Nota: Eccovi il primo prodotto letterario di un insolito gruppetto... in ordine di apparizione, me (prologo e racconto della debolezza), Elisa (non la conoscete, ma la stiamo adeguatamente yaoizzando, e forse tra un po' sarà dei nostri - racconto dell'intemperanza), Saidy (racconto dell'incoscienza), Scilla (racconto dell'ingiustizia).
É un progetto di racconto a cornice, appunto, ambientato in una cella parigina del periodo pre-rivoluzionario. É lungo e un po' straziante, ma personalmente lo trovo bello. A voi!
ps. trovate il filo logico che lega i quattro racconti e vincete un calendario con le foto di noi quattro vestite da neopet rigorosamente in versione bebè!! ^_____^
pps. questo è dedicato ad Anthos che ci ha aiutato con i riferimenti storici e parigini!!

 


Salle de force

prologo

di Fiorediloto

 

E Dio disse: Sia la luce.
Ma qui la luce non arriva.
Entra tagliata, segmentata dalle barre di ferro poste a chiusa della finestrella, e non riesce a farsi strada nella caligine brumosa dei nostri respiri. Tutto ciò che ci è dato è questo – questa penombra mormorante che ci avvolge di giorno e di notte, tanto giorno e notte sono uguali. È come nebbia, fitta, paurosa, ti si posa addosso, sui vestiti, sulle mani, sugli occhi, si posa e sedimenta, fino a entrarti dentro. Poi arrivano gli incubi.
Si può impazzire, per gli incubi; nondimeno, si può impazzire anche senza. Ognuno ha le sue strategie per rimanere sano di mente. Non sempre funzionano. Ne sa qualcosa Martin, ne sanno qualcosa quelli che ascoltano le sue canzoni stonate da vecchio pazzo. Mai ascoltare un pazzo mentre delira, o alla lunga impazzisci anche tu. È una regola che ho imparato qui, mon ami. Non l’unica.
Il momento peggiore sono i pasti. Non sono molti, per fortuna. In questa cella senza nome siamo sessantasette – ci ho contati, uno per uno, i vecchi e i nuovi, nella nebbia moribonda che ci ammassa, che ci divora. Qualcuno dice che i carcerati hanno tutti la stessa faccia. Cazzate, mon ami. Li saprei distinguere uno ad uno dalla piccola curva fremente di una narice – dalla piega della bocca – dall’arcuarsi d’un dito roso dall’artrite.
I pasti, ti dicevo. Nessun carceriere si arrischia ad entrare nella nostra cella. Quando è il nostro turno ci chiamano e ci passano la razione da uno sportellino nella porta ferrata. Riesci a vedere con gli occhi della mente il posto in cui sono? Un largo stanzone vuoto, di pietra, con sessantasette relitti umani raggomitolati contro i muri e sul pavimento. Immagina ora che ti chiamino per darti il pasto, e la sorte ti vuole gettato dall’altra parte della cella. Come arriverai alla porta? I carcerieri non sono molto pazienti, mon ami, affrettati, forza, in piedi sulle gambe che non ti reggono più, quant’è che non mangi?, affrettati, calpesta se necessario, sbrigati, o perderai un’altra occasione per mettere qualcosa in pancia.
Forse ora pensi che i carcerati vicini alla porta siano i più fortunati. Non è così. Sono i più sfortunati, invece, perché è su di loro che vengono gettati i nuovi venuti, e lo spazio qui è aria, e l’aria è vita, più del cibo e dell’acqua.
È disgustoso, mon ami, è disgustoso ciò che ci danno da mangiare, o almeno so che lo è – devo averne sentito il sapore, le prime volte. I nuovi venuti cercano spesso di lasciarsi morire d’inedia, ma li vedessi poi come si accalcano a prendere la razione! Come avvoltoi intorno a un cadavere.
Scusami se sono così macabro. È la stanchezza, probabilmente, e qualcos’altro che non decifro bene. Forse voglia di morire. Qui abbonda, ed è contagiosa come queste enormi pulci che ci passiamo l’un l’altro.
«Non ne posso più di questo schifo.»
Una gomitata nelle costole è la pronta risposta. Altra regola, mon ami: mai lamentarsi.
Una voce rassegnata e bassa, viso affondato tra le braccia, ginocchia al petto. Questo è Maël.
La prigione acuisce i miei sensi, o così mi pare. Nel buio… perdonami, in questa penombra che ci culla, vedo altrettanto bene che alla luce del sole. Nella cacofonia di gemiti e bisbigli che è il sottofondo della mia vita, distinguo chiaramente le parole che Armand Deschamps sta sussurrando con tanto trasporto all’orecchio di Paul Chatigny. In cambio, credo di aver sacrificato l’olfatto e il gusto, dal momento che non so più distinguere l’olezzo che mi circonda, né il sapore di rancido della razione.
A volte mi chiedo, se domani si aprisse per me quella porta, saprei tornare al mondo? Saprei guardare il cielo senza strizzare gli occhi, saprei portare alla bocca un cucchiaio di zuppa, quella zuppa divina che ci preparava mia madre, e poi voltarmi e sorriderle, dirle: “C’est délicieux, maman”, e di nuovo voltarmi, e vedere te col brodo che ti cola dagli angoli della bocca per la foga di mangiare tutto subito?
C’est délicieux, maman. Tu es délicieux , mon ami.
«Basta. Facciamo qualcosa, vi prego, vi prego, parliamo di qualcosa, sto impazzendo…»
Di nuovo Maël. È qui da non molto, una settimana forse. Strano, all’inizio non l’avevo neppure notato. Forse per il suo stare sempre raggomitolato negli stracci che porta, dietro agli altri, in mezzo agli altri, sotto gli altri. Non l’avevo ancora sentito dire una parola, quando mi si è accostato.
Fa freddo, in questa cella, mon ami. Ognuno si scalda come può. Mi si è avvicinato e mi ha mormorato parole così flebili che neppure mi sono giunte all’orecchio. Ma gli ho fatto spazio accanto a me e l’ho abbracciato. Tremava come una foglia.
Maël ha occhi scuri e fondi come pozzi di catrame, simili ai tuoi, mon ami, e capelli d’un corvino intenso che risalta pure in questa non-luce. Non sapevo quanti anni avesse finche non me l’ha detto spontaneamente.
Diciotto.
Non ho replicato – non replico mai. Non parlo da quando ho messo piede qui dentro, e non lo farò più. Che mi si secchino le corde vocali, ne sarei ben lieto. L’ho giurato, mon ami. L’ho giurato a te.
«… sto impazzendo…»
È ancora lui, ma non ho la forza né la voglia di consolarlo. Forse la mia voce gli darebbe conforto – forse se gli parlassi non dovrebbe sopportare il suono gracchiante e flebile della propria, che riecheggia a vuoto. Ma io non lo farò, mon ami. Non posso.
«Questa non è una novità.»
Padre Robert. È qui da prima di me, non so da quanto. È un uomo sulla sessantina, occhi verdi che ogni tanto si spalancano dietro a chissà quali pensieri, mento pronunciato e capelli quasi bianchi. La sua caratteristica è una piccola cicatrice che gli divide in due il sopracciglio destro.
Ha una voce calda e profonda, ammaliante. Se egli parlasse, lo so, Maël se ne sentirebbe avvolto, cullato. Se egli la usasse per dire preghiere – Maël prega, a volte, di nascosto, quando crede ch’io non lo senta – se padre Robert modulasse la sua voce in morbide preghiere, Maël si sentirebbe meglio.
Ma padre Robert odia il suo Dio quanto io odio me stesso, e, mon ami, non c’è conforto nel sentirlo parlare.
«Pazzia, pazzia, cos’è la pazzia? Sono pazzo? Siete pazzi? SIAMO TUTTI PAZZI!»
E giù una risata sguaiata. L’ultima figura di questa tragicommedia è lui. Si chiama Paris. È il nome che ripete più spesso, associandolo a sé, poi a un altro, poi di nuovo a sé, a più riprese. So che è un assassino, e non lo diresti a vederlo, mon ami, che quelle mani piccole e affusolate abbiano la forza di strangolare non una, ma due donne – una dopo l’altra. Quando ci sbattono qui dentro, i carcerieri annunciano sempre perché siamo qui – o perché dovremmo esserci – per il beneficio di tutti. Paris Malaussène, assassino.
Maël non ha paura di lui, ma della sua follia sì. Ha paura di diventare così – di perdere il senno come Paris. Lo sento tirarsi impercettibilmente indietro.
Gli sfioro la spalla con una mano, e i suoi occhi neri mi fissano, interrogativi. A gesti, con il linguaggio che tu insegnasti a me e che io ho insegnato a lui, gli esprimo il mio pensiero. Il suo viso si rabbuia profondamente, poi con riluttanza annuisce. Chissà se ha capito i miei motivi. Chissà se ha capito che l’alternativa è veramente la follia.
Impegnare il tempo in qualche modo, mon ami. Terza regola.
«E tu?» domanda.
Scuoto la testa. No. Io no.
«Posso aiutarti io.»
No.
Maël mi guarda leggermente deluso, ma non insiste. Con voce incerta, arrochita dal gelo della cella, espone agli altri la mia idea.
Padre Robert risponde con uno sbuffo e poi scrolla le spalle: «E sia» risponde.
Paris, per la prima volta da quando è qui, ha una reazione. Alza il viso, di scatto, fissa gli occhi neri in quelli di Maël, si curva verso di lui come un falco che punti la preda.
«Paris?» mormora Maël, intimorito.
Il pazzo si inarca in avanti, buttando indietro il capo biondo, e poi si lascia ricadere esausto tra i suoi stracci.
Non so quale sia la risposta, né se risposta c’è stata, ma almeno ha dato segno di sentirsi chiamato.
E dunque, chi comincerà? A chi il privilegio di aprire la fila, di gettare per primo in pasto agli altri il racconto delle proprie vergogne?
«Comincio io» borbotta padre Robert, dopo una breve serie di catarrosi colpi di tosse.