P.S. Ricordarsi di vivere

 

parte I

 

di Vikysweetgirl & Jivri'l

 

 

 

Il suono dei passi risuonava piano nell’aria spezzata dal rumore della pioggia che cadeva velocemente al suolo, il vento con la sua carezza rubava agli alberi le ultime foglie e le depositava a terra. L’atmosfera decadente si abbinava perfettamente alla sua anima, grigia come quel cielo d’inverno.

La figura che a quell’ora della notte si aggirava per la città si strinse nel cappotto rabbrividendo.

Faceva un freddo cane.

Ormai la pioggia si era ridotta a delle rare gocce di perle invisibili che scendevano dal cielo nero, perciò il ragazzo uscì da sotto la tettoia di una casa e si incamminò sul marciapiede, lungo una strada quasi deserta.

Scalciò una lattina di coca cola e si aprì leggermente il cappotto, andò con le mani alla propria nuca, tolse un nastro nero liberando cosi la massa di capelli che si posarono dolcemente sulle sue spalle.

Dopo alcuni secondi, una macchina accostò un po’ più avanti da dove si trovava, quindi accelerò e andò ad aprire la portiera per entrare.

Un secondo.

In un solo secondo vide la propria immagine riflettersi nel vetro del finestrino.

I capelli ricci a causa dell’umidità gli incorniciavano il bel volto perlaceo, gli occhi chiari, che spesso si confondevano fra il blu e il viola, erano grandi e limpidi, le labbra erano storte in una smorfia di freddo.

Fece forza nella mano, nel corpo e soprattutto nel cuore per aprire la portiera di quell’ennesima automobile.

Con movimento leggero, sensuale, sovrumano, si sedette accanto ad un uomo sconosciuto.

Un altro.

 

Niente di diverso, nulla di nuovo, sempre la solita nausea.

Chiuse gli occhi mentre si avvicinava al sesso dell’uomo, glielo accarezzò con la punta delle dita, con fare provocante, quello ansimò diventando duro.

Gli calò i boxer, il membro dell’uomo svettò alto e gli sbatté sulle labbra.

Ebbe l’impulso di ritrarsi, ma non lo fece. In fondo quello era il suo lavoro, il mestiere più antico al mondo.

La puttana.

Lo carezzò, lo baciò, poi lo fece affondare nella propria bocca.

L’uomo chiuse gli occhi cominciando a gemere.

Invocò il nome di una donna, forse sua moglie. Quasi gli scappò un sorriso. Era strano pensare a una donna mentre si stava scopando un maschio. Mah, la mente umana era troppo complessa o forse troppo stupida per essere compresa. Si alzò languido e denudò interamente l’altro, lo prese per mano e lo fece mettere supino nel letto.

Giocò ancora con lui, sapeva che facendo cosi si conquistava i clienti che lo reputavano il più abile in assoluto a letto.

Si morse un labbro e leccò il capezzolo turgido dell’altro, mentre si occupava del suo pene; gli fece allargare le gambe e si accucciò al loro interno, accolse nuovamente il suo sesso fra le labbra e con un dito gli violò l’interno.

L’uomo si irrigidì e lo fermò.

“Cosa cazzo credi di fare?!” gli chiese con voce arrochita dal piacere e dalla rabbia di quel gesto.

Erast si leccò le labbra e si avvicinò al suo orecchio.

“Hai paura? Tranquillo, non farò nulla che a te non piace, ma penso che gradirai, lasciami fare, in fondo mi paghi per questo no?” gli rispose e gli infilò la lingua nell’orecchio.

Senza indugiare oltre tornò a fare il lavoro di prima e in breve portò l’uomo a un orgasmo che lo lasciò senza fiato.

Sorrise compiaciuto nel frattempo che gli si mise cavalcioni e cominciò a baciarlo, a dargli piccoli morsichi, a leccarlo.

Lo faceva impazzire. Lo sapeva.

Ben presto l’altro si eccitò nuovamente, quindi si calò su di lui, penetrandosi.

Il dolore era sempre presente, quel deprecabile dolore ma non poteva mostrare sul proprio viso il male, l’umiliazione, lo schifo che provava.

Si muoveva alternando affondi profondi con quelli che lo erano meno, lo baciava, lo stava facendo uscire fuori di senno.

Si sorprendeva sempre nel constatare quanto gli uomini fossero deboli di fronte al piacere, di come si facessero trascinare, di quanto soffrivano per raggiungerlo.

Nella stanza, ormai, si sentivano solo gemiti fino a quando l’uomo non venne copiosamente con un grido e si lasciò andare sul materasso come un corpo senza vita.

Erast gli si mise accanto aspettando che il respiro gli tornasse regolare.

“Nessuno…” disse quello con voce rotta; Erast lo guardò incuriosito “…nessuno mi ha mai fatto godere cosi tanto” gli confessò.

Il ragazzo sentì qualcosa muoversi nello stomaco, si alzò dal letto con un balzo.

“Scusami, potrei farmi una doccia?” domandò con urgenza.

“Certo” sussurrò l’altro chiudendo gli occhi. Gustava ancora il piacere che aveva provato e si disse che aveva fatto un’ottima scelta quella sera.

Erast corse verso il bagno e si accasciò sul pavimento dopo aver chiuso la porta; avevo a stento trattenuto un conato di vomito.

Ansimò dolente mettendosi sotto la doccia.

L’acqua non avrebbe mai potuto lavare dal suo corpo deturpato il sesso degli altri uomini, il loro sudore, il loro seme. Non avrebbe mai potuto togliere la sporcizia del suo corpo né della sua anima. Rise piano, amaramente. E pensare che aveva soltanto diciotto anni!

Se avesse continuato cosi sarebbe giunto o alla pazzia o qualcuno lo avrebbe presto trovato con una fune attorno al collo.

Uscì da sotto il caldo getto dell’acqua e rabbrividì, si asciugò in fretta e tornò nella camera accanto dove si rivestì e prese i soldi che gli spettavano e anche una considerevole somma in surplus, regalo per essere stato cosi bravo. Baciò l’uomo sulle labbra e uscì.

Si guardò un po’ intorno.

Ormai era l’alba, l’oscurità del cielo era spaccata dalla luce arancione del sole che lottava per sorgere e allontanare la notte fredda.

Davanti a lui si stagliava l’autostrada e si rese conto di trovarsi in un motel dove dormiva chi era in viaggio o chi si voleva farsi una scopata in santa pace.

Si appoggiò al muro e chiuse gli occhi, mentre sentiva che tutto attorno a lui girava come un vortice del quale non avrebbe mai trovato l’uscita.

Istintivamente portò la mano nella tasca dei pantaloni.

Si maledisse per essere stato cosi idiota, eppure sapeva che non ce l’avrebbe fatta a resistere psicologicamente, quindi prese un piccolo pacchetto verde, lo aprì e ne trasse fuori una piccola pasticca bianca.

Con mano tremante se la portò alle labbra, le dischiuse con un misto di impazienza e di paura e la lasciò disperdere nella bocca. Sapeva che solo quello avrebbe potuto farlo star meglio, solo quello avrebbe potuto dissipare i suoi oscuri pensieri, la sua tristezza e il disgusto per sé stesso. Iniziava già a sentire gli effetti di quella piccola magia…

Ora poteva tornare a casa e affrontare anche suo fratello.

 

 Inserì la chiave nella toppa. Aprì la porta e come al solito venne investito dall’odore di chiuso e di sigaretta. Il fumo aleggiava nell’aria, creando una sorta di nebbiolina nella minuscola stanza.

“Erast?” chiamò una voce sgradita all’udito.

“Si” rispose stancamente.

Dal piccolo divano si alzò un ragazzo dal fisico asciutto, anche troppo ossuto e ciò era accentuato dalla sua notevole altezza. Aveva i capelli biondi, tagliati corti, come chi non ha voglia di starli a pettinare, gli  occhi celesti, quasi vitrei, per niente belli o profondi e una lieve barbetta di qualche giorno. Tra le labbra teneva una cicca di sigaretta, guardava il fratello con un sorrisetto sardonico.

“Gli affari come vanno?”.

“Bene, ho guadagnato un bel gruzzoletto stanotte”.

“Perfetto! Fa vedere…” ordinò allungando la mano.

Erast esitò un istante, poi estrasse dalla tasca dei jeans i soldi guadagnati con tanto disgusto; li guardò un attimo prima che il fratello glieli strappasse quasi dalle mani. Si mise a contarli. Proruppe in un fischio prolungato.

“Caspita! Vedo che hai guadagnato più del solito” constatò guardandolo con occhi languidi.

“Ridammeli Haym, quelli me li ha dati in più il cliente, sono miei!”.

“Non agitarti, li prendo in custodia io” disse suo fratello avvicinandosi e posandogli una mano sulla testa, accarezzandogli i capelli con vigore “Davvero bravo, continua così”.

Haym lo guardò meglio: il giovane aveva gli occhi socchiusi e spenti, le labbra secche e il respiro pesante.

“L’hai fatto di nuovo, vero?”.

Erast abbassò la testa, ormai totalmente schiavo degli effetti dell’ecstasy. I capelli rossi scesero scomposti a coprirgli il viso, lievemente arruffati. Suo fratello ridacchiò. A lui faceva comodo quella dipendenza dalla droga… e non solo, il rossino dipendeva totalmente anche da lui.
“Ri… vogl…” sussurrò a fatica.

“Mh? Che hai detto?”.
“... i soldi”.

“Ma quanto sei noioso! Mi servono per permetterci questa casa, lo sai” disse allontanandosi di qualche passo, prese una bottiglia di birra e ne bevve una lunga sorsata.

“Non mentire, lo so benissimo che Jan è venuto più volte a chiederci l’affitto questo mese, credi che non lo sappia?!” ribatté il giovane.

Un giramento di testa; il mondo era diventato improvvisamente blu e dopo era tornato normale in un istante. Si mise una mano sulla fronte, si avvicinò al muro e vi si poggiò contro sospirando. Haym gli si avvicinò, le mani nelle tasche dei jeans strappati.

“Egoista. Chi è che ti ha salvato quando eravamo in ****** ? Quando nostro padre si indebitò al punto di fuggire con quella puttana, lasciandoti solo, in balia di quei lestofanti che volevano vendicarsi sulla tua giovane pelle? Chi è che si è preso cura di te per tutto questo tempo? Che ti ha portato via da quel paese di merda? Sono IO che ho avuto la possibilità di permetterci questa casa, sono IO che ti ho trovato un modo per non morire di fame!”.
Certo, e solo per quest’ultimo motivo a volte lo odiava fino al punto di volerlo uccidere. Gli chiedeva se aveva mangiato per mantenerlo bello e non farlo dimagrire troppo, altrimenti non l’avrebbe più voluto nessuno. Non si possono fare marchette se si è malati. Si, il suo fratellone puntava tutto su di lui, visto che egli era bruttino e troppo poco attraente per poter fare la puttana, tuttavia era bravissimo a procurarsi la droga. Quel ragazzo, però, il figlio dell’amante di suo padre, era l’unica persona che avesse al mondo e si sentiva legato a lui, nel bene e nel male.

“Lo so Haym…”.

“Bene, vedo che  non hai perso la memoria. E ora…” il biondo prese dalla tasca delle pastiglie. Una la ingoio egli stesso, l’altra la infilò tra le labbra del fratello “prendine un’altra, devi essere stanco, questa ti farà stare molto meglio fratellino” e gli diede un bacio a fior di labbra.

Erast iniziava a sudare. La stanza vorticava intorno a lui. Si sentiva leggero, come se si trovasse fra le nuvole. Sorrise; mugolò qualcosa e si lasciò cadere a terra. Rise in maniera quasi isterica e si portò le mani alla pancia. Si sentiva bene, privo di qualunque problema; voleva restare per sempre in quello stato, in quell’atmosfera azzurrina, in mezzo a quelle nuvole che lo alleggerivano dal peso di vivere. Sentiva rimbombare la voce di suo fratello nella testa, poi più nulla. Anche il più grande si era lasciato sedurre dalla droga, si era seduto a tavola, con le mani che gli tremavano e un’espressione beata sul viso. Erast lo guardò rovesciando la testa all’indietro. Provò un forte amore per quel suo fratello bastardo ed egoista e sentiva che avrebbe fatto sempre qualunque cosa l’altro gli avesse chiesto. Solo lui poteva dargli ordini. Lui e tutti i suoi innumerevoli clienti.

 

Una notte uscirono insieme di casa. Haym aveva insistito affinché Erast si curasse molto quella sera. Si era pettinato i capelli ribelli, lisciandoli e stringendoli in una coda bassa. Si era limato le unghie e vestito di tutto punto. Indossava un paio di jeans neri, stretti, un maglione bianco che cadeva morbido e il suo cappotto caldo, che indossava sempre nelle serate così fredde.

Non sapeva dove stessero andando, ma suo fratello era raggiante. Inoltre gli aveva proibito di prendere “lo sballo”, il che lo rendeva irritabile, ma anche più bello: gli occhi brillavano più delle stelle, le labbra erano piacevolmente umide, la pelle vellutata.
Fecero parecchia strada sulla moto di Haym fino a quando arrivarono di fronte a quello che sembrava essere un locale di lusso. Dalla vetrata si vedevano camerieri eleganti, luci potenti, luccichii… un ristorante? No, l’insegna smentì subito quell’ingenua idea: Club Van Vachmedin.

Il nome non gli diceva nulla. Non era mai stato in quella zona e non aveva mai visto neppure il locale. Che tipo di club era?

Haym gli fece cenno di seguirlo e lui obbedì senza discutere. Entrarono nell’atrio dove li accolse un cameriere che chiese i loro nomi, ma dopo che il fratello farfugliò qualche cosa li lasciò oltrepassare; camminanrono su un morbido tappeto rosso che attutiva il rumore dei passi. Si guardò attorno meravigliato, non aveva mai visto tanto lusso prima di quel momento; quel soffice profumo di vaniglia lo incantava. Suo fratello parlò con qualcuno vestito di nero che poi se ne andò velocemente. Il biondo tornò da lui sorridendo.
“Schiena dritta, su” gli raccomandò.

Erast non capiva.

D’improvviso la voce bassa, ma potente di un sconosciuto.

“Eccoti qui dunque” il tono leggermente ironico.

“Viktor! E’ un piacere rivederla!” disse suo fratello con voce falsa.

“Chiamami Van  Vachmedin” lo sconosciuto mise subito le dovute distanze fra loro.

Erast si piegò di lato per vedere l’uomo nascosto dal corpo di suo fratello. Il tizio era almeno una spanna più alto di Haym e aveva ampie spalle che indossavano impeccabilmente un elegante abito nero. Gli occhi dell’uomo erano azzurro chiaro, così gelidi da far venire i brividi, eppure c’era profondità in quello sguardo tagliente e un’espressione sarcastica gli dipingeva il bel volto. I capelli erano bruni, perfettamente pettinati all’indietro lasciando scoperta l’ampia fronte denotante intelligenza. Davvero un bell’uomo, più grande sia di lui che del fratello, ma non riusciva a calcolarne l’età. La persona in questione si piegò nella stessa direzione di Erast che sussultò.

“E’ lui?” domandò con una nota di curiosità nella voce.

“Si. Vieni” disse il biondo spingendo il fratello in avanti.
Il giovane si trovava ora davanti all’altro, guardandolo dal basso, con la testa china e gli occhi alzati, con la tipica espressione di chi si fida poco. Quel tipo non gli piaceva per niente.

“Tuo fratello non ha fatto che parlarmi di te” spiegò l’uomo con poco interesse.

“Ah si?” Erast volle mostrarsi sicuro di sé, ma la voce gli tremava.

L’uomo sorrise e gli si avvicinò. Erast si sforzò di non indietreggiare. Il bruno gli afferrò il viso con una mano, saldamente, senza però fargli male e gli fece alzare la testa. Lo scrutò.

“In effetti è di una bellezza straordinaria” disse come se parlasse fra sé e sé.

“Cosa le dicevo? Non troverà di meglio in giro” rispose Haym come se si trattasse di una preziosissima merce.

Il rossino iniziava a capire qualcosa. Quel tipo era forse un nuovo cliente?

L’uomo afferrò l’elastico nero che teneva legati i capelli del giovane e lo tirò via, osservò compiaciuto i morbidi capelli dell’altro scivolargli dolcemente lungo il collo e sulle spalle. Indietreggiò per guardarlo interamente.

“Si, mi piace. Allora affare fatto” concluse serio.
“Perfetto!”.

“Ti farò avere i tuoi soldi” replicò l’uomo non distogliendo lo sguardo da Erast che si sentì bruciare da quegli occhi glaciali.

Non aveva mai pensato che il freddo potesse dare cosi tanto calore.

“Bene. Allora a presto” parlò Haym avviandosi verso l’uscita.
“Ma cosa…? Haym!” gridò Erast e quasi lo volle seguire.

Il fratello si voltò a guardare il rossino e gli sorrise.

“Ubbidisci a lui. Sarà il tuo padrone d’ora in poi. Ci si vede Erast”.

“Ma… “ corse incontro ad Haym” non puoi…! Perché?!” urlò sconcertato.

Cosa diavolo stava succedendo? Il suo padrone? Cosa voleva dire?

Doveva essere uno scherzo, lui non aveva padroni! Lui non era un oggetto! Si ricordò di ciò che faceva, strinse i pugni; non voleva dire nulla, lui non era una merce!

L’uomo lo raggiunse e gli afferrò un polso.

“Vai Haym. D’ora in poi tu non vedrai più questo ragazzo. Siamo intesi?”.

Il biondo rimase in silenzio per un po’ poi annuì e uscì dal locale.

Erast rimase a guardare l’uscita con la bocca aperta.

Com’era potuto accadere tutto ciò?

Non aveva mai pensato che l’abbandono di una persona potesse fare cosi male, anche se lo odiava, amava il fratello e non poteva farne a meno. Si sentì come un cane abbandonato in mezzo a una strada, abbandonato completamente a sé stesso e alle intemperanze della vita.

No, non era solo. Aveva un padrone… ben più rude del primo.