La serie è Rayearth delle mitiche Clamp ^__^ purtroppo i personaggi non sono miei e io non ci guadagno nulla ecc…


Rayearth

di Paola

 

PARTE I

 

La parata era giunta oramai al culmine. Il rombo dei motori e il frastuono dei tromag, le enormi trombe elettriche che scandivano la marcia, superavano quasi le urla estasiate della folla assiepata nelle strade a livelli di Oosame-est.

Fissò il pomposo sfarzo, il luccichio di aeromobili e navette militari che fluttuavano lentamente fra le acclamazioni delle moltitudini ammassate sulle torrette e le terrazze panoramiche; dai livelli superiori e dai giganteschi grattacieli di metallo volavano miliardi di coriandoli argento e oro, che nel perenne crepuscolo di Ootzam mandavano bagliori purpurei e fulvi.

Si appoggiò alla ringhiera d’acciaio che lo separava da una caduta di migliaia di piedi. Guardò distrattamente una giovane donna che si avvicinò con una bambina in braccio; la piccola allungava le mani verso la balaustrata e il corteo sottostante, ridendo, gli occhi luccicanti che ammiravano estasiati l’interminabile marcia militare: Ordine Pubblico Cittadino, Ordine di Stato, Aeronautica Terrestre e Spaziale, Pronto intervento Sinistri, Assistenza Ambientale… c’erano proprio tutti per la giornata di festa nazionale. Oosame-est, la capitale, era si era vestita a nuovo; da oltre quattro mesi fervevano i preparativi per il grande evento. Ora, milioni di persone festeggiavano la ricorrenza sotto le gigantesche cupole di trixite, quelle barriere d’energia e metallo che avrebbero dovuto salvaguardare dalle radiazioni l’aria della città, purificata dai generatori che erano stati messi in funzione a regime in via straordinaria per l’occasione. Si diceva che almeno dieci milioni di persone fossero giunte da ogni parte di Ootzam per festeggiare la Sovranità, e che almeno altri due provenissero dai pianeti esterni. Erano previsti intrattenimenti e celebrazioni per due intere settimane. Quella era solo la parata d’apertura.

Guardò distrattamente la donna che sporgeva la bambina al di fuori della balconata, e la bimba rise fissando in giù le vertiginose altezze dell’edificio. Malgrado fosse perso nei propri pensieri si trovò a sorridere quando la bambina volse brevemente verso di lui una boccuccia radiosa, le gote arrossate, e continuò a guardarla per qualche istante, tranquillo, ben sapendo che a due braccia da loro la barriera invisibile a protezione dell’edificio avrebbe impedito alla piccola qualsiasi caduta. La gente di Oosame-est doveva essere ben abituata a quelle altitudini, si disse, per sopportare di vivere in quegli alveari di ferro e cemento che si protendevano nell’atmosfera rarefatta del loro pianeta rosso come puntelli in una palla di stoffa.

Un pianeta sull’orlo del declino…

"Tu… pensi che stia sbagliando…?".

Le parole gli tornarono alla mente senza che lui potesse faci nulla. Aveva ancora gli occhi puntati sulla bambina dai riccioli d’oro.

Oro… come i suoi…

"Io non posso permettermi di giudicare. E soprattutto, non posso giudicare voi…".

"Non ti chiedo di giudicare, Lantis… Sto solo chiedendo il tuo parere. Tu… credi che stia sbagliando?".

La voce dolce, musicale, così infantile… Era sempre stato un piacere per lui ascoltarla, era come il canto degli uccelli che lui amava, come il dolce suono dell’acqua calma.

"Non chiedetemelo, principessa…".

Distolse l’attenzione dalla bambina, fissando al contempo il corteo. Doveva smettere di torturarsi; dopotutto, aveva fatto la sua scelta. Se n’era andato.

Stava sopraggiungendo la navetta dei capi di stato. Era la nave da cerimonia, un lungo vascello aperto dai vessilli verde scuro con lo stemma della famiglia al potere, i Vision-Amenik, che risaltava sullo scudo energetico di protezione. Il Capo di Stato e i membri del Consiglio salutavano con gesti condiscendenti la folla, per metà intenti nel loro compito e per metà occupati a discutere fra loro. Non distingueva gli illustri personaggi da quella distanza, ma nemmeno gli importava. Non era lì per quello. Non era lì per nessuno.

Forse nemmeno per sé stesso.

"…Credi che stia sbagliando, Lantis?".

Le aveva risposto di non saperlo. E lei aveva sorriso dolcemente, quel sorriso che ormai da molti mesi aveva perso il suo splendore, soffocato da una tristezza solitaria.

"Perdonami. Non dovevo chiederlo proprio a te…".

Quella frase aveva avuto un tono strano, e lui l’aveva fissata attentamente.

"Cosa intendete dire?" aveva mormorato.

"Non temere Lantis... presto capirai... E perdonami se questa sera ti ho creato angoscia. Io volevo semplicemente qualcuno con cui poter parlare… qualcuno che fosse nella mia stessa situazione…".

Lei aveva sempre saputo.

Dopotutto, era naturale. Lei era l’Essenza, l’Elemento Portante…

Emeraude era la Colonna di Sephiro; la sua volontà plasmava e teneva sotto controllo un intero pianeta: come poteva stupire il fatto che proprio lei fosse in grado di leggere il cuore umano? Anche se l’uomo in questione era a capo delle guardie reali, qualcuno con una forza d’animo particolarmente potente, qualcuno come lui…

Emeraude era superiore a tutti. Anche a lui.

Il corteo aveva avuto un piccolo rallentamento, dovuto al ristretto spazio tra due grattacieli. Ora sotto di lui volteggiavano le navette e le xiupak di scorta, con i loro piloti a bordo che si guardavano intorno con circospezione per prevenire qualsiasi disordine.

Ormai la giornata d’apertura andava concludendosi.

Quando il sole fosse calato, nei cieli velati di Ootzam sarebbero apparsi i primi bagliori dei festeggiamenti, l’immenso spettacolo organizzato dal consiglio della città che avrebbe regalato ai milioni di spettatori entusiasti un impedibile spettacolo di luci ed esplosioni pirotecniche quali non si erano mai viste nei Mondi Interni.

Lantis sollevò gli occhi a quel cielo rosso fuoco. E un’altra voce, quella del suo maestro, fece capolino dai suoi ricordi.

"Questo mondo è stupendo…Guarda, Lantis!". Clef aveva diretto il suo bastone in avanti, abbracciando con un ampio gesto il meraviglioso panorama che li abbagliava da una cresta rocciosa. "… Non ci sono catastrofi naturali, né conflitti… tutti vivono in pace. Ciò che ha creato Sephiro e continua a sostenere la sua pace è la semplice forza di volontà di una ragazza. Ma… chi si occuperà mai della sua felicita?".

Lantis aveva fissato il monaco, sorpreso. Era l’unica persona, oltre a lui, ad aver compreso quello che stava accadendo a palazzo... Nessun altro sembrava aver percepito la strana tensione che aleggiava fra i saloni, il sottile velo di tristezza che da qualche mese a quella parte si era steso come un manto invisibile sulla reggia.

Era probabilmente la prima volta che Clef ne parlava con qualcuno, e per farlo aveva scelto proprio lui… Si era sentito lusingato e allo stesso tempo affranto, perché fino ad allora aveva tentato di illudersi, dicendosi che le sue sensazioni dovevano essere sbagliate, e che la disperazione che vedeva crescere ogni giorno sul volto di suo fratello non fosse qualcosa di reale.

"Non vorrei mai vedere nessuno di voi piangere", aveva continuato il monaco, gli occhi rivolti a terra, "… vorrei che tutti fossero felici, e sereni. Ma la felicità cambia a seconda delle persone. Anche se venisse esaudito il desiderio nascosto del suo cuore, la principessa non potrà mai dimenticare il fatto che ci saranno delle persone che ne soffriranno". Lantis lo aveva visto stingere il suo bastone spasmodicamente. "…Esistono persone a cui la felicità è negata, Lantis… anche se i loro desideri sono stati esauditi. Ora dimmi sinceramente… trovi veramente così bello questo mondo?".

Lasciò la balaustrata, nascondendo le mani strette a pugno sotto le ampie falde dell’abito così straniero per lui. Lasciò che le grida festanti gli scivolassero alle spalle, mentre si allontanava entrando in uno dei tanti ascensori a sensori che puntellavano le terrazze degli edifici.

"…Credi che sia poi tanto giusto un sistema simile, ragazzo mio? Quello che vede sacrificata la vita di un essere umano alla felicità di milioni di altri? E’ giusto, se è solo uno a soffrire per tutti?".

Strinse gli occhi.

Non doveva importargli più nulla, ormai.

Si era lasciato tutto quanto alle spalle.

Le porte dell’ascensore si richiusero, inghiottendo le grida e il fragore dei tromag che ancora tuonavano all’esterno. Si lasciò andare contro la parete, ordinando mentalmente alla macchina di raggiungere il livello dei mezzi pubblici.

Rimase a godere di quel silenzio per lunghi minuti. Poi gli occhi acquamarina tornarono a tormentarlo, aleggiando davanti a lui.

"Tu… credi che stia sbagliando?".

"Maledizione!".

Colpì con un pugno il metallo dell’abitacolo al proprio fianco.

"…maledizione…".

Perché continuava a tormentarsi? Erano mesi che ormai girovagava da un pianeta all’altro; prima c’erano stati i Pianeti Esterni, in tutto ne aveva visitati tre. Poi era arrivato il turno di Chiizeta, e infine Ootzam… Perché non riusciva a trovare pace? Quell’anonimo peregrinare in paesi a lui sconosciuti, fra gente mai vista, straniero fra stranieri, non aveva fatto altro che aumentare la sua inquietudine e il senso di fatalità che lo schiacciavano da quello strano giorno, l’ultima sera che aveva trascorso a Sephiro… la sera in cui, solo, aveva parlato ad Emeraude, accanto alla fontana.

Non se n’era semplicemente andato, ora l’aveva capito.

Era fuggito.

Emeraude sapeva che prima o poi lo avrebbe fatto, forse per questo quella notte era scesa di nascosto ai giardini, per incontrarlo… e incoraggiarlo.

Dandogli la sua benedizione.

Ricordò il rumore dell’acqua che scrosciava, al buio, il profumo dei mughetti e dei lillà. Gli piaceva rimanere solo, la notte nei giardini, quando i servitori erano a riposare nelle loro stanze e nessuno interrompeva la pace se non il richiamo di qualche uccello notturno, lontano, o il basso frinire dei grilli.

Ultimamente passava sempre più tempo in solitudine. E la notte non dormiva quasi più.

"Qualcosa ti preoccupa?", gli aveva chiesto lei avvicinandosi.

Si era accorto della sua presenza già da tempo, ma non pensava che la sua principessa fosse venuta per avere compagnia. Si era voltato.

"Nulla d’importante, mia signora".

Lei aveva sorriso, semplice ed enigmatica, così come solo lei sapeva essere. "Io credo che invece lo sia, Lantis". Gli si era avvicinata, prendendogli le mani nelle sue, e lo aveva fissato con un’intensità che lui non aveva mai visto. "…Perché l’ombra che vedo gravare su di te negli ultimi tempi è tanto oscura e pesante da piegarti in due…".

Lui aveva sospirato, senza rispondere.

"Perché lo stai facendo, Lantis?".

"Fare cosa?".

"Gettare via così il tuo cuore".

Si era sentito avvampare. "Io non…".

"Non farlo".

Era ammutolito. Gli occhi di Emeraude erano sinceramente preoccupati, dolenti. "Ascoltami, Lantis…". Gli aveva accarezzato il viso. "Non permettere che il tuo cuore s’indurisca e muoia… non tu! Tu che sei così forte, e pieno di vita, tu che potresti avere ciò che vuoi se solo avessi il coraggio di allungare una mano per afferralo! Tu che potresti lasciare il tuo cuore libero di volare…".

Quelle parole lo avevano colpito profondamente.

"Cosa… cosa cercate di dirmi, mia signora?".

"Sei libero, Lantis. Sei nato libero di sceglierti chi amare, privo di vincoli, di catene… E allora ama!".

Lei sapeva… La consapevolezza di ciò lo aveva folgorato. Come era riuscita a capire? Come era riuscita a leggergli l’anima?

"Io… non posso amare…", si era interrotto, quasi le parole lo soffocassero.

"Cosa? … Un altro uomo?".

Una pausa eterna. Poi lei aveva ripreso a parlare senza incertezze, obbligandolo a sostenere il suo sguardo. "E perché non dovresti? L’amore è sempre amore, anche se rivolto ad un fiore, un animale, una donna o un uomo. Perché dovresti soffocare qualcosa di così puro? Solo perché non è consuetudine? E chi ha stabilito una tale regola?". Aveva di nuovo sorriso, un sorriso dolce, questa volta, che le aveva illuminato il volto di bambina. "Io ho plasmato questo mondo, ma non ho mai stabilito una legge simile, mi pare…".

Aveva finalmente abbassato lo sguardo.

"Tu non hai idea della tua fortuna, Lantis. Sei libero di andare dove vuoi, libero di gioire o di rattristarti, di svagarti o di gettare ogni tua energia in un compito, pur futile o sbagliato che sia. Tu puoi vivere…".

"… Mentre voi non potete fare altro che guardare mio fratello da lontano".

Le sue piccole spalle avevano sussultato; i suoi piedi avevano fatto un passo indietro. Un’espressione triste le si era dipinta sul viso.

"Dunque è così palese… Chi altri sa?".

"Solo il Monaco Guida, mia signora. E… no, non è poi così palese. La vostra maschera di gioia è sempre candidamente perfetta…".

Si era seduta sul bordo della fontana, le mani in grembo.

"Non era mia intenzione ingannare nessuno. E’ solo che…".

"Lo so, non potete permettervelo".

"Sì, non posso…".

Si era seduto al suo fianco, in silenzio, fissando il gazebo bianco attraverso le cui fessure la luna filtrava a tratti.

"Mio fratello vi ama".

"Non dirlo!!". Si era sollevata di scatto, lo sguardo atterrito. "Non dire mai più una cosa simile!!".

Aveva tentato di accostarsi, ma lei si teneva a distanza.

"Promettimelo, Lantis!".

Ma lui era risoluto. "Non posso. Perché è la verità".

"No!!".

Aveva cercato di fuggire, ma lui in due passi l’aveva raggiunta, avvolgendola da dietro fra le braccia.

"Lasciami! Lasciami andare!".

L’aveva tenuta saldamente contro di sé, nient’alto che una bambina piangente che gli arrivava appena al petto. Voleva fare qualcosa per lei, lei che ogni giorno si preoccupava degli altri.

"Lui vi ama, e voi lo sapete. Ho visto come vi guardate…".

"Smettila, Lantis!!".

"No, finché non ammetterete di amarlo".

"Non posso fare una cosa simile! Non posso! Tu non comprendi le conseguenze dell’abbandono della preghiera da parte di una colonna!".

L’aveva stretta ancor di più a sé, e poi aveva solo sussurrato:

"Sephiro svanirà".

Lei aveva cessato di dibattersi, accasciandosi contro di lui, lasciandosi inglobare dal suo mantello, sull’erba umida accanto al gazebo.

"…Se sai questo… perché continui a…".

"Vorrei solo che per una volta pensaste a voi stessa. Lo meritate".

Emeraude si era sciolta in lacrime. Erano rimasti così a lungo, finché lui fu certo che si fosse addormentata. Allora l’aveva sollevata tra le braccia e l’aveva ricondotta alle sue stanze, attraversando silenziosamente i giardini deserti ed entrando per le finestre anziché usare gli androni guardati a vista dai suoi uomini. L’aveva deposta nel letto, tirandole le lenzuola sottili fin sotto il mento, e allora lei aveva riaperto gli occhi.

"Io lo amo, Lantis".

Gli aveva trattenuto la mano con una delle sue, piccole e bianche. "Tuttavia non posso abbandonare Sephiro. Non me lo perdonerei mai…". I suoi occhi si erano riempiti nuovamente di lacrime. "Tu… credi che stia sbagliando?".

Giusto? Sbagliato? E chi poteva saperlo?

Anche il suo comportamento era stato sbagliato? Se n’era andato. Era fuggito. L’aveva abbandonata, aveva abbandonato tutti!

Ma era stata lei a dirglielo.

"… Vattene di qui, Lantis".

Aveva sussultato. "Non posso farlo!".

"Lo stai già facendo… Non sei più tu. Lantis se n’è già andato da tempo. Va via". Di nuovo un pallido sorriso, "Io… credo che mi farò trovare stupita quando tu sparirai… Nessuno verrà a sapere il motivo della tua scomparsa, te lo prometto".

"Non voglio abbandonarvi!".

Aveva scosso la testa sul cuscino, troppo stanca per qualsiasi altro gesto. "Vai a cercare la tua felicità, tu che puoi. Lascia Sephiro, e lascia me, la sua principessa triste…". Aveva chiuso gli occhi, congedandolo. "Questo è il mio desiderio per te".

Se n’era andato quella notte stessa.

Non aveva avvertito nessuno, nemmeno Zagart.

L’inquietudine che aveva iniziato a provare quasi un anno prima, quando inaspettatamente si era reso conto di nutrire interesse per una giovane recluta, un maschio, era diventata talmente insopportabile da incupirgli l’anima; la sentiva attorno a sé come un’armatura nera. Ed Emeraude era riuscita a vedere quell’ombra.

Ma ora che erano trascorsi mesi da quella notte nel giardino, ora che si era aggirato per lo spazio, tuffatosi nel lerciume anonimo dei ghetti d’immense città per appagare le proprie voglie represse troppo a lungo, adesso si sentiva più vuoto e sporco che mai. Non era più il Lantis di un tempo. Era divenuto una cupa figura con l’anima lorda e indifferente.

Emeraude gli aveva detto di cercare la sua felicità, ma lui aveva trovato solo perdizione e solitudine. Nonché rimorso per averla abbandonata.

Lei era parsa fiduciosa. Gli aveva raccomandato di non indurire il suo cuore, di lasciarlo libero di volare fin dove avesse voluto arrivare…

Mentre l’ascensore toccava il piano dei servizi di trasporto e le porte si aprivano, Lantis si chiese se il suo cuore avrebbe davvero potuto tornare a volare, affondato com’era nella melma nauseante in cui lui stesso aveva voluto perdersi.

 

 

 

EAGLE

 

"Torna indietro Eagle! Dove diamine stai andando adesso?" sbraitò tentando di raggiungere il giovane che correva per il corridoio.

"Al poligono".

"Poligono? … Poligono!? Ma si può sapere cosa ti passa per la testa, razza d’indisciplinato? Dobbiamo essere al quartier generale fra meno di quaranta minuti!".

Il giovane si volse a metà e fece spallucce proseguendo nella sua direzione a ritroso; aveva un sorriso raggiante. "Vorrà dire che arriveremo in ritardo".

Geo sollevò gli occhi al cielo. "Dio, dimmi che non è vero!", e lo aveva seguito.

Presero la navetta personale di Eagle, i motori già in funzione. Geo lo fissò a bocca aperta "Ma come diavolo ci riesci, si può sapere?".

"A fare cosa?".

"Ad attivare un marchingegno di queste dimensioni a distanza! I motori sono già bollenti! Quando l’ hai messo in funzione?".

Il giovane gettò di lato lo scomodo mantello e si chinò sui comandi manuali digitando sulla tastiera i controlli e i codici che permettevano lo sgancio della carena. "Mentre eravamo nell’ufficio del colonnello", disse semplicemente.

"Ma sono più di centoventi piani! Vediamo, sono… sono quattrocento metri?! Come hai fatto da quella distanza?".

Fece spallucce.

"E-E poi stavi esponendo i piani di evacuazione eseguiti a Jilaja! Quando hai avuto il tempo per farlo?".

Arricciò il naso. "Il colonnello è una brava persona, ma è estremamente noioso. Fra una pausa e l’altra dei suoi discorsi a proposito dell’inutilità delle nostre cupole di trixite ormai in sfacelo ho lasciato vagare un po’ i miei pensieri… così ho pensato che se andavano ad allenarci un po’ al Poligono… prima del quartier generale e prima d’incontrare mio padre…".

"Eagle, a volte mi fai paura".

Il giovane sollevò un sopracciglio. "E per cosa? Solo perché ho una buona forza mentale? C’è gente più in gamba di me, sai?".

"Io ne dubito".

Aveva solo sorriso, quel sorriso abbagliante di ragazzino. "Allora, vogliamo andare?".

 

 

 

Il Poligono era una gigantesca barriera ad energia di forma ottaedrica con l’anima in cemento e metallo. Sorgeva al centro dell’area militare riservata di Oosame-est, e la sue fondamenta erano inserite direttamente nel terreno. Delle dimensioni di quattro stadi uniti assieme, la sua struttura sembrava scomparire tra le svettanti torri circolari alte centinaia di metri che la circondavano, al di fuori dell’area riservata larga sei chilometri, e che raccoglievano gli uffici e le attrezzature di controllo dell’esercito.

Dentro l’area recintata, edifici bassi e larghi, alcuni adibiti ad hangar, altri a laboratori di studio, circondavano la forma tondeggiante del Poligono estendendosi tutt’attorno a lui e ricoprendo l’intera zona come un’unica struttura bianca. Sulle facciate principali e le terrazze d’atterraggio esibivano evidente una scritta in rosso: Re.S.Ri. Pochi conoscevano l’estensione di tale sigla, e ancor meno erano coloro al corrente del suo significato: Reparto di Studio e Ricerca Mentale.

Chiesero l’autorizzazione all’atterraggio entrando nello spazio aereo riservato e planarono su uno degli edifici che aveva una parete direttamente a contatto dell’enorme sfera sfaccettata che era il Poligono. Eagle si lasciò distrarre per un attimo, fissando la sua superficie da uno dei finestrini; sembrava oleosa, densa, come se ciò che costituiva quelle pareti non fosse energia pura, ma una sorta di liquido giallastro. E man mano che gli si avvicinavano si sorprese, come sempre, di assimilarlo ad una gigantesca bolla spigolosa. Dall’esterno era impossibile vedere ciò che conteneva, ma una volta al suo interno era possibile ammirare sia i bassi hangar, sia i grattacieli che sorgevano appena fuori i cancelli del Re.S.Ri., e il tutto appariva chiaro, i contorni limpidi, anche se i colori erano falsati dai campi magnetici, dando l’impressione di guardare attraverso un velo dorato.

"Il tirapiedi di tuo padre, quell’Okar, ci caverà la pelle, stavolta. Anzi, la caverà al sottoscritto…", borbottò Geo distraendolo dai suoi pensieri. "Perderemo qui tutto il pomeriggio… Scommetto che al quartier generale diventeranno isterici!".

Eagle si sollevò raggiante dal sedile di pilotaggio e recuperò il mantello avvicinandoglisi. "Ti chiedo scusa, Geo. Sei sempre tu ad andarci di mezzo quando ho i miei colpi di testa, perdonami", gli disse con un sorriso sornione.

"Certo! Come no! Si vede come ti dispiace, giovane ingrato!", rise, smentendo la durezza delle proprie parole. "Ma sì, che vadano al diavolo! E poi, sei tu il comandante. Tu ordini e io eseguo".

"Ma io non ti ho ordinato di venire con me…".

"Già, e con chi ti allenavi? Da solo forse?". Gli circondò le spalle con un braccio trascinandolo fuori dalla sala di controllo e verso il corridoio d’uscita. "Oggi ti farò mangiare la polvere, comandante!".

Una volta scesi dalla scaletta di sbarco trovarono i sei uomini di scorta in attesa sulla terrazza. Eagle li fissò appena, l’attenzione rivolta nuovamente al Poligono che incombeva di fianco a loro, altissimo. Gli uomini scattarono sull’attenti, esibendo il saluto formale riservato a un superiore.

Superiore…

Quello di ‘comandante’ era solo un titolo senza significato per lui, come pure ‘dijas’, figlio del Capo di Stato.

Si sentiva in trappola, come se altri avessero già deciso per lui. Come se ogni giorno della sua vita non gli appartenesse… come se nulla gli fosse mai appartenuto. E ben presto, nonostante la sua giovane età, sarebbe stato nominato Capo delle Forze Armate, scavalcando tutta la gerarchia militare in un colpo solo…

Tutti al Re.S.Ri. glielo avevano predetto. "Sei troppo in gamba con quei robot per accontentarti di quel poco che hai ora. Tu hai il dono del combattimento, Eagle, e soprattutto possiedi una forza di volontà pari a pochi altri; diventerai il condottiero più forte che Ootzam abbia mai avuto!". Suo padre gli diceva sempre cose simili. Era uno dei loro pochi argomenti di conversazione.

E questo era ciò che lui non sopportava.

Si lasciò condurre da Geo e dalla scorta armata senza prestare ascolto ai discorsi dell’amico, l’umore improvvisamente cupo.

Anche quel giorno suo padre voleva renderlo partecipe dei numerosi problemi di Ootzam e dei possibili piani in fase di progettazione, presentandogli al contempo qualche personaggio influente, di certo in città per assistere ai festeggiamenti della settimana, e che avrebbe potuto dare un lancio alla sua carriera militare.

Odiava quegli uomini…

E odiava suo padre.

"Ehi Eagle, sto parlando con te!".

"Cosa?".

Geo, che camminava al suo fianco, si mise a guardare in alto, le mani incrociate dietro la testa. "Ah! Possibile che tu sia sempre perso in pensieri lugubri? Cosa c’è ora che non va per non prestarmi attenzione e avere quella faccia da funerale? Non pensare a quello che dovrai fare più tardi, o alla cena a cui dovrai presenziare stasera, pensa solo all’allenamento ora!".

La cena di gala… se n’era completamente dimenticato!

Altra gente, altri doveri, altra noia…

Sospirò. "Hai ragione. Adesso basta pensare. Andiamo a divertirci!". Gli fece un sorrisetto malizioso, "Parlavi sul serio prima quando dicevi di volermi far mangiare la tua polvere?".

"Certo che dicevo sul serio!".

Scoppiò a ridere.

"Ti sembra tanto divertente? Aspetta e vedrai".

Scesero di sotto, fra le sale e i laboratori in cui ogni giorno la ricerca veniva portata avanti da professori, ingegneri ed esperti di robotica.

Eagle parlò brevemente con le guardie ai laboratori, poi il professor Bosziak l’intravide dalle vetrate e corse loro incontro accogliendoli come sempre festante.

"Siete venuti anche oggi, vero? Prego, prego, venite miei signori!". Poi rivolto a Eagle "Il vostro F.T.O. vi sta aspettando! Quando ho ricevuto il vostro messaggio poco fa ne sono rimasto sorpreso, non vi aspettavo così presto! Avevo sentito che eravate a Jilaja".

"Infatti. Ma sono tornato questa mattina".

"Meglio così, meglio così! Sapete? Non vedevo l’ora di farvelo provare! Ho fatto una piccola modifica al vostro F.T.O.! Sono sicuro che vi sbalordirà ora la sua velocità!".

"E’ ancora più veloce?".

"Oh, incredibilmente! Ma venite, venite!".

"Aspettate un momento; e il mio G.T.O.? Mi auguro che abbiate modificato anche lui!", intervenne Geo allungando il passo per stare dietro al piccolo professore che aveva preso a correre scendendo le scale a due gradini per volta.

"Ma certo. Anche se abbiamo ancora qualche problemino di configurazione…".

"Come al solito. E’ sempre così!" grugnì.

Eagle gli diede un colpetto. "Dai non te al prendere, vedrai che il professor Bosziak riuscirà a sistemare le cose, vero professore?".

"Sì, sì! Assolutamente!".

I due si guardarono e scrollarono il capo, convinti che l’ometto non li avesse neppure uditi, elettrizzato com’era dalla sua nuova grande scoperta.

Giunti al termine della scalinata Bosziak mise mano alla porta d’acciaio e pronunciò la sequenza di apertura; al suo ordine mentale la porta scorse di lato.

Eagle prese aria nei polmoni, assaporando gli odori dell’elettricità e del metallo, uniti ai lubrificanti e ai vapori che sfrigolavano e salivano in piccole nubi nell’immenso hangar-laboratorio.

Il locale era smisurato; per ovviare all’inconveniente di occhi indiscreti, si era preferito non munire l’edificio di finestre o vetrate anche se schermate, così l’intero ambiente era illuminato da file di lampade fotoelettriche sul soffitto lontanissimo e da sei potenti fari lungo le pareti.

L’F.T.O. era lì, inginocchiato e con la destra a terra; almeno quindici fra tecnici e operai erano appollaiati su di lui o percorrevano le passerelle montate davanti alla sua figura, lavorando assiduamente. Al suo fianco, nella stessa posizione, se ne stava il G.T.O.

Bosziak li condusse ai monitor e al cervello informatico ai piedi dei robot; un paio dei suoi assistenti si fecero da parte salutando Eagle rispettosamente.

Il professore gli indicò i dati che scorrevano in 3-D fluttuando sugli schermi davanti a loro. "Abbiamo capito cosa non andava nella fase di riassetto… Guardate". Mise le mani nell’ologramma e questo cambiò, simulando l’F.T.O in movimento. "Quando vi sbilanciavate in avanti, lo scudo impiegava parecchio tempo per tornare in posizione verticale, e ciò rallentava i vostri spostamenti; è questo il problema che mi avevate fatto osservare, vero?".

"… Quando io gli ordinavo il movimento e lui faticava ad eseguire".

"Esattamente! Dicevate che era come sentirsi ubriachi; pensavate all’atto del camminare in modo chiaro e lineare e il gesto risultava invece stentato e rallentato…".

Geo si chinò su di lui con un sorrisetto, "Tu ubriaco? Non mi sembra di averti mai visto in tali condizioni… Dev’essere divertente…", commentò senza farsi udire dal vecchio professore.

Eagle gli rispose con una gomitata che gli svuotò i polmoni.

"…Ora guardate", proseguì Bosziak, "… se noi reimpostiamo i parametri iniziali e diamo allo scudo una curvatura diversa, diciamo una geometria più ‘flessibile’, è come se si plasmasse direttamente sulla forma dell’F.T.O., ovviando qualsiasi problema di riassetto!".

Eagle, fissò attentamente gli schemi; mise mano lui stesso all’ologramma, ripetendo l’operazione da capo. Infine scosse la testa, sbalordito.

"Ci siete riuscito davvero, professore… non posso crederci, ma ce l’avete fatta!", mormorò.

Il vecchio si assestò gli occhiali spessi due dita, gongolante.

"Che ne dite di una prova generale, mio signore?".

 

 

 

I sostegni vennero rimossi, le impalcature trascinate in avanti, liberando i due robot.

Geo lo salutò con la mano a qualche metro di distanza, entrando nell’abitacolo del G.T.O.

"Oggi non ti lascerò scampo, comandante!" urlò per farsi udire da quella distanza, poi scomparve.

Eagle gli sorrise brevemente, ma quando l’altro sparì, il sorriso si spense, i suoi occhi si fecero come liquidi.

Attraversò la passerella, lentamente, ammirando il suo F.T.O., la sua macchina da guerra...

Lasciò scivolare la mano sulla superficie d’acciaio che rifletteva la sua immagine distorta, accarezzando il metallo, seducente. Amava quel robot. Anzi, forse… lo adorava. Perché era solo per mezzo di esso che finalmente riusciva ad esprimersi, a tirar fuori la propria anima; combattendo con l’F.T.O. il vero Eagle emergeva, la maschera di giovane dijas si scioglieva, e al posto del ragazzino dal perenne sorriso appariva qualcun altro.

Lanciò brevemente un’occhiata in basso, dove Bosziak piccolo come una cimice lo fissava accanto ai monitor.

"E va bene professore", mormorò fra sé e sé. "Vediamo se il vostro lavoro è davvero così eccellente come sembra essere".

Raggiunse l’abitacolo e vi s’infilò dentro piegandosi in due. Non appena fu seduto l’ordine eruppe dalla sua mente:

Sganciare!

La passerella con uno schianto iniziò a muoversi, cigolando e sferragliando, allontanandosi da lui.

Geo aveva già chiuso la cabina e il G.T.O. si stava incominciando a muovere, rizzandosi in piedi. …Il suo tenente quel giorno sembrava voler fare sul serio; meglio così, si disse, sarebbe stato più divertente…

Staccò i cavi dal proprio ‘amplificatore’ sulla fronte e li intrecciò fra loro; poi prese quelli che fuoriuscivano dal sedile alle sue spalle, la vera anima dell’F.T.O., e li collegò ai circuiti di interscambio. Abbassò la visiera.

Si fermò un istante, prendendo un lungo respiro.

"E adesso si vola…".

Inserì di scatto il connettore sulla placca all’altezza delle proprie tempie e il ruggito dell’F.T.O. lo travolse, potente, intenso, come ogni volta.

Era come il risucchio di una volontà più potente, come entrare a far parte integrante di quel gigantesco corpo di metallo. I circuiti si attivavano istantaneamente, tutti in una volta sola, come un’onda elettronica che travolgeva ogni sua percezione sensoriale, inglobandolo in un guscio privo di consistenza reale; come essere un bambino nell’utero materno.

L’energia veniva risucchiata da lui, dalla sua mente, e andava a circolare come sangue nel robot, facendolo fremere intimamente, portandolo alla vita.

L’apertura davanti a lui si richiuse, intrappolandolo in quel cuore freddo. I suoi occhi divenivano quelli dell’F.T.O., le sue sensazioni si facevano più potenti, le percezioni si trasformavano in quelle di una macchina umanoide alta quanto un edificio di medie dimensioni, e con il cervello in grado di calcolare distanze, reazioni e potenziali bersagli nel giro di un nanosecondo.

Eagle diventava la macchina.

E la macchina diveniva lui.

Una sensazione che lui amava, perché sentiva i propri vuoti colmarsi, la propria vita prendere significato, il resto del mondo sparire. Ora c’erano solo lui, l’F.T.O. e il suo avversario. Solo una grande sfida. Nient’altro.

Alzati.

L’F.T.O. si sollevò in piedi, lentamente. Il G.T.O. si era già incamminato verso il fondo dell’hangar dove la saracinesca che lo separava dall’interno del Poligono si stava in quel mentre sollevando, lasciando entrare la luce dell’Arena.

Eagle restò immobile, fissando Geo entrare a passo sicuro nella luce intensa e gialla del Poligono che incombeva come un’enorme cupola sfaccettata al di là dell’apertura. Lì avrebbero combattuto, al riparo degli sguardi di chiunque non fosse addetto alla raccolta e analisi dei dati.

Vide operatori e ingegneri affrettarsi correndo di qua e di là attorno ai suoi piedi, tenendo sott’occhio monitor, analizzatori di pressione e temperatura, sistemi di sicurezza e notò persino qualcuno che si dirigeva alla cabina di comunicazione con l’esterno per avvertire di tenere i mezzi di soccorso pronti ad ogni evenienza. In fondo, non era la prima volta: era già accaduti… incidenti.

Geo era scomparso nella luce. Lui ancora non si mosse.

Chiuse gli occhi, lasciando fluire i suoi pensieri nell’F.T.O., percependo la sua sincronizzazione divenire di momento in momento sempre più accurata, perfetta.

"Allora comandante? Stai schiacciando un pisolino?". La voce di Geo, graffiante, beffarda, lo raggiunse rimbombando lievemente nell’abitacolo.

Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso pericoloso.

"Hai così tanta voglia di farti male, Geo?".

"Ho voglia di batterti, comandante!". Rise.

Eagle scosse piano la testa. "Perderai".

Aprì gli occhi, fissò il suo obiettivo quattrocento metri più avanti, invisibile ad occhio nudo avvolto com’era nella luce, ma visibilissimo a lui, e ingrandito di tre volte. Poteva quasi pensare di vedere l’espressione di Geo da quella distanza mentre lo invitava ad attaccare.

Accentuò il sorriso.

Il suo fu solo un sussurro:

"F.T.O.…. Vai!".

 

 

L’F.T.O. si sollevò in aria, fluttuò un istante mentre tutto attorno alla sua figura lo scudo di protezione rendeva i contorni come liquidi, l’effetto che fa il sole di mezzogiorno sull’asfalto.

Poi si scagliò in avanti, divorando la distanza che lo separava dal G.T.O. in un attimo.

Le due macchine si scontrarono con uno schianto che fece tremare l’intera struttura del Poligono, e il G.T.O. fu scagliato indietro, mentre i suoi piedi affondavano di un metro buono nel suolo dell’Arena.

Eagle non gli lasciò riprendere l’equilibrio e lo colpì con il sinistro, afferrandogli al contempo la testa.

La saracinesca alle loro spalle si richiuse immediatamente, lasciando i duellanti a combattersi nella luce giallastra. La volta del Poligono era lontana decine e decine di metri, il suo diametro li lasciava liberi di correre, lanciare attacchi e saltare.

Geo grugnì un’imprecazione, e con un evidente sforzo liberò la spada ad accelerazione al proprio fianco.

"Questa volta non ti permetterò di vincere, comandante!".

Eagle riuscì a scansarsi appena in tempo, la sua mano allentò la presa.

"Ora!". Geo gli si avventò contro aumentando la potenza, e questa volta fu l’altro a subire l’assalto, finendo in ginocchio, le enormi braccia di metallo in croce a bloccare la spada.

"…Sei migliorato", mormorò stringendo i denti.

"Ho avuto il migliore dei maestri!".

Eagle sorrise. "Ma non ti basterà…". Afferrò la spada in una mano.

"Cosa…?".

Eagle strinse la lama fra le dita, sentendo le giunture cedere, l’energia della spada che usurava il metallo e lo incrinava.

"Cos’ hai intenzione di fare, comandante?".

"Questo". Eagle si lasciò cadere a terra di scatto, trascinando il G.T.O. con sé; quindi, all’ultimo momento fece leva sulla spada dell’avversario, piantandone la punta nel terreno come un perno. Geo fu scagliato in aria, sopra la sua testa.

Ma non atterrò. Il giovane riuscì ad azionare i motori in tempo, bloccandosi in aria.

"Sei davvero migliorato…", mormorò Eagle. Il controllo e la forza combattiva di Geo erano aumentati, e probabilmente il suo limite era ancora lontano. Sì, quel giorno si sarebbe davvero divertito…

Lo scontro andò avanti per quasi venti minuti, fin quando non concordarono una pausa per permettere ai computer di bordo di rilevare i danni e alle loro menti di riprendere fiato.

Eagle staccò i connettori principali mettendo l’F.T.O. in fase di riposo. Si lasciò andare contro il sedile chiamando Bosziak sulla frequenza interna.

"Sì mio signore?".

"Ottimo lavoro professore! I miei complimenti. E’ perfetto".

Una pausa all’altro capo della linea; a Eagle parve quasi di vedere il sorrisetto compiaciuto dell’anziano scienziato. "Abbiamo registrato tutto l’incontro, mio signore. Siete stati perfetti, tutti e due! Ci sono alcuni parametri che forse andranno riaggiustati, soprattutto per il G.T.O., ma la gran parte del lavoro è ormai completata".

"Ne sono convinto. Non ho trovato difetti di sorta, né rilevato alcun rallentamento. L’F.T.O. è davvero ultimato".

Geo intervenne nella conversazione. "Io dico che anche il mio piccolo G.T. va benissimo, professore! Non vedo nessun parametro da ricontrollare! Anzi, non voglio che tocchiate alcun parametro!".

Eagle scosse il capo. "Sei sempre il solito rompiscatole Geo". Si passò le dita fra i capelli sudati e si stropicciò gli occhi. "Lascia che il professore faccia il suo lavoro, testone".

"Niente affatto! Questa volta non voglio che mettano le mani sul G.T.! Ricordi cosa accadde il mese scorso? Era già perfetto, e quando hanno voluto apportare la modifica sull’assetto dell’asse principale è andato tutto in corto! Ho dovuto aspettare due settimane per poter risalire a bordo. Io dico che va bene così com’è!".

"Geo, piantala".

"Ma comandante, non…".

Eagle non udì il resto delle sue recriminazioni e nemmeno intese la risposta sferzante di Bosziak dall’altra parte della linea…

…perché s’immobilizzò, trattenendo il fiato ad occhi spalancati, in ascolto.

Il tutto non durò che un paio di secondi, eterni.

"Avete sentito?" sibilò.

Gli altri due s’interruppero. La voce di Bosziak gli giunse incerta. "Sentito cosa?".

"Quell’allarme!".

Geo fece voltare il G.T.O. nella sua direzione. "Io non ho sentito nulla. Su che frequenza sei?".

"Su questa! Quella delle esercitazioni interne! Ma ho udito distintamente qualcosa!".

Bosziak armeggiò con alcuni pulsanti. "Impossibile, siamo su una frequenza protetta. Anche se avete una notevole forza mentale, è statisticamente impossibile che percepiate conversazioni su altri canali, mio signore…".

Eagle si agganciò nuovamente l’amplificatore alla fronte; abbassò la visiera ricollegando al contempo i propri impulsi nervosi a quelli del robot, poi fece voltare l’F.T.O. e raggiunse a grandi passi il limitare di una parete del Poligono, guardando all’esterno.

"Inoltre", sentì proseguire il professore, "le interferenze elettromagnetiche presenti nell’Arena non permettono a qualsivoglia segnale di entrare o uscire di qui, non potete aver udito…".

"E forse è proprio per queste interferenze che invece ho udito quella chiamata!", lo interruppe quasi bruscamente, il tono aspro. Bosziak tacque.

Il G.T.O. si avvicinò al suo fianco; aveva un braccio quasi del tutto staccato, e uno degli alettoni retrostanti ammaccato, ma la sua armatura nera seppur impolverata era ancora in buone condizioni.

"Comandante, ne sei sicuro?" udì mormorare Geo.

"Più che sicuro…". Prese fiato nei polmoni. "Bosziak!" ordinò, "scandagliate tutti i segnali di emergenza, e trasmetteteli sul nostro canale in modo che anche noi possiamo ascoltarli. Cerchiamo un 15-18!".

"Un 15-18?!", sussultò la voce di Geo. "Ma è un segnale di livello A!".

Eagle non rispose alla sua domanda implicita. Immobile nel suo robot fissava il cielo al di fuori delle pareti energetiche del Poligono, lassù, oltre le svettanti torri-grattacielo degli uffici militari dove le spropositate cupole di trixite proteggevano le genti di Oosame-est dall’atmosfera ormai tossica di Ootzam.

15-18.

Allarme crollo barriera.

Una cupola di trixite stava cedendo da qualche parte.

Attese poco più di trenta secondi, mentre Bosziak scandagliava tutte le frequenze passandole al contempo sul loro canale. Fra segnali radiofonici, crepitii di codici riservati e avvisi amministrativi, improvvisamente un suono gli congelò il sangue. Era un sibilo sottile che divenne presto un ululato quando il professore riuscì a stabilire la connessione al 90%.

"Rip…to: codice 15-18. Allarme cedimento! Tut…i mezzi disponibili sul posto. 15-18: barriera 271-dz in fase di crollo! Ripeto: tutti i mezzi di soccorso disponibili sul posto! Evacuazione in atto. Entità dei danni: sconosciuta. Numero delle vittime: sconosciuto. Numero dei feriti: sconosciuto. Tutte le squadre a raccolta…".

"Mio dio…".

Eagle digrignò i denti. "Professore! Trovi la planimetria della città! Invii all’F.T.O. le coordinate della cupola 271-dz. Subito! E’ un ordine!".

"C-certo mio signore!".

Geo gli si parò davanti con il G.T.O. "Cosa vuoi fare?".

"Spostati. Ho intenzione di andare là!".

"Ma non puoi andarci con l’F.T.O.! Nessuno in teoria dovrebbe essere a conoscenza della sua esistenza…".

"Il tenente ha ragione mio signore…", intervenne Bosziak con fare prudente. "Senza contare che siete nell’Arena, non potete pensare di riuscire ad attraversare i campi energetici del Poligono".

Eagle sentì una cupa rabbia montargli dentro; strinse i pugni cercando di controllarsi. Sapeva che l’energia nell’F.T.O. stava aumentando come reazione ai propri impulsi nervosi: non doveva perdere il controllo.

"Spostati Geo…".

"Non puoi fare sul serio! Le pareti del Poligono ti stritoleranno!".

"Ho detto di levarti di mezzo!". Aveva urlato. Non era da lui comportarsi a quel modo, e lo sapeva. Era l’essere a bordo dell’F.T.O. a farlo divenire così; sul robot lui era un altro Eagle.

"…Come vuoi comandante".

Il G.T.O. si fece da parte.

"Mio signore, ecco le coordinate!". Bosziak inviò le coordinate al cervello del robot digitandole sul suo display; Eagle visualizzò la pianta della città in ologramma, come sottofondo al pannello visivo principale.

Era a nord, una delle cupole più vecchie e più grandi. I quartieri sottostanti erano densamente popolati. Se non faceva qualcosa rischiava di finire tutto in una strage dalle proporzioni monumentali.

Doveva andare.

Si concentrò sulla parete del Poligono davanti a sé: una barriera, un enorme, liquido campo magnetico.

Un muro invalicabile.

"Coraggio…", mormorò deciso. Si piegò su un ginocchio, pronto a spiccare il balzo.

Geo prese a correre nella direzione opposta avvicinandosi alla saracinesca che riportava nell’hangar.

"Comandante!"

Eagle fu distratto un momento. Fissò dalla sua parte. "Cosa c’è?".

Geo afferrò la saracinesca dell’hangar con il braccio ancora sano e si mise a sollevarla a forza, arcuandola come se fosse stata di cartone. "Vai avanti tu. Io ti raggiungerò in pochi minuti".

"Da dove hai intenzione di passare? L’hangar non ha porte d’uscita!".

La voce di Geo gli giunse allegra. "Vuol dire che dovrò crearne una!".

Eagle scosse il capo con un sorriso. Dopotutto, era stato lui stesso a scegliersi Geo come secondo; ormai doveva sapere cosa aspettarsi da lui.

Tornò a concentrarsi sul suo ostacolo.

"A noi due…".

Spiccò il balzo, e quando si scontrò con la forza del Poligono quasi perse i sensi.

 

 

 

Resistette. Mise le braccia dell’F.T.O. a croce davanti al resto del corpo del robot, per proteggerlo dalla pressione impressionante, ma nonostante questo udì lo scricchiolio di molte parti che si schiantavano.

Urlò, un ruggito che fece voltare Geo per un attimo, ma che valse anche ad aumentare vertiginosamente la sua potenza. La barriera dell’F.T.O. si allargò improvvisamente, esplodendo come un fuoco azzurro contro l’oro liquido del Poligono che si ritrasse.

L’F.T.O. passò.

Crollò a terra all’esterno, spossato.

Udì Bosziak che lo chiamava disperatamente sul canale esterno. "Mi sentite? Signore! Vi prego rispondete! State bene? Siete ferito?".

"E’… tutto a posto" riuscì a balbettare. "Devo solo… riprendermi un attimo".

La testa gli pulsava dolorosamente per l’elevato sforzo mentale. La parete dietro di lui si era richiusa come se nulla fosse accaduto. Si rizzò in piedi.

… Caricamento coordinate, ordinò.

La pianta di Oosame-est tornò ad aleggiare davanti ai suoi occhi imperlati di sudore; si asciugò il viso con il dorso della manica.

Aumentò i giri del motore, spingendoli al massimo.

Vai!!

L’F.T.O. saettò in aria sollevando una nuvola di detriti e assordando con un sibilo stridente tutti i meccanici che erano corsi al di fuori dell’hangar per assistere all’impresa impossibile dello sfondamento del Poligono. Vedendo il gigante sollevarsi in cielo molti urlarono di gioia come impazziti, altri saltavano o si abbracciavano fischiando e gridando il nome di Eagle Vision-Amenik, il loro dijas, il loro signore.

 

 

 

Saettò sopra gli edifici ad una velocità impressionante, tre, forse quattro volte superiore a una navetta steed di medie dimensioni. Non aveva mai provato l’F.T.O. in volo orizzontale, e le sensazioni che il pilotarlo a quel modo gli suscitò furono contrastanti. C’erano esaltazione, euforia, ma anche timore che potesse incappare in un problema da un momento all’altro.

Infine c’erano le voci.

Gli uomini del Pronto Interveto e dell’Esercito di Sicurezza avevano bypassato le comunicazioni sulla maggior parte dei canali d’emergenza, e ora i loro richiami risuonavano come echi orribili nell’abitacolo di Eagle.

"…Ancora non ci siamo! Sganciate quella maledetta struttura! No, non così!!".

"I soccorsi! Dove diamine sono i soccorsi?".

"…Non la teniamo, sta per precipitare!".

"Se ne va un altro pezzo!".

"Muovetela di quarantacinque gradi!".

"Togliete quella navetta da lì sotto! Sta crollando un altro pezzo!".

"Ordinatele di togliersi di lì!".

"…Non farà in tempo!".

Urla improvvise. Imprecazioni e comunicazioni interrotte. Il suono crepitante di una linea senza più nessuno in grado di trasmettere. Poi altre voci.

"…Mi sentite? Rapporto danni! Rapporto danni maledizione!!".

"…n…uno! …Nessuno! Ripeto, non riesco a contattare nessuno! Mio dio… la nave, la nave sta precipitando!!".

"Qui alma-9-6-grado! Dalla nostra posizione riusciamo a vedere… La navetta 22-17 sta cadendo fra i grattacieli di sid e kote! Ripeto: un pezzo della cupola ha devastato la navetta 22-17 che ora sta andando giù! … Cazzo… porta giù i palazzi!! Ripeto, sta portando giù con sé i due grattacieli!!".

Altre grida.

Eagle si sentì accapponare la pelle.

Aumentare velocità!… Più veloce! Più veloce!!

L’F.T.O. scattò in avanti stridendo contro l’aria.

Vide la colonna di fumo a chilometri di distanza; spostò lo sguardo in alto, verso la cupola danneggiata, e soffocò un’imprecazione.

L’intera struttura a nido d’ape stava collassando. Il suo campo energetico era divenuto instabile e lampeggiava pericolosamente nella sua interezza mentre in alcuni tratti si era già spento laddove travoni e tralicci in lega di admankio del peso di centinaia di tonnellate si erano strappati e ora oscillavano nel vuoto.

La parte più alta della cupola era crollata, lasciando che i venti rossi di Ootzam entrassero dalla falla con forza impressionante, minando ulteriormente la stabilità della struttura. In basso, un enorme, spropositato ammasso di macerie avvolte da fumo si stava schiantando al suolo; i due grattacieli si accartocciavano su loro stessi, e portavano con loro tutti gli edifici più bassi e a diretto contatto.

Le persone…

"Arresto!!" ruggì.

L’F.T.O. s’immobilizzò direttamente sotto la falla aperta. Eagle udì appena la richiesta d’identificazione che giungeva da una delle navette di soccorso che volteggiavano lì attorno, l’attenzione rivolta in alto, verso la barriera lampeggiante in sfacelo.

"Qui parla Eagle Vision-Amenik, a bordo dell’unità prototipo F.T.O. Abbiamo udito l’allarme dalla zona addestramento; una seconda unità è prevista in arrivo entro pochi minuti".

"Amenik?" rispose una voce incerta da una delle navi. "Mio dijas, qui parla il generale Calcdas ad-Imu, responsabile del Reparto Sicurezza Militare… Mio signore, questa zona è pericolosa, dovete allontanarvi al più presto!".

"Al diavolo la sicurezza, ad-Imu!" ringhiò Eagle. "Qui abbiamo una cupola delle dimensioni di un quartiere che ci sta cadendo addosso! Dove pensate di metterla tutta la gente che ci sta guardando in questo momento dal basso? Avete intenzione di farla sparire con una parolina magica? Abbiamo già perso una nave e due palazzi, avete idea delle perdite umane se non facciamo qualcosa al più presto?".

L’altro sembrò interdetto. "Ma signore… la vostra incolumità…".

Eagle lo interruppe con fare minaccioso. "Basta così! Che qualcuno faccia tacere quest’idiota e mi parli invece della situazione! Subito!".

Entro brevi istanti una nuova voce fece capolino; era una ragazza a parlare, e dal tono parve molto giovane.

"Il mio nome è Laja Iton, mio signore. Sono del Gruppo per la Progettazione Nuovi Impianti. Stavamo studiando le cupole; siamo noi che abbiamo dato il primo allarme".

"Molto bene. La situazione?".

"In breve, signore?", la giovane fece una pausa. Poi riprese, la voce greve ma salda. "Signore, verrà giù tutto entro una manciata di minuti se non mettiamo un perno a sostenere il peso della volta. Il pezzo centrale è crollato… ben presto tutta la compagine cederà sotto il suo stesso peso. Per come sono state costruite queste barriere, è fisicamente impossibile che riescano a stare in piedi senza l’anello centrale!".

Eagle fece un lungo sospiro.

"Laja… Su quale navetta vi trovate?".

"Su quella a tribordo, mio signore".

"Riuscite a vedermi? Intendo, riuscite a vedere e misurare con le vostre apparecchiature la struttura del mio F.T.O.?".

Eagle udì una serie di voci, sopra tutte le quali risaltava quella di Laja: probabilmente sulla navetta era raccolto l’intero Gruppo Progettazione.

Infine Laja tornò a farsi sentire. "Sì, mio signore. Siamo riusciti a calcolare le misure del vostro robot… Intendete fare ciò che penso?".

Eagle fece un sorriso tirato. "Dimmi solo dove mi devo posizionare, Laja".

In quel mentre Calcdas ad-Imu intervenne furiosamente. "Non potete! La vostra vita è sacra, Amenik! Non potete permettervi un rischio del genere!".

"Sono un uomo libero, e finché sarò tale posso permettermi qualsiasi rischio".

"…In qualità di vostro superiore, comandante Vision, io vi ordino di togliervi immediatamente di qui!!", sbraitò l’uomo.

"Mi dispiace, generale, ma non ho alcuna intenzione di obbedire" mormorò. Poi rivolto a Laja, "Ora, Laja, dove devo mettermi?".

La giovane si consultò ancora con i colleghi. "Vedete quel traliccio a ore nove, mio signore?".

Eagle scrutò i dintorni fino ad individuare un grosso segmento in cui la barriera energetica si era spenta, lasciando il castello di sostegno esposto come uno scheletro scuro. Era una zona alta e larga abbastanza perché l’F.T.O. potesse rimanervi dentro in piedi, ma si stava deformando velocemente a causa al peso del corpo sovrastante dove l’energia scorreva ancora dai cavi tranciati. A dire il vero, l’intera sezione era circondata da barriera ancora attiva… Se il suo F.T.O. fosse per errore entrato in contatto con quell’energia…

Era un suicidio.

"Devo entrare lì dentro?" chiese, la voce dura.

"Esattamente. Se riuscirete a sostenere il peso di quelle impalcature che stanno cedendo, guadagneremo tempo a sufficienza per togliere energia all’intera sezione e nel frattempo evacuare il quartiere. Una volta che il campo magnetico sarà stato da noi disattivato, la cupola rimarrà con la sua semplice anima di metallo, e allora si stabilizzerà. Potranno avvenire crolli, ma di lieve entità, e noi potremo terminare l’evacuazione di tutti i civili!".

"Molto bene allora…".

"Aspettate!" continuò ancora lei. Eagle sentì che si schiariva la voce. "Voi… sapete benissimo che la trixite di cui sono composti i cavi elettrici assorbe l’energia solare…".

"Certo, le cupole funzionano grazie a quell’energia".

"Precisamente… Ora, saprete anche che il potere che passa attraverso quei cavi è qualcosa di inimmaginabile. Se per vostra e nostra sfortuna uno di quei cavi crollasse sul vostro robot… noi non saremmo più in grado di staccarvi dalla cupola, mio signore".

"Lo so, Laja…".

"Bene… io… volevo solo avvertirvi".

Eagle percepì altre comunicazioni sui canali paralleli; sentì che Calcdas ad-Imu stava contattando il palazzo di Stato, chiedendo di suo padre… Sorrise; questa volta suo padre non avrebbe potuto fare nulla.

Eagle avanzò cautamente. Un cavo sibilò di fianco all’F.T.O., ma lui fu lesto a scansarlo. Planò il più delicatamente possibile sui tralicci in disfacimento e li sentì cigolare, ma essi ressero.

"Laja, sono in posizione!".

"Perfetto! Ora dovete porre le mani del robot esattamente a quattro e a dodici gradi, a destra e a sinistra. No, più su! Ecco, così! Secondo i nostri calcoli il peso dovrebbe riequilibrarsi. Ora dovete solo attendere che la struttura si abbassi fino a voi…".

Eagle, in quella posizione attese. Chiuse gli occhi, concentrandosi, sapendo che di lì a pochi istanti la sua mente sarebbe stata sottoposta a uno sforzo enorme, quello di obbligare l’F.T.O. a rimanere in quella posizione con il peso dell’intera cupola addosso.

La voce di Laja eruppe nel suo abitacolo. "Tre metri… due… uno… Mio signore, sta arrivando!".

Eagle si lasciò sfuggire un gemito quando quell’enorme pressione minacciò di mandargli in pezzi la mente. Con uno sforzo sovrumano ordinò all’F.T.O. di mantenere la posizione, le palme di metallo aperte si richiusero all’istante attorno ai tralicci che continuavano a deformarsi scendendo verso il basso, scricchiolando con un nauseante miagolio di metallo.

"Eagle, no!!".

La voce di Geo; allora era riuscito davvero ad arrivare... Ormai però era troppo tardi; aveva preso posizione, la braccia alzate a sostenere la cupola, Geo non avrebbe potuto fare nulla.

"Maledizione Eagle!!".

Eagle sbuffò e gemette, ma finalmente riuscì a trovare una qualche stabilità; i tralicci sopra di lui e quelli fra le sue mani smisero di franare.

"… sto… bene" sibilò.

"Bene un accidente! Hai una barriera ad alta energia a pochi metri da te! Di sopra, di sotto e di lato! Sei forse impazzito?".

La voce di Laja li interruppe. "Era l’unico modo, signor…".

"Tenente!" ruggì Geo. "E non m’importa come, ma dovete tirarlo fuori di lì! Subito!".

"Non è possibile. Il comandante Amenik si è offerto coraggiosamente di aiutarci ad impedire una catastrofe. La cupola ha rallentato incredibilmente il proprio sgretolamento. Ora abbiamo il tempo per tentare di disattivare l’intera barriera".

"Tentare? E’ una follia! E se improvvisamente l’energia si riattivasse nella zona in cui lui si trova? Ci avete pensato, eh?".

"…Tecnicamente è impossibile. I cavi in quella sezione devono essersi recisi durante il primo crollo e …".

"Tecnicamente un corno! Fatelo uscire di lì!".

"Geo…" Eagle tentò di protestare, ma le parole gli morirono in gola, e tutto ciò che riuscì a pronunciare fu un lungo gemito inarticolato.

"Che cosa c’è? Che sta succedendo? Cos’è quella luce?" urlò Geo.

Da qualche parte, remota, Eagle sentì le grida di Laja e del suo staff. "Non è possibile! Si sta riattivando davvero! I cavi sono recisi! Come può essere, come?!".

"Tiratelo fuori!!".

Tutto si fece ovattato, le percezioni confuse. Sentiva l’aria attorno a sé farsi sempre più calda, respirare gli costava sempre più fatica…

"Ho capito… è il robot, è il corpo del robot!". Laja prese il microfono dell’altoparlante. "L’F.T.O. sta fungendo da collegamento laddove i cavi per il trasporto di elettricità non ci sono più! Amenik, lasciate la presa, lasciatela e venite fuori di lì!! La barriera si sta riattivando! Risucchierà direttamente la vostra energia mentale!!".

Eagle sbatté le palpebre; tutto attorno a sé vedeva una luce che andava via via aumentando d’intensità attraverso il corpo stesso dell’F.T.O.

La barriera in questo piccolo foro… si sta ripristinando.

Non posso lasciare la presa.

La cupola crollerà…

Il G.T.O. era appena intravedibile in quella luce sempre più intensa; Geo cercava di avvicinarsi, ma il campo magnetico che si andava formando lo rigettava indietro. Stava urlando qualcosa, lo sapeva, ma non capiva le parole del suo giovane tenente.

Geo…

Non lascerò la presa.

Nel momento in cui la barriera, con un ultimo, piccolo sussulto, si riattivò completamente, Eagle urlò. Il dolore fu massacrante. Eruppe nella sua testa, come se una mazza implacabile gli stesse spaccando il cranio, e poi si estese ad ogni suo centro nervoso passando lungo la colonna vertebrale; Eagle si arcuò all’indietro contro il sedile in spasmi tremendi.

Gridò e gridò ancora, o almeno credette di farlo, perché non aveva più il senso dell’udito. Tutto era ovattato da una cappa di silenzio per lui quasi fisica; c’erano soltanto quell’intenso dolore e la sensazione di mani gigantesche che gli affondavano nella mente strappandone un pezzo dopo l’altro. All’interno dell’F.T.O., piccolo cuore di una gigantesca macchina, Eagle si trovava a fungere da fonte energetica per l’intera barriera, la quale oltre che attingere dal sole di Ootzam, si mise ad attingere da lui.

Ovunque, una luminosità accecante si diffuse per tutta la cupola che fremette, tremolò e poi sfolgorò di luce violenta. Tutte le persone raccolte sotto la volta, fossero esse soccorritori, militari o civili, s’immobilizzarono, fissando ammutoliti verso l’alto quel soffitto d’oro che prese a brillare più del sole stesso.

Sul G.T.O. Geo fu costretto a schermarsi gli occhi con le mani; le sue invocazioni verso il proprio comandante tacquero, e lui rimase a bocca aperta ad ammirare quella luce bianca, un bianco così intenso che lui non aveva mai visto.

 

 

Dolore.

Geo…

Geo doveva essere a un passo di distanza, ma non poteva fare nulla, nessuno poteva.

Stava morendo.

Sentiva la propria anima dissolversi velocemente con la forza mentale che gli veniva risucchiata via dalla barriera. Presto non ci sarebbe stata alcuna forza d’animo in lui. Era la sua anima a venir prosciugata, il suo spirito stesso. Presto tutto questo si sarebbe esaurito. Lo sapeva. Lo sentiva.

Lentamente il dolore si attenuò. Si disse che non era un buon segno.

Il suo corpo smise di sussultare, e si riadagiò mollemente sul sedile di pilotaggio. Perdeva sangue, copiosamente, dal naso e forse anche dalle orecchie. Teneva gli occhi chiusi, ma ne sentiva il sapore in bocca. Tentò di parlare, e il sangue gocciolò in basso.

Da qualche parte, fuori, la gente stava guardando verso di lui.

Mi ricorderanno per la mia luce…

Una nuova convulsione, più debole delle precedenti, ma che gli fece sbattere violentemente il capo all’indietro.

Una luce bianca più della neve…

Stava delirando. Era al limite.

Sto morendo…

Nessuno sarebbe venuto a salvarlo, nessuno poteva avvicinarsi a una barriera di quella potenza, sarebbe stato respinto dal suo capo magnetico.

Non ho nulla per cui combattere. Nulla per rimanere. Posso anche morire.

Il dolore riprese, intenso, al petto. Era il cuore. Iniziava a cedere all’enorme sforzo.

Eagle si piegò in due e tossì sangue. Crollò in avanti sul pannello di controllo, esanime.

Questa vita non mi è mai appartenuta… E’ stata la vita di qualcun altro…

Un rumore all’esterno.

…morirò sul mio F.T.O. Lo porterò con me…

Era il crepitio del metallo che strusciava su altro metallo… come se qualcuno tentasse di forzare la porta dell’abitacolo.

Non è possibile, nessuno può avvicinarsi alla barriera…

Doveva essere il delirio; faceva cogliere suoni inesistenti a lui che non poteva più udire alcunché in quella cappa di silenzio.

Eppure eccolo il rumore, di nuovo.

Eagle socchiuse gli occhi, un gesto che gli richiese uno sforzo enorme, e proprio in quell’istante una fessura si aprì nell’armatura dell’F.T.O., davanti a lui. Qualcuno stava davvero forzando la porta.

Non poteva essere Geo; Geo non aveva forza mentale sufficiente per ostacolare un campo magnetico di quelle proporzioni… e allora chi?

La fessura si allargò, sempre di più, sempre di più. Comparve la sagoma di una figura… un uomo? E come poteva un essere umano aprire l’abitacolo dell’F.T.O. a mani nude?

Spalle, braccia, capo… era davvero un uomo. Eagle percepì la forza del nuovo venuto, uno scudo di pura energia mentale nel quale si era avvolto per proteggere sé stesso. La forza di lui lo sfiorò appena, ma il suo aroma gli diede il capogiro: fu come una sferzata gelida in pieno volto sotto la calura estiva. Con un sussulto Eagle si riscosse.

"Chi… sei?", sussurrò.

Lo sconosciuto si spinse dentro, ed Eagle percepì la battaglia che questi dovette combattere contro l’incredibile forza della barriera per allungare le mani verso di lui.

Ma le mani giunsero. Lo sconosciuto aveva vinto lo scontro.

Si sentì toccare da quelle mani, che lo afferrarono delicatamente sollevandogli il capo e le spalle dai comandi; percepì la barriera dello straniero inglobarlo e fu allora che udì per la prima volta la sua voce, ma non una voce fatta di parole… Fu una frase diretta nel pensiero che l’uomo gli inviò.

"Resisti. Ora ti tiro fuori…".

Cercò di metterlo a fuoco, inutilmente.

Le mani dell’altro lo sollevarono, lo abbracciarono. Eagle sentì che le sue dita andavano alla placca che aveva sulla fronte: l’amplificatore.

La voce risuonò di nuovo in lui. "Attento… ora ti farà male".

Eagle si abbandonò contro di lui, contro il suo petto, inerme. Avrebbe voluto rispondergli a parole, ma era talmente debole che non riuscì nemmeno a socchiudere le labbra.

Lo so, gli rispose. Fa ciò che devi, e fai presto.

Lo sconosciuto ubbidì. Con uno strattone gli strappò via dalla testa l’amplificatore con tutti i suoi collegamenti nervosi.

Eagle pensava di aver già raggiunto la sofferenza totale, ma si sbagliava. Ciò che sperimentò lo travolse. Capì cosa poteva provare una pianta divelta dalle sue radici nel terreno. Gemette, o gridò, non distinse le due cose. Sapeva soltanto che non riusciva ancora a svenire, segno che la barriera seppur in misura minore stava ancora attingendo da lui.

Lo sconosciuto lo stava trascinando fuori con sé. Sentiva il suo respiro affannato, il battito potente del suo cuore contro l’orecchio che gli teneva sul petto.

…Chi sei?, chiese ancora senza ottenere risposta.

L’esterno. La forza della cupola si avventava su di loro tentando di impedire la fuga, ma lo straniero accrebbe improvvisamente l’intensità della propria forza mentale e la cupola cedette, lasciandoli liberi. In quel momento Eagle si sentì inglobare completamente dal suo scudo mentale di protezione, e finalmente seppe di essere al sicuro.

Il fluire della sua forza alla cupola cessò.

Percepì aria fresca sulla pelle bagnata di sudore e sangue. Ebbe la fugace visione della forma dell’F.T.O. ancora nella sua posizione a sostenere la volta, che si allontanava. O erano loro ad allontanarsi?

L’energia dell’intera struttura stava di nuovo lampeggiando, debole, e d’un tratto, come se gli fosse mancata la fonte principale a cui attingere, si spense.

Sentì di sedere su qualcosa di morbido, forse su di un animale, il che era del tutto impossibile, e percepì anche quelle braccia che ancora lo tenevano stretto.

La voce di Geo risuonava da qualche parte, distante, urlando il suo nome.

Ma lui non gli prestò attenzione. Cercava di sollevare la testa per vedere in volto il suo salvatore, ma riuscì solo a ricadere contro il suo collo.

Aveva la pelle morbida, calda, e un aroma particolare. Mosse le labbra contro quella pelle, la testa abbandonata sulla sua spalla, sussurrando appena:

"Ti prego… dimmi… il tuo nome".

L’incoscienza lo prese. Ma prima del vuoto, prima del silenzio, udì la sua voce, la vera voce di quello sconosciuto. E l’ultimo pensiero che riuscì a registrare fu che quella voce, nonostante fosse profonda e un po’ lugubre, era una voce giovane.

"Il mio nome… è Lantis".

Furono quelle poche, semplici parole, ad accompagnarlo nel buio.

 

 

 

 

GEO

 

Da quanto tempo era fermo in quella posizione? Un’ora? O forse erano due? Si mosse sulla poltroncina sentendo i muscoli irrigiditi protestare. Si chinò in avanti, i gomiti sulle ginocchia e la testa ciondolante.

"Signore, le ho detto che non può passare!". Geo sollevò il capo udendo una delle infermiere protestare. La piccola donna che prima, vedendolo solo e preoccupato su qui divanetti da ore, si era mostrata così gentile con lui, portandogli una bibita dal piano di sotto, ora si stava agitando davanti a un uomo alto un metro e novanta al quale sbarrava il passo.

Soffocò un sorriso e si alzò, raggiungendo i due.

"Tutto a posto, signorina. Lui è con me". La donna se ne andò, scusandosi.

"Sono contento che tu sia venuto, Ray", mormorò Geo. Rimase immobile qualche momento, non sapendo bene cosa fare. Si guardò in giro, per i corridoi immacolati non c’era nessuno.

"Come stai, Geo? Sembri stanco…".

Fece spallucce. "Non ho nulla. Sto bene".

"Tu non stai bene. Hai le occhiaie profonde tre dita e un pallore spettrale".

Geo scosse la testa. Non riusciva a guardare il fratello negli occhi.

"Geo, guardami".

Non ubbidì, voltandosi di scatto e iniziando a camminare. "Te l’ho detto, sto bene! Sei sempre così apprensivo fratellone! Neanche fosse capitato a me! Io non ho fatto nulla, te l’ho detto subito, quando ti ho chiamato…". Una pausa, poi la voce gli si alzò di un tono "… Non mi è successo un bel niente, sono sano e tutto intero, nemmeno un graffio… Maledizione, non mi è successo un accidente!!". Aveva urlato. S’immobilizzò davanti a una pianta in un angolo della sala d’aspetto, coprendosi il volto con le mani. "Io… non ho fatto… niente", mormorò.

Ray gli andò vicino, e quando lo sfiorò le spalle di Geo sussultarono.

"Tu non hai nessuna colpa, Geo".

"E invece sì!".

Scosse a malapena il capo, l’aria triste. "Sai bene che non potevi fare nulla".

"Potevo fermarlo!". Geo si volse di scatto, le lacrime agli occhi, furente. "Potevo impedirgli di fare una sciocchezza simile! Potevo costringerlo ad andare al quartier generale, come era mio dovere fare, invece di accompagnarlo al Poligono! Potevo tirarlo fuori… tirarlo fuori da… da tutta quella luce!!", singhiozzò.

Ray tentò di abbracciarlo ma Geo, agitandosi, si divincolò.

"Lasciami!".

"Non potevi fare nulla Geo!".

"Io l’ho lasciato lì, l’ho lasciato dentro quella barriera! Ho visto che si stava riattivando, me ne sono accorto prima di chiunque altro, perché ero lì, a due passi da lui! In quel momento avrei potuto gettarmi contro di lui con il G.T.O., avrei potuto costringerlo a mollare quei dannati tralicci e venir via!!". Piangeva ora, dandogli la schiena, le braccia avvolte attorno al corpo.

"Sai benissimo che lui non te lo avrebbe permesso… e che non ti avrebbe dato ascolto". Ray sorrise tentando nuovamente di abbracciarlo. "Sappiamo entrambi quanto sia testardo quel ragazzo, vero Geo? Lo sappiamo bene tutti e due". Geo questa volta non si sottrasse, ma si abbandonò invece contro il fratello, calmandosi. "Sai…" proseguì Ray, "quando un anno e mezzo fa scelse te e non me come suo secondo… io ne fui deluso. Credo di aver provato una sorta di gelosia nei tuoi confronti. Ma se quel ragazzino ti ha scelto, sono sicuro che avrà avuto i suoi buoni motivi, e che si fidi di te ciecamente…".

"Non è un ragazzino", mormorò tenendo gli occhi chiusi. "Se lo chiami a quel modo si arrabbia".

Ray rise. "Sì, lo so. Me lo ricordo. Mi ricordo anche di quella volta, un paio d’anni fa, quando ero ancora sotto il suo servizio: un colonnello gli rivolse cenni poco rispettosi alle spalle, parlando con altri del suo seguito; lui l’udì, gli fece un gran sorriso, uno dei suoi sorrisini candidi di fanciullo, e poi lo mandò a gambe all’aria nell’Arena in men che non si dica. Allora usava ancora un G.I.G.S. sgangherato, nulla a che vedere con i vostri odierni giocattoloni".

Anche Geo suo malgrado sorrise. "Sì, me ne ricordo anch’io. Ero solo una recluta… servivo ancora sotto il tuo comando".

Ray si chinò su di lui da dietro, avvicinando il volto al suo. "Ne hai fatta di strada da allora, fratellino. E voglio che tu sappia che sono fiero di te, qualunque cosa oggi ti abbiano detto".

Geo s’irrigidì. "Lo hai già saputo?".

"Non ho saputo un bel niente, ma non mi serve la palla di vetro per indovinare ciò che può essere successo in queste ore". Lo lasciò andare indicandogli la poltroncina. "Allora, ti va di sederti e di raccontarmi tutto con calma?".

Geo gli parlò della loro esercitazione al Poligono, dell’allarme percepito da Eagle e dello sfondamento del Poligono stesso. Poi si fece cupo.

"Non potevo seguirlo, non subito. Ho dovuto aspettare che evacuassero parte dell’hangar e dei laboratori sovrastanti, quelli del primo piano, poi ho abbattuto una parete, e sono uscito. Ho volato come un pazzo, giuro che sentivo che sarebbe successo qualcosa! Eagle, lo sai, sembra che non aspetti altro che tuffarsi in ogni sfida…

"Quando sono arrivato, il comandante era già in posizione. Si era messo in uno dei segmenti in cui la barriera si era disattivata, e stava sostenendo dei tralicci che minacciavano di crollare. Ma la situazione era seria, e dannatamente pericolosa. Tutto attorno al segmento in cui lui si trovava, la barriera della cupola era attiva; certo, lampeggiava un po’, era chiaro che fosse instabile dopo il crollo dell’anello centrale: tuttavia c’era.

"Gli ho detto di uscire, l’ho ingiunto anche a quel branco di scienziati da strapazzo che lo avevano mandato là, ma lui non ha voluto darmi ascolto. E poi…". S’interruppe.

Il fratello gli mise una mano sulle spalle. "Avanti, Geo, continua".

"Poi è successo. Il segmento in cui lui si trovava ha incominciato a riverberare, prima debolmente, poi sembrava essere divenuto come… come uno specchio", gesticolò con la mano, "una sorta di superficie a specchio… Le scariche elettriche che lo percorrevano mi hanno subito allarmato. In quel momento avevo capito che si stava riattivando… era allora che avrei dovuto intervenire".

"Non puoi fartene una colpa. Credi che se io fossi stato là al tuo posto avrei avuto la prontezza di riflessi per reagire a una cosa simile? Quanto sarà durato? Due, tre secondi?".

Scosse la testa. "Non più di due credo…".

"Ecco, appunto. Cosa speravi di fare in quel poco tempo?".

Geo sollevò il capo e puntò gli occhi in quelli di lui. "Avrei dovuto dare la vita per lui. E’ questo il mio compito".

Ray non seppe cosa rispondergli; non aveva mai visto suo fratello in quelle condizioni. Dannazione, non aveva nemmeno mai visto suo fratello piangere! Sembrava sommerso dal rimorso per non aver agito, dal senso d’impotenza crescente mentre il suo comandante giaceva a due camere di distanza in coma da sforzo…

Geo tornò a fissare davanti a sé. "Dio, Ray… Avresti dovuto vedere quella luce… era qualcosa d’indescrivibile. Non credo di aver mai visto nulla di simile".

"Oh, ma l’ho vista. Ero a chilometri di distanza con la mia xiupak a-v-p. Ho visto la cupola brillare come una prisma di luce".

"Feriva gli occhi…", la voce di Geo s’incrinò ancora una volta, ma si contenne. "Sono stati qui" disse poi, il tono piatto. "I superiori, intendo".

Ray sospirò. "Ecco a cosa mi riferivo poco fa. Non bisogna essere un mago per capire che hanno addossato la colpa di tutto su di te. Perché… l’ hanno fatto, vero?".

Geo annuì. "Sono venuti qui MacAlen, Jory e Asume. Con loro c’era anche il braccio destro di Galad Amenik, quell’idiota di Okar".

"Cosa ti hanno detto?".

Fece un sorrisino amaro. "E cosa credi che mi abbiano detto? Che sono sospeso dal servizio, che è in atto un procedimento contro di me, che bla, bla, bla…". Strinse gli occhi mordendosi le labbra. "…Ray… suo figlio è qui in coma per aver salvato migliaia di persone, e lui non ha trovato di meglio che mandare tre tirapiedi e il suo tuttofare personale…". Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. "Non è neanche venuto di persona per vedere come sta suo figlio!!".

"Calmati ora...". Gli mise una mano sulle sue, tremanti. "Senti, quali sono le condizioni di Eagle?".

Geo si tirò indietro, sciogliendosi dalla presa. Fece spallucce, "I medici ancora non si pronunciano. Fisicamente il problema principale sembra essere stato il cuore; ha sofferto parecchio per lo sforzo. Ha avuto anche una qualche emorragia interna: era coperto di sangue quando quell’uomo l’ha tirato fuori. …Dicono che sia praticamente un miracolo che il cuore non sia scoppiato in quei due minuti e mezzo…".

"E’ rimasto così a lungo nella barriera?" chiese Ray sbalordito.

"Già".

"E la mente?".

Geo sbuffò. "Quello è il vero problema. Non lo sanno. Non sanno se e quando si riprenderà, né tantomeno come sarà dopo. La forza mentale di Eagle è eccezionale, però è sempre un essere umano: tutti abbiamo i nostri limiti. Per ora sembra che la sua attività cerebrale sia debolissima".

"Non ci voleva…".

Rimasero in silenzio a lungo, ascoltando i rumori dell’ospedale.

"Ray, i tuoi sono riusciti a trovare quell’uomo? L’uomo che ha tirato fuori il comandante?".

"No. Stiamo setacciando la città, ma per ora non lo abbiamo ancora trovato".

Geo si fissò le mani. "Non so chi sia, ma se non fosse stato per lui a quest’ora…".

"Non dirlo! Ascolta, le cose sono andate così, non puoi farci nulla! Ora dobbiamo solo ringraziare la nostra buona stella che ci ha concesso di avere qui il comandante ancora vivo. Solo questo importa!".

"…Hai ragione. Come sempre d’altronde, vero fratello?".

Il suo sorriso era triste, tirato.

"Geo, voglio che vai a casa a riposarti. Sono più di dieci ore che sei qui in ospedale, senza contare che sei tornato solo ieri da Jilaja, dopo aver passato una settimana a far rilevamenti".

"Sto bene, davvero".

"Geo…".

"Non voglio andarmene da qui. Punto e basta! Voglio esserci quando si sveglierà, è chiaro?".

Ray lo guardò stupito. Geo aveva parlato con un tono che non ammetteva repliche, gli occhi grigi saettavano determinazione. Suo fratello lo sorprendeva sempre più. "D’accordo" gli disse. "Ma allora mettiti a dormire qui, sul divano. Io rimarrò con te; se ci saranno delle novità ti sveglierò". Geo fece per obbiettare, ma lui non volle sentire ragioni.

"Voglio che dormi, Geo!".

"D’accordo, d’accordo!". Si distese, raggomitolandosi il mantello sotto la testa. Dopo qualche minuto si era già assopito, il respiro regolare, vinto dallo sfinimento.

Ray sorrise ammirandolo dall’alto: indossava sempre quelle maglie sbracciate che erano state il tormento del suo addestratore all’accademia e portava ancora i capelli sparati in aria come se fosse appena uscito da una centrifuga.

S’incupì.

Ma tutto il resto in Geo era cambiato.

Era diventato alto quanto lui, ormai. Uno e ottantacinque o giù di lì. Le spalle gli si erano ingrandite, i bicipiti erano ben fatti e potenti forse più dei suoi. Doveva smettere di chiamarlo fratellino, ma le abitudini, soprattutto quelle affettive, erano dure a morire.

Geo era divenuto un uomo. Quando era avvenuto il cambiamento? Lui non se n’era accorto. Ormai da tempo si vedevano raramente, praticamente da quando Geo era entrato a far parte del gruppo personale di Ealge.

Forse sapeva perché il giovane Amenik aveva scelto proprio Geo. Forse sapeva perché quei due erano andati d’accordo fin dall’inizio.

Geo era più vecchio e maturo del comandante, ma era anche un burlone e un buon amico di compagnia. In qualche modo questa sua ilarità sembrava compensare la compassata rigidità di Eagle. Quel ragazzo era spesso sorridente… sì, sorrideva a tutti. Ma i suoi occhi rimanevano la maggior parte delle volte freddi e di una profondità che faceva quasi paura.

Geo, al contrario passava come uno scapestrato; molti lo consideravano una delle ruote di scorta peggiori che l’esercito avesse sfornato.

Pochi avevano visto Geo in azione. In pratica, solo coloro che dovevano a lui di essere ancora vivi…

Fissò il volto del fratello. Le cicatrici dell’incidente risaltavano più che mai nel suo viso stanco e scavato, indurendogli l’espressione. Quelle cicatrici gli erano valse due medaglie al valore militare quando aveva avuto solo diciassette anni…

Ray e tutto il suo reparto dovevano la vita a Geo.

Emise un lungo sospiro. Sospeso! Quei palloni gonfiati avevano osato sospenderlo! Branco d’idioti! Se il procedimento finiva in aula, Geo non sarebbe uscito indenne da un processo di alto grado militare, nonostante i suoi passati atti di eroismo. Non ci voleva…

E quello stupido non pensava ad altri che ad Eagle.

Si accigliò. Geo non aveva mai pianto di fronte a lui, almeno non negli ultimi quattordici anni.

Quando aveva ricevuto la sua chiamata, poco prima, anche se Geo tentava di controllarsi, lui aveva intuito subito che era profondamente sconvolto. Aveva fatto in modo di raggiungerlo al più presto. Ed infatti non appena lo aveva visto, Geo era scoppiato.

Cosa significava questo? Decise che era una reazione un po’ esagerata, troppo esagerata per il fratello che ricordava di avere. Forse si era sempre sbagliato, e lo aveva giudicato in modo errato… o forse suo fratello era cambiato.

Sperò di sbagliarsi. Perché se davvero Geo era cambiato, significava che era cambiato a causa di Eagle, per Eagle, e questo cambiamento gli presagiva solo guai.

Non voleva che suo fratello avesse problemi, e soprattutto non voleva che suo fratello soffrisse… per qualsiasi cosa… e nemmeno per qualcuno.




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