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Pairing Ruhana
Raiting Au/Nc-17/X
19 Settembre
In onore del mio terzo, felicissimo, anniversario
all’Ysal e per estensione nel mondo dello yaoi italiano, presento oggi la prima delle tre epiche della saga medievale di
Segrete, una storia iniziata quasi quattro anni fa ed ancora lontana dalla
conclusione. Nata come una fanfic su Slam Dunk è diventata, mentre la
creavo, molto più simile ad un original ed è per questo che la pubblico in
entrambe le forme, assicurando un’omogeneità di trama da ambo le parti ed
invitandovi a scegliere fra le due quella che più incontra il vostro
gusto.
Mel Kaine
Durante la lettura consiglio l’ascolto di Conclusion degli Apocalyptica
per tutti i capitoli e di Temple of the King di Ritchie Blackmore per
l’ultimo.
Per le scene di guerra consiglio Sons of Somerled di Steve McDonald
e Ivory Tower dei Blackmore’s Night.
In
tempi oscuri le grandi passioni,
le passioni di fuoco che muovono anche gli animi degli uomini più saldi,
le passioni che bruciano nella carne come marchi della loro umanità
e li strappano all’aura divina di cui i loro nobili princìpi li rivestono,
le forti passioni che fanno della loro vita un poema,
di un loro sguardo un orizzonte infinito
e di un loro bacio il dono di un uomo ad un altro.
Segrete
di Mel Kaine
Prima fra le epiche
- L'epica del castello
Capitolo primus
٭٭٭٭٭٭٭٭٭٭٭٭٭
Lo sguardo
intrepido di un uomo
è l’ambasciatore in catene
di un sentimento libero.
M.
٭٭٭٭٭٭٭٭٭
le fiaccole mandavano la loro tenue luce a combattere contro l’oscurità
degli atri corridoi di pietra.
L’odore intenso dell’olio bruciato, dell’umidità penetrante, della paglia
sordida dei giacigli.
Le correnti di gelida aria mantenevano sveglie, con il loro freddo
pungente, le guardie poste a protezione delle celle.
I loro indumenti pesanti, il lucore delle scaglie delle corazze e dei loro
usberghi, le armi affilate e pronte, tenute saldamente legate alla vita con
strisce di cuoio sottile, le loro espressioni immobili e lontane.
Lontane come sembravano i tintinnii dei ceppi che pendevano dai soffitti,
i ganci, il brillare sinistro e sadico degli strumenti di tortura, i
calderoni di braci arroventate che rilucevano di una triste disperazione
rosso sangue.
In basso la corrente ed il vento portavano ai loro piedi le urla atroci di
chi, per decisione di un fato avverso, avrebbe finito in quelle prigioni i
propri giorni.
Passi concitati e veloci avevano interrotto, al crepuscolo, l’apparente
quiete di quei corridoi di grezza pietra.
Un nuovo prigioniero era stato trascinato in quel luogo così lontano dal
cielo, solo le forze congiunte di tre soldati avevano potuto sopraffare le
sue e costringerlo in ceppi in una cella oscura.
Ed ora si attendeva.
Nel silenzio che adesso quel luogo innaturalmente offriva si udirono, prima
indistintamente, poi con maggiore chiarezza, passi pesanti, regolari,
decisi.
Le guardie si disposero sull’attenti, avrebbero riconosciuto
quell’incedere fra mille, anche nel fragore di una battaglia, osservando
con rispetto quell’ombra passare loro davanti rivolsero a quell’uomo il
loro migliore saluto militare, facendo risuonare nel buio il rumore
imperante delle aste di lancia che venivano battute a terra.
Le alte alabarde sollevate, le spade portate davanti al petto.
Onore e gloria all’uomo che valeva tutti quegli omaggi.
Il loro comandante era sceso nelle segrete.
La porta di pesantissima quercia e ferro battuto si aprì, cigolando
nervosamente.
I tre soldati, che accerchiavano il nuovo prigioniero, si scostarono
repentini disponendosi ordinatamente, lasciando al loro comandante ed
al loro prigioniero la possibilità di scorgersi in uno sguardo
reciproco.
L’uomo legato saldamente alzò i suoi occhi fieri, il colore dell’ambra
vi riluceva in continui moti d’orgoglio marrone intenso, le ciglia
accarezzate da fili di porpora che erano i suoi capelli.
Il viso appena sporco nascondeva il dorato della carne, abiti semplici e
sdruciti sul resto del corpo, i polsi serrati, bloccati nella morsa ferrea
delle catene fissate al muro da enormi chiodi squadrati.
Ma l’orgoglio, la forza, la fierezza della sua figura, insieme alla linea
decisa della sua gola, davano più a quel giovane uomo l’aspetto di una
belva selvaggia che non quello di un umile prigioniero.
Una fiera assetata del sangue di coloro che avevano osato ridurla in lacci,
pronta a vendicarsi, ad attendere pazientemente l’occasione propizia,
concentrando le forze in quei fasci di muscoli che si intravedevano fra
gli abiti laceri e consunti.
Negli occhi immobili la luce intensa e purpurea di chi non si sarebbe mai
arreso.
Il comandante sorrise fra sé, compiaciuto.
Lo avevano catturato al limitare del bosco, fra le querce e le faggete.
Ma l’uomo in armatura non si illudeva, non era mai stato avvezzo a farlo.
Erano riusciti a catturare quel prigioniero solo grazie alle improvvise
condizioni favorevoli e ad un aiuto del fato.
Quel giorno erano usciti in ricognizione nei territori a nord e si
accingevano a tornare al castello passando per i miseri villaggi della
contrada vicina.
Era il diciannovesimo giorno del mese di settembre, nel quattordicesimo
anno del regno di Eter Ruan III, re di Kido’hne.
I rivoltosi si erano appena ritirati dal
villaggio che avevano tentato di liberare dalle guardie personali del re
con una rapida incursione quando, casualmente nascosto fra le fronde,
assieme a pochi suoi uomini, egli aveva ordinato l’accerchiamento.
La lotta era stata veloce, uno dei suoi migliori cavalieri aveva subito
mandato il sangue di qualche rivoltoso a nutrire la bruna terra poi era
comparso quell’uomo.
Si era avventato con violenza su di loro, armato della propria spada a due
mani ed aveva permesso agli altri di fuggire fra i rovi ed i rami frondosi.
Si era lasciato quindi accerchiare, pur difendendosi, ed era stato infine
catturato.
Da lontano il comandante lo aveva guardato.
Un uomo valoroso che si era battuto strenuamente solo per proteggere i
suoi compagni.
Egli lo aveva capito ed aveva ordinato che nessuno inseguisse i ribelli.
Preferiva accontentarsi di quell’unica preda coraggiosa piuttosto che di
un intero branco di conigli.
Ed ora lo aveva di fronte a sé.
Gli occhi nei suoi.
Silenziosamente divertito dal leggere in lui una spregiudicatezza piena d’orgoglio.
Il comandante si avvicinò al suo prigioniero, facendo tintinnare nel
silenzio che ingombrava quella stanza la sua spada contro il fianco.
La schiena eretta, l’argento dei riflessi di metallo dell’armatura, il
nero del mantello pesante, l’oro della cintura e delle fibbie.
Tutto ciò si sposava perfettamente, nella penombra, con i suoi
occhi sottili e blu come il cielo d’inverno e con i suoi capelli neri come
una notte senza luna.
Un cenno veloce ed autoritario del mento verso uno dei soldati.
Il milite subito fece un passo avanti, girandosi verso il prigioniero, con
voce alta e chiara pronunciò.
“L’uomo che hai davanti è Kaede Rukawa, comandante e capitano delle
guardie dell’esercito di Kido’hne, qual è il tuo nome ?”
La voce potente del soldato ebbe tutto il tempo di spegnersi e di essere
superata dal gocciolare lento delle infiltrazioni d’acqua attraverso la
roccia.
Il prigioniero non abbassò lo sguardo.
Non aprì le labbra.
Un secondo soldato si fece avanti.
“Rispondi, cane, il comandante vuole conoscere il tuo nome”
Il giovane uomo legato non permise neppure alle proprie ciglia di battere.
Mai, giurò a se stesso, avrebbe interrotto il proprio silenzio.
Da lui non avrebbero avuto neppure un respiro.
Il secondo soldato si avvicinò furente, afferrò alla gola il prigioniero e
lo colpì duramente al volto con un pugno della mano guantata di cuoio.
“Parla!” gridò
Il prigioniero lo fissò in perfetto silenzio, un rivolo denso che scorreva
da una delle sue nari fino all’incavo superiore delle labbra,
raccogliendovisi fino a colare veloce sulla bocca.
Essa non si aprì nemmeno per leccarlo via.
Un altro soldato si avvicinò e colpì nuovamente l’uomo.
Al ventre, al fianco, ancora sul viso.
Mentre l’ordine di parlare risuonava furioso e continuo fra le mura.
Improvvisamente il comandante alzò una mano, fermando i suoi uomini.
I soldati subito si fecero da parte.
Il comandante osservò ancora una volta quegli occhi.
Nella loro immobilità lesse rabbia e sconfinata determinazione.
Sorrise fra sé.
Il secondo soldato gli si avvicinò.
“Comandante, vi prego, affidatelo a me, saprò farlo parlare, vedrete come
canterà quando passerò sul suo corpo i ferri roventi” un ghigno perfetto
su quel viso piccolo ed olivastro
Un altro soldato affiancò quello che aveva appena parlato.
“Oppure, comandante, propongo di fare in modo che questo prigioniero
reticente incontri da vicino la nostra Vergine di Norimberga, sono certo
che dopo imparerà le buone maniere che solo ella sa insegnare”
I soldati risero sguaiati.
Un gesto nervoso del loro comandante li riportò all’ordine e al silenzio.
“Andate. Mi occuperò io di lui”
La bellissima voce profonda, lievemente roca, ma armoniosa.
Era raro udirla, se non durante i concili di guerra, o almeno così
si narrava.
Ma ogni volta era ugualmente un brivido freddo per i suoi stessi soldati.
Senza proferire parola i tre uomini si allontanarono.
Se il loro comandante aveva deciso di occuparsi di quell’uomo speravano
solo che Iddio avesse pietà di lui.
Ж Ж Ж
La porta accostata lasciava trapelare un solo filo sottile e continuo di
vento.
L’umidità della cella si condensava già sul ferro arrugginito dei
ceppi e dei chiodi.
Il comandante girò lentamente nella stanza.
Il prigioniero ebbe tempo di osservarlo mentre attendeva le sue minacce ed
una morte dolorosa.
I pesanti stivali ferrati risuonavano gravi e lenti, i vestiti di panno
nero e pesante lana lo ricoprivano interamente fino al collo bianco,
delicatamente cinto da un colletto rigido di velluto nero, una fibbia
dorata con lo stemma del casato reale ne teneva accuratamente uniti i
lembi, sottolineando il rango militare di quell’uomo. Il mantello nero come la notte scivolava in pieghe fino alle sue caviglie,
sembrava morbidissimo anche da lontano foderato com’era da pellicce di
volpe bruna, la più rara. La spada lunga ed un pugnale ornavano il fianco,
allacciati con il cuoio sottile alla cintura.
I capelli sembravano crini folti e neri, lucidissimi e sottili, gli occhi
spiccavano sul viso chiaro come oceani blu di prussia assieme alla linea
elegante delle labbra, leggermente tinte di rosato.
Il capitano delle guardie si avvicinò nuovamente.
Con studiata lentezza riportò i suoi occhi, singolarmente allungati, davanti
a lui.
“Un puledro……..”mormorò piano Rukawa
Il prigioniero lo seguì con lo sguardo mentre lo vedeva ancora vagare
nella piccola segreta davanti a lui.
Rukawa si avvicinò ad un suo orecchio, mantenendosi comunque distante.
“Mi ricordi un puledro selvaggio……….di quelli a est…nei pascoli sull’altopiano di Edron……..”
L’uomo legato avvertì, la frazione di un istante, il fiato tiepido del
comandante sfiorarlo e si ritrasse impercettibilmente.
La voce bassa si spense subito.
Un sorriso ironico lambì appena le labbra fredde di Rukawa.
Velocemente il capitano delle guardie sfilò la catena dai passanti nel
muro, prese un robusto e lungo laccio di cuoio e legò strettamente i polsi
del prigioniero, passando la corda prima attorno ad un polso poi attorno
all’altro ed infine attorcigliandola nuovamente su entrambi.
Strinse forte e fermò con un nodo perfetto.
Alzò un istante gli occhi blu scuro e poi aprì i ceppi, lasciandoli cadere
a terra.
Sfidò con lo sguardo quel prigioniero, afferrò la cinghia di cuoio con cui
l’aveva legato e lo trascinò via dalle segrete quella notte stessa.
Ж Ж Ж
La stanza in cui entrarono non era lontana.
Il giovane uomo legato fu certo che fosse nella stessa ala delle segrete,
probabilmente un piano sopra.
Si guardò attorno velocemente, mentre il capitano delle guardie chiudeva la
porta di scuro rovere dietro di sé, illuminando l’ambiente con una
grande fiaccola ormai quasi estinta.
Un immenso letto quadrato faceva mostra di sé al centro della piccola
sala, il mobilio era rado ed essenziale.
Un alto scranno di legno ricoperto di morbide pelli accanto ad un camino
spento, un grezzo tavolino corto fra il letto ed una branda fatta di strisce di
stoffa e paglia pulita.
Un’altra porta occludeva l’accesso a quello che sembrava un piccolo
bagno.
Una lunga cassapanca intarsiata di ferro nell’ultimo angolo vuoto.
Nessuna finestra, né tende, né arazzi od ornamenti.
La stanza spoglia di un soldato.
Il prigioniero si volse verso il comandante, lo sguardo pieno di sospetto
e di attesa.
Rukawa si tolse lentamente il mantello, riponendolo con cura sullo
schienale dello scranno, poi si abbassò leggermente per accendere il fuoco
con mano rapida e sicura.
Non aveva mai voluto servi che entrassero e uscissero continuamente dalle
sue stanze, nonostante potesse averne quanti ne voleva li aveva sempre
rifiutati.
Bastava a se stesso e preferiva il silenzio e la solitudine alla seccante
deferenza di un servitore.
Il fuoco crepitò veloce, iniziando subito a riscaldare l’aria gelida.
Il comandante posò le armi accanto allo scranno.
Il prigioniero le osservò attentamente, tenendo a mente dove fossero
riposte, così da richiamare alla mente quell’utile particolare nel
momento in cui ne avrebbe avuto bisogno per fuggire.
Non aveva nessuna intenzione di rimanere lì a sentirsi rivolgere domande
alle quali non avrebbe risposto.
Doveva solo trovare l’occasione giusta per fuggire.
Il giovane capitano delle guardie osservò le lingue di fiamma iniziare il
loro banchetto sui ciocchi scuri e si apprestò ad imitarle.
“Per fare di un puledro di Edron un cavallo pronto alla battaglia non
rimane che domarlo…….”mormorò con voce atona davanti alle fiamme, come se
parlasse a se stesso
Il prigioniero lo guardò, chiedendosi quando quell’uomo avrebbe palesato
le proprie intenzioni, di certo non lo aveva portato in quella sala per
discorrere con lui di battaglie e cavalli.
Strinse i pugni e tese i muscoli pronto ad afferrare la prima opportunità
di atterrare il proprio avversario.
Incurantemente impassibile Rukawa si sollevò, passando accanto a lui, con
l’apparente intenzione di non fermarglisi né accanto né di fronte.
Allungò solo una mano e nel momento in cui, incautamente, quel giovane
uomo legato rilassò il corpo, lui lo spinse indietro, gettandolo
sul grande letto.
Fu un attimo.
Prima che il prigioniero potesse rendersene conto il comandante aveva
afferrato il cuoio che cingeva i suoi polsi e lo aveva legato saldamente
alla testiera di ferro e argento del letto.
Fra i semplici intarsi di foglie d’alloro.
Strattonando violentemente i polsi il giovane uomo tentò di liberarsi.
Ma i nodi di quel dannato comandante non cedevano di uno spillo.
Il capitano delle guardie lo osservò.
Disteso al centro del suo letto, che mai aveva conosciuto corpo oltre a
quello del proprio comandante.
Le braccia stese e saldamente ancorate al ferro battuto.
Quello sciocco prigioniero pensava forse che lui non avesse visto gli
sguardi ansiosi lanciati alle sue armi abbandonate?
Lentamente si riportò accanto allo scranno, sganciò con calma la preziosa
cintura che gli cingeva i fianchi e la abbandonò sul mantello piegato,
abbassò una mano a liberare i piedi dagli alti stivali e salì sul letto.
Sopra il suo prigioniero.
Si avvicinò lento a quel viso e sembrò sorridere ironico, specchiandosi in
quegli occhi sgranati dall’incomprensione per tali gesti.
La voce bassissima, per non sforzarsi più di quanto già non avesse fatto
nel parlare così tanto, ma chiaramente udibile nel silenzio del vespro.
“Tu sei come uno di quei puledri………………………...ribelle……... sedizioso ……….e
selvaggio………….non rimane altro, per farti parlare, che montarti,
marchiarti e domarti……..esattamente come con uno di loro”
Senza altre parole il capitano delle guardie girò il corpo sotto di sé, lo
spogliò velocemente dei pantaloni, strappò la sua tunica consunta e gettò
quegli stracci a terra.
Si slacciò con cura la sottile sottocintura di cuoio intrecciato e abbassò
di poco i propri calzoni neri.
Si sfiorò un istante, sentendo la propria punta umida e pronta, cinse con
un braccio il ventre del prigioniero stringendo la mano sulla sua anca,
leccandosi le labbra secche.
Costretto in ginocchio davanti a sé quel giovane uomo scostò, senza
cerimonia alcuna, i suoi glutei cedevoli e lo prese con violenza, in un unico,
rapido affondo.
Un aggraziato scivolare del bacino in avanti, lo stesso identico movimento
che ogni cavaliere compie per montare sul proprio cavallo.
Un urlo intenso lacerò il silenzio.
La voce del prigioniero si levò alta e carica di un immenso dolore.
Rukawa sorrise.
“Allora hai ..una voce, prigioniero…..”si mormorò sulle labbra aperte in
cerca di respiro, mentre il silenzio ricominciava a scorrere
Si mosse quindi deciso, avanzando in quella carne stretta.
Un altro grido forte risuonò contro le mura di pietra, salendo su per il
camino oltre le fiamme scure.
Il comandante non vi badò.
Il calore ed il piacere si erano impossessati di lui.
Quell’uomo dai capelli neri e lucenti reclinò completamente la testa, si
afferrò saldamente ai fianchi del suo prigioniero e lo montò esattamente
come si montava un puledro dell’altopiano di Edron.
Con autorità e forza, mani ferme e affondi precisi, prendendosi il giusto
tempo per riuscire a domarlo pienamente.
Sentendo le sue orecchie riempirsi di grida e fiochi lamenti.
Avvertendo il bruciare violento di quel corpo.
Accorgendosi che qualcosa di altrettanto caldo scivolava tra di loro, un
odore dolce e metallico che ben conosceva.
Quando si fu riempito di piacere si decise ad aumentare le proprie spinte,
non udiva più grida, soltanto suoni ovattati ed indistinti.
Non se ne curò, impose ancora una volta il proprio ritmo e arrivò ben
presto a contrarsi in lui.
Violentemente.
Aprendo le labbra in un forte gemito completamente muto.
Inarcando la schiena lucida e forte.
Stringendo forte fra le dita le due sfericità dei suoi glutei.
Marchiando indelebilmente quel prigioniero con il proprio denso e caldo
seme.
Con un sospiro lo lasciò andare, vedendolo accasciarsi sulle lenzuola.
Respirò profondamente e lo guardò, soddisfatto.
La schiena ampia scossa dai tremiti.
[Il freddo della stanza o il dolore?]
Se lo chiese sfiorandosi l’inguine, portandosi dita macchiate di sangue
davanti al viso.
Pochi, intensi, rivoli porpora scendevano solcando la linea soda dei glutei
di quel giovane uomo legato.
Rukawa li osservò con interesse, poi si alzò.
Si pulì velocemente con un panno umido d’acqua pulita e strinse
nuovamente attorno ai propri fianchi la cintura intrecciata.
Tornò nella sala da letto e lo vide ancora immobile sulle lenzuola
sgualcite.
Privo di sensi, probabilmente.
Si avvicinò lento, lo slegò e lo trasportò sulla piccola branda.
Assicurò i suoi polsi con il laccio di cuoio e con due piccoli ceppi,
fissati alla pietra solida del muro tramite un grosso anello.
Si diresse velocemente in bagno e prese nuovamente il panno bagnato.
Deterse attentamente ogni filo di sangue da quella pelle dorata avvertendo
lievissimi mugolii, soprattutto nel passare ripetutamente sulla piccola
apertura offesa.
Coprì il corpo con una coperta pesante e si stese sul proprio letto,
chiudendo gli occhi.
Aveva appena finito di violentare il proprio prigioniero.
Desiderava riflettere ora che i sensi si erano calmati e riposavano
appagati.
Coprì la candela sul tavolino e chiuse gli occhi.
Aveva capito subito che per un uomo come lui, coraggioso ed indomito, la
normale tortura sarebbe stata solo un modo onorevole di soffrire e morire.
Non avrebbe ricavato nulla dal deturpare il suo viso dorato, né tanto meno
il suo corpo ben modellato.
Perché strappare quegli occhi così intensi e pieni di vita?
Aveva letto nel suo sguardo, in quella
segreta, che la determinazione ormai
era padrona del suo animo.
Aveva compreso perfettamente, quindi, che la morte per mano dei migliori
torturatori del castello sarebbe stata piena d’onore secondo gli ideali di
quel prigioniero, ma la sua violenza no.
Aveva umiliato il suo spirito molto più del suo corpo.
E presto o tardi lo avrebbe condotto a parlare, a rivelargli tutto ciò che
desiderava sapere.
Se poi avesse resistito Rukawa si disse che avrebbe potuto comunque
guadagnare qualcosa da lui.
Se non le parole o i piani segreti dei rivoltosi almeno l’immenso piacere
del penetrarlo.
Il giovane uomo dai capelli scuri non s’ingannò nemmeno parlandosi delle
proprie sensazioni.
Era stato piacevolissimo sentire quel corpo cedere alle sue dure spinte,
aprirsi ed avvolgerlo strettamente.
Era molto, molto tempo che lui, comandante degli eserciti, non trovava
istanti per corteggiare con lo sguardo qualche dama o qualche scudiero e
riscoprire nuovamente i piaceri della carne.
Non aveva mai amato perdersi in simili frivolezze e non voleva suscitare,
nei propri uomini, il pensiero di sembrare uomo d’onore solo a parole.
Aveva sempre disdegnato la compagnia equivoca delle cortigiane e preferiva
quella di Ades, suo fedele stallone da combattimento,
e della pace dei boschi a quella delle sordide stanze delle meretrici dei
villaggi.
Eppure quella sera, al finire della prima veglia notturna,
egli, comandante
degli eserciti di Kido’hne, aveva violato il corpo di un altro uomo.
Per dovere?
Per propria volontà?
Per piacere?
Non sapeva di che sorta, ma una strana eccitazione si era fatta strada in
lui nelle segrete, semplicemente guardando quel giovane uomo incatenato,
quel prigioniero che ricordava la fierezza dei cavalli dell’est…
Solo che montare lui era stato di gran lunga più piacevole del montare
qualsiasi puledro dell’altopiano di Edron.
Continua
Le scelte stilistiche ed ortografiche di questo, come degl’altri
capitoli, sono ben precise. L’uso della forma arcaica del passato remoto
dei verbi della seconda coniugazione, il ‛voi’ ai generali e l’uso di
termini obsoleti ricalcano la mia volontà di riportare indietro il tempo,
alfine di trascinare chi legge nell’affascinante epoca medievale da cui il
racconto stesso è tratto.
†Note
medievali†
Preferisco inserire la pronuncia di alcuni nomi che userò, non solo perché
li ho creati pensando che si pronunciassero in un certo modo, ma anche per
togliervi il fastidio di chiedervelo.
Eter Ruan III = etar rùan terzius
Kido’hne = chidòne
Kaede Rukawa, comandante
supremo dell’esercito di Kido’hne e capitano delle guardie.
Edron =èdron
Ades = àdes
Le veglie indicano la scansione del tempo medievale.
Esistono quattro veglie diurne e quattro veglie notturne.
La prima veglia diurna va dalle 6 di mattina alle 9, la seconda dalle 9
alle 12, la terza dalle 12 alle 15, la quarta dalle 15 alle 18.
Il vespro è alle 18.
La compieta è alle 21.
La prima veglia notturna va dalle 18 alle 21, la seconda dalle 21 alle 24,
la terza dalle 24 alle 3 del mattino e la quarta dalle 3 alle 6 per poi
ricominciare con le veglie diurne.
La Vergine di Norimberga è uno strumento di tortura.
Consiste nella figura di una donna fatta di metallo, cava nell’interno
dove sporgono numerosissimi aghi lunghi e acuminati.
La persona viene chiusa dentro questa figura apribile e quindi trafitta
dagli aghi.
Generalmente muore per dissanguamento.
Le volpi brune esistono, la forma melanica delle volpi rosse è
bruna.
L’alloro, nel significato dei fiori e delle piante, indica nobiltà e gloria.
Io parlo dei personaggi come
giovani uomini, d’età compresa fra i 23 ed i 26 anni, ma è bene ricordare
che per i canoni medievali dopo i 20 anni si era
già più che adulti e ci si avviava verso la
maturità. L’aspettativa di vita era intorno ai 35-40 anni circa, con le
dovute eccezioni, naturalmente.
Ora per esigenze personali ho fatto in modo che Rukawa sia non solo il
comandante dell’esercito, ma anche il capitano delle guardie.
Di solito questi compiti sono svolti da due persone differenti, ma per
motivi di trama (che verranno spiegati in seguito) ho dato entrambi questi
poteri a Rukawa.
La storia si svolge in un mondo da me creato di cui esiste una
mappa.
La riporto qui sotto in modo che possiate consultarla per seguire
tutti gli spostamenti dei personaggi.
Ovviamente è suscettibile di cambiamenti nel corso delle altre
epiche.
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