Nota: Eccovi il secodo prodotto letterario di un insolito gruppetto... in ordine di apparizione, me, Fiorediloto (prologo e racconto della debolezza), Elisa (non la conoscete, ma la stiamo adeguatamente yaoizzando, e forse tra un po' sarà dei nostri - racconto dell'intemperanza), Saidy (racconto dell'incoscienza), Scilla (racconto dell'ingiustizia).
É un progetto di racconto a cornice, appunto, ambientato in una cella parigina del periodo pre-rivoluzionario. É lungo e un po' straziante, ma personalmente lo trovo bello. A voi!
ps. trovate il filo logico che lega i quattro racconti e vincete un calendario con le foto di noi quattro vestite da neopet rigorosamente in versione bebè!! ^_____^
pps. questo è dedicato ad Anthos che ci ha aiutato con i riferimenti storici e parigini!!

 


Salle de force

Il racconto dell’incoscienza

di Saidy

 

Non avevo mai amato nessuno. Non sapevo cosa farmene dell'amore. Non era qualcosa che attirasse la mia attenzione. Non lo desideravo. Non lo disprezzavo. Forse ne diffidavo un po’. Avevo visto mia sorella morire per amore. Morire mentre dava alla luce quel bambino morto con lei. Non era forse frutto di un amore? Mi sembrava da incoscienti provare il desiderio d’amare. Ma è risaputo, le brutte esperienze ti marchiano a fuoco, si fissano nella pelle nell'animo e nella mente. Soprattutto nella mente. Non le scordi. E influenzano i tuoi pensieri.
Non avevo mai provato amore. Non avevo mai bevuto. Non ero mai andato a puttane. Non avevo mai infranto una legge. Una vita tranquilla. Ecco a cosa aspiravo. Ed ecco dove mi trovo. A parlare con voi, forse pazzi e sfortunati come me. Circondato da topi e muffa. E non sopporto tutto questo. Non ero destinato a tutto questo. Io dovevo avere una vita serena. Puntavo al meglio, alla ricchezza, al prestigio. Dovevo essere un uomo libero. Tutto. Dovevo essere tutto. E sono questo. Io, che sempre mi sono distinto per ponderanza, prudenza, temperanza. Io, che non mi sono mai lasciato trasportare da passione alcuna. Io, sono qui. Per amore. Eppure ne avevo sempre diffidato. Ma non mi è bastato storcere il naso indispettito davanti all'amore per allontanarlo. Convincermi che nulla mi avrebbe mai preso in trappola. Tratto in inganno. Non è bastato. Mi sono innamorato. Innamorato? Non ci credo neanche ora che lo racconto. Innamorato.
Di chi poi? È un ricordo vago. Una figura mossa dal vento. Fragile. Debole. Pavida. È un'immagine languida e seducente. Se chiudo gli occhi posso vedere le dita sottili che scostano la frangia bionda dai suoi occhi azzurri e liquidi. Posso sentire nell'aria il suo odore. Posso percepire sulla mia pelle la carezza d'ogni bacio. Se chiudo gli occhi vedo e sento questo, poi rimane il buio e un silenzioso senso di colpa. Ho tradito me stesso per un suo bacio.
Io ho amato. E prima ancora d'amare sono stato amato. Mi amava, Colette. Forse mi ama ancora. È la figlia dei nobili per cui lavora la mia famiglia. Una ragazza sventurata. Orfana di padre dall'età di tre anni. Cresciuta sola in una casa enorme. Viziata da una madre priva di mezze misure. Ed anche ritardata. Ma ricca. Dio quant'è ricca. Coi soldi che le escono pure dal buco del culo. Ed era innamorata di me. Voleva sposarmi, la povera Colette. Voleva e poteva... quella puttana di sua madre a furia di farsela con questo e quello s'era presa la sifilide. Le rimaneva poco da vivere. E Colette aspettava che anche l’ultimo e unico affetto rimastole capitolasse per fare quello che più le pareva. Ma la vecchia aveva pensato a tutto. L'aveva già promessa in sposa a un giovane di nobile famiglia, che era in procinto di dare la banca rotta. E siccome sapeva che la figlia era tocca se l'era svenduta al meno peggio. Colette era stupida sì, ma anche testarda. Aveva deciso di aspettare che la madre esalasse l’ultimo respiro per ripudiare il fidanzato e prendere me come marito. Io non l’amavo. Ma sposarla mi conveniva. Pensavo: Io, povero in canna, figlio di servi, diventerò un nobile ricco. Chi si farebbe sfuggire una simile occasione?
Io… io non sono riuscito a diventare quello che volevo. Colpa della mia incoscienza. Della mia ingenuità.
Ho incontrato Emmanuel a casa di Colette. Formavano una coppia strana. Erano insoliti. Lui bellissimo e povero. Lei scema e ricca. Era chiaro che stavano insieme per convenienza. Colette si lamentava sempre di quel “brutto fidanzato” approfittatore. Veniva da me e, credendo di essere irresistibile e sensuale, si strusciava su di un braccio facendomi qualche carezza. Io le sorridevo. Provavo affetto verso Colette ed anche una gran pena. Ora il solo ricordarla mi fa andare in bestia. Lei, come Emmanuel, diceva di amarmi, ma nessuno dei due ha fatto nulla per cavarmi fuori da qui.
Era la sera del ricevimento in onore del loro fidanzamento. La notte più lunga ed intensa della mia vita. Quella che ha segnato la mia fine. Avevo condotto Colette al banchetto. Si sentiva una principessa sopra quella carrozza. Bellissima in quell’abito di satin rosa, con i boccoli neri che le scendevano giù lungo la schiena. Anche se gli occhi scuri tradivano un po’ di timore… credeva che potessi sentirmi ferito da quel banchetto. Da quell’uomo. Era convinta che io lo odiassi. Mai pensiero fu più errato. Io amavo Emmanuel. Non so neanch’io come ci fossimo avvicinati. Come da rivali fossimo divenuti complici amici amanti. Il suo sguardo vago e seducente mi ammaliava. Mi attirava a sé con forza. Finii con l’essere intrappolato in quell’incanto. Vivevo in un sogno. Queste sembrano parole di donna. Non di un uomo che ha amato un uomo. Ma mi sentivo così… inerme e perso davanti a lui.
Arrivati dinanzi al palazzo la principessa Colette scese leggera dalla carrozza. Ricordo che strinse forte la mano che le porsi in aiuto. Mi rivolse un sorriso. Si avviò verso le porte d’ingresso del palazzo.
Rimasi nelle scuderie con cavalli e carrozza per diverse ore. Poi un'ombra avanzò tra la paglia ed il letame. Era Emmanuel. Alto e slanciato nel suo abito da cerimonia. Sorrideva anche lui. Sorridevano tutti quella notte. Tutti complici nel firmare la mia condanna. Si scostò la frangia che cadeva davanti agli occhi mentre si avvicinava. Quando mi fu davanti mi diede un bacio. D’improvviso fui inebriato dal suo profumo. Colonia e champagne. Risposi al bacio. Lo amavo.
Non so come riuscì a trascinarmi nella sua camera da letto. Eravamo convinti che nessuno ci avrebbe scoperti. Erano tutti troppo presi dai balli e dai vini pregiati per ricordarsi chi erano i festeggiati. E così ci ritrovammo uniti nella penombra della sua camera da letto, sommersi da mille lenzuola e cuscini. Questo è il ricordo più abbagliante dell’unica cosa bella che abbia mai avuto. Le gambe intrecciate sotto le coperte. Le braccia strette intorno alla sua vita. Le labbra posate sulle sue. È normale che mi salgano le lacrime agli occhi? Forse sì. Avevo il calore del suo corpo e il suo cuore tra le mani. Mi scaldava l’anima. Un nodo allo stomaco. Un formicolio ossessivo a braccia e gambe. Ero eccitato. Ero amato. Ero amante. Ero… felice. E poi era entrata quella donna. Sua madre. Ci ha visti nudi e stretti, avvolti da un alone di sudore e sesso. Ci ha visti innamorati. Trattenne un urlo inorridito. Emmanuel era scattato su dal letto. Si era avvicinato alla madre che lo schiaffeggiò, violentemente, intimandogli di coprirsi e di chiudersi in bagno. Mi lasciò solo con quella, in balia della sua collera. Ordinò anche a me con quel tono severo di ricompormi. E quando mi vide vestito, uscì silenziosa chiudendo la porta a chiave. Tornò pochi istanti dopo accompagnata da alcune guardie.
«Prendetelo!» urlò. «Ha tentato di rubare in casa mia! Stupido sciagurato! Come pensavi di poterla fare franca!»
Disse che era stato Emmanuel a prendermi con le mani nel sacco. Emmanuel… che uscito dal bagno mi guardava andar via trascinato dalle guardie. Colette ci aveva raggiunti. Mi osservava anche lei. Lo sguardo pieno di dolore. Le mani giunte dinanzi alla bocca che stringevano un fazzoletto bianco. Piangeva tra le braccia di Emmanuel che le si era avvicinato. Nessuno dei due tentò di salvarmi. Né io tentai di discolparmi. Sono stato un sciocco. Un incosciente. È questa la punizione giusta per uno come me. Sapevo e so di non dover credere nell’amore.
Allora perché continuo ad amarlo?


Secondo intermezzo

L’ultima parola è uscita dalla gola di Maël come un suono strozzato, interrotto a metà da un singhiozzo e poi faticosamente concluso. Sta piangendo, mon ami, come piangevi tu mentre cadevano Eugène e Simon e Daniel, come piangevo io mentre tu cadevi. Siamo tutti uguali, mentre piangiamo, non importa se è per un amore che ci ha tradito o per aver tradito un amore. Quando piangiamo siamo tutti uguali.
Me ne sono liberato. Delle lacrime, intendo. Me ne sono liberato nel momento stesso in cui la mia faccia ha toccato il suolo freddo e sporco di questa cella – nel momento in cui sono stato gettato qui, e loro – crudeli, brucianti – mi rigavano la faccia. Via. Via da me quel sale amaro. Non l’avevo chiesto. Mi sono liberato del pianto, e con esso del mio diritto di assomigliare a tutti gli altri, a tutti voi. Spero che in questo “voi” non rientri anche tu, mon ami. Spero che anche tu, come me, ti sia liberato del peso di quei due rivoli che ti scorrono lungo il viso e bruciano, e consumano l’anima.
Ora stiamo guardando Paris, in attesa. In attesa che anche lui racconti. Anche padre Robert lo guarda.
Paris dalla sua posizione sdraiata ci fissa a turno, uno dopo l’altro. Sento i suoi occhi velati, da folle, squadrarmi con un’attenzione nuova. Al suo turno d’essere scrutato, Maël rabbrividisce. Sussurra: «Paris… Tocca a te…»
Il pazzo ha un sussulto, poi si tira a sedere con uno scatto.