Scelta d’amore

-Kaede’s Diary-

By elyxyz


Capitolo 20

(In corsivo, il diario di Kaede)

 

POV di Hana.  


Oggi piove.
E il mio umore è stranamente uggioso.
E’ questo posto a condizionarmi l’esistenza.
Ogni volta che varco le porte d’ingresso, è come se dovessi deporre il buonumore in un cestello all’entrata. Come quando entri in banca e suona l’allarme, e una voce preregistrata ti invita –ti ordina- di lasciare gli oggetti metallici in una cassetta di sicurezza all’esterno.
Forse hanno ragione: il buonumore è così raro, che è quasi un dovere proteggerlo in cassette blindate… non sia mai che altri se ne approprino.. 
Sbuffo.
Sistemandomi una ciocca caduta sugli occhi: è tutta la settimana che rimando.. dovrei davvero decidermi.. 

Oggi è domenica.. magari, domani.
 

Percorro il corridoio del terzo piano, che sta diventando –mio malgrado- a me familiare.
Inconsciamente accelero il passo, in prossimità dello studio di Kawata-san.
So che è sciocco.

Non posso farci nulla.

Stanza 11, eccoci qua.
Mentre mi accingo ad aprire la porta, se ne esce un’infermiera, con un lenzuolo infagottato in braccio.
Mi viene quasi addosso.
Si scusa, riacciuffando un lembo che le è scivolato di mano.
Poi mi chiede se desidero qualcosa.

“Dovrei entrare lì dentro.” Le rispondo.

“Tra cinque minuti. Per cortesia, ripassi.” M’informa, e se ne va verso il ripostiglio.

Mi fermo qua fuori, appoggiato al muro.
Dove vuole che vada?
Cosa succede?
Perché il lenzuolo?
Che cavolo succede?? 

Penso e ripenso, mentre l’ansia sale.
Mi sta venendo mal di testa..
Cosa faccio?
Seguo il suo ordine?
Lo ignoro?
Entro?
E se poi mi vietano di tornare?? 

Saito-san mi chiama, interrompendo il corso dei miei pensieri.
A pochi passi da me, sta spingendo un carrello zeppo di scatole, flaconi di flebo, siringhe, farfalline verdi e una miriade di pastigliette chiuse in blister trasparenti. 

“Che succede?” le chiedo, allarmato.

“Non è niente, Hana-kun!” –mi tranquillizza lei, sorridendo- “Kaede sta bene.”
Basta.
E’ tutto quello che volevo sapere. 

“Ma un’infermiera mi ha detto di stare fuori… di ripassare dopo..” espongo, contrariato.

“C’è qualche problema con la vena della sua flebo… fa la capricciosa.. dobbiamo variarne la posizione, e… beh, si è rotta una sacca di fisiologica sul letto.. lo stiamo cambiando, ecco tutto..”

“Devo proprio restare qui?” chiedo, sperando che mi dica di no.

“Sì. Le inservienti stanno ripulendo la stanza, e poi devo ripristinare i suoi farmaci.”
Annuisco.
Ho capito. 

“Aspetto qua, ok?” è la mia proposta, sperando che non le sia d’impiccio.

“Andrà benissimo. Ti avverto io, quando lo potrai vedere.” E sparisce dietro la sua porta, carrello appresso.

Una decina di minuti dopo, sfilano davanti a me due signore, uscendo dalla sua camera, con spazzoloni, e strofinacci, un secchio e tutto l’armamentario.

Mi ignorano.

E poi le segue Saito-san e una collega, che spinge il carrello di poc’anzi.
Lei s’arresta davanti a me, sfilandosi i guanti in lattice, lievemente macchiati di rosso.
Il suo sangue. 

Mi fa impressione, realizzarlo.

Quante volte, le mie mani si sono sporcate del suo sangue?
[mille risse: labbra spaccate, taglietti e abrasioni]
 

“Adesso puoi entrare. Abbiamo finito.” Mi dice, gentile.

Non posso fare a meno di seguire il suo movimento verso il cestino dei rifiuti, vicino a noi, al suo piede che pesta il pedale, a lei che si disfa dei guanti usati.
Il laccio emostatico penzolante dalla tasca del camice.
Lo stetoscopio rosa che dondola dal suo collo, sobbalzando ad ogni suo passo. 

Perso dietro alle sue movenze calme, ma sicure, mi sono imbambolato.
Mi riscuoto da questo stordimento, ringraziandola.
Lei abbozza un saluto con la mano, e se ne va ad altri doveri. 
 

“Konnichiwa, Kitsune!” gli dico, sedendomi, giusto per ostentare un po’ di allegria.

Il pavimento è ancora un po’ umido, si nota.
Lenzuola fresche di bucato, due flebo nuove gocciolanti.
Una chiazza bluastra sull’avambraccio destro.
Si vede il segno dell’ago.
Una nuova linea, sulla mano sinistra.
Al secondo tentativo, indica il puntino rosso poco lontano da quello dove l’acciaio buca la sua carne.

Gli accarezzo la mano, stando attento a non sfiorare il tubicino.
Potrebbe uscire dalla vena.
Sarebbero guai. 

“Ciao, amore..” gli ripeto piano, in un timido sussurro.

“Un bagno fuori programma, eh?” scherzo, per sdrammatizzare.

“Ne avevi proprio bisogno… puzzavi, sai??” lo provoco, ghignando.
Forse non è giusto… non può nemmeno difendersi..
Ma non posso mica fare sempre la piattola sentimentale, quando converso con lui, no?!

 

20 Luglio. Martedì. “Ho ricevuto una telefonata dalla segreteria della Tomigaoka: dovevo andare a ritirare alcuni documenti e scartoffie varie, che mi ero scordato, a quanto pare.
Ci sono andato, ma attraversare quel cancello non mi ha dato nessuna emozione.
Sembra il ricordo di un’altra vita.
 

Del resto, non avevo scelto io di frequentarla: Miyamoto-san ne aveva parlato in modo entusiastico ai miei, e anche Ayako era stata iscritta lì, l’anno prima.
Quando ho saputo che avevano un buon club di basket, non ho fatto obiezioni.
A me, poco importava che fosse un istituto prestigioso e costosissimo.
Non ho mai avuto lo spirito del secchione, io.” 

“Studente modello da sempre, eh?” lo prendo in giro.

“Ci ho messo mezz’ora a trovare l’ufficio.
L’hanno trasferito in un’altra ala dell’edificio.
La segretaria mi ha inzaccherato la maglia di bave, ultrafelice di rivedermi.
Definendo la mia venuta un’inattesa ‘piacevolissima apparizione’.
Ma se mi ha chiamato lei!!
Ho raccattato la cartellina che mi porgeva, e me ne sono uscito, senza tanti salamelecchi.

Non so perché, ma per il ritorno ho fatto un giro diverso.
Mi sono trovato di fronte alla vetrinetta con le coppe dei vari club.
E le foto, del campionato prefettorio.
In alto a sinistra, vicino a quella del club di calcio, c’è l’istantanea dello scorso torneo: io che tengo in mano la Coppa Kanagawa, e la mia squadra radunata attorno a me. Felice.
Il secondo posto.
Nh.
E’ buffo.
Nella foto alla mia destra c’è lui, nella mia stessa posizione, ma la coppa è d’oro.
E lui sorride. Nel suo modo unico e caldo.” 

“Lui.” Ripeto, rabbuiandomi. 

“Stavo per andarmene, ma non ho resistito. Ho dato una sbirciata in palestra.
Quando i miei kohai mi hanno visto, mi hanno chiamato ‘capitano’ , venendomi incontro.
Sono tornato a casa. 

E’ strano.
Di solito, la gente ripensa con nostalgia alla vecchia casa, quella appena lasciata, quando si trasferisce in una nuova abitazione. io provo le stesse cose con questa palestra.
Anche se mi sto affezionando allo Shohoku.

Ma qui è diverso.
Ho lucidato ogni singolo listello di questo parquet.
Ci ho versato lacrime, sangue e sudore.
La mia gioia, la mia disperazione.
E’ stato il rifugio che mi ha impedito di impazzire, dopo la disgrazia.
Mi ha accolto, senza fare domande, senza parlare.
Mi ha offerto ospitalità e calore.
E qualcosa a cui aggrapparmi.
E la voglia di ricominciare.
E poi, mi ha dato lui. 

Lui.
Il mio ‘Fiume che scorre’. 

Ricordo ancor’oggi, come fosse ieri, il nostro primo incontro.

Il terzo giorno del nuovo anno scolastico.
Noi matricole in palestra, in attesa dell’arrivo dei senpai, per la presentazione ufficiale.
Avevo già salutato Ayako, che era anche troppo indaffarata a calmare le ansie dei novellini, e mi ero appisolato in piedi, contro il muro.

“Kaede Rukawa!” mi ha chiamato una voce sconosciuta.
La prima cosa che mi ha colpito è stato il timbro forte, ma gradevole.

Ho aperto gli occhi, e mi sono trovato davanti lui, che mi sorrideva, di buonumore.
Troppo sorpreso, per rendermi conto che gli altri miei compagni si erano già tutti allineati, e che mancavo solo io. 

“Nh.” gli ho risposto.

Il suo sorriso si è allargato, ma non aveva nulla di derisorio.
La mia mano tra le sue, non so ancora come ci sia finita. 

“Ti aspettavo, Rukawa.” – mi ha detto, limpido- “Grandi cose, mi aspetto da te.” E la stretta si è fatta più salda.
Ho annuito.
E’ l’unica cosa che sono riuscito a fare. 

“Bene!” -ha replicato, con sguardo benevolo- “E adesso vai a metterti in fila con gli altri.” mi ha incitato, con una pacca d’incoraggiamento sulla spalla.

Matsui Nagarekawa.
Da quel giorno, lui è diventato ‘Il mio CAPITANO’.

Gran parte di quello che so, lo devo a lui.
Che in quell’anno mi ha fatto giurare di amare il basket.
Anche in mezzo alle difficoltà.
.... 

Le sue parole, in quella sera di fine febbraio, negli spogliatoi, sono ancora conficcate in me.

“Vorrei che fossi tu, il mio successore, alla guida della squadra.
Ne hai i mezzi, Kaede, lo so.
Ma non sono io a decidere, e Kuroda non mi ispira molta fiducia, ma è pur sempre un tuo senpai.
Il Coach è più propenso ad affidare a lui il club, per quest’anno.
Ma promettimi, Kaede, che farai di tutto per portarli al Campionato, quando ne avrai la possibilità.
Perché arriverà il tuo turno, prima o poi, e la loro guida sarai tu.” 

“Te lo giuro, CAPITANO.”
Gli ho promesso: avrei tenuto fede alle sue parole, a qualsiasi costo.

“Da oggi, non sono più il tuo capitano..” mi ha contraddetto, indulgente.

‘Ti sbagli, lo sarai per sempre.’ Ricordo di aver pensato.

Lui mi ha sorriso, in quel suo modo tutto speciale, che mi faceva andare in fibrillazione, e mi ha detto: “Credi nei segni del Destino? Beh, io sì.
Quando lessi la tua scheda di domanda d’ammissione al club, quando ho visto i tuoi kanji sulla carta, beh… sembrerà sciocco, ma io ci ho letto una sorta di predestinazione.

..Rukawa.. vuol dire ‘Fiume che scorre’.
Come il mio cognome.
I miei ideogrammi e i tuoi sono effettivamente i medesimi.” 

(Non glielo confidai, ma anch’io avevo notato questa somiglianza, ancora al nostro primo incontro, quando lui chiese il silenzio e ci disse: “Benvenuti nel club, io sono Matsui Nagarekawa, e vi farò amare il basket.”)

“La famiglia di mia madre si è estinta e io sono l’ultimo dei Nagarekawa, è un mio diritto scegliere che il mio successore nominale sia tu.” Ha decretato, serio.

E poi mi ha abbracciato, sussurrandomi all’orecchio: “So che non mi deluderai mai.”
Ho ricambiato la sua stretta.
Avrei voluto dirgli che lo amavo.
Che lo adoravo.
Che ero pazzo di lui.

Non gli ho detto niente.
Lui credeva in me. Ma non in quel senso. 

Aveva 15 anni, allora, e una passione immensa per uno sport, che condivideva –per affinità- con me.
Può sembrare sciocco, per un estraneo, quello che lui mi ha detto.
Per l’ufficialità con cui l’ha fatto.
Ma per noi era un patto sacro.
Inviolabile.
Non avrei ereditato soldi..
...ma qualcosa di più prezioso: il suo affetto incondizionato, da riversare sulla pallacanestro.
.... 

Ai primi di aprile del secondo anno, venne da noi a salutarci.
La sua famiglia aveva deciso di trasferirsi in America, per motivi di lavoro. 

“L’anno prossimo voglio che sia TU ad indossare il n°4, intesi?” mi ordinò.
“Nh.” le parole morte in gola.
“Bravo, Kacchan.” Rispose lui, spettinandomi i capelli in un gesto d’affetto.
Non mi aveva mai chiamato così. 

Andai anche all’aeroporto, a salutarlo.
Ma non mi sono dichiarato. Non sarebbe stato da me.
Invece gli chiesi di aspettarmi.
Che anch’io sarei volato, prima o dopo, nella Patria del basket. 

“Ci conto!” mi rispose, allontanandosi.

Il suo sorriso.
E’ il mio ultimo ricordo di lui.

Mentre la scala mobile me lo portava via, avevo la netta sensazione che sarebbe stato per sempre.
Ma lui mi sorrideva, come il primo giorno.”

“Vuoi andare negli USA per seguirlo?” chiedo, mentre sento una morsa stringersi all’altezza del petto.

“Sono passati 2 anni, da allora. Non ho più avuto notizie da lui.
Non avevamo stabilito di rimanere in contatto. Per onestà.
Il giuramento che gli ho fatto mi ha dato la forza di non lasciarmi distruggere dalla disperazione.” 

Vero, poco meno di un mese dopo, è accaduta la disgrazia.

“Gli devo tanto, non lo nego.
E una parte di me gli vorrà bene sempre.
Ma col tempo ha cambiato aspetto, questo sentimento.
Adesso è affetto, nostalgia di lui, ma non più amore. 

Al momento vorrei andare in America per me, per realizzarmi al meglio come giocatore, e se lo trovassi sulla mia strada, tanto meglio.
Sarebbe bello rivederlo.
Ma nulla più.” 

“Nulla più.” Mi sfugge, in un sussurro timoroso.

“Al momento sono incasinato con ‘sta storia del Do’aho…ma è tutto più difficile con questa scimmia strana..
Com’è possibile che io mi sia impelagato DAVVERO con Sakuragi??
E’ così diverso da lui! 

..Forse non è vero.
Anche lui, quando sorride, è meraviglioso. 

Non parlo di quelle smorfie deficienti che fa all’oca, o per dimostrarsi gradasso.. parlo di quelle dopo uno slam dunk, dopo una vittoria.. quelle che mi fanno sentire orgoglioso di lui..”

“Orgoglioso di lui..” ripeto.

Orgoglioso. Di. Me.

“Volpe, non so che dire.. da quello che scrivi, lui sembrerebbe un capitolo chiuso della tua vita. Ma se in realtà non fosse così?” -chiedo, scombussolato.- “Io potrei anche convivere con il fantasma di questo ‘Nagarekawa’, e farmene una ragione, ma prima dovremo parlarne seriamente, perché tu sai che io sono geloso.. e non potrei sopportare di vivere nel dubbio che.. che.. beh, che tu, rivedendolo, scopra di provare ancora qualcosa per lui..” esalo, pregando -col cuore in mano- di sbagliarmi.

 

…continua.

 

Note dell’autrice:

- Per prima cosa, né la storia né i personaggi di Slam Dunk sono miei; appartengono agli aventi diritto e, nel fruire di essi, non vi è alcuna forma di lucro, da parte mia.

- Piccola curiosità: nel vol. 23 di SD Collection, i ragazzi del Toyotama interpretano –apparentemente sbagliando- il cognome di Kaede, leggendo ‘Nagarekawa’, anziché ‘Rukawa’.
Mi ha sempre incuriosita, questa cosa, e così sono andata a vedere.. Il kanji ‘Kawa’ significa ‘fiume’, e fin qui, nulla di strano.. ma il verbo ‘Nagareru’, vuol dire ‘Scorrere’.
In sintesi: sia Nagarekawa che Rukawa vogliono dire all’incirca ‘Fiume che scorre’, ma con due pronunce diverse.

- La storia si snocciola in numerosi capitoli, ma si è GIA’ CONCLUSA.

- Chiunque desideri leggere l’intero racconto in tempi più brevi rispetto a quelli di aggiornamento, può contattarmi al solito divano blue navy: elyxyz@libero.it per ricevere i capitoli restanti.
Come sempre, sono graditi commenti, consigli e critiche.

- Per ulteriori note e chiarimenti doverosi, vi rimando all’ultimo capitolo.

Arigato (_ _)

elyxyz


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