Disclaimer: I personaggi appartengono alla loro creatrice.  

Note: primo scritto pubblicato senza betareading. Mi sento un po’ come un’acrobata che si esibisce per la prima volta senza rete.

 

Dedicato. Perché mai troverò voce. E perché mai troveremo più la strada.

Un brindisi al passato. Uno al futuro. E sempre correre. Sempre.

Senza fermarsi per evitare di rendersi conto di cosa ho perso.


 

Senza te

di N

 

Stancamente varca la soglia del proprio appartamento, fa passare il baule da viaggio e si fa attento per non chiudere la coda del cane tra il battente e l’uscio. Infine si getta sul logoro divano, chiudendo gli occhi.

Si sente stremato e a pezzi, quasi come al risveglio dopo un plenilunio.

Solo un fruscio; poi una voce.

“E così, siamo qui.” la sua voce.

Che ricorda calda. Che ha risentito dopo anni, disperata e arrabbiata.

Ma che ora è solo beffarda, fredda come ghiaccio lungo la schiena.

Non apre gli occhi, ma con la mano fa un gesto vago.

“Nell’armadio di là ci sono degli abiti. Puoi prendere quelli, per ora.”

“Che strano. Una volta ti piaceva il mio abbigliamento, quando ritornavo uomo dopo le nostre corse…evidentemente gli anni cambiano molte cose.”

È una provocazione, ne è consapevole. Come sa quello che riproverà alzando le palpebre.

Potrebbe evitarlo, tacere e lasciare che tutto finisca lì, senza cogliere questa dichiarazione di guerra e.

Prima il buio, poi un flebile cambiamento ed infine il suo viso davanti, con quella smorfia acida e esausta che lo fissa, imperiosa.

“Sirius, per favore.”

“Per favore? Per favore?! Per favore cosa, Remus? Per favore non parlare? Per favore non dirmi la verità? Non odiare? Cosa, Remus!? Io.. io. Io mi fidavo di te! E pensavo tu facessi lo stesso!”

“Lo so! E non ci volevo credere quando me l’hanno detto. Ma avevo visto quel dito. E tu eri sempre più distante.”

“Distante? Cazzo Rem, eravamo in piena guerra! Cosa dovevo fare? Mandarti rose rosse? Dire a tutti che eri la cosa più bella che potessi avere? Avrei fatto meglio a metterti direttamente un bersaglio sulla schiena, non credi? Dovevo essere distante! Non volevo corressi ancora più pericoli!”

“Ora lo so. Ma, allora… avevo paura, ero insicuro..:”

“E mi hai lasciato là! Non mi hai mai creduto! Come credi che potessi stare? Ho passato anni cercando di non impazzire e tutto quello che sapevo era che tu non mi avevi creduto!”

“Io…”

“Ti odio!”

Durante tutta la discussione sono rimasti nelle posizioni iniziali: Sirius, in piedi, gambe aperte e ben piantate a terra, nudo; Remus seduto sul divano che lo guarda e. E vorrebbe solo abbracciarlo, ma non trova le forze e non sa che fare.

E indugiano così anche nell’istante in cui l’ultima affermazione si condensa tra loro. E in loro.

Poi Rem abbassa la testa. Sconfitto. Ancora, senza appello.

E la rialza, in un movimento fluido con il resto del corpo. Che dirige verso la porta.

“Esco. Immagino tu abbia bisogno di lavarti e rilassarti. Rientrerò fra un po’ con qualcosa da mangiare.”

La frase finisce che la porta si sta già chiudendo.

E Sirius rimane solo. Nuovamente solo. Di nuovo lasciato, di nuovo abbandonato. Di nuovo.

E come la prima volta fa una sola cosa.

Urla. Sfascia tutto quello che ha intorno.

Prima il salotto. I cuscini del divano. Il mobile con i libri.

Colpisce, strappa. Rompe.

Passa alla cucina e quasi diventa manicale. I piatti si infrangono ad uno ad uno e ogni armadietto viene aperto.

In un turbine di urla e grida si sposta, colpendo, stracciando, aprendo e scardinando.

Infine la misera stanza da letto.

Apre l’armadio, getta a terra tutti i vestiti, rompe la lampada posta sul comodino ed estrae tutti i cassetti dell’alto mobile. E getta a terra tutte le boccetta che vi sono posate sopra.

Ed infine, esausto, si lascia cadere a terra singhiozzante.

 

Non sa quanto tempo è passato, ma quando si calma inizia a guardarsi intorno. Il suo sguardo sfiora ogni cosa, senza posarsi veramente su niente, fino a che un particolare stonato non l’attira. Come lampada, una falena.

È un quaderno. Caduto da uno dei cassetti o da chissà dove.

Se ne sta lì, mezzo aperto, tra i vestiti strappati e la coperta aggrovigliata. Lo nota perché non appare consumato semplicemente in quanto vecchio –aria che un po’ tutto ha, lì dentro- ma poiché  aperto più e più volte.

La mano si allunga e, ancora prima che se ne renda conto, già lo sta leggendo.

Sono pensieri di Remus. Pensieri lontani, di anni addietro. Del periodo immediatamente successivo alla sua cattura. Mentre scorre vede tende ad aprirsi sempre in un punto, come se fossero quelle le pagine che più volte sono state rilette. La chiave di tutto.

Si chiede perché e l’unico modo che ha, per scoprirlo, è leggerle.

 

xx maggio 19xx

Senza te, mangio. Certo, non sempre e nemmeno troppo bene, ma lo faccio.

Senza te, bevo, respiro, penso. Mi capita anche di ridere, a volte. Rarissime volte.

Qualcuna di più sorrido.

Senza te, lavoro, viaggio, mi arrabbio. Mi trasformo e non aggredisco nessuno.

Senza te.

Vedo ancora Silente e con lui discuto della situazione, di questa pace. E del nostro salvatore.

Mi piacerebbe vegliare su di lui, ma so che è più sicuro così. Senza me. E senza te.

 

Eppure, ci sono ancora volte in cui mi sorprendo a mettere da parte dei pensieri e delle situazioni per te.

Con l’intenzione di raccontarteli, per farti ridere. O, semplicemente, per vedere la tua espressione concentrata in qualche buffa smorfia.

A volte, mentre torno a casa in un tramonto sereno, mi sorprendo ancora a formulare le parole per descriverti la giornata appena trascorsa. E la bellezza del cielo che mi sovrasta.

Che assomiglia sempre al tuo sorrido.

Quando qualcuno m dice una cosa particolarmente gentile, o nuovamente perdo il lavoro, mi sorprendo a pensare che ti vorrei qui.

Che vorrei ancora sentire la tua voce. E la tua risata.

Accarezzare la tua pelle.

E quando la notte mi avvolge ancora mi sorprendo a desiderarti.

Ad aspettarmi le tue labbra sulle mie.

 

Che sia questa la nostalgia?

Questo leggero dolore che sempre mi coglie dopo, quando realizzo ciò che sto facendo e che non ho più motivi per farlo?

Che sia questa la colpa? Il contrarsi della mascelle al ricordo di dove sei e perché ci sei? Del tuo essere lontano, irraggiungibile.

 

Infine, rimane solo la sciocca speranza che possa essere solo un brutto sogno.

Quella che mi ostino a non chiamare più con il suo vero nome.

 

A volte mi chiedo quale sia la nostra colpa, per aver ricevuto da Dio una punizione simile.

Uccisi, rinchiusi o imprigionati nella ragnatela dei ricordi felici, senza più speranza di giorni sereni.

Questa la condanna per i Malandrini che volevano solamente vivere. E amare.

L’unica cosa che volevo nella mia vita era la possibilità di amarti. E mi è stata tolta senza che potessi veramente fare nulla.

Quale destino peggiore? Essere stati felici e amati  ed essere morti o vivere senza mai poterlo essere?

 

Sirius chiude di scatto il quaderno, gli occhi annebbiati dalla stanchezza a da altro. Che gli disseta le labbra secche e strette.

Anni. Sono passati anni. E non torneranno e non li dimenticheranno. Il dolore, lo sconforto, la lontananza.

Hanno spezzato le loro vite, gettandole poi come carta igienica.

Si guarda intorno e l’unica cosa che riesce a fare è piangere come un bambino. E avere il disperato bisogno di abbracciare Rem. Forse non più amore, forse nemmeno amicizia.

Sicuramente perdono. Sicuramente appoggio.

 

E sente la porta dell’appartamento che si apre.

Magari finalmente arriverà la loro redenzione.


 

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