Sentieri Interrotti

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CAP:2/5

 

SERIE: Saint Seiya

 

AUTORE: Dhely

 

RATING:  R. Angst. AU.

 

PAIRING: Saga & Ikki – Ikki POV

ATTENZIONE: Si può scrivere una fic su una fic?! Non lo so di preciso, ma sappiate che mi sono molto molto molto ispirata alla fan fic di Hana-bi “VARIAZIONI SU UN TEMA DI MASAMI KURUMADA”. Spero vi piacerà comunque.

NOTE: i personaggi, le situazioni non mi appartengono e non ci guadagno niente, se non divertimento, a scrivere quello che sto scrivendo. Spero almeno di far divertire anche voi che leggete!

NOTE2. la poesia è di Holderlin. Alcun concezioni sono di Heidegger, presenti soprattutto nei suoi scritti pubblicati in Italia in ‘Sentieri interrotti’ della Adelphi, da cui il titolo della fic!

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.. non tutto

è ai Celesti possibile. Più presto giungono infatti

i mortali in fondo all’abisso.

Ma così avviene per essi la svolta.

Lungo è il tempo, ma vi si attua

il Vero.”

Holderlin, Mnemosine.

 

Nell’abisso sono custodite le tracce degli Dei fuggiti dal mondo degli uomini. Vane dunque le pretese di coloro che, alzando le palme a simulacri o statue, pregano e piangono, e innalzano fumi e doni a coloro che non possono più rispondere. Che esse: statue, segni, simboli rimangano intatti come veleno indispensabile al popolo che ha bisogno di credere, nel non riuscire ad essere se stesso, e al rogo i poeti, coloro che mantengono, tramite l’ebbrezza dionisiaca, il legame con questi fuggiti, indicano le orme lasciate dalle forme ormai inconsistenti che hanno abbandonato gli uomini alle loro spalle, senza pietà!

Ecco perché, nonostante tutto, nella notte del tempo, il poeta canta il Sacro. Perché questa canzone è un’ispirazione al trascendentale. Perché essa è la possibilità infinita all’aprirsi a un mondo che ci è precluso.

Il sentiero interrotto è la strada percorsa dagli Dei che ora ci hanno abbandonato, in questo presente che è il nostro presente, che è notte infinita, abisso del Sacro, solitudine mortale.

Ma, pur abbandonati, ora siamo noi, e padroni, e coscienti dei nostri poteri. Puntati verso i nostri obiettivi scoperti, lucenti di fronte ai nostri occhi.

La ragione è fallace, la fede ha ingannato. Il cercare fuori di noi un punto a cui ancorarsi è stata vana speranza e si è affogati. Cosa è rimasto di ciò che eravamo?

Bracieri di rame che bruciano incensi preziosi come schegge d’oro e diamanti. Candele benedette di olio di rose e fiori più rari d’un cuore puro. Preci d’una bellezza in grado di far tremare e piangere un angelo. Sacrifici di sangue che inondano are candide, di marmi levigati e lucenti come opali.

Tutto ciò non ci sporca né ci monda. Non ci rende indegni o più vicini alla gloria attesa. Solo il potere è ciò che ci dona o toglie qualcosa, solo esso ci rende uomini. Solo di esso ho fame e sete.

Perduto in un labirinto di specchi in cui solo la mia immagine è riflessa, in cui solo il me stesso ha valore, l’unico scopo è l’esser consapevoli che la propria consapevolezza diventa volere, e diventa valore assoluto quando la volontà è forgiata come l’arma che deve essere.

Il mio potere è energia: ampia, distruttiva. Il mio potere va disciplinato, raffinato, e questa è una fatica benedetta, uno sforzo a cui mi piego con fatica e gratitudine perché tramite esso posso diventare ciò che devo essere, per ottenere ciò che voglio.

Saga indirizza e disciplina, consiglia ed esorta.

Saga mi guarda e so cosa vede: oltre la scorza mortale, perché quelli come lui sono in grado di  andare oltre la superficie mortale che ci ricopre il corpo, per puntare lo sguardo su quell’essenza che ci portiamo dentro, unica e infinita, imbattuta e imbattibile. Fuoco e potere, desiderio e volontà. Ecco cosa sono per lui: non una stella, che una stella sola, seppur ampia e potente, non può possedere un’energia simile. Non una costellazione, che essa ha limiti. No: io sono la Fenice.

Io sono il legame con ogni energia, ad ogni livello dell’universo, io sono ciò che lega e ciò che unisce e insieme differenzia. Io sono l’indicibile forza che nella vittoria si annienta, nella sconfitta viene incoronata di gloria.

Follia, solo follia: la mitologia è un sogno. Il mio potere, che per Saga è eterno ritorno, e incantato, osserva il dispiegarsi le onde del mio potere che mi si gonfiano dentro, è ciò che non si può comprendere.

Saga non saprà mai. Va bene così: è mio maestro, non mio confessore. Non deve capire, che la Fenice non si può comprendere.

L’Assurdo, lui mi nomina, a volte.

Mi va bene essere l’assurdo, dunque, purché rimanga il *mio* assurdo, e in esso la mia volontà si quieti. La mia volontà trovi imposizione e potere.

Stringo i pugni, i *miei* pugni di carne e sangue e in essi sento fluire il potere: di soli e stelle, pianeti e costellazioni.

Mi dicono che non ho pietà: come è possibile che io provi un sentimento che si può provare solo verso coloro che, in qualche modo, si sentono a sé ‘vicini’? Non sento nessuno ‘vicino’ a me, e così come non prova pena un uomo indaffarato nel pestare incurante una formica, così non sorge in me pietà nell’eliminare la vita di un uomo che di tanto mi è inferiore.

Saga di questo ne è orgoglioso e io non comprendo: non faccio nulla di strano. Sono la Fenice, la pietà non è uno dei miei doni.

Sono potente, arrogante. Il mio cosmo ha bagliori d’oro e di mille altri colori, che talvolta sfiorano quelli dei mondi celesti e infernali. La morte, l’unico limite che non ci è concesso superare, in quanto mortali, io come Fenice non considero tale. Per me non è un limite più di quanto possa esserlo un muro fatto di ragnatele sottili che si spezzano al mio primo tocco e diventano polvere inutile sotto i miei piedi.

Faccio ciò per cui sono nato essere.

Un dominatore che impone la sua volontà.

Ma di Saga mi reputo debitore: fu lui a insegnarmi molte cose degli esseri umani, lui che mi fece aprire gli occhi, quando essi erano ancora fragili e deboli, accecati com’erano stati dal riverbero che la nascita in me della Fenice aveva causato. M’ero accorto d’esser stato cieco per tutta una vita solo nel momento in cui divenni davvero cieco per la vampa di luce e calore che mi trapassò il cervello, passando per le retine.

Ma, poi, ho mai davvero vissuto una vita prima di essere la Fenice?

Ricordi nebulosi e lontani, aperti a interpretazioni terribili e inspiegabili, che mi parlano di cose, sentimenti, sensazioni che non riconosco vivere in me, dentro di me. Perduto, ero, smarrito in un fiume di non coscienza che mi avrebbe sempre portato con sé, se non fossi stato destinato a possedere questo potere, se non fossi stato così *forte* da meritarmi questo potere.

Se foss’io o il destino mio quello che più merita a questo punto non so: non sono nato per esser filosofo ma, come credo, e come dissi a Saga, apertamente, giorni fa: se pure il destino m’avesse voluto designare cavaliere della Fenice, senza la mia volontà l’intento si sarebbe compiuto? Cosa può fare la predestinazione senza la volontà ferma d’un uomo?

Io credo nella mia forza e nella mia volontà, nell’energia che mai mi abbandona, nella fiamma che mi vive dentro, nella superiorità che fa di me un essere degno a camminare al fianco del Grande Sacerdote, l’uomo più grande dopo gli dei, designato dagli dei stessi a mantenere dominio e equilibrio in loro assenza.

Io gli cammino al fianco, io siedo accanto a lui, nelle ampie sale dagli alti soffitti intarsiati d’oro e pietre preziose. Io sono con lui nelle aule decorate da statue di marmo bianco, coperte di strati di lacche lucide e orpelli delicati e preziosi. I miei passi, insieme ai suoi frusciano appena negli alti tappeti preziosi che coprono pavimenti marmorei, attraversando le ombre traslucide di enormi aperture sul cielo di Grecia, schermate appena da decine e decine di teli sottilissimi di lino di Tebe, ricamato di carminio e oro.

Io solo ho l’accesso ai suoi giardini, enormi e sempre verdi e in eterno rigoglio, in cui le piante una per una vengono curate e costrette in fogge e pose da infinite mani che in eterno non faranno mai altro. E le vasche sempre zampillanti d’acqua pura anche quando la Grecia tutta soffre la siccità e i campi si seccano a poca distanza dal santuario, la terra si spacca di crepe e affoga di polvere e gli uomini hanno lingue riarse dal sole e gonfie.

Io conosco, tramite lui, i segreti corridoi della mente umana, le trappole, le viscide paludi che gli uomini nascondono dentro di sé. I trabocchetti che tendono i sentimenti. Le tagliole che fanno scattare la ragione e i sensi quando decidono di lavorare fianco a fianco. E le folli credenze che tengono in vita questi stupidi umani, innamorati delle illusioni che loro stessi si sono intessuti.

E conosco i modi perché una mente sia mia. Perché essa soffra, e con essa il corpo. So soffocarla, piegarla, strapparla. So farle credere l’impossibile, sradicare da un cuore ogni ricordo più caro e vederlo seccarsi, afflosciarsi come se, tolto all’improvviso quel puntello che era la menzogna, nulla più di quell’individualità, di quello spirito, volesse vivere.

Per costoro è meglio vivere nell’ignoranza, nella menzogna, che sopportare la desolante verità: e io dovrei mostrare pietà verso coloro che, semplicemente non sanno accettare l’idea che la vita è una distesa arida costellata solo di vittorie o di sconfitte, fatta di battaglie, degna di essere vissuta solo nella gloria? No, costoro non sono degni di vivere.

E se qualcuno, come quello sciocco che m’infastidì l’altro giorno, osasse domandarmi chi mai sono io per decidere chi è degno di morte e chi non lo è, avrei la stessa risposta che ebbi per quel povero disgraziato che, ora, giace da qualche parte, divenuto cibo per i vermi a causa della sua impudenza: c’è qualcun altro, oltre colui che ha potere, che può separare chi è degno da chi non lo è? Esiste una discriminante diversa dalla possibilità intrinseca del giudizio? Io giudico, e ho la volontà e la forza per rendere fattiva la mia volontà: non basta questo a dire che io *posso*?

E dunque, forse, non solo io *posso*, ma pure *devo*. Chi può, se non io?

Saga dice che è la nostra stirpe quella che governerà gli uomini, ora, perché nostra è la volontà e il potere di compiere ciò che vogliamo.

Sarà.

E’ lui il filosofo, è lui quello che crea giustificazioni, spiegazioni. Io so che faccio perché posso. E posso tutto ciò che voglio: dunque sono qui per riscattare tutto ciò che mi appartiene. Sono qui per non avere pietà, perché non voglio avere pietà. Sono qui per dominare, perché è ciò per cui sono nato. Sono qui per il mio potere, che è ciò che mi rende vivo e forte.

Sono qui perché è qui che voglio stare, perché sento di avere altro da imparare da Saga, perché.. perché mi piace l’odore degli incensi che si innalzano nell’aria immota del tempio, e l’aroma acre dei sacrifici, i fumi densi, in spirali morbide che si elevano verso un cielo vuoto, che so essere vuoto. Mi piace ridere di questi sciocchi, meschini queruli questuanti che credono fortemente che lassù, nel cielo, ci sia qualcuno pronto ad ascoltarli.

Mi piace guardarli e sapere che fanno questo per niente, che non ci sono padroni della loro vita che siano al di sopra di me, o di Saga, o di persone che sono al nostro livello.

Mi annoio, spesso, ad assistere alle loro preghiere, non ho il gusto di Saga nel sentirsi gratificato dall’osanna altrui. Mi piace perdermi, allora, nei miei pensieri, meditando sulle mie mete, su quanto mi manca alla perfezione, su quanto devo ancora migliorarmi per ottenere la vendetta che mi spetta. E scopro un nuovo piacere ogni volta nel sentirmi immerso in quell’aria ovattata e mistica del Santuario: covo pericoloso di vipere malvagie e insieme esaltante centro di potere.

Saga ride e dice che sono pazzo.

Forse ha ragione lui. Ma, anche se fosse, di certo, non sono da meno di lui neppure in questo.

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