur di saperlo.
Ma il più nervoso è Mitch, Mitch Clanton. Gli occhi della volpe non lo lasciano respirare. Gli occhi di Kay Earp. Non c’è tempo di pensare, di congetturare, di rimandare. Non l’ha più, il suo tempo – ma Dio sa che ne vorrebbe ancora un pizzico, un sorso, un cucchiaino. Un infinitesimo in più. E non l’ha.
Gli occhi della volpe non lo lasciano respirare. Sono un mare blu-nerastro nel quale affoga. Dio. Solo un altro po’ di tempo…
Bob Clanton e Ray Earp non si vedono l’un l’altro. Si guardano, si osservano, si scrutano – ma non si vedono.
Entrambi avvertono sulla nuca la carezza di occhi ben più gentili – cari, amati, e non li riavranno più su di sé.
Si fanno forza, pensando che almeno uno di loro due sarà felice. Ciò li rende improvvisamente, e mortalmente, solidali.
Intorno, è un cimitero di anime mute. Sono lì, tutti, senza esclusione.
«Ci sarà da ridere.» È Mean Casemite, seduto sulla staccionata.
«Questo è sicuro» gli risponde l’altro, Josh Meenham.

CAPITOLO PRIMO: I CLANTON

«I Clanton! Sono tornati i Clanton!»
Keith McPerson alzò gli occhi dal delicato ingranaggio che stava montando e fece un balzo sulla sedia, mandando all’aria la cassa aperta dell’orologio.
«Geene! Dio mio, che ti sei fatto?»
L’altro, trafelato, si scostò la mano dalla fronte con una smorfia. Solo allora parve accorgersi del sangue che gli impiastricciava il palmo.
«Chi ti ha colpito?» chiese Keith, scostando delicatamente i capelli del cugino dalla ferita. «I Clanton… ti hanno visto? Sono stati loro?»
Geene socchiuse le palpebre. «I Clanton non fanno queste cose, Keith.»
«Ma allora…»
«Mentre correvo a casa sono inciampato e ho battuto la testa» spiegò, arrossendo un poco.
Keith sorrise leggermente – un sorriso offuscato dalla solita premurosa preoccupazione. Lo fece sedere, mentre apriva l’armadietto dei medicinali.
«Così sono tornati…» ripeté a se stesso.
«Sì.»
«Chi hai visto? Tutti e quattro?»
Geene scosse leggermente la testa. «Ash e Mitch. Erano giù al saloon.»
«A portar rissa, conoscendoli.»
«Lo pensavo anch’io, invece erano buoni in un angolo a bere. Niente di particolare. Erano tranquilli… come se fosse normale per loro stare lì.» Geene fece una smorfia, sentendo il panno imbevuto d’alcool bruciargli la ferita, poi riprese: «Mi sono avvicinato…»
«Perché?» scattò il cugino.
«Perché Mitch mi aveva visto e salutato» rispose Geene, lentamente. «Siamo cresciuti insieme, dopotutto.»
«Non mi fido dei Clanton» borbottò Keith, riprendendo a medicarlo. «Passi per Mitch e Bob, ma Hike e Ash non mi sono mai piaciuti.» Fece una pausa. «Soprattutto Hike.»
«Hike non c’era» gli fece notare Geene, con dolcezza. «Ash non mi fa paura, e poi c’era Mitch. Era meno allegro del solito, però. Mi ha detto qualcosa riguardo a Kay.»
«Kay Earp?»
«Sì. Mi ha detto che intendeva sfidarlo, ma Hike gliel’ha proibito…»
Keith si fermò. «Perché vuole sfidare Kay Earp? Che gli ha fatto?»
«Niente. Vuole dimostrare di essere il più bravo.»
Keith chiuse la bottiglia dell’alcool e gettò in un angolo il panno che aveva usato. «Che scemenza.»
«Mitch non è un tipo riflessivo, lo sai.»
«Mitch è un idiota.»
«… sì, così dice Kay Earp.» Sospirò, indicando l’orologio che si era schiantato sul pavimento. Ingranaggi e rotelline si erano sparsi sul pavimento. «Scusami, non dovevo entrare di colpo. Quanto lavoro ti ho fatto perdere?»
«Bah, non importa. Non era niente di speciale» rispose Keith, andando a raccogliere i pezzi.
«Una commissione?»
«No, un esperimento.»
«Non mi dici di cosa si trattava?»
Keith si inginocchiò sul pavimento davanti a lui, posandogli l’orologio in grembo. Era piuttosto largo, delle dimensioni di un piatto. «È da un po’ che penso di farne uno che resista all’acqua.»
«Ma il ferro arrugginisce, con l’acqua…»
«Appunto. Bisogna trovare il modo di non farla entrare.»
«O cambiare materiale.»
«L’oro?» fece Keith, inarcando un sopracciglio.
Geene scosse la testa, con un sorriso. «Comunque è una bella idea. Perché dici che non è niente di importante?»
«Perché non mi riesce, ecco perché» disse Keith, scrollando le spalle.
«Non c’è niente che non ti riesca» sussurrò Geene, dolcemente. Si chinò sul suo viso, sfiorandogli con un dito le labbra carnose. «Ti ci vuole solo un po’ di calma per pensare… e non ne abbiamo avuta molta, per ora.»
Keith baciò la punta del suo dito. «Hai ragione. Un po’ di calma sarebbe l’ideale.» Scosse la testa. «Ma con i Clanton in città, dubito che ne vedremo più.»
«Magari sono solo di passaggio…» provò Geene, poco convinto.
«E magari nevicherà in agosto. Fossi Hanagata o Fujima, io comincerei a tremare.»
Geene inspirò, passando una mano tra i corti riccioli dell’altro. «Noi non siamo allevatori di cavalli, Keith. La cosa non ci riguarda.»
«Spero solo che continui a non riguardarci, Geene» sussurrò Keith. «Lo spero davvero.»

Un saloon non è lo stesso, se lo si guarda da una parte o dall’altra del bancone.
Da fuori è una sala di gente vociante, mezzo-assiderata d’inverno, grondante sudore d’estate, che cerca conforto nel boccale e nella compagnia.
Da dentro, è tutto. Una casa, una vita, la polvere che si accumula negli anfratti, la schiuma di birra che evapora sfrigolando inudibile; un pianoforte scordato mosso da mani che potrebbero essere più esperte, ma pazienza, tanto nessuno ci fa caso.
Tutto questo, i fratelli O’ Connor lo sapevano meglio di chiunque altro. E per la fiducia spiccata che li legava ai loro concittadini, tenevano due fucili sotto il bancone, in un doppio fondo ben nascosto ma facile da raggiungere.
Uno, quello di Aya, era sempre caricato a sale, e serviva a distogliere le teste calde in cerca di rissa. Quello di Sean invece era caricato a pallettoni: i migliori della regione, quelli di Hansel, il fabbro. E in caso di necessità, era garantito che non avrebbe mancato di centrare il bersaglio. Sean aveva un’ottima mira.
«Li hai visti, Sean?» bisbigliò Aya, riempiendo un boccale di birra.
«Da una mezz’ora abbondante, Aya.»
«Che facciamo?»
Guardò il fratello per un attimo, poi, in tutta calma, si rispose da sola. «Niente. Molto saggio.» E fece scivolare lungo il bancone il boccale stracolmo, che arrivò dritto nelle mani del cliente.
Alzò gli occhi sulla sala. Un’ombra leggera sulle porte oscillanti la avvertì che qualcuno stava per entrare. Non ne distingueva ancora i lineamenti, ma non le interessava. Passava tanta gente, dal saloon, perlopiù facce conosciute, non poteva perdere tempo a guardarli tutti.
Tuttavia qualcosa, un sentore di familiarità, la indusse a rialzare lo sguardo sul nuovo arrivato. Sorrise.
Allora non l’avevano fatto a pezzi, dopotutto.
Si asciugò le mani su uno strofinaccio e gli andò incontro. Era molto cresciuto dall’ultima volta che l’aveva visto, in altezza e non soltanto. Aveva sempre il solito taglio di capelli corto e sobrio, il solito modo di camminare e di sorridere, i soliti occhiali tondi sul naso. Eppure era cresciuto, e molto. Aveva acquisito una serietà che superava persino la sua solita assennatezza – il motivo per cui all’unanimità era stato ritenuto il più saggio dei quattro fratelli Earp. Indossava abiti indiani, di morbida pelle.
Aya lo abbracciò e lo baciò su entrambe le guance. «E allora?» gridò, volgendosi verso la sala. «Brutti zotici pendagli da forca! Così salutate il vecchio Kim che non vedete da cinque anni?»
Ci fu un gran trambusto di sedie che strisciavano sul pavimento, e poi tutti i presenti fecero capannello intorno al nuovo arrivato. Erano molto conosciuti, i fratelli Earp, e in particolar modo Kim, che cinque anni prima era partito per le montagne alla ricerca dei pellerossa Kanagawa, e non era mai tornato. C’era stato un giro di scommesse, al tempo, sulla fine che avesse fatto.
Ma non se n’era saputo più niente.
«Allora, Kim, a quanto pare i musi rossi non ti hanno fatto lo scalpo, eh?» scherzò Aya, quando l’attenzione della folla fu finalmente scemata. Sedettero a un tavolo vicino al bancone. Kim si guardava intorno con un sorriso di appagata nostalgia.
Non era cambiato niente.
«Ma che scalpo» sorrise Kim, grattandosi la testa. «Sono solo leggende, Aya. Non ho mai conosciuto persone più buone dei Kanagawa.»
Aveva preso un accento dolce, da indiano, ma non dissimile alla solita cadenza straniera che aveva sempre avuto.
«E anche le loro donne sono… buone?» ghignò la proprietaria del saloon.
«Be’.» Kim si grattò di nuovo la testa. «I loro uomini, dovresti dire.»
«Eh?»
«È una società un po’ particolare» spiegò Kim, arrossendo leggermente. «Sono quasi tutti maschi. Hanno poche donne, non più di un certo numero stabilito dalla loro religione, con cui fanno figli, ma per la maggior parte… ecco…»
«Ma no!» esclamò Aya, battendo le mani. «Lascia che lo racconti a Keith e Geene! Anzi, mi sembra strano che non lo sappiano già… quei due! Fra un orologio e l’altro cosa vuoi che facciano? Ah, ma non farmi parlare, ché sono una signora! E tu? Non mi dire che anche tu…»
«No, no» disse Kim, avvampando. «Io no.»
«Bene, bene, meglio così» sorrise Aya. Poi alzò lo sguardo e il suo sorriso si incrinò leggermente. «Hai salutato i tuoi fratelli?»
«Ancora no. Sono appena arrivato, come vedi…» indicò la sua sacca e i suoi vestiti, di foggia indiana, «non ho avuto neanche il tempo di cambiarmi.»
«È… successa una cosa oggi, sai, Kim» mormorò Aya, posando la mano sulla sua.
Kim Earp sbarrò gli occhi. «I miei fratelli…?»
«Tutti in perfetta salute, e Ricky più scorbutico che mai. Non ti preoccupare. È che… oh, farai prima a voltarti e guardare da solo. Non le so dare, le notizie.»
Kim obbedì, incuriosito. Dapprima non vide nulla. Poi un lampo rosso catturò la sua attenzione, lo mise a fuoco e… non gli ci volle molto per avvertire un distinto tuffo al cuore. Mitch e Ash Clanton. Impallidì. «I Clanton… sono tornati?» soffiò.
«Questa mattina» rispose Aya.
«Tutti e quattro?»
«Sì. Qualcuno ha visto Bob nella bottega di Hansel, e Hike dalle parti di casa vostra. Pare che sia andato a parlare con Ricky…»
«Allora è meglio che vada a casa, Aya» disse Kim, tirandosi in piedi.
Aya gli prese il viso tra le mani e lo baciò su entrambe le guance, di nuovo. Sorrise, intenerita. «Ci sarà gran festa, allora. Cinque anni…! Meglio che me ne vado o mi commuovo…!» E si allontanò in direzione del bancone, asciugandosi gli occhi con l’orlo del grembiule.
Kim sorrise a sua volta e raccolse la sacca da terra, facendo per buttarsela sulla spalla.
«Vai via senza salutare gli amici, Ki-mi-no-bu?» soffiò una voce sul suo collo.
La mano di Kim Earp si strinse intorno ai lacci della sacca e le nocche sbiancarono per lo sforzo. Non si voltò, anche se il sussurro l’aveva fatto rabbrividire. Intorno, la sala vociava indisturbata.
«Non vedo amici da salutare» sibilò, a denti stretti.
«Neanche uno…?» insistette Ash Clanton, posandogli una mano sul braccio.
Kim se lo scrollò di dosso con un movimento nervoso. «Fottiti, Ash Clanton. Per me tu sei morto.» Si buttò la sacca sulla spalla, sbattendogliela in faccia, e si allontanò veloce in direzione delle porte.
Ash Clanton…! Magari fosse morto per davvero! Almeno avrebbe smesso di tormentare i suoi incubi peggiori, in quei cinque anni di pace.
No, non di pace: di tregua. I Kanagawa gli avevano insegnato a dar retta alle sensazioni del suo corpo, prima che alla voce della sua mente. E il suo corpo non gli comunicava niente di positivo. La sua pelle si muoveva in rapide, frequenti maree di brividi. Per la prima volta da quando aveva lasciato Tucson, Kim si rese conto di avere paura.
Mentre metteva piede fuori dal saloon, una morsa di ferro gli strinse l’avambraccio, torcendolo all’indietro. «Nel caso non te ne fossi accorto» sussurrò Ash Clanton, in tono pericoloso, «con te non avevo ancora finito.»
Kim si volse, nascondendo bene il dolore dietro i lineamenti deformati dall’odio. «Oh, sì che hai finito. Cinque anni fa.» Con la mano libera tirò giù l’orlo della casacca, denudando una cicatrice biancastra e profonda che seguiva il rilievo della clavicola. «L’hai dimenticata, questa?»
Neanche un briciolo di rimorso passò negli occhi di Ash Clanton, che rimasero freddi e inespressivi. Come quelli di Hike. Da far rabbrividire. «No, invece la ricordo molto bene…» sussurrò, accarezzando con le punte delle dita la pelle sfregiata. «Ma la sua gemella è un po’ più in vista…» E si toccò il mento, con il pollice.
«Quella te la fece Ray, e non per me» ribatté Kim, sottraendosi alla sua carezza.
«No? E io che pensavo che volesse vendicare il fratellino…»
«Non intendo fare conversazione con te» sibilò il ragazzo con gli occhiali. «Lasciami.»
«Ma guarda, neanch’io volevo fare conversazione…» Gli posò una mano dietro la nuca e lo baciò, di prepotenza.
Stretto nella morsa soffocante del più forte, Kim Earp fece appello a tutto ciò che aveva appreso circa l’armonia con il proprio corpo, la forza e l’equilibrio, e calibrando con precisione assoluta affondò il ginocchio nell’inguine indifeso di Ash Clanton.
Seguì un gemito straziante da parte dell’altro, e Kim si ritrovò libero. Si aggiustò la sacca in spalla, con dignità. «Fottiti, Ash Clanton» ripeté soddisfatto.
Mentre se ne andava, incrociò gli occhi di Mitch ancora fermo sulla soglia del saloon. Aveva un’aria leggermente divertita, ma anche dispiaciuta, a suo modo. Kim provò pena per la sorte che l’aveva voluto terzogenito di una famiglia come i Clanton. Mitch era un ragazzo di buon cuore, e anche Bob. Ma Hike e Ash li avrebbe voluti vedere penzolare da una forca.
Sospirò. Non voleva ingannarsi. La verità era che non sarebbe mai riuscito ad odiare nessuno – nessuno – di loro.
Eppure per Mitch provava una simpatia sincera.
Si lasciò sfuggire un lieve sorriso all’indirizzo del rosso, poi continuò per la sua strada.
Non sarebbe stato male, pensò, fare ritorno a casa con la notizia che Ash Clanton, sia pure temporaneamente, era stato privato della sua preziosa virilità.
Sorrise come non faceva da secoli – un sorrisetto bieco, da malandrino inveterato. Che non la recuperasse più, sperava. Profondamente.

Hiroaki Earp, detto Ricky, entrò nel suo ufficio a passi lenti, e si richiuse la porta alle spalle. Era ancora presto, ma non gli piaceva cincischiare alla mattina.
Si era alzato all’alba, si era vestito, aveva preparato la colazione alla meno peggio, constatato una volta di più lo sfacelo di casa Earp, e infine era uscito in perfetto orario. Come sempre.
Così, almeno, non avrebbe dovuto sopportare troppo a lungo lo schifo lasciato dai suoi fratelli.
Mentre gettava il cappello sulla scrivania, più che mai si ritrovò a considerare che casa Earp aveva bisogno di una donna.
Aya sarebbe stata perfetta, ad esempio. E così Ryota avrebbe smesso di ciondolare per casa con quell’aria da idiota, e di lanciarsi in acrobazie suicide con la pistola il restante tempo, nella speranza di impressionare la ragazza.
Casa Earp era grande e poteva ospitare il giusto numero di mogli e figli – proprio come l’aveva progettata papà. Peccato che, al momento, nessuno dei quattro fratelli Earp avesse preso moglie. A meno che Kiminobu, in quei cinque anni, non si fosse adeguato alle usanze dei Kanagawa e acconsentito ad uno dei loro riti di pseudo-matrimonio. In questo caso, probabilmente, non l’avrebbero mai saputo. Ma ne dubitava fortemente.
Kiminobu. Gli scappò un sorriso, che l’ombra degli scuri abbassati gentilmente celò.
Aprì le imposte e poi sedette al proprio posto, dietro la scrivania. Le celle del carcere attiguo erano vuote e silenziose: l’ultimo criminale, Slim lo Svelto, era stato impiccato un mese prima. Così non doveva fare il giro di ricognizione prescritto.
È un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo, ragionò, incrociando le gambe sul tavolo e le mani dietro la nuca. Si dondolò sulla sedia, appoggiandone lo schienale al muro.
Era un duro lavoro, ma non era un caso se il quadrisavolo Bill Earp aveva scelto di sobbarcarsene il carico. Gli Earp erano, allora come adesso, i migliori sceriffi della città – no, della regione. Cinque generazioni avevano instillato nel loro sangue il sapore acido della fatica, il retrogusto amaro della violenza e, cosa più importante, l’aspra certezza che c’era una legge, al mondo – e stava a loro farla rispettare.
Forse loro quattro non avevano la forza del quadrisavolo Bill, la tenacia del trisavolo John, l’abilità del bisnonno Terence. Forse non avrebbero avuto la fama del nonno Wyatt e di certo non avrebbero mai eguagliato papà Fletch.
Ma erano sceriffi, gli sceriffi, e per Dio, nessuno sarebbe mai stato uno sceriffo migliore di un Earp!
Hiroaki chiuse gli occhi, abbandonandosi un attimo ai suoi pensieri. Era diventato tutto più difficile, quando Kiminobu se n’era andato. Lui era il maggiore, ma Kiminobu – Dio, gli mancava davvero – l’aveva sempre aiutato a moderare i caratteri aspri dei due fratelli minori. Finché d’un tratto, senza motivo apparente, aveva raccolto la sua roba e annunciato che se ne andava.
«Ma dove vuoi andare?» gli aveva chiesto, senza capire – senza sapere, probabilmente.
«Dai Kanagawa. Voglio studiare la loro medicina.»
«Ti uccideranno!»
«No, se vado disarmato.»
Non si era portato niente di più di qualche vestito, un paio di libri e gli occhiali tondi immancabilmente sul naso. Aveva diciassette anni.
Hiroaki si passò una mano sulla faccia, sbadigliando. In lontananza, oltre la finestra chiusa, il grande orologio di Keith McPerson batté sette profondi rintocchi.
Ci sarebbe dovuta essere una chiesa, da qualche parte, ma nessun prete aveva accettato di stabilirsi a Tucson. Troppo selvaggia, dicevano, troppo pericolosa, e dicevano ancora, troppo depravata per sperare di portarci la luce di Dio. Cacasotto.
Per ovviare alla mancanza delle campane, prezioso punto di riferimento, Keith McPerson aveva costruito l’orologio. Il quale, bisogna dirlo, eseguiva il suo compito esattamente come il campanile di una chiesa, ma non li annoiava con inutili sermoni.
Tucson la selvaggia, Tucson al confine del mondo, Tucson la senza Dio. Per la verità, Ricky Earp ci aveva sempre vissuto benissimo.
La porta cigolò, e Hiroaki rimase a guardare, in attesa. Era presto, ma i criminali non avevano orari né turni di risposo. Fissò la porta con attenzione. Si apriva troppo lentamente… ma che aspettavano? Non poteva stare tutto il giorno a guardare, aveva un lavoro da svolgere!
«Bella giornata, eh, Hiro?»
Una voce profonda e mai dimenticata, una figura ora distinta, un sorriso riconoscibile tra mille. E i capelli. Incredibili, come sempre.
Impallidì.
«Quanto tempo… non sei cambiato affatto, sceriffo, lo sai?»
L’uomo alto – incredibilmente alto – si richiuse la porta alle spalle. Aveva i capelli neri – spine di corvo – e gli occhi grigi. Si avvicinò alla scrivania, con indolenza, i pollici alla cintura. «E sei loquace come sempre, mio caro» sussurrò, chinandosi verso di lui sopra il tavolo.
Hiroaki strinse le palpebre, poi, con metodica precisione, colpì il mento del nuovo venuto con la punta dello stivale. Non troppo forte, visto che quello si trasse via quasi in tempo.
«Clanton» ringhiò, mettendo giù i piedi dalla scrivania – e la mano sulla pistola.
L’altro non si mosse. «Non sei cambiato di una virgola, Earp» ribatté senza perdere il sorriso, ma i suoi occhi si fecero d’un tratto freddi, cattivi.
«Potrei dirti la stessa cosa» sibilò Hiroaki, ostile.
L’altro si ficcò le mani in tasca e prese a vagare per la stanzetta. Accennò un motivetto fischiato.
«Che diavolo vuoi, Clanton?»
Quello si fermò. «Sono venuto… siamo venuti in visita nella vecchia Tucson, mio caro. Non mi stai dando un bentornato come si deve.»
«I delinquenti come voi meritano solo di essere impallinati, altro che benvenuto!» ringhiò Hiroaki.
«I delinquenti come noi…» cantilenò lui, riprendendo a passeggiare per la stanza. «I delinquenti come noi… Sei ripetitivo, mio caro. Usi le stesse parole di cinque anni fa… Quelle che usava tuo padre… e tuo nonno… e via dicendo fino al benemerito della famiglia, come si chiamava l’antenato?»
«Arriva al punto, Clanton!» ruggì Hiroaki, saltando in piedi. «Perché siete tornati?»
L’altro lo fissò negli occhi e sorrise. Un sorriso dolce e terribile. «Ti dirò, a volte si sente voglia di tornare a casa.»
«Questa non è casa vostra» sibilò lo sceriffo.
Clanton strinse le palpebre. «Non ci siete nati solo voi Earp, a Tucson. Questa è casa nostra quanto vostra.»
«Siete solo degli sporchi ladri di cavalli. Le case sono per la gente onesta.»
«Le case si comprano… si vendono… si rubano.» Clanton sorrise ancora, amabile. «Non mi hai ancora detto una parola gentile da quando sono entrato, Hiro. Io credevo di esserti mancato…»
«È all’OK Corral che puntate, non è così?»
L’altro si irrigidì, impercettibilmente.
«Il vostro sogno. E tale rimarrà» sussurrò Hiroaki.
Clanton parve esitare un istante, subito recuperò il solito contegno. «Mi avrebbe fatto molto piacere, amico mio, che noi ci trovassimo dalla stessa parte. Sarebbe stato tutto molto più facile.»
«Noi non abbiamo niente a che spartire, bandito.»
Quello si volse di scatto, come morso da una vipera, e lo raggiunse in due lunghe falcate. Prima che l’altro potesse reagire, gli posò la mano a coppa sotto il mento, attirandolo a sé. «Oh, sì, invece! Più di quanto tu immagini, Ricky Earp! Più di quanto tu abbia mai sognato!»
«Se ci sei tu non è un sogno, è un incubo» ringhiò Hiroaki, traendosi indietro.
Il ladro lo riacciuffò, trattenendolo per le spalle con una presa che non lasciava scampo. «Dannazione, Hiroaki, dovevi essere mio già cinque anni fa! Com’è vero Iddio, questa volta ti avrò, che ti piaccia o no!» E lo sbatté con la schiena contro la scrivania, piegandoglisi addosso, puntandogli i polsi alti sopra la testa, oltre il bordo di legno tagliente. Gli tappò le labbra con le sue e gli ficcò la lingua in bocca, con violenza.
«Hiro!»
Nel silenzio che seguì, si sentì distintamente il tonfo leggero della sacca di pelle che cadeva sul pavimento.
«Leva le tue mani da mio fratello, Akira Clanton, o giuro che ti ammazzo» sibilò Kiminobu.
Akira, o Hike Clanton, lasciò i polsi di Hiroaki e si fece indietro, lentamente. Si profuse in un sorriso ancora più ampio del solito. «Non sei gentile, Kim. Io non sono venuto a disturbarvi quando tu e Hisashi…»
«Fuori di qui!» gridò Kiminobu. «Subito!»
Un leggero scatto, alle sue spalle, lo informò che Hiroaki aveva sollevato il cane della sua pistola. Akira Clanton alzò le braccia, con calma. «D’accordo… d’accordo. Non agitarti, Kiminobu, non ti fa bene.» Volse il capo verso Hiro. «Con te ci rivediamo presto, dolcezza. Puoi abbassare quella cosa, so che non mi spareresti mai alle spalle.»
Passò accanto a Kiminobu e, prima di uscire, mormorò alla sua volta: «Aveva ragione Hisashi. L’unico modo per avervi è violentarvi».
Kiminobu richiuse la porta e vi appoggiò la schiena, con tutto il suo peso. Chiuse gli occhi. «Bel ritorno a casa» sussurrò.
«Stai bene?»
Kiminobu annuì. In quei cinque anni era diventato più alto e più muscoloso. Adesso raggiungeva Kay, probabilmente – il più alto di loro.
«Sono felice di rivederti.»
L’altro riaprì gli occhi. Sorrise, stancamente. «C’è ancora un letto per me, a casa Earp? Dormo nei sacchi a pelo da così tanto tempo che credo di aver dimenticato cosa sia un materasso.»
Hiroaki gli andò incontro e lo abbracciò, forte. «Ero sicuro che non fossi morto.»
«E perché mai sarei dovuto morire?» mormorò Kiminobu, con un sorriso.
«Dio, qui ne erano tutti convinti.»
«Avrai detto loro che gli Earp hanno la pellaccia dura, mi auguro.»
«Un centinaio di volte. Almeno.»
Kiminobu si staccò dal suo abbraccio, senza smettere di sorridere. «Se li conosco ancora bene, i gemelli staranno dormendo della grossa.»
«Come sempre.»
«Come sempre» ripeté, a bassa voce. «È bello essere a casa, Hiro. Non è cambiato nulla.»
«Nulla» mormorò Hiroaki. «Neppure quei porci…»
Kiminobu scosse la testa. «Affronteremo anche questa. Come un tempo.»
«Hai visto gli altri Clanton, venendo qui?»
«Ash e Mitch. Al saloon.» Inspirò. «Ce la faremo, Hiro. Chiamami stupido, chiamami sentimentale, ma per me non è un caso che sia tornato proprio adesso. È un segno che dobbiamo essere uniti. Di nuovo, tutti e quattro. Io non me ne andrò più.»
«Mai più?» sussurrò il fratello, rendendosi conto che, senza volerlo, stava trattenendo il fiato.
«Mai più» rispose Kiminobu. «È una promessa.»

Sean O’ Connor socchiuse le palpebre, mentre riempiva alla botte l’ennesimo boccale di birra della mattina. La sala si era svuotata, i cercatori erano tornati alle loro miniere e gli altri al loro lavoro. Geene doveva essere arrivato da un pezzo a casa – quella casetta piccina ai piedi del colle che sovrastava Tucson. Sorrise tra sé. Quel ragazzo, ma forse non doveva più chiamarlo così, era uno dei pochi che non temessero i Clanton. Si contavano sulle dita di una mano: Geene, lui stesso, forse anche Keith McPerson. Ah, e naturalmente gli Earp.
«Sean…?»
Sovrappensiero, allungò il braccio all’indietro e posò il boccale tra le mani di chi l’aveva richiamato, senza voltarsi. I Clanton. Il fatto che non ne avesse paura non significava che non lo preoccupassero.
«Sean…?»
«Arriva subito» rispose meccanicamente, afferrando uno dei boccali ordinatamente allineati sul ripiano.
«Sean, non mi riconosci?»
Il proprietario del saloon si voltò. Un ragazzo di una sedicina d’anni lo guardava, i gomiti appoggiati sul bancone e il boccale intatto sul legno umido. Aveva dei lunghi capelli corvini, raccolti in una coda sottile dietro la nuca. I ciuffi, schiacciati sulla fronte da un cappellaccio a tesa larga, spiccavano come graffi neri sul candore della pelle.
Sean esitò. «Ci conosciamo?» domandò, cautamente.
L’altro sorrise, incerto. «Sì.» Si calò un lato del cappello sull’occhio e lo guardò di tre quarti, inarcando un angolo della bocca. «Non dirmi che ti sei dimenticato del miglior pistolero di Tucson!»
Quel gesto, unito a quelle parole, risvegliarono nel più vecchio il ricordo di un ragazzino gracile e sparuto che non ce la faceva neppure a tener dritta la pistola. Un ragazzino sulla cui sopravvivenza – visto il pallore del suo viso e la sua magrezza – nessuno avrebbe scommesso un penny.
«Bob…?»
«E chi, sennò?» Il ragazzo ridacchiò. «Non hai buona memoria, vecchio! O io sono cambiato troppo!»
Sean sorrise. «Abbastanza. Come stai?»
«Bene, bene. È sempre bello tornare a casa, di tanto in tanto…» si grattò la testa, «anche se l’accoglienza non è stata un granché…»
«C’è poco da meravigliarsi, Bob.»
«Ma tu sei contento di rivedermi?»
«Certo.»
«Bene» sussurrò il ragazzo, «almeno uno c’è.»
Sean lanciò uno sguardo ad Aya, che li fissava già da un po’, poi invitò Bob a bere il boccale che aveva davanti, ormai del tutto privo di schiuma, e ne riempì un altro per il cliente che l’aveva originariamente chiesto.
Mentre il ragazzo mandava giù rapidamente il liquido giallognolo, ne studiò i lineamenti. Non sembrava più gracile, e nemmeno malaticcio. Aveva un aspetto sano e in forze.
L’aveva detto, lui.
«I tuoi fratelli?» domandò, senza particolari inflessioni.
Il quarto figlio dei Clanton fece una smorfia. «Stanno tutti bene. Sembra impossibile, ma Mitch è diventato più idiota di prima! Pensa di essere più bravo di me… Il tempo che ci mette a sfoderare la pistola io pum!, l’ho già colpito in fronte!» E mimò il gesto di tirar fuori l’arma dalla fondina e far fuoco, dritto in mezzo agli occhi di Sean.
«E gli altri?»
«Tutto bene, tutto a posto» rispose Bob, sbrigativamente. «In gamba come sempre…»
«Come mai da queste parti?»
«Non c’è un vero motivo» rispose il ragazzo, abbassando gli occhi. «Così… Avevamo voglia di rivedere la città…»
Era talmente chiaro che stava facendo lo sforzo disperato di mentire, che Sean si sentì quasi intenerito. Dopotutto, lui e Mitch erano i meno colpevoli di tutti. Al tempo della morte del vecchio Earp avevano solo undici e dodici anni.
«E quante taglie avete collezionato, nel frattempo?»
Bob fece un sorrisetto. «Hike cinque, quattro Ash… e una a testa io e Mitch. Ma siamo ancora qui, no? Chi ci ammazza, noialtri?» sogghignò.
Aspiranti al titolo ce ne sono, pensò Sean.
«Ognuno si arrangia come può» mormorò, scrollando le spalle.
«Sì» disse Bob. «È proprio così. E papà sarebbe fiero di noi. Soprattutto di me!» soggiunse, battendosi il petto col pugno. «Hike dice che potrei battere senza problemi quel pallone gonfiato di Kay Earp… Ho sentito stamattina quello che dicono in giro, ma ci crederesti mai? Che lui è il migliore di Tucson! Roba da matti. Quando tu mi insegnavi a sparare quello lì ancora succhiava il latte…»
«Già» commentò Sean, con un sorriso. «Ti ho insegnato a sparare, una volta.»
«Una volta…» ripeté Bob. «Non è passato così tanto tempo, vecchio. A me sembra ieri.»
«E forse era davvero ieri. Cinque anni passano presto, dopotutto.»
«In un soffio» mormorò Bob Clanton.
Parve a Sean di ravvisare, in quel sussurro lontano, l’eco di cinque anni di fatiche e dispiaceri, di dolori, di paura e di debolezza – quella debolezza particolare che, se ci sopravvivi, come dopo una brutta malattia ti lascia fortificato, nelle ossa e nello spirito.
«Hai già incontrato Ray?»
Bob sbuffò. «Starà dormendo, come al solito.»
«Tra poco sarà qui, puoi aspettarlo, se hai tempo.»
«Dici che viene?»
«Viene, viene» rispose Sean. E indicò Aya, con un lieve cenno del mento.
«Aha» mormorò Bob. «Capito.»
«Quella lì come te la sei fatta?»
Sean sollevò una mano e gli fece voltare il viso di lato, scrutando pensieroso la brutta cicatrice che solo ora notava. Prima i ciuffi neri l’avevano ben nascosta.
La pelle di Bob era liscia, senza barba.
«Un bastardo dalle parti del lago Michigan» rispose il ragazzo, arrossendo leggermente. «Voleva riscuotere la mia taglia, la solita storia. Pensava di sbrigarsela facile perché ero solo.» Sollevò l’angolo della bocca nella smorfietta che gli era caratteristica. «Raccontaglielo alla pallottola che ha nello stomaco, quant’è facile impallinare Bob Clanton!»
Sean si ritrasse, con un sorriso, e fece per dire qualcosa, ma una voce gioiosa lo interruppe a mezzo: «Nobunaga! Vecchia sega d’un Clanton! Hai già smesso di bere il latte di tua madre, di’?» E un poderoso pugno tra le scapole fece sputare a Bob Clanton il fiato che gli rimaneva.
Il ragazzo saltò in piedi e abbatté sulla mascella dell’altro un pugno che gli fece girare la testa.
Ray Earp lo guardò in tralice, massaggiandosi la parte lesa, poi scoppiò a ridere – subito seguito da Clanton. Si abbracciarono come i vecchi amici che erano, dandosi grosse pacche sulle spalle e ondeggiando da un piede all’altro.
«Pezzo d’imbecille, tu potevi berne un po’ di più, visto che sei rimasto nano!» esclamò Bob Clanton, che in effetti superava l’altro di tutta la testa.
Ray grugnì in segno di disapprovazione, ma non ribatté, perché nel frattempo Aya era passata lì vicino e i suoi occhi si erano fatti vacui e distanti. «Aya…» mormorò, inseguendola. «Sei bellissima quest’oggi…»
«Anche quand’eravamo bambini le andava sempre dietro» sorrise Bob Clanton.
«Certe cose non cambiano mai» disse Sean.
«No» mormorò l’altro, perdendo il sorriso. «Certe cose non cambiano mai.»


PERSONAGGI E INTERPRETI (in ordine di apparizione):

Ricky Earp ------> Hiroaki Koshino
Hike Clanton ------> Akira Sendo
Ash Clanton ------> Hisashi Mitsui
Kim Earp -------> Kiminobu Kogure
Mitch Clanton ------> Hanamichi Sakuragi
Kay Earp --------> Kaede Rukawa
Bob Clanton ------> Nobunaga Kiyota
Ray Earp -------> Ryota Miyagi
Mean Casemite ------> sorpresa!
Josh Meenham ------> sorpresa!
Keith McPerson ------> Kitcho Fukuda
Geene McPerson ------> Soichiro Jin
Sean O' Connor ------> Shin'ichi Maki
Aya O' Connor ------> Ayako (ma ce l'ha un cognome, 'sta ragazza???)


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