Nota: Eccovi il secodo prodotto letterario di un insolito gruppetto... in ordine di apparizione, me, Fiorediloto (prologo e racconto della debolezza), Elisa (non la conoscete, ma la stiamo adeguatamente yaoizzando, e forse tra un po' sarà dei nostri - racconto dell'intemperanza), Saidy (racconto dell'incoscienza), Scilla (racconto dell'ingiustizia).
É un progetto di racconto a cornice, appunto, ambientato in una cella parigina del periodo pre-rivoluzionario. É lungo e un po' straziante, ma personalmente lo trovo bello. A voi!
ps. trovate il filo logico che lega i quattro racconti e vincete un calendario con le foto di noi quattro vestite da neopet rigorosamente in versione bebè!! ^_____^
pps. questo è dedicato ad Anthos che ci ha aiutato con i riferimenti storici e parigini!!

 


Salle de force

Il racconto dell’intemperanza

di Elisa

 

Maledizione! Odio questo bruciore alla gola, questo continuo tossire e sputare chissà quale veleno che mi logora dentro. Credo che faccia parte ella mia condanna, dato che mi accompagna dal primo giorno che ho messo piede in questo posto ripugnante, quando ancora ero l’unico a respirare quest’aria che di aria non ha proprio nulla. Tutta colpa di quel ragazzino, Charles, il figlio più piccolo del duca di Auguillon in casa del quale prestavo servizio nel 1770, quando venne eletto ministro degli esteri. Perché mi trovavo lì allora, a fare da insegnante a un bambino di otto anni invece di starmene buono nella mia chiesa? Io odiavo quella chiesa, tutte le chiese di Parigi, tutte le chiese del mondo. E loro odiavano me, ne ero sicuro. D’altronde non ero stato io a voler diventare prete. C’erano ben altri progetti nella mia vita che vestire uno striminzito abito nero e recitare novene per tutto il giorno, senza bere né mangiare qualcosa che avesse un sapore, non dico buono, ma quantomeno un sapore.
E allora perché ero lì? A questa domanda la mia mente si offuscava e cerva nel passato una risposta convincente, almeno a giustificare quel mio odio per Dio che tanto ritenevo colpevole senza un apparente motivo. Perché-io-ero-lì? Ricordavo solo di avere spento le candeline della mia maturità chiuso in quella prigione di statue candele e ostie consacrate. Nient’altro. A risvegliarmi la memoria fu proprio quel ragazzino, Charles.
«Oggi non vuoi proprio stare attento, eh?»
«Scusatemi, maestro, continuate.»
Ed io continuai immergendomi in quella stupida lezione di latino per la terza volta. Non ne potevo più della mia vita. Non ne potevo più di lui, né di quel lavoro. Io non ne potevo più. Mentre leggevo quelle righe scritte in una lingua morta, mi sentivo sempre meno ascoltato e distolsi nuovamente lo sguardo dal libro.
Lui era di nuovo accasciato sul banchetto di quello studiolo in legno scuro, a giocare con un pennino affilato.
«Charles!» gli urlai, ma sembrò non ascoltarmi.
«Signorino Charles!» feci di nuovo, e questa volta mi degnò di uno sguardo.
«Avete ragione, padre Robert, ma quest’oggi sono molto stanco… non potremmo fare una pausa?»
Che insolente! Che maleducato!
«Una pausa?» chiesi turbato.
«Sì, una pausa! Siete molto pallido, sapete? Dovreste fare qualcosa per il vostro viso!»
Ridacchiò convinto di avere detto qualcosa di molto simpatico.
Ma io non mi stavo affatto divertendo. Ero alterato, nervoso, stanco. Ma soprattutto ero infastidito da lui, dalla sua libertà giovanile, dalla sua superficialità e dal suo prendersi gioco di me. Stavo perdendo la pazienza. Abbandonai la mia postazione, lasciando il mantello della tonaca sulla sedia e avvicinandomi a lui. Lo presi dalle braccia e lo strinsi al mio petto.
I suoi occhi sui miei, terrorizzati forse cercarono di implorare pietà. Gli tremavano le gambe, riuscivo a sentirle piegarsi.
Annusavo la sua paura, e mi sembrava sempre più familiare. Sentivo il suo respiro caldo sulle mie labbra e il suo petto gonfiarsi rumorosamente. Poi una lacrima. E ricordai tutto. La mia camera, il mio letto sfatto, le lenzuola macchiate da qualche schizzo di sangue, quel dolore fitto e quell’uomo su di me, sì, quell’uomo che amava mia madre, che mi sorrideva a tavola mentre consumavo i miei pasti in silenzio, quell’uomo a cui spesso la notte piaceva farmi male, stringermi le braccia e aprirmi le gambe.
Sì, quell’uomo. E mia madre chiamare quel prete che servivo da troppo tempo ormai, farmi uan valigia e sbattermi in quel posto per così tanti anni. Sì, ricordai tutto. E guardai quel moccioso che aveva tutto quello che mi era stato tolto. Persi il controllo. Lo scaraventai a terra con tutto il mio peso e lo marchiai con tutta la mia rabbia. Non mi fermai nemmeno quando lo udii piangere come non avevo mai udito nessuno. Le sue lacrime erano avvolte nelle mie. E navigando insieme non facevano che ricordarmi ogni cosa. L’umiliazione profonda, la paura tutte le notti aspettando uno spiraglio di luce farsi spazio nella mia stanza e la figura di quell’uomo intrufolarsi, la delusione negli occhi di mia madre e il suo cacciarmi via come se ne fossi io colpevole e non vittima. Gemette. Ed io con lui. Soffocai i suoi gridolini con una mano, ma non bastò.
Ecco uno scricchiolio alla mia destra, proprio in direzione della porta, ed ecco lì la figlia maggiore del duca, ventenne nel suo splendore di capelli dorati e carnagione candida come latte. La mia intemperanza era stata troppo forte e non potevo far più nulla per tornare indietro. Mi alzai di fretta cercando di nascondere le mie vergogne, ma lei era corsa via.
Poche ore dopo ero già qui, in questo posto il cui puzzo nauseabondo non mi fa dormire la notte. Se riuscissi a dormire forse l’immagine di Charles andrebbe via dalla mia mente. Forse riuscirei a sognare un mondo senza Dio e senza le sue ripercussioni su di me. Forse potrei essere felice. Forse.

 


Primo intermezzo

Il racconto del prete si chiude come si è aperto: con violenti e ripetuti colpi di tosse. Guardo Maël raggomitolato contro di me. Fissa padre Robert con gli occhi di chi è ancora in grado di stupirsi per il male del mondo – con lo sguardo lucido e triste di chi si è immedesimato nella vittima.
Non farlo, Maël, non serve a niente. Gli passo una mano tra i capelli.
Siamo buttati in questo angolo nelle pose più diverse. Il prete è il più contegnoso di noi: siede con le spalle al muro e le gambe leggermente piegate, le braccia posate sulle ginocchia. Ha parlato senza guardarci, senza guardare nessuno, neppure i carcerati che vede di fronte a sé. Ha parlato guardando oltre, come sempre fa.
Poi c’è Paris, in una posa più composta del solito. Per ascoltare il prete si è avvicinato, sdraiato supino sul lurido pavimento che offre ben poco spazio, il viso vicino ai piedi di padre Robert, e così l’ha fissato, tutto il tempo, con lo sguardo all’insù. Padre Robert ha ignorato anche lui. È quello di noi che ci riesce meglio.
Il mio corpo risente adesso della scomodità della mia posizione. Sono seduto, a mio modo, ma in una posa così storta, quasi avvitato su me stesso, che la schiena mi manda prolungati segnali di dolore. Una spalla appoggiata all’angolo dei due muri, il peso del corpo su un fianco, e il capo di Maël sullo stomaco. Mi muovo per ritrovare una parvenza di comodità. Maël fa per alzarsi, ma gli faccio cenno di restare dov’è.
«Va bene» mormora. «Parlo io.»