Sentieri Interrotti
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CAP:4/5
SERIE: Saint Seiya
AUTORE: Dhely
RATING: R. Angst. AU.
PAIRING: Saga & Ikki – Saga POV
ATTENZIONE: Si può scrivere una fic su una fic?! Non lo so di preciso, ma sappiate che mi sono molto molto molto ispirata alla fan fic di Hana-bi “VARIAZIONI SU UN TEMA DI MASAMI KURUMADA”. Spero vi piacerà comunque.
NOTE: i personaggi, le situazioni non mi appartengono e non ci guadagno niente, se non divertimento, a scrivere quello che sto scrivendo. Spero almeno di far divertire anche voi che leggete!
NOTA2: i gelsomini rampicanti sono un gradito ‘prestito’. Grazie per l’idea Ljs!
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Chi
ammira e crede eroi coloro che marciano sempre impettiti contro il sole, che sbranano il futuro, aggredendolo senza lasciare scampo,
senza pietà, senza rimorsi, che paiono sempre sul punto di accettare una sfida
come se, senza un confronto, il mondo stesso non fosse degno di essere vissuto,
chissà se si è mai domandato delle loro lacrime?
Di
quelle versate nel silenzio vuoto delle notti dello spirito quando un solo
respiro può mandarti in frantumi, quando ciò che ti tiene insieme è un dolore
innominabile e incomprensibile e, insieme, l’orgoglio è come un marchio a fuoco
strappato d’un colpo dalla carne? Si sono mai
domandati di come echeggi l’anima prima di afferrare
la rabbia, e di inghiottirla, riempiendosene il cuore con un respiro che pare
in grado di assorbire tutto l’universo? L’attimo prima
che la volontà prenda possesso del desiderio e lo faccia divenire meta, quando
esso è ancora solo la paura agghiacciante di fronte a un tramonto troppo
luminoso, e si vorrebbe che tutto tornasse indietro, fino a non essere più
nulla, senza coscienza, senza possibilità di scelta, senza doversi dibattere di
fronte a un qualche bivio dal quale dipende tutto, di fronte a un futuro che non
si sa di che colore sarà e che, forse, non si vuole vivere?
Che ne
sanno, loro di quando il terrore più grande è muovere
il primo passo verso ciò che si desidera, affrontando la possibilità che essa
si realizzi, e si mostri meno appetibile, meno grande, meno pura, meno perfetta
di ciò che si credeva; oppure si mostri se stessi come creature indegne, più
deboli di quel che si sapeva, più stupidi, meno determinati.. questo è il vero
terrore. Affrontare se stessi nell’istante stesso in
cui si stanno per cedere le armi ancor prima di combattere perché tutto è
troppo grande, lontano, potente.. E il salto che da qui compie il proprio cuore
è uno sforzo di volontà, mente e spirito, desiderio e appetizione che diventano
veri, concreti, come può esserlo una manciata di terra fra le mani.
E’
volere che il proprio volere si tramuti in dovere, è renderlo concreto e
solido, infrangibile come il diamante, talmente grande e nobile che nessuno possa fingere di non notarlo.
E’
diventare dio, dopo essere stato uomo.. anzi,
diventarlo proprio perché si è stato uomo.
E’ non
fermarsi mai, stare sempre al limite, lasciandolo sempre là, a
un passo dall’orizzonte, anche se si è compiuto già mille volte il giro del
globo.
E’
prendersi e farsi a brandelli, uccidersi per rinascere ogni giorno sempre più
forti, più potenti, per cercare di lasciarsi alle spalle la paura, la vertigine
che prende sul ciglio del burrone, un attimo prima di
spiccare il balzo. Per volare o schiantarsi giù: questo non lo
si sa mai in anticipo e dunque si gioca con il destino, con la sorte,
con un ghigno sul viso perché non c’è altro da fare. Perché questo è l’unico
modo di vivere, perché non si può, non si deve fare
altro, se non essere potenti, e dimostrarlo al mondo, questo nostro potere,
questa superiore essenza, questa volontà inflessibile.
Il
terrore è il dolore più insopportabile. Peggio del rimorso, peggio della
vergogna, perché in esso rinchiude tutte queste
sofferenze e molte altre: per annullarlo chiunque sarebbe disposto ad immolare
se stesso. Scappare da un presente che schiaccia e preme addosso con un peso
simile, che non si riesce a reggere, sotto il quale l’anima viene
schiacciata, annullata, e il cuore piange sangue, e..
Chiunque.
Non me.
Io voglio
*essere* il terrore. Il potere. La sofferenza. *Tutto*.
Spalancare
le ali ed avvolgere con esse tutto l’universo.
Io
voglio.
E
volere con abbastanza forza vuol dire avere il potere di trasformare la realtà,
piegandola secondo la propria idea, vuol dire fare che i propri desideri
diventino impossibili da negare.. Vuol dire che, se
pure un Dio esistesse, egli dovrebbe desiderare il mio volere con la stessa
forza con cui lo voglio io.
E, di
più: giungere alla follia suprema, volere il volere
per se stesso.
Follia.
La
follia brucia. Annienta. La follia non è più tale, però, se diviene la ragione
di chi, potente, impone il proprio desiderio al mondo. Le leggi morali, quelle
date dall’abitudini, le stesse leggi fisiche non sono
niente. Posso annientarle, modificarle, piegarle ai miei voleri.
Saga è
un grande maestro.
Ma è limitato.
E’ solo
un Cavaliere, e pure se possedesse un Cosmo il più potente di tutto l’universo sarebbe ancora e sempre condizionato. Il suo potere si
trarrebbe ancora da una semplice costellazione. Limitata. Finita.
Lui non
possiede un potere che si libri sopra i confini, che
non riconosca altri confini oltre quelli inventati da se stesso. Non può sapere
cosa si prova nel possedere tutto fra le dita.
Tutto.
Il
grande e il piccolo.
Il
lontano e il vicino.
Tutto
qui: dentro di me.
Io.
Io che sono tutto e il tutto che sono io e insieme rimango
io. Io che sono la Fenice.
Spiegazioni
non ce ne sono. Capire, forse, non ne sono in grado, non
posso, non serve, non voglio. E’ così: come il cuore il batte, il cielo sopra di noi. Rimangono lì anche se non sai
il motivo.
Lo
guardo, questo splendido cielo di Grecia, lo respiro e lo faccio mio. Perché
lui, anche lui, è lì per me e riconosce il mio richiamo e mi basta poco per
concentrarmi e sentirlo pulsare sopra di me, anche se la mi
percezione è tutta invasa dal mio fiammeggiante potere io so che posso
raggiungerlo. So che se volessi, potrei essere la
stella più bella che brilli là sopra. Potrei essere un sole, più di esso.
Potrei
essere tutto ciò che voglio.
Ma perdersi nelle
infinite spire ghiacciate dell’abbraccio di un universo che io so, sento
infinito dentro di me, ora, non mi darebbe alcuna soddisfazione.
Ora
voglio altro..
Una voce sussurrata nelle mie orecchie con tono suadente,
come veleno stillato goccia a goccia e fatto colare nel mio cervello. Echi di parole lontane, che prendono vita nel cuore delle notte e che svelano ricordi, realtà, verità che non
credevo ci fossero da svelare.
Cosa sono questi?
Ricordi? O menzogne?
Però
esse sono così radicate in me, così profonde sono le radici..
e parlano di vendetta. Come se esistesse per me un’altra strada, ora.
Il
fuoco brucia alto, indomito, e c’era chi voleva farmi cane da guardia, in
catene, per un loro capriccio, per .. per la loro
stupidità.
Non si
può ingabbiare una Fenice. Non si può obbligarla, piegarla.
La
Fenice è il potere che piega i mondi, che li riduce in
polvere e che, insieme li crea. Non è cucciolo da compagnia. Non china il capo, non riconosce un padrone.
La
Fenice non ha padroni.
Rabbia:
la rabbia riempie il cuore, offusca la vista, rende più puro ciò che mi pesa
dentro, mi fa più saldo e sicuro della strada da percorrere.
Ma io non sono la mia
rabbia, anche se mi morde l’anima, io non ne sono schiavo.
Rendere
la rabbia un’arma. Questo è ciò che m’insegnò il mio primo maestro all’Isola:
volare sopra la furia, annientare il legame che essa ha con il mio animo e non
farmi tirare da essa come se io fossi una marionetta. Perché io ho il potere, io sono il volere, il desiderio. Io
sono più forte della mia rabbia.
Io sono
il comandante di me stesso..
Non
ricordo chi lo disse, ma ricordo d’averlo imparato: solo chi non sa ubbidire a
se stesso ha ancora bisogno di ordini.
Non ho
padroni, io. Ho maestri, uno. Ho.. nemici. Ho ..altri.
A Saga piace definirsi ‘padrone’, piace
assumerne l’atteggiamento. A me non importa cosa dice, cosa fa. M’importa che
m’insegni quello di cui ho bisogno.
Ed è un ottimo
maestro, ma non un padrone.
La
Fenice non ha.. se lo guardo, ora, vedo qualcosa di
strano che gli vola appena sulla superficie dei pensieri, come un telo di
stoffa impalpabile che si frapponga senza esito fra me e il sole di Grecia. Eppure quel velo inutile, indecifrabile nella violenza della
luce, piccolo e insignificante, c’è. E’ lì. E mi
stupisce.
E’
qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevo mai visto. Che forse neppure Saga sapeva di possedere dentro.
Ma, poi, è davvero
qualcosa che appartiene a Saga, che proviene da lui, o è come una piuma scesa
su di lui dal cielo? Gettatagli addosso da un’aquila di passaggio? L’ombra di
una nuvola che stava per dissiparsi nel caldo troppo ardente?
Esiste
davvero un destino? Se tutto fosse già preordinato,
anche quell’insignificante particolare avrebbe un
peso, un valore, un significato, che mi sfugge. E se io devo vivere per
infrangere il destino che mi grava addosso, perché io e io solo voglio essere il padrone di me stesso, ecco, allora anche
quel nulla va catturato, colto, compreso.
Deve
essere mio.
Spalanco
gli occhi e mi preparo a tuffarmi, spalancando le ali, ghermendo la preda in
volo.
Qualcosa,
come una mano fresca posatami sulla fronte, mi fa sussultare.
Spalanco
gli occhi, il sogno si dissolve come fili di nebbia alla prima brezza tiepida
di un’alba estiva.
Un
sogno.
Dormivo.
Volto
il capo di lato, tra gli strati sovrapposti e fruscianti di lino che
sgocciolano da un soffitto nascosto al mio sguardo, vedo un varco che si palanca su un giardino verde e fresco, di cui s’intuisce
appena uno spicchio al di là della fitta siepe di gelsomini che incornicia
questa finestra.
Questa
finestra. La conosco. Questa camera, questo letto.
Chiudo
gli occhi affondando il volto nel cuscino e trattengo il fiato fino quasi al
punto di morire. Sento i polmoni bruciare e poi contorcersi. Sono vivo. Sono
sveglio.