Sentieri Interrotti
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CAP:3/5
SERIE: Saint Seiya
AUTORE: Dhely
RATING: R. Angst. AU.
PAIRING: Saga & Ikki – Saga POV
ATTENZIONE: Si può scrivere una fic su una fic?! Non lo so di preciso, ma sappiate che mi sono molto molto molto ispirata alla fan fic di Hana-bi “VARIAZIONI SU UN TEMA DI MASAMI KURUMADA”. Spero vi piacerà comunque.
NOTE: i personaggi, le situazioni non mi appartengono e non ci guadagno niente, se non divertimento, a scrivere quello che sto scrivendo. Spero almeno di far divertire anche voi che leggete!
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Il Grande Tempio di Grecia: un capolavoro di pietra bianca, dai frontoni decorati di statue vestite di strati lucidi di pittura sgargiante. Sete ricamate con fili d’oro e pietre preziose che dondolano appena sfiorate dalla brezza ardente d’una estate torrida che sembra non finire mai.
Il Grande Tempio è ben lontano da quel Partenone affogato di smog e rumore, spogliato di vita e colori che giace esangue sopra un’Atene moderna e caotica, esso è un luogo fuori dal tempo, ove la sabbia candida che scivola nelle clessidre scandisce un percorso interiore mai compiuto.
Potere e volere.
Non ‘cose’. Niente materia, se non quella, minima, che serve a rappresentare l’autorità interiore.. perché il Grande Tempio è solo un enorme simbolo invitto, eterno di ciò che di più eterno esiste. Il volere e l’energia.
E’ gradevole, meraviglioso, farsi avvolgere nel lusso smodato, nella ricchezza, essere al centro di un ambiente unico e raffinato soprattutto quando si sa bene che tutto questo non è altro che illusione. Un’illusione che esiste, però, in quanto espressione dell’egemonia spirituale. Un’illusione di cui non essere schiavi, di cui *io* non sono schiavo.
Forse coloro che mi servono sono perduti. Molti di loro guardano e non comprendono e io rido di loro, e li schernisco, e infatti loro valgon meno di nulla. Coloro che guardano e non vedono sono più ciechi di coloro ai quali sono stati strappati gli occhi. Stolti e inetti: loro non mi servono se non per inorgoglire il mio ego.
Non ho bisogno di loro.
Non ho bisogno di nessuno, io: Cavaliere d’oro. Gran Sacerdote. Padrone d’un potere che non può essere descritto, che non si può dire, ma che può tenere insieme l’universo e, con la stessa facilità, annientare il pianeta solo per un respiro dato in un determinato modo.
Alcuni, che avrebbero potuto essermi al pari, ora mi servono. Altri, anche se potrebbero condividere in parte questa gloria e questo potere, raramente salgono al Tempio. Nei loro occhi mi specchio e mi do lustro, perché i loro ginocchi al mio cospetto si piegano e le loro volontà si quietano, accettando la mia senza chiedere nessuna spiegazione. Deliziosa invenzione, la fedeltà! Alcuni di loro sono in essa così immersi, così ciecamente convinti che il loro posto sia quello, ai miei piedi, che quasi mi commuove vedere le loro anime pure credere davvero, con ogni stilla della grande forza che alberga nei loro cuori, che la rettitudine sia ciò che guida i miei saggi ordini, che solo l’equilibrio sia la mira del mio regno.
Va bene così.
Porto una maschera sul mio volto, ma non è quella che protegge i miei pensieri. Anche essa è solo un segno, un simbolo materiale di qualcosa che è oltre la superficie sottile della carne.
La carne: fragile simulacro di ciò che siamo. Debolezza e vanità, null’altro che questo.
Metafora, richiamo.
Chi sa guardare, riesce ad attraversare lo strato che la carne ci costruisce addosso per vedere ciò che realmente siamo, ma sono pochi coloro che lo sanno, e lo vogliono fare.
A che serve la maschera preziosa che porto indosso, dunque, visto che è modellata sulle mie reali fattezze? A nulla. Essa non mi protegge più di quanto lo possa fare la mia vera parvenza, è essa stessa un ennesimo, estremo simbolo della mia lontananza da coloro che mi stanno intorno. E’ un urlare in silenzio che, comunque, per loro, io sarò sempre troppo lontano, troppo superiore, perché essi possan anche solo osare posare gli occhi sul mio corpo e si devono accontentare di una parvenza morta, una forma costruita, due volte lontana dalla realtà, copia della copia.
Seduto, come sono ora, di fronte allo specchio che rimanda la mia immagine mi ritrovo a sorridere.
La maschera intorno a cui ruotavano i miei ultimi pensieri mi giace in grembo. Immobile, lucente. Lì, mi fissa a labbra socchiuse, occhi aperti e spenti. Quello sono io, quando guardo il mondo, il mondo mi vede sempre con questa espressione di perfetta presenza, attenzione e superiorità. Per il mondo, probabilmente, io *sono* questa maschera.
Chi è così sciocco da farsi ingannare da se stesso, merita forse di essere messo sull’avviso? Chi si fa mentire dai propri occhi, dai propri sensi esterni può dirsi degno di essere preso in considerazione? Di essere trattato come mio pari?
No, mai: e il mio sorriso che si riflette sulla superficie d’argento dello specchio è simile a quello, pacato e freddo d’una statua.
Dietro di esso c’è il cuore di una costellazione, alle sue spalle bruciano decine di soli, in esso è celata un’energia impossibile da misurare. Solo chi vede questo, in me, è degno di vederlo, il mio viso nudo.
Guardo lo specchio, e nello specchio vedo riflesso, in un angolo che fiorisce appena tra le onde morbide delle tende chiare smosse da un vento che sa di mare e pinete lontane, come una nicchia, lenzuola stropicciate e segni che solo i ricordi di una notte come questa possono lasciare, i segni di una lunga notte trascorsa tra allenamenti e insegnamenti, obbligando a una disciplina totale, totalmente massacrante. Terribile per chiunque, e forse ancor di più per una Fenice par suo, selvaggia e indomabile fin dalla notte dei tempi.
Il potere, il suo terribile, enorme potere, in queste notti non serve: esso deve rimanere muto e inespresso perché è il controllo che deve esercitarsi e affinarsi, perché è solo la sua mente che deve diventare più sottile e letale di una freccia avvelenata. Non avrei mai creduto che il ragazzino che è avrebbe potuto essere ciò che mi si mostra: caparbio, una mente rapace, pronta e desiderosa di assorbire ogni cosa, senza aver minimamente paura di soffrire, di ferirsi, di andare in frantumi.. la mente è uno strumento delicato, può essere la migliore delle armi ma rimane fragile. Ebbene, la Fenice non ha mai paura.
Di nulla.
Neppure di un allenamento come questo. Mentale, e pericoloso, il più pericoloso al quale mai si sia sottoposto. Un allenamento che lo vede sempre in bilico come sulla lama di un rasoio, sempre sul punto di precipitare, da un lato o dall’altro della sottile fune che si tende sotto i suoi passi. E sotto non ci sono reti di sicurezza, perché se non fosse all’altezza del compito che gli voglio assegnare, non merita la fatica che farei ad addestrarlo.
E così la Fenice che è, senza le ali del suo potere, ogni notte come un equilibrista si esercita a rimanere in equilibrio tra il baratro della sua umana follia, e la pazzia infinita instillata dal suo Cosmo.
Ora lo vedo, è lì, anche se non c’è il suo corpo che si riflette sul mio specchio: lui è lì perché non è l’immagine fisica che lascia impronte ma qualcos’altro, di più sottile e prezioso. Insieme più pesante, ma non più denso. Qualcosa che non si può toccare, ma si può sentire e vedere.
Lui è lì.
Il marchio del suo spirito è lì, lasciato fra le lenzuola, nell’aria della mia stanza. Impresso sulla mia carne. Ore trascorse insieme, ore rubate al sonno, agli intrighi, all’esercizio del potere.. ore di me e di lui che plasmiamo pensieri e realtà a nostro piacimento, ore in cui esiste solo la mia volontà e la sua, solo le nostre menti.
Le mie mani hanno percorso infinite volte il suo potere, l’ho carezzato, blandito, sfiorato, io l’ho plasmato, insieme alla sua stessa volontà. E mille volte mi sono ustionato al tocco del suo fuoco, che mi legava i polsi, che mi afferrava l’anima e che mi sfidava, libero e selvaggio come l’animale senza padrone che è il suo simbolo celeste.
Mille volte ho esteso il mio potere e l’ho stretto ai miei lacci, legandolo e costringendolo, lottando con lui e contro di lui, plasmando ciò che doveva essere reso meno grezzo e rendendo splendida quella gemma che gli ardeva dentro. Magnifico, il suo potere incontrollato e incontrollabile, vibrante d’una profondità di cui raramente avevo provato uguale.
Ora, però, qualcosa di estraneo offusca il mio ricordo.
Ciò che avevo visto di lui, ciò che a lui mi aveva avvicinato non è più, non è solo quello che ora mi tiene a lui ancora legato.
Noi Cavalieri nasciamo per proteggere una dea che non ha alcun potere, che non è che una fallace menzogna; e, insieme, per eternare i nostri poteri, l’utilizzo del Cosmo, le sottigliezze di quella che è la più sottile e impegnativa delle arti.
Dominare il Cosmo.
E lui è il mio allievo perfetto. E’ ciò che forse avevo sempre desiderato, bramato: una creatura con una sensibilità superiore, e con un potere tale da potermi lasciare senza fiato, a volte, sconvolto quasi dallo stupore della profondità della sua energia.
Ma non solo: questo e qualcos’altro.
Qualcosa che non dico, che non mi piace neppure pensare, che non amo tradire neppure in me stesso.
Qualcosa a cui non do nome.
Nessuno mi obbliga a farlo, tantomeno lui, talmente concentrato e teso verso i suoi propri scopi che, unico, mi guarda e mi *vede* e, insieme, finge indifferenza, come se non gli importasse, come se la cosa non facesse alcuna differenza per lui.
In effetti: non fa alcuna differenza per lui, creatura potentissima e, insieme, fragile, che per vivere in eterno deve in eterno morire. Lui, ragazzo splendente di arroganza e gloria così chiuso e stretto nel suo personale incubo, avvinto al suo corpo, al suo Cosmo, in un modo tale da non riuscire a liberarsene mai, da cui non potrà mai destarsi senza amputare una parte vitale di sé.
Non importa ai miei scopi, dunque: non ha davvero alcuna importanza se lui sia un savio visionario o un pazzo sognatore. La sua mente e il suo potere, insieme, sono terribilmente lucidi e non miro ad altro.
Ieri notte, come altre notti, semplicemente il suo corpo l’ha tradito per l’eccessiva fatica della mente, e dopo esser crollato decine di volte, ed essersi caparbiamente alzato, ogni volta, gli ho semplicemente donato l’oblio che meritava.
Il suo corpo ha dormito qui, come altre volte.
E non è il suo corpo che m’interessa, eppure.. eppure basta l’impronta di esso intuita in un’immagine riflessa da una superficie d’argento per turbarmi?
Turbare me?
Io posso ancora essere turbato da qualcosa? Da cosa, poi?
Un Cosmo, una mente, un volere: realtà incorporee, ma sono l’unica realtà vera che riconosco, l’unica realtà che conti davvero, che abbia un peso, una valore, per far spostare i piatti della bilancia. Il resto, *tutto* il resto è nulla, illusione, finzione, inutile orpello. Può essere, al massimo, segno e ricordo, rimando, memento.
La carne non vale se non per ciò che nasconde.
Son cose che so, che conosco, più e meglio di tanti altri. E’ ciò che insegno, è ciò che ho imparato a mie spese, è il modo in cui sono sempre vissuto, e in cui sono riuscito a divenire ciò che sono.
Potente e venerato.
E allora cosa sono questi.. dubbi? Queste domande?
Suscitate in me da cosa, poi?! Dalla presenza di un *corpo*.
Un corpo è un cadavere se non fosse per lo spirito che lo anima, ed ai corpi non presto molta più attenzione che, appunto, ai cadaveri. Guardare le parvenze a volte può essere gradevole, gratificate, divertente, ma non è mai utile, né saggio perdersi in esse. Tutto il mondo è una grande illusione, una finzione scenica che tutti quanti noi, la maggior parte delle volte inconsapevolmente, intessiamo per crearci una nicchia, un mondo in cui rifugiarci.
La verità è sempre un'altra, e sta a un livello più profondo, sotto la superficie. Io so come vedere davvero, come guardare, senza farmi irretire dalle menzogne suadenti dei corpi e dei colori, senza considerare che ciò che si mostra sia la *realtà*.
Non che sia mai stato alla ricerca della verità metafisica o religiosa o mistica. Ma il Vero è un potentissimo strumento: per occultarlo nel modo giusto, con le parvenze più adatte a far smarrire i cuori e i pensieri dei semplici, per rendere nebulosa e confusa la strada ad esso, per ammantarmi di immagini di esso e assorbirne il potere, manipolandolo e utilizzando coloro che mi circondano in nome suo.
Guardo la Fenice, e vedo *la Fenice*. Il potere, le fiamme, la forza, il Cosmo.
Ma ultimamente, la mia attenzione tende a spostarsi verso altro. Improvvisamente vedo.. vedo Ikki. Quell’involucro inutile che contiene il Potere dell’Eterno Ritorno.
Lui, e non altri, è unito al Cosmo, e lui è quello che da’ questa impronta alla Fenice, quell’impronta che tanto bene ho imparato a conoscere.
E’ solo un ragazzino, e sarebbe perfettamente inutile se non fosse la Fenice. Che attenzione mostrare, dunque, al semplice, meschino simulacro che il potere cosmico ha deciso di abitare, se non come strumento per avvicinarmi ad esso e tramite il quale manipolarlo? Non serve ad altro, quel corpo. Quella carne ha valore solo i quanto permeata di un Cosmo potente e ineguagliabile.
Sì, questo lo so. Questo è quello che mi dico continuamente.
Però qualcosa dentro di me, ogni tanto, mi stupisce, e mi ritrovo a cercare Ikki nel riverbero infinito delle lingue di fiamma che il suo spirito mi rimanda spesso. Ed è un errore. Una debolezza.
Peggio: un’assurdità.
L’assurdo indicibile che è la Fenice mi obbliga dunque, in questo modo, a venire meno a ogni mia convinzione e credenza? E’ questo il potere dell’infinita negazione dialettica del conciliarsi dei contrari? E’ questa inafferrabilità logica che mi inchioda a un comportamento tanto irrazionale?
Lo specchio rimanda il mio volto, la mia maschera.
E solo un angolo di un talamo, lenzuola leggermente stropicciate, il silenzio cosmico delle mie stanze appena increspate da quel respirare alieno di un corpo che non è il mio.
Nessun corpo nello specchio, nessun cadavere che mi urti che mi susciti dubbi e pensieri inesplicabili. Ma la sua presenza è lì, ferma e fissa sopra di me, dentro.
La Fenice che si è reincarnata.
O Ikki?