PS: Ricordarsi di vivere
parte VI
di Vickysweetgirl & Jivri'l
Viktor non poteva credere ai suoi occhi. Digrignò i denti cosi tanto che sentì le mascelle contrarsi fino allo spasimo, strinse i pugni fino a far diventare le nocche quasi bianche cercando invano di controllare la rabbia che sentiva crescere dentro di sé impadronendosi di tutte le sue facoltà. Davanti ai suoi occhi si presentava uno spettacolo orripilante: Erast, mezzo nudo, cavalcioni su quel figlio di puttana di Haym, che aveva sul viso un’espressione di puro godimento e, purtroppo per loro, la luce soffusa che regnava nella stanza non riusciva a nascondere la scena. I gemiti dei due erano incontrollati, i loro risolini, le parole biascicate, forarono le sue orecchie e quei suoni gli arrivavano come se qualcuno gli avesse malamente graffiato il cervello. “Si, si… mmm… piccolo così…”la voce di Haym era quella più alta e si stagliava sopra i loro mugolii confusi “lo so… lo so che aspettavi anche tu questo momento… ahh!”. Con un colpo di reni mise Erast, totalmente passivo, sotto di lui; le mani gli stringevano rozzamente i fianchi, il bacino spingeva in maniera forsennata contro di lui, il membro dentro il suo corpo. Perché Erast non reagiva? Perché lo lasciava fare senza quasi muoversi? Il giovane aveva sul viso un’espressione beata, la bocca aperta; proruppe in un riso isterico. In quei pochi secondi qualcosa in Viktor era cambiato. Si avvicinò deciso ai due; un’espressione terribile sul volto. Se Erast lo avesse visto, avrebbe detto che rassomigliava a un dio irato. Afferrò il biondo per la maglia e lo lanciò contro delle sedie, Haym gemette di dolore. “Che cazzo succede?!” gridò pieno di collera sia per quel suo gioco eccitante interrotto sia per il colpo ricevuto “Chi cazzo sei?!”. La luce del lampadario venne accesa da Viktor che lo guardò truce, sul viso l’espressione della sua collera. “Sono quello che adesso ti ammazza”. Il viso era diventato una maschera, gli occhi glaciali sembravano quasi bianchi, la voce era metallica. “Vi-Viktor..!” balbettò Haym “tu… cioè noi non… calmati…” disse rialzandosi, le mani in avanti. Viktor balzò verso di lui afferrandogli il colletto. “Viktor… calmati, ne possiamo parlare, eh?” cercò di negoziare. “Piccolo bastardo” sibilò. “No, no Viktor! Ehi, ehi!!” il bruno lo prese per il mento e gli sbatté la testa contro il muro, forte. “Ah! Cazzo, Vik… ahh, cazzo!” si lamentò vedendo un rivolo di sangue scorrergli lungo il viso. “Oh, si, vedrai che gli faccio al tuo cazzo ora!” ringhiò Viktor agguantandogli il membro. “Oddio fermo!! Cazzo, fa male, lascia… lascialo!” gridò Haym gemendo, la voce rotta dalla paura e dalla droga. “Ti piace fotterti i ragazzini, eh? Adesso ci penso io, non fotterai più nessuno, te lo stacco!” latrò Viktor; le sue mani di appassionato amante, conficcarono le unghie in quel membro ormai floscio, senza pietà. Haym gridò come un animale ferito. “Viktorrrrrrrr! Ahhhhhhhhh! Bastaaaa!!” il biondo si contorse dal dolore; l’altro lo bloccava al muro mentre lo torturava. Haym era senza via d’uscita. “Ma come? Non ti piace?” domandò Viktor ghignando. Tornò serio improvvisamente “Tu infanghi la parola fratello”. “Oh, cazzo, oh cazzo, lascialo, lascialo Viktor, ti prego!”. La stretta divenne più forte ed Haym strillò di più, mordendosi le labbra, facendole sanguinare copiosamente. Viktor gli prese la testa con entrambe le mani, guardandolo negli occhi bagnati di lacrime. “Van… Vachmedin… per te sono Van Vachmedin, merda” disse in un sussurro prima di sbattergli il capo contro il proprio ginocchio, più volte, brutalmente. Il viso di Haym era una maschera di dolore, di lacrime e di sangue, quasi irriconoscibile; non aveva più nemmeno la forza di supplicare. Dopo parecchie ginocchiate sulla faccia, il bruno lo buttò per terra, malamente e gli diede un paio di calci nello stomaco. “Vattene” parlò a denti stretti. Haym non se lo fece ripetere due volte, si rialzò a fatica, scivolando più volte, ma alla fine riuscì a correre fuori, dopo aver sbattuto la testa contro la porta. Il rumore dei suoi passi si affievoliva man mano che il biondo si allontanava. Viktor riprese fiato, il suo completo era sgualcito, la vena sulla sua tempia pulsava dissennatamente. Si voltò a guardare la figura rimasta a terra. Erast aveva la giacca calata sulle braccia, la camicia completamente aperta ed era privo di pantaloni. Graffi si stagliavano sul suo bianco petto e sul viso, c’erano i lividi di morsi sul collo, però lui non sembrava accorgersene. Sul volto conservava ancora quell’espressione beata, la bocca semiaperta, gli occhi socchiusi, privi di lucentezza. Il bruno gli si avvicinò lentamente. “Che cosa hai fatto?” chiese con tono di voce basso, roco, spezzato dall’emozione che non era riuscito a controllare di fronte a quella scena disgustosa “Perché non ti sei opposto, eh?”. Erast si mise a sedere, si portò una mano alla fronte, si alzò in piedi guardando l’altro, che capì. Gli sembrò di stare per essere risucchiato in una voragine insieme ad Erast. “Cazzo, sei completamente fatto!” esclamò incredulo “Per quello i barbiturici.... Hai cercato di farti la droga in casa?!” la domanda retorica uscì tremante di rabbia dalla sua bocca.
“Viktor… sei tu” sorrise “Haym… Haym non ha
finito… dov’è?” la voce quella di un ubriaco, debole, senza la sua solita
grinta. “Ahi!!” gemette il rossino portandosi una mano sul punto colpito “cazzo, mi volevi ammazzare?” chiese riscossosi dal torpore in cui la droga lo aveva trascinato; ma gli effetti persisterono. Viktor lo guardò truce, nessun sentimento di tenerezza o pietà nella sua espressione. “Forse non ti è chiara la situazione idiota” gridò facendolo agghiacciare. Erast, che iniziava a capire quale pericolo stava correndo, si rialzò goffamente, scivolando contro il muro, tentando di allontanarsi, senza staccare gli occhi dall’altro. Infatti egli gli si avventò contro, lo afferrò per la camicia e lo alzò da terra, sbattendolo contro la parete, tremando; lo sguardo ormai divenuto di fuoco. Terrore negli occhi del più giovane.
“Viktor…” balbettò in un flebile soffio. Smise di prenderlo a cazzotti e lo afferrò per i capelli, alzandogli leggermente la testa da terra, impedendogli di sottrarsi alla raffica di schiaffi che seguirono. Quelle grandi e forti mani lo colpirono ripetutamente in viso, schiaffeggiandolo forte. Il rosso gemette senza poter far altro se non chiudere gli occhi e serrare le labbra. Dopo un tempo che gli parve infinito, tutto finì. Viktor si guardò la mano: era sporca di sangue, infatti il labbro inferiore di Erast presentava un lungo taglio rosso scuro, che rigurgitava sangue bollente. Gli occhi del giovane anche se chiusi tremarono, la sua bocca tremò. In quell’attimo di distrazione, Erast si girò a pancia in giù, tentando di strisciare via, ma Viktor gli fu subito sopra, prendendogli un braccio e bloccandoglielo dietro la schiena; il rossino urlò. “Aaaaaah Viktor!” l’uomo tirò ancora più indietro quel braccio, facendogli assumere una posa innaturale “Viktor… mi spezzi il braccio così! Aaah…” si lagnò. Il moro si abbassò per parlargli nell’orecchio. “Pensi di risolvere tutto con quella schifezza non è così?” alzò la voce “ Pensi che quello schifo risolva i tuoi problemi, che ti faccia scordare quello che vorresti dimenticare per sempre?!” iniziava a sbraitare “La vita è tua brutto idiota! Sta a te cambiarla o meno. Ma non puoi pretendere di risolvere tutto a questo modo! Non puoi cambiare la tua vita, renderla migliore, mettere da parte il passato se ti getti in un futuro ancora più terribile. Spiega le ali moccioso che non sei altro!” Viktor lo alzò, senza lasciargli stare il braccio e lo poggiò sul pianoforte, il petto su di esso, piegando il suo corpo in due. Lo schiacciò lì, sentendolo tremare, piangere, singhiozzare. “Che cazzo ne sai tu?!” urlò il ragazzino tra i singulti “Quando tutti ti guardando solo con bramosia, lo sai cosa vuol dire? Quando vogliono tutti solo scoparti, quando non hai nessuno! Il mio corpo la richiede quella merda e sto bene quando la prendo, così come la mente, che si libera da ogni pensiero! Io…” scoppiò a singhiozzare sentendo che la testa gli girava incontrollatamente. “Tu sei un cretino” affermò Viktor che sembrava essersi calmato. Fece voltare il ragazzo, sempre tenendogli fermo il braccio dietro la schiena; lo guardò negli occhi, con una mano gli accarezzò il viso, sfiorandogli i capelli, ormai scompigliati e intrisi di sangue che gli usciva anche dal naso. “Non vedi come ti rende la droga? Tu sei bello e i tuoi occhi brillano di fuoco ardente, sei un ribelle Erast. Non lasciare che questa cosa spenga quel fuoco. Non sei tu così, non lo capisci?” lo fece girare verso un lungo specchio appeso alla parete “Non vedi come ti sei ridotto?” gli chiese con voce bassa, come quelle che spesso usano le madri per calmare i propri piccoli. Erast osservò la propria immagine nello specchio scheggiato, evidentemente a causa di qualche colpo di Viktor. Aveva la pelle cerea, secca, gli occhi privi di lucentezza, un azzurro sbiadito aveva preso il posto del suo peculiare viola, le labbra screpolate. Sul volto sgorgavano piccoli rivoli di sangue, la camicia era quasi strappata, era nudo senza pantaloni. In quel momento paragonò se stesso ad un verme. Abbassò la testa, mortificato, la vergogna lo assalì. Non aveva smesso un attimo di tremare, un po’ per gli effetti della droga, un po’ per il turbamento. Pianse ancora. Viktor sospirò, lo prese in braccio. L’altro non oppose la minima resistenza. Il bruno lo guardò severo. Erast si era appoggiato al suo petto, gli occhi chiusi, le labbra tremolanti, il corpo scosso e ferito, il viso pieno di lividi e sangue. Forse aveva esagerato. Se pensava ancora che qualcuno lo aveva profanato, che altre mani lo avevano toccato, accarezzato, sfiorato dove non dovevano, che labbra e denti lo avevano succhiato e morso, che il suo corpo era stato… Scosse la testa. Si, una gelosia atroce lo aveva divorato nel momento in cui lo aveva visto avvinghiato all’altro, una gelosia disumana, che mai nella sua vita aveva provato. Non poteva far altro che ammetterlo con se stesso. Chiuse gli occhi, tentando di evitare il rimontare della rabbia in lui. Se ci pensava troppo sarebbe corso a cercare Haym ovunque si fosse nascosto e stavolta non era sicuro che si sarebbe fermato in tempo dall’ucciderlo.
Lo guardò di nuovo, con una sfumatura di
tenerezza.
Nella limousine Erast si accoccolò fra le sue braccia e lui lo aveva tenuto stretto, mentre Rosalie guardava con apprensione il suo giovane amico.
Entrò in casa, lasciando la porta aperta; Cindy era ancora dentro, sdraiata comodamente sul divano, con una lunga veste da camera addosso, stava sorseggiando un cocktail. Non appena vide entrare Viktor con in braccio Erast, la sua espressione si fece rabbiosa. “Che stai facendo con quella puttana?” chiese la donna alzandosi a piedi scalzi, correndo dietro all’amante. Viktor si fermò e si voltò fulminandola con lo sguardo. “Smettila di chiamarlo puttana” il suo tono non ammetteva repliche, quindi portò Erast nella sua stanza, lo posò sul letto delicatamente e gli tolse gli abiti, facendo il più piano possibile. Il giovane era svenuto durante il viaggio in macchina. Cindy stava appoggiata alla porta, le braccia incrociate sul petto; un sorriso malizioso sul volto. “Dove lo hai raccolto? Su qualche marciapiede mentre faceva la marchetta?” domandò sarcastica. “Bada, stasera non sono proprio dell’umore adatto per sopportare le tue frecciatine velenose” disse con tono perentorio. “Cosa? Mi… stai cacciando via per la prima puttana che passa?!” esclamò la bionda sconvolta e scandalizzata. “Lui non è la prima puttana che passa… Cindy, vattene” finì di dire stancamente cercando di sbollire la rabbia di prima. La ragazza strinse i pugni sdegnata fino a conficcarsi le unghie nei palmi, si morsicò le labbra irata, senza aggiungere altro uscì sbuffando. Da lontano si sentì sbattere la porta. Viktor tornò a dedicarsi ad Erast, prese dell’acqua e un panno e si sedette sul letto accanto a lui. Gli tamponò le ferite che lui stesso gli aveva procurato, pulendolo dal sangue e disinfettando i vari graffi infertigli dal “fratello”. Si inginocchiò accanto a quel letto e lo guardò dormire. Posò una mano sulla sua, stringendola piano; poggiò la fronte sul letto, provando un senso di appartenenza che lo stava travolgendo come un uragano.
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