Disclaimers: These characters don’t belong to me. I don’ t receive profit for their use. All of the rights of the characters are of the respective author.



Pr

Parte XX

di Mel

 

La palestra risuonava di bassi mormorii.
Un’ ora prima dell’ allenamento.
Erano tutti lì.
Il capitano, la manager, i titolari, le riserve.
Akagi allungò una mano a prendere l’ indirizzo che Ayako gli porgeva.
Gli altri si volsero verso di loro.

“Akagi c’ è un problema ……..”disse Ayako

“Quale?”chiese lui guardando il piccolo foglio appuntato

“Quello è l’ unico indirizzo che sono riuscita a trovare, niente sull’ elenco telefonico, l’ ho preso in segreteria, conosco la zona, ma quell’ indirizzo non è un condominio, né una villetta, né un palazzo………”

“Cosa vuoi dire ?” chiese Kogure avvicinandosi

“Non so che edificio sia, ma voglio dire che non è una casa……..”mormorò lei

Akagi comprese.

“Ho capito, non ci resta che andare in questo posto, dobbiamo parlare con lui, andiamo”

Il capitano lasciò la palestra nelle mani delle riserve, ordinando per loro un allenamento speciale ed uscì insieme ai suoi giocatori.


Hanamichi rientrò nelle sue stanze qualche tempo dopo.
La complice oscurità del piccolo bar aveva allentato la sua tensione.
Ora poteva pensare lucidamente.
Con orgoglio aveva addirittura potuto credere che con quella verità avrebbe risolto tutti i suoi problemi.
La squadra avrebbe capito l’ errore commesso, lo avrebbe richiamato per giocare di nuovo insieme.
Quel suo cliente invece si sarebbe vergognato di quello che aveva fatto e lo avrebbe lasciato andare, per sempre.
E tutti i suoi compagni avrebbero visto in lui, finalmente, qualcosa di diverso dal solito clown dall’ eterno sorriso dipinto.
Eppure non avrebbe voluto.
Sentiva fastidio.
Era come servirsi del suo dolore, della sua condizione per farsi ammirare.
Lui non voleva la loro maledetta compassione né la pietà di quel cliente.
Avrebbe preferito farsi odiare da tutto il mondo ed essere realmente quel clown sempre allegro.
Non voleva niente.
Cosa voleva?
Cosa?

Si sentì chiamare.
Rispose con un altro sorriso dipinto sul volto pallido e portò le medicine a sua madre, le portò da mangiare, le cambiò l’ acqua vicino al letto.
Poi tornò in salotto.
Solitamente avrebbe dovuto prendere la sua borsa ed andare via, agli allenamenti.
Come poter spiegare a sua madre che anche quel giorno non sarebbe andato?
Inventare scuse non sarebbe stata la soluzione adatta, prima o poi avrebbe capito.
Decise di fingere di andarsene.
Se avesse voluto girare un po’ per la città lo avrebbe fatto, ma non voleva vedere nessuno.
Voleva riposare.
In silenzio.
Si sentiva stanco.

Prese in mano la borsa facendola frusciare, poi aprì la porta, salutò ad alta voce sua madre e richiuse la porta.
Appoggiò delicatamente la borsa in terra, senza alcun rumore.
Cautamente si girò, un passo dopo l’ altro e si lasciò andare sul divano, lentamente.
Si odiò per averla ingannata così, ma non poteva fare altro.
Non aveva più un posto dove passare i suoi pomeriggi, dove ridere e sognare e giocare.
Non aveva più niente.
Solo il buio della sua stanza in penombra d’ ora in poi.
Sospirò pianissimo e chiuse gli occhi.

Una voce leggera lo scosse da quel torpore.

“Hanamichi so che sei ancora in casa, vieni qui”

Il ragazzo dai capelli rossi sussultò, si alzò di scatto.
La voce di sua madre proseguì.

“Avanti tesoro, vieni un attimo qui”


Lui sorrise veramente divertito e si diresse nell’ altra stanza.
Prese una sedia, pronto ad un lungo discorso.

Lei tese una mano, lui fece in modo di farsi raggiungere da quella carezza leggera.

“Come hai fatto a scoprirmi?”

“Allora, dimmi….perché hai fatto finta di uscire? Credevi che non me ne sarei accorta? Non sarei un madre………avanti dimmi la verità ora…….perché non sei andato agli allenamenti ?Cosa è successo?”

Hanamichi sospirò ancora.
Lei attese con pazienza una risposta.


“Ho litigato con loro”


“Hai litigato?”

“Si”

“Spero…spero non una rissa tesoro…”

“No….no tranquilla…..solo che non è colpa di nessuno…..loro hanno ragione ……ma anch’ io ne ho …..quindi le cose stanno ferme…non so che fare……”

“In effetti potrebbe essere un problema….ma dimmi …tu vuoi lasciarli veramente? Non vuoi più giocare ?”

“No, no io voglio giocare, mi manca il basket, mi mancano loro”

“Mh…ho capito….so che sei un bambino un po’ testardo alle volte……rifletti ancora un po’, cerca di venire loro incontro, ti consiglio di aspettare …vedrai che faranno lo stesso, tengono a te, ne sono sicura e la mamma di un tensai ……..”


“…non sbaglia ” sorrise Hanamichi finendo quella frase


“D’ accordo, farò come dici….ora riposati, anch’ io vado a dormire un po’ …..chiamami se hai bisogno di me……..”

“Grazie, piccolo”


Hanamichi si alzò, mise a posto la sedia e tornò nel suo salotto, a riposare, ma senza chiudere gli occhi.
Sapeva che nel momento in cui l’ avesse fatto non avrebbe più potuto arginare il fiume in piena che sentiva nella sua testa, sarebbe stato assalito dalla malinconia, dalla disperazione di pensieri senza uscita, di domande senza risposta.
Rimase lì, steso sul suo piccolo ‘letto’ ad occhi aperti , fissi nella penombra.


I passi dei giocatori si fermarono a pochi metri da un edificio basso ed elegante.
Non era una casa.
Non era un condomino, né una villetta.
Akagi cercò con lo sguardo Ayako.
Gli occhi della bella manager si fecero più grandi e scuri mentre leggeva la targhetta davanti alla porta di mogano scuro.

“Lo temevo, capitano”

“Non è possibile……lui abita qui?”chiese Miyagi

Akagi annuì mentre dietro di loro i ragazzi guardavano quelle lettere incise sull’ oro.


Entrarono.
Lasciando dietro di loro quella porta.

In lettere nere scritto “Agenzia di accompagnatori *******”

Vagarono per un lungo corridoio, in silenzio, chiedendosi ognuno come potesse Sakuragi vivere lì, nel luogo dove lavorava, ripetendosi allora che forse non era nemmeno necessario incontrarlo per avere la conferma della verità raccontata da Mito.
Quei lunghi corridoi bastavano a dare da soli la loro muta risposta.

I passi del capitano si fermarono.
L’ indicazione con scritto ‘Reception’ portava a destra , ma Akagi non avanzò.


Una donna, bellissima, elegante.
Ma non quella vuota eleganza che si può ottenere con la ricchezza, con abiti firmati o gioielli preziosi.
Eleganza vera.
Nei gesti, nei movimenti, nello sguardo che adesso si soffermava su ognuno di quei ragazzi, sulle loro divise, sui loro occhi bisognosi di spiegazioni e sincerità.
La giovane donna si scostò dalla parete alla quale era dolcemente appoggiata e fece loro cenno di seguirla, indicando la strada con una mano candida e sottile.
Gli occhi azzurri intensi e impenetrabili.


Akagi la seguì, in silenzio.
Yukari portò i giocatori nel piccolo bar.
Le stanze di Hanamichi a pochi passi da loro, ma lei si fermò.
Li invitò a sedersi.
Poi incontrò uno sguardo noto.
Due occhi azzurri, profondi come i suoi.
Intensi ed attenti.
Sembravano osservare tutto e cercare.
Cercare qualcosa o qualcuno.
Lui.
Per lui Rukawa era lì.
La notte passata aveva portato oblio, ma l’ alba aveva ripreso i pensieri abbandonati e dispersi dal sonno e lui aveva ancora una speranza alla quale credere, alla quale tenersi stretto ed era lì , in quel momento, solo per quella speranza, solo per credere ed ammettendolo, finalmente, era lì per lui.
Solo per lui.
Lo voleva vedere.
Un giorno senza averlo vicino.
Troppo.
Già troppo.
Lo voleva vedere.
Voleva immergersi in quegli occhi caldi che solo lui sapeva essere così grandi visti da vicino.
Voleva passare le mani fra i suoi capelli e sentirne la morbidezza pregiata che era stata il suo regalo di compleanno la notte in cui tutto era iniziato.
Voleva guardarlo.
Vederlo.
Disperatamente.
Ora ne sentiva l’ urgenza.
Mai niente di simile prima d’ ora.
Mai.
Mai provato.

Si era sentito osservare, aveva alzato lo sguardo su chi osava indagare nei suoi occhi ed aveva incontrato il viso di quella donna.
L’ accompagnatrice della loro prima sera insieme.
Non ricordava precisamente il nome.
Ma era lei.
Così simile a sua madre.
Così bella ed elegante.
La ricordava.
Era stato lui a sceglierla per suo padre, come poterla dimenticare.
Gli era costata uno schiaffo.


La donna si diresse verso di lui.
Occhi negli occhi.
Stesso colore.
Un oceano infinito azzurro e blu, profondo e vibrante.

Ayako li osservò, sembravano così simili, poi vide la donna stendere una mano per salutare il loro numero undici.
Kaede comprese.
Aveva previsto ogni cosa.
Sapeva che presto anche il suo segreto di cliente sarebbe stato scoperto.
Ma a lui non interessava.
Non avrebbe perso più niente.
Aveva già perduto tanto.
Aveva perso il proprio accompagnatore, vicino in ogni istante in quella palestra ed ora poteva averlo solo a pagamento.
Ma lui non avrebbe mai potuto perdere la squadra.
Forte di quella convinzione non si sarebbe tirato indietro, neanche se accusato.
Sakuragi non l’ aveva fatto, lui avrebbe fatto lo stesso, non sarebbe stato un vigliacco.
Solo per la vergogna?
Non c’ era niente di cui vergognarsi a desiderare quella splendida creatura calda.


Il ragazzo dai capelli neri prese la mano della donna, delicatamente, tenendola sul proprio palmo.

“E’ un piacere rivederla Rukawa”

Lui si chinò gentilmente, lasciandole un bacio sul dorso di quella mano, sulla pelle profumata di mirra e fiori.

“Il piacere è mio, le porgo i saluti di mio padre”

La giovane donna ritirò le dita, un breve sorriso di circostanza.
“La ringrazio”

Volutamente lento e generico il ragazzo dai capelli neri aveva dato ad intendere che la bellissima donna fosse una conoscente del padre, sarebbe stato sciocco scoprirsi prima del tempo, lei lo guardò un istante, avrebbe potuto aggiungere qualcosa, ma scoprire lui sarebbe significato scoprire anche Hanamichi.
Per quel ragazzo dai capelli rossi lei rimase in silenzio allontanandosi.

Con un altro lieve cenno Yukari chiese loro di sedersi.

“Dov’ è Sakuragi ?”domandò Akagi

La donna si sedé a sua volta, di fronte a loro, un mano sotto il mento niveo, gli occhi gelidi.

“Nelle sue stanze, riposa”

“Noi vorremmo…”iniziò Kogure

La donna lo interruppe con uno schiudere di labbra.

“Voi siete i suoi compagni di basket, vero?”

Kogure annuì.

“So cosa è successo ieri…….perché siete qui ?Cosa cercate?”

“Vogliamo parlare con lui”rispose deciso Akagi

“Capisco….ma a quale scopo?Se volete conoscere la verità potete chiedere a me”

“Chi è lei?”

“Sono una semplice Pr che lavora qui……….. – rispose la giovane donna sorridendo lievemente – …..ora però dovete dirmi cosa volete da lui …..”

Il capitano la guardò negli occhi poi parlò, lentamente.

“Ieri io ho imposto a Sakuragi una scelta, ma l’ ho fatto senza conoscere la sua situazione, un suo amico ci ha descritto la sua vita e la necessità che ha di lavorare, eppure noi siamo venuti qui per sentirlo da lui , vogliamo una conferma, vogliamo che sia lui a dirci la verità”

“E se avrete la vostra conferma cosa farete?Lo riammetterete in squadra?”

“Spero lei capisca che è una situazione delicata, rischiamo di dover chiudere il club, basta che una voce arrivi fuori dalla palestra, rischiamo di non poter partecipare al campionato per il quale abbiamo lavorato duramente”

“Capisco e scommetto che lui ha preferito andarsene subito senza chiedervi di correre questo pericolo”

Quella frase dall’ aria casuale li fece riflettere.
In effetti sfruttando l’ amicizia che li legava Hanamichi avrebbe potuto elemosinare quel posto in squadra, avrebbe potuto chiedere loro di rischiare solo per non abbandonare quel sogno ed invece non lo aveva fatto, si era sacrificato per tutti, per far vincere almeno a loro quel campionato che per lui era diventato ora realmente irraggiungibile.

“Si”rispose Akagi

“Così volete una conferma…..bene, posso darvela io se volete….conosco perfettamente la vita di Hanamichi, tutto quello che ha passato e sono certa che il vostro amico non vi ha raccontato tutto, se volete ascoltarmi saprete la verità……”

Il silenzio fu l’ unica risposta.

Lentamente Yukari iniziò a parlare.

“Sono ormai diversi mesi che lui abita qui con noi insieme a sua madre, la signora Sakuragi purtroppo è affetta da cecità in seguito alla morte del marito, il signor Sakuragi è venuto a mancare per un infarto circa due anni fa, davanti agli occhi del figlio, da allora lui ha sempre cercato di tirare avanti, per un po’ alcuni parenti lontani li hanno ospitati poi lui ha incontrato il signor Riyoo, il nostro datore di lavoro.Il signor Riyoo ha offerto ad Hanamichi vitto, alloggio e medicinali per lui e per sua madre, in cambio lo ha inserito fra gli accompagnatori e si serve di lui per i piccoli lavori di questa agenzia. Un accompagnatore guadagna molto bene eppure Hanamichi non riuscirebbe mai a pagare da solo un affitto, il signor Riyoo poi si occupa di molte altre cose, come le medicine e tiene lontani gli assistenti sociali, se la signora Sakuragi si rivolgesse a loro per avere una pensione d’ assistenza le porterebbero via il figlio, lo chiuderebbero in una casa famiglia e lui ne morirebbe”

Silenzio.

I ragazzi si guardarono, i visi tristi , gli occhi spenti.
Ora sapevano.


Kaede sospirò impercettibilmente.
Ora capiva tante altre cose.
Comprendeva persino il rifiuto che quella sera Hanamichi aveva dato a Shimori.
Quel ragazzo dai capelli rossi non poteva lasciare il proprio lavoro, perché lasciarlo significava lasciare anche la casa e le cure mediche.
Come poteva rischiare?

Il ragazzo dagli occhi azzurri si passò una mano fra i capelli.
Aveva avvertito distintamente il rumore sordo con il quale le sue ultime speranze si erano dissolte ad ogni parola.
Ed ad ogni parola aveva tenuto lo sguardo alto, dolorosamente.
Aveva osservato con quale noncuranza la giovane donna avesse parlato soprattutto a lui.
In ogni istante aveva visto su di sé quello sguardo azzurro, simile a quello della madre che non aveva quasi conosciuto.
Ed aveva intuito che molte di quelle parole erano state per lui.
Gli occhi di Kaede si strinsero fino a sembrare due lame di luce gelida.
Lei sapeva qualcosa.
Lei immaginava cosa fosse successo.
Ma perché non lo aveva smascherato di fronte agli altri?
Perché invece aveva rivolto a lui il racconto della vita di Hanamichi?
Capì che quell’ attenzione significava qualcosa di importante.

Akagi si alzò.

“Bene, ora molte cose sono più chiare eppure ……. noi vorremmo ugualmente ……”

“Capisco…non so se sia la cosa giusta….vi porterò da lui, ma non gli chiederò di aprire la porta, dovrà essere lui a decidere se vedervi o no”

“D’ accordo, la ringraziamo”

“Un’ ultima cosa……non vi ho raccontato questa storia per semplice leggerezza…..mi avete detto che cercate una conferma ……chiedetegliela ….un semplice si o no…….non costringetelo a ricordare per voi………ve ne sarei grata……………………ha già sofferto tanto………”

Akagi annuì e tese una mano a stringere quella dell’ accompagnatrice.
Sigillando personalmente quella promessa, resa più certa dalla fierezza che da sempre aveva brillato negli occhi di quel capitano.

La giovane donna sorrise, più sollevata.
Non leggeva cattiveria in quello sguardo, ma confusione.
L’ incertezza di una decisione difficile.
Li accompagnò attraverso il corridoio con passi lenti e leggeri.

Si fermò davanti ad una porta chiusa.
Con una mano la indicò.

“Lui è qui, non bussate troppo forte o sveglierete anche la signora Sakuragi”

Yukari fece per allontanarsi.
Ma Ayako la fermò.

“Un’ ultima cosa, la prego….la signora Sakuragi sa che….”

La donna dagli occhi azzurri comprese.
Scosse la testa, lentamente, ma con decisione.

“No…..le sere in cui lui esce lei……..lei crede che suo figlio si ritrovi con degli amici ….penso le dica questo…se lo sapesse non lo permetterebbe mai….perciò vi prego di non farla venire a conoscenza di tutto ciò, parlate con discrezione davanti a questa porta, lei non vede, ma sente perfettamente”

I ragazzi annuirono silenziosamente, la giovane donna si congedò con un saluto educato e sparì in un angolo del corridoio.

Loro rimasero immobili.
Il tempo scorreva lentissimo, le parole si mescolavano a formare un unico quadro nitido e reale.
Non c’ erano più speranze alle quali aggrapparsi, né alle quali credere.
La verità era l’ unica cosa rimasta.
Quella verità triste e dolorosa.

Akagi sollevò il suo sguardo a cercare con decisione quello dei suoi compagni.
Silenziosamente disse loro che sarebbe andato fino in fondo.
Voleva parlare con Sakuragi e lo avrebbe fatto.

Sollevò una mano e bussò leggero alla porta.

Nessuno suono, nessuna risposta.

Delicatamente il capitano insisté ancora.

Attimi.

La porta si aprì piano, la piccola catena tirata.
Il viso di Hanamichi si affacciò.

Lo sguardo, prima vacuo, di quegli occhi assonnati si fece attento in un istante.
L’ istante in cui scorse i propri compagni davanti alla porta.

Immobile.
Nel silenzio.

“Cosa volete?” un sussurro, leggerissimo

“Vogliamo parlare con te, puoi aprirci?”domandò dolcemente Kogure

Hanamichi li guardò, vedeva il proprio capitano, Miyagi ed aveva sentito la voce di Kogure.
Non voleva nemmeno sapere chi altro era lì.
Non voleva parlare con loro.
Non aveva niente da dire.
Li aveva guardati un attimo e già aveva letto sui loro volti l’ espressione di chi prova compassione.
Non voleva la loro pietà.
Non l’ aveva chiesta.
No.


Stava per chiudere la porta.


“Non chiudere, per favore, ascoltaci un attimo”disse Miyagi
“Sakuragi vogliamo solo parlarti” insisté Ayako

Così c’ era anche lei, pensò Hanamichi.

No.
Non aveva niente da dire.
Cosa avrebbe potuto ottenere?
Non aveva bisogno di compassione né di carità.
Non voleva l’ umiliazione di un posto in squadra regalato per pietà.

Chiuse la porta.

Akagi si passò una mano dietro la nuca.
I secondi passavano.
La tensione riempiva l’ aria.

No.
Loro non erano venuti per trovare poi una porta chiusa.
Volevano la verità e volevano le basi per poter riflettere sulla decisione giusta da prendere.


Dietro di loro Kaede, appoggiato contro una parete, osservava il legno di quella porta chiusa.

Per un solo attimo aveva intravisto quell’ occhio color del miele e quei fili ramati.
Troppo poco.
Lo voleva vedere completamente, lo voleva avere davanti a sé e ……
Quel desiderio spingeva prepotentemente dentro di lui, sembrava soffocarlo, comandare la volontà del suo corpo.

Lentamente il ragazzo dai capelli neri si accostò alla porta.

Le labbra morbide vicino al legno chiaro.

Poche parole, un tono deciso, ma non privo di sentimento.

“Sakuragi apri la porta…non siamo qui per offrirti pietà”


Solo lui poteva capire.
Solo lui aveva capito quale sentimento aveva fatto chiudere quella porta.

Appoggiato contro il muro Hanamichi sospirò passandosi le mani fra i capelli.

Il suo cliente.
C’ era anche lui.
Perché era lì?
Perché si interessava di lui ?
Perché era venuto?
Credeva che a quel ragazzo dai capelli neri non interessasse altro che il proprio letto ed un corpo da possedervi sopra.
Perché gli aveva chiesto di aprire la porta ?

No.
Non voleva.
Era un codardo e lo sapeva.
Ma non li voleva vedere.
Non sarebbe riuscito a sostenere i loro sguardi ne era sicuro.
Avrebbero urlato.
Litigato.
Avrebbe svegliato sua madre.
E lei avrebbe sentito tutto.
Capito tutto.
E si sarebbe lasciata morire piuttosto che vivere con i sacrifici di suo figlio.
No.
No.
Eppure risentiva mille volte in un istante la voce bassa di quel cliente.
Aveva pensato a lui.
Pensava sempre a lui.
Senza volerlo ammettere, ma pensava a lui.
Che male c’ era a pensare alla persona che di notte sembra amarti su di un letto?
Ed ora era lì, solo pochi centimetri di legno a dividerli.
Lo avrebbe dovuto odiare e poi avrebbe dovuto gioire al pensiero che conoscendo ormai la verità quel cliente sarebbe sparito fra i rimorsi ed invece si era ritrovato a chiedersi, con rammarico, quanto sarebbe stato difficile dimenticare tutto o a chiedersi, con qualcosa di molto vicino al dolore, quanto tempo avrebbe impiegato il suo cliente a dimenticare lui, il ragazzo al quale aveva rubato per sempre l’ innocenza con una partita a biliardo.

Ma ora sentiva forte dentro di sé la voglia di vederlo.
Si disse che lo faceva per mantenere buoni rapporti con chi rappresentava un guadagno.
Senza voler ammettere che era spaventato dal vedere anche sul suo viso, come su quello di tutti solo pietà e compassione, nonostante quelle promesse.
Eppure ricordava che quel cliente le aveva sempre mantenute le sue promesse.
Ognuna di quelle notti passate insieme.
Ognuna.
Dalla velata minaccia che lo avrebbe avuto ancora come accompagnatore.
Al rassicurante mormorio che non gli avrebbe fatto male neanche quella volta, che lo doveva lasciar fare, che doveva stare calmo.
In realtà, sola, in un angolino di quel cuore complicato, c’ era la pura e semplice voglia di vederlo.
Di vederlo e basta.
Perché così voleva che fosse.
Un movimento.
Un altro.
Un altro ancora.

Ancora attimi.
Lunghi.
Eterni.


Con un suono basso la porta si aprì, senza più piccole catene ad impedire al viso di Sakuragi di mostrarsi loro.
L’ unica cosa che attirò completamente la sua attenzione fu l’ azzurro degli occhi del suo cliente.
Poi le voci di tutti gli altri lo avvolsero.

“Sakuragi vogliamo sapere da te se tutto quello che Mito ci ha raccontato è vero….”chiese diretto Akagi

“Si, una donna ci ha parlato di te, di tua madre…..dì che non è vero….”chiese addolorato Kogure

Troppe voci, richieste insistenti.
Era stanco.
Non voleva questo.
No, era stato attirato fuori da quella voce.
Era stato ingannato.
Come una farfalla che cade in una ragnatela attirata da un fiore dietro di essa.
No.
Non voleva quegli sguardi.
Cercò gli occhi di quel cliente.

Quelle richieste, quelle conferme lo confondevano.
Non aveva voglia di parlare di sé.
Perché doveva essere così.
Sapevano già tutto, perché chiedere anche a lui ?
Perché ?

Si aggrappò disperatamente a quello sguardo profondo.
Non leggeva pietà in quegli occhi.
Eppure non capiva cosa vi fosse in quegli abissi scuri.
Un sentimento che forse mai aveva visto e che non riconosceva.
Voleva chiedere loro aiuto, una volta.
Per una volta avrebbe potuto, no?
Lui che tante volte aveva donato avrebbe ora potuto ricevere?
O quel corpo che aveva di fronte sapeva solo egoisticamente prendere?
Cosa doveva fare per far cessare quelle voci, quelle domande?
Capiva la preoccupazione di quei compagni, ma non voleva, non voleva.

Kaede sostenne il suo sguardo.
Lo vedeva stanco.
Stanco e triste.
Sapeva leggere nei suoi occhi, nel suo animo.
Non provava pietà, il suo era un sentire più profondo.
Non ne conosceva nemmeno il nome e non voleva.
Dare nomi o ragioni toglie sempre importanza, anche alle cose più belle e preziose.
Ora finalmente poteva vederlo.
Lo aveva desiderato tanto.
Ora lo aveva davanti e sapeva che il suo corpo bruciava.
Perché tutto quello una volta raggiunto non gli bastava.
Non gli bastava più.
Eppure lo vedeva disperatamente cercare un aiuto, una via d’ uscita da quella prigione di sguardi ed interrogativi nella quale lui lo aveva trascinato con quel sussurro contro la porta.
Era stata sua la colpa.
Ed ora avrebbe potuto fare qualcosa per estinguere due necessità insieme.
La propria e quella di quel ragazzo esausto di troppi ricordi.
Scostandosi dal muro al quale era tornato Kaede fece un leggero passo in avanti.
Gli occhi fissi in quelli caldi del suo Pr disperato.
Con un movimento lento lui dallo sguardo azzurro aprì le braccia.
Invitando a sé il corpo del suo accompagnatore.

Per Hanamichi quel gesto ebbe un preciso significato.
Così dolce da farlo arrendere senza nemmeno pensare.

Si ritrovò in un istante fra le sue braccia.

Un'unica parola che voleva dire tutto.

Riparo.

Kaede lo strinse mentre tutt’ intorno diventava silenzio.
Gli sguardi di ognuno annegarono nello stupore, le parole si dissolsero nell’ incredulità, sciogliendosi in respiri spezzati e sospesi.
Il viso di quel ragazzo stanco dai capelli rossi si nascose contro quel collo morbido, senza voler vedere più niente.
Le mani artigliate ai vestiti, il tepore di quell’ abbraccio perfettamente conosciuto.

Il viso perfetto di Kaede si chinò fino a sfiorare le ciocche rosse, fino a trovare il luogo dove farsi ascoltare.
Stretto fra quelle due braccia così grandi e forti Hanamichi sentì poche, basse parole scivolare dentro di sé.
Parole che nessun altro udì.
Che nessuno seppe mai.
Parole per lui.*

Per lenire il dolore e calmare l’ animo
Parole che credeva non avrebbe mai sentito pronunciate da quelle labbra spesso altere.

Chiuse gli occhi, ma non pianse.
Ne avrebbe avuto il tempo, da solo, al buio.
Mentre vi avrebbe ripensato con dolce commozione.


Gli occhi intorno a loro, le labbra schiuse in ansiti sorpresi.
Tutto si domandava cosa mai avessero condiviso quei due ragazzi, da sempre sprezzanti l’ uno verso l’ altro, per potersi poi abbracciare così.
Che nome aveva il legame che li univa?
Che avesse a che fare con la perfetta conoscenza che Rukawa sembrava avere di quella donna?
Che avesse a che fare con gli sguardi che in palestra i due ragazzi usavano per conversare discretamente?

In quel momento non sembrò importare.
Akagi sussurrò ancora una volta quella domanda.
La richiesta di una conferma alle verità raccontate loro da Mito e da una donna dagli occhi azzurri.

Al riparo e nel calore di quell’ abbraccio, strano quanto irreale, Hanamichi trovò la forza di mormorare un si.

Kaede sciolse quel corpo dal proprio.
Annegò un solo istante in quegli occhi, trovò la sua sincerità e la propria conferma personale poi si allontanò.
Lasciando che il sottile vento che riempiva i corridoi portasse via il calore poco prima creato insieme.

I suoi compagni rimasero in silenzio.
Hanamichi rientrò nelle sue stanze.
Chiuse la porta, un secondo dopo aver udito un ‘decideremo fra qualche giorno’ appena accennato come ultimo saluto.
Mentre sentì i passi allontanarsi si lasciò andare, su quelle gambe che non lo reggevano più.
Per l’ emozione, per la tristezza e tutti i pesi che portava su di sé.

Kaede non attese nessuno.
Non aveva necessità di vederli.
Sapeva che anche scoperta la realtà quella decisione estrema non sarebbe cambiata.
Per la squadra non era cambiato niente.
Ma per lui si.
Era tutto diverso.
Ora si.
Ora non avrebbe più potuto nascondersi, neanche dietro una facile speranza.
Ora doveva affrontare sé, lui e quel groviglio di spine che sentiva da troppi mesi dentro di sé.
Eppure provava ancora necessità ed urgenza.
Quell’ abbraccio rubato non era riuscito a calmare i suoi sensi.
Anzi….sentirlo contro di sé aveva risvegliato tutti i ricordi delle notti passate insieme.
Nel caldo di quel pomeriggio di fine inverno Kaede ricordò ogni singola volta.
Ogni singolo particolare, si perse nella contemplazione di tutti quei ricordi forti e nitidi e sentiva crescere in sé l’ urgenza di crearne altri, ancora più belli, ancora più forti e brucianti, con i quali scaldarsi il cuore nelle sere dell’ inverno che sarebbe venuto.
Cosa doveva fare?
Ora però non avrebbe potuto ignorare la verità, né dimenticarla.
Doveva qualcosa a quell’ accompagnatore.
Ma non sapeva decidere che nome potesse avere quel risarcimento che gli doveva.
Era totalmente sopraffatto dal peso incalcolabile di chi sa di aver sbagliato completamente ed allo stesso tempo atrocemente divorato da quell’ urgenza, da quel desiderio di nuovi ricordi da aggiungere ai precedenti.
Voleva di nuovo per sé quel Pr.
Ma il suo non era egoismo, non più, forse mai stato.
Provava pena e dolore, un senso intenso di fastidio nella testa, nel ventre.
E tutto al solo pensiero del destino che la sorte aveva riservato a quel ragazzo dai capelli del colore del tramonto estivo.
Provava tristezza e si rendeva conto che la sua, di vita, al confronto usciva vittoriosa e splendente.
Ricchezza.
Talento.
Fortuna.
Potere.
Bellezza.
Tutto.
Contro niente.
Se niente si potevano considerare candore, innocenza, dolcezza, generosità e caldo splendore.
Ma il mondo spesso trascura ciò che è troppo bello.
E lo annerisce.
Cerca di ucciderlo, di soffocarlo in incalzanti mareggiate nero petrolio per rendere tutto opaco e sporco, per non vergognarsi al confronto di un figlio nato puro nel suo ventre.
Ma quello ora non importava.
Erano le proprie azioni ad avere peso.
Come doveva comportarsi?
Avrebbe davvero dovuto cedere ai propri desideri e richiedere per sé quel Pr?
In fondo niente di buono aveva accompagnato il soddisfacimento di quei desideri in tutti quei giorni…perché ascoltarli ancora?
Eppure era una necessità irrinunciabile……era …era dipendenza.
Malessere fisico.
Come soffocare.
Si, lo doveva richiedere.
O sarebbe morto.
Senza aria e senza luce.
Ma non avrebbe potuto chiedergli scusa.
Non così.
Non subito.
Sarebbe sembrato ipocrita e senza valore.
Un vile che chiede perdono mentre ancora tiene in mano la spada sanguinante con la quale ha ucciso il proprio signore.
Non avrebbe avuto senso.
Penoso.
Sarebbe stato solo penoso.
Non poteva.
Eppure non avrebbe rinunciato ad averlo davanti solo per sé un'altra volta.
Era rimasto intrappolato nel suo calore.
Con quell’ abbraccio era stato lui a finire in una ragnatela come un’ ingenua farfalla.
Era stato riempito di calore.
Quello che conosceva così bene.
Quello del quale non voleva fare a meno.
Quello del quale non sarebbe riuscito a fare a meno.


Passò il suo pomeriggio in un piccolo campetto.
Affidandosi fiducioso alla sua distrazione di vita.
Il basket.
Una sfera arancione che, per pochi minuti, riusciva sempre ad annullare il suo eterno e struggente pensare.

La sera.
Un telefono tra le mani.
Domande nell’ animo.
Erano tutte scuse.
Tutti i pensieri di quel primo pomeriggio.
Erano tutte scuse.
La verità era che non sapeva cosa fare.
Non ne aveva idea.
Nel modo più assoluto.
Compose un numero.
Uno squillo.
Poi riattaccò.
Di nuovo chiamò.
Ma attese poco.
Non era insicurezza la sua, né indecisione.
Ma paura.
Paura dell’ azione sbagliata.
L’ ultima azione sbagliata, quella che sarebbe costata tutto.

Decisione e fierezza.
Un’ incertezza sospesa che non poteva durare ancora a lungo senza logorare.
Un numero.
Una voce.
Una richiesta.


Hanamichi sbatté disperatamente un pugno contro una parete del lungo corridoio.
Non era possibile.
Cosa significava?

Era stato chiaro l’ ordine del suo datore.


Ore 21.
Casa Rukawa.

Ore 21.
Casa Rukawa.


Ore 21.
Casa Rukawa.

Ore 21.
Casa Rukawa.


Si ripeteva nella sua testa.
Infinitamente.
Aggiungendo ogni volta una lama in più alle tante già conficcate nel suo cuore.

Il suo cliente lo aveva richiesto anche quella sera.

Anche dopo aver scoperto la verità.
Anche dopo averlo cercato, consolato, abbracciato.

Senza rimorsi, senza pietà.

Lo aveva richiesto ancora.
Hanamichi non si chiese nemmeno per che cosa era stato chiamato.
Lo sapeva.
Non doveva sforzarsi per capirlo.
E faceva un male indescrivibile.
Una tristezza profonda e lacerante.

Allora…….allora quell’ abbraccio…………………….quell’ abbraccio non aveva avuto nessun valore…..non era significato niente………….
…………………………………………………………………………………….niente.

No.
Una cosa aveva significato.

Una lacrima infuocata di umiliazione scorreva sulla guancia di quel ragazzo dai capelli rossi mentre si ripeteva che quell’ abbraccio era stato un inganno, l’ ultima e la più vile bugia di quel cliente………………….perpetrata solo per consolarlo, consolarlo per poterlo riavere il prima possibile………..un Pr triste non è divertente……………..sbattersi una puttana che piange non è appagante……………maledizione…………


Hanamichi si lasciò andare in terra, senza più una sola lacrima, guardando il vuoto, appena fuori da quei vetri smerigliati che erano l’ ufficio del suo datore.


Ore 21.
Casa Rukawa.


Nervosamente inquieto Kaede attendeva il proprio Pr accanto all’ ingresso.
Osservava costantemente il girare atrocemente lento di quelle lancette e si torturava le mani.
Il suo animo ancora non aveva deciso.
Era tardi per tornare indietro ed annullare quell’ appuntamento.
Sperava soltanto che, vedendolo, i dubbi si sarebbero dissolti e il suo cuore avrebbe trovato le risposte che cercava.


Ma così non fu.
Lo aveva davanti adesso e non riusciva a capire niente.
Niente.
Sentiva solo che il suo corpo, come soggiogato da una forza sconosciuta si muoveva verso quel Pr impeccabile, elegante e stupendo.
Sentiva una mano che si alzava , le labbra che si tendevano, gli occhi che si lasciavano velare della palpebre.

Poi baciò il suo Pr.



Profondamente, con passione e desiderio.
Un bacio che toglieva il fiato e la ragione.


In quel bacio Hanamichi lo odiò come mai aveva fatto in vita sua.
Lo odiò per avergli mentito.
Per avergli parlato con dolcezza quel pomeriggio solo per inganno.
Per aver usato quell’ abbraccio per mera compassione del momento.
E poi si odiò.

Perché sapeva che nonostante tutto era stato lui a cercare riparo fra le braccia dell’ altro.
Perché sapeva che era stato lui ad implorare il suo aiuto, pregandolo con lo sguardo fino a che non aveva visto quelle braccia dischiudersi ad accoglierlo.
Perché sapeva che nonostante tutto era entrato in quella casa, non si era rifiutato, non era corso via ferito, aveva accettato.

Si odiò profondamente.

Perché sentiva che lasciarsi possedere era ormai anche una sua necessità.

Sapeva che quella notte non avrebbe negato il proprio corpo.
Avrebbe accolto in sé quel cliente.
Avrebbe gridato e provato piacere.
E poi si sarebbe vergognato ed avrebbe pianto.
Perché anche lui quel pomeriggio era stato avvinto dal calore e dal profumo di quel ragazzo dai capelli neri.


Oh si…..lo sapeva……....stava per schiudere le labbra e capitolare definitivamente…….
…e lo fece…….
..e si odiò…..
..ed odiò lui…….

…ma gemé di piacere per l’ affondo improvviso di quella lingua di miele nella sua bocca calda.

Non sapeva più cosa stava facendo.
Pregava di fermarsi, ma continuava a stringere a sé quel ragazzo dai capelli rossi.
Disperatamente.
Lo baciava, lo accarezzava, lo teneva contro di sé.
Mentre lo voleva lontano, lontano.
Come un folle senza più lucidità lo prese per mano, salì con lui sulle scale, spense ogni luce al proprio passaggio.


Il corridoio.
Con ancora il sapore buono di quel cliente sulla bocca Hanamichi scorse da lontano la porta della camera da letto.
Sapeva fin dal primo istante che sarebbero finiti lì.
Ma a lui ormai non importava più pensare.
Forse nell’ oblio di un orgasmo avrebbe potuto dimenticare la profonda malinconia che gli stringeva il cuore.
Si preparò a sentire il lento aprirsi di quella porta, il frusciare delle lenzuola ed un corpo caldo nel suo.
No.
Si sentì tirare verso sinistra.
Un’ altra porta venne aperta.
Un’ altra stanza davanti ai suoi occhi.
Il letto, più piccolo, bianco, intatto, nessuna grande finestra, né mensole, né trofei.

Cercando di scostarsi da quelle mani irrequiete, da quella bocca possessiva, Hanamichi tentò di capire dove fosse.
Non era la stanza del suo cliente.
Sembrava una camera per gli ospiti.


Contro la porta Kaede si strinse al proprio Pr.
Lo teneva talmente stretto da non lasciargli nessuna libertà, quasi neanche quella di respirare.
Come impazzito si chiedeva cosa stesse facendo.
Il suo corpo sentiva il calore dell’ altro, i suoi occhi , anche se chiusi , avvertivano la penombra che li avvolgeva.
Ma la sua mente era rimasta all’ ingresso.
Al momento in cui il suo accompagnatore era arrivato.
Si immaginava lì nel salotto, a parlare.
A chiedergli se quella sentita in quei due giorni fosse la verità.
A chiedere a lui cosa doveva fare.
Cosa dovevano fare.
Se dimenticare o…..
O….

Intanto la sua lingua lo accarezzava, lo cercava insistentemente, quasi soffocandolo con una passione impetuosa ed inebriante.
Allora a momenti ricordava che non erano in salotto, che aveva trascinato ancora una volta quel ragazzo dai capelli del colore del tramonto in una stanza.

Per averlo.

Ma non nella sua.
Era un vile.
E lo sapeva.
Non nella sua.
Lo aveva evitato, consapevole che i ricordi di tutto ciò che era stato condiviso fra quelle mura lo avrebbero sgridato per ogni bacio rubato, per ogni gemito bevuto da quelle labbra.
E Kaede ne ebbe la certezza.
Fino a quel giorno non si era chiesto niente sulla vita di quel Pr.
Non si era chiesto niente per non compromettersi.
Per non perdere di fronte a se stesso.
Ignorando poteva ascoltare pienamente i propri desideri ed avere quel Pr senza pentirsene in ogni secondo.
Ignorando la verità e la tragedia poteva credere di essere nel giusto, di non approfittare.


Ignorando la realtà non doveva chiedersi perché.

Ma ora sapeva.
Ora aveva saputo.
E non poteva più ignorare.

Con che coraggio poteva desiderare ancora quel ragazzo?
Con che coraggio poteva volere ancora la sua sofferenza?
Con quale coraggio?


Si separò da lui.
Lo lasciò andare.

Appoggiandosi al suo fianco, contro il muro gelido.
Cercando di calmare il proprio cuore selvaggio.
La propria passione dal ritmo selvatico.
Il proprio corpo bruciante.

Il fresco del muro gli strappò un leggero mugolio.

Hanamichi a pochi centimetri da lui riprendeva fiato.
Lentamente.
Le guance imporporate, le labbra turgide, gli occhi liquidi.
Mai aveva provato quelle sensazioni.
Mai.
Si coprì il viso con le mani.
Non doveva.
Non doveva amare quelle sensazioni.
Non doveva desiderare di più.
Non doveva.

Si sentiva male.
Lo voleva.
Lo desiderava.
Con un’ urgenza innaturale.
Opprimente.
Chiuse gli occhi, non doveva guardarlo.
Non doveva vedere la sua bellezza.
Non doveva cedere al calore dei suoi capelli rossi.
Al loro richiamo sensuale e continuo.


No.
Non doveva.
Non doveva desiderare quel corpo perfetto.
Quei capelli neri come il nulla.
Nel nulla si perde tutto.
Anche se stessi e lui non doveva perdersi.
Non poteva.
Non doveva guardarlo.
Sarebbe stata la fine.
Avrebbe gettato via l’ orgoglio e si sarebbe steso su quel letto.
Lo avrebbe implorato di prenderlo.
Di arrivare fino in fondo e di farlo gridare, godere, venire.


Oh Kami.
Era peggio di una tortura.
Un’ agonia lenta ed inesorabile.
Soffriva.
Diviso a metà.
Incerto.
Voleva perdere la ragione.
Non pensare più.
Agire.
Qualsiasi cosa, ma non pensare.
Sentiva che il proprio corpo si muoveva, pur se trafitto e lacero delle mille spine del dubbio.
Un millimetro.
Un altro ancora.
Verso di lui.
Il freddo del muro era diventato tiepido a contatto con il suo corpo.
Non bastava più.
Non leniva le fiamme in cui stava lentamente bruciando e consumandosi.
Un po’ ancora.
Un altro piccolo spazio.
Un altro.
Annullato.
Colmato.


Lo sentiva.
Tornava da lui.
E si detestò perché ne aveva esultato.
Aveva sentito il proprio cuore perdere un battito e poi pompare sangue infuocato in tutto il suo corpo.
Aveva caldo.
Voleva andare via e voleva restare.
Voleva concedersi e negarsi.
Voleva baciarlo e colpirlo.
Folle, si sentiva un folle.


Fu un attimo.
Le mani di Kaede, scorrendo lentissime sul muro e poi sul legno, incontrarono un filo ramato.
Morbido ed incredibilmente luminoso nel buio della loro ragione e di quella stanza.

Fu un attimo.
Le braccia strette insieme, i respiri erranti, i sensi completamente ovattati, fissi l’ uno nell’ altro, mescolati senza ragione e senza torto.
Annegarono nel fiume in piena del sentire.


Kaede lo stese sul letto, passò entrambe le mani fra i suoi capelli di puro lino.
Liberò quella fronte di bronzo da una cascata rosso rubino, impreziosita da due gioielli dorati che lo guardavano appena e la baciò.
Scese sulle guance, una poi l’ altra.
Dolcemente.
Le labbra sul viso, le mani sotto la camicia.
Hanamichi sentiva quelle dita in ogni parte del suo corpo.
Gli sembrava di essere così piccolo fra le mani di Rukawa.
Così piccolo ed indifeso.
Alzò il viso, scoprendo la gola.
Fu un invito.
Dolce.
Lui dagli occhi azzurri lo morse, più volte.
Invogliando la pelle di entrambi a cercare di più.
Allargò quella camicia semplice di cotone, baciò il suo petto che fremeva e sussultava.
Dipinse con la lingua umida la punta dei suoi capezzoli.
Lo lasciò inarcare e gemere.
Lo portò lentamente alla pazzia.
Mentre, come un disco rotto, la sua mente ripeteva che era sbagliato, che non doveva.
Le mani su quel calore, poi più in basso.
Non doveva.
Le labbra che aprivano quelle del Pr, regolari, bagnate, dolci.
Non doveva.
I fianchi che si strusciavano su quel corpo immobile e tremante.
Non doveva.
Non doveva.
Non doveva.


No.
Non era quello il modo.
Non era quello il modo per diventare la ragione di vita di quel ragazzo dai capelli rossi.

Risentì, come un fiume che ha rotto la diga e che niente può più fermare, le voci di Mito e di quella donna dagli occhi come i suoi.
No.
Non voleva ascoltarle.
Ma sembravano provenire dalla sua testa.
Dal suo interno.
In fondo.
Così in fondo da fare male venendo alla luce.

Le sentiva.
Frammenti di un racconto completo che portava dolore.

…..mesi….cecità………..morte……infarto…davanti ai suoi occhi…..peso …….responsabilità…….accompagnatore……medicine………..stanza…….solo….problemi…….
……compassione……….lei non sa…non deve……..lui non può…notti e notti ……..scusandosi…..ragione per vivere….sogno…niente…..più…


Kaede scosse la testa.
Si fermò.
Ansimando violentemente su quel corpo che stava per violare ancora una volta.
Il suo orgoglio parlò per primo.
‘Non ti fare fermare da questi pensieri, non essere debole, prendi ciò che vuoi, sei nato per ottenere tutto ciò che desideri’
La ragione rispose.
‘Può non essere il modo giusto, rifletti, cosa stai facendo? E perché?Ascoltare solo la tua passione non ti porterà alla felicità’
Mentre dentro al suo cuore un’ altra voce implorava.
‘Lascialo andare, non è debolezza, è sentimento, non commettere qualcosa che ti potrà costare così tanto, non ferirlo, non ucciderlo’

Scosse ancora la testa.
La chinò.
Via.
Li voleva cacciare via.
Tutti i pensieri.
Tutte le voci.
Via.
Via.
Via.


Hanamichi socchiuse gli occhi.
Attendeva rassegnato il proprio destino.
Qualunque fosse quello che il suo cliente intendeva imporgli.
Respirò piano.
Si sentiva bruciare.
Si inarcò mugolando.
Avvertiva reazioni complicate in sé.
Respirò ancora.
Più piano.
Chiuse gli occhi.
Pensò un attimo che sentiva perfettamente il peso caldo di Rukawa su di sé.
Non capiva.
Perché si era fermato?
Cosa stava facendo?
La testa china.
Attraverso quel mare nero d’ inchiostro che era la sua frangia non riusciva a scorgere il suo sguardo.
Tremò.
Non sapeva cosa fare.
Forse si sarebbe dovuto alzare.
Sarebbe dovuto andare via.
Si.
Non avrebbe perso anche quella volta.
Doveva approfittare di quell’ attimo di smarrimento.
Allontanarlo.
Fuggire.
Non si mosse.
Immobile.
Continuava a cercare di calmare il proprio respiro.
Inutilmente.
No.
Non era un vigliacco.
L’ avrebbe affrontato.
Lo avrebbe fatto vergognare gridandogli in viso.. ‘mi hai usato, sei un bastardo, non ti fermi di fronte a niente, usi il dolore degli altri per il tuo piacere’
Ma poi avrebbe avuto la sua pietà.
Non la voleva.
Cosa voleva?
Cosa?
Si mosse.
Inarcò la schiena.
Iniziava a detestare quell’ immobilità.
Si strappò un gemito da solo, sfiorando in quel movimento i fianchi dell’ altro.
No.
No.
Perché risentiva il fuoco nelle vene?
Perché?
Basta non ce la faceva più.
Un’ unica lacrima isolata scese in una lenta parata d’ umiliazione sul suo volto.

Lo scintillio di cui si fregiò nel venire alla luce attirò lo sguardo blu scuro di quel ragazzo dai capelli neri.
Kaede si chinò.
Ogni centimetro costò alla sua anima una stilla di dolore.

Asciugò con un dito la pelle bagnata.
Lo baciò.
Dolcemente.
Così come tante volte aveva quasi fatto.
E mormorò ciò che per primo non avrebbe mai creduto.


“Vai via…………..presto………….torna a casa………….”

Un silenzio irreale accompagnò lo sgranarsi di quelle iridi nocciola.
L’ aria stessa sembrava essersi gelata, sembrava che sarebbe rimasta eterna, immutabile, come loro, in quell’ attimo.

Per mantenere quelle parole disperate Kaede si alzò, lasciò il calore dei corpi uniti e scivolò fuori dalla stanza.
Veloce.
Senza girarsi.
Neanche una volta.


Il rumore della porta che sbatteva sancì il riprendere a scorrere del tempo.
Hanamichi fissò il soffitto per un tempo infinito.

Il suo cliente.
Rukawa.
Lo aveva lasciato andare.
Mentre stava quasi per averlo ancora una volta.
Lo aveva lasciato andare.
Il cliente che notti e notti lo aveva costretto nel proprio letto, a pagare con il corpo una compagnia che sarebbe dovuta essere immateriale.
Il cliente che aveva scommesso con lui.
Che aveva vinto.
Che lo osservava.
Lo comandava.
Che otteneva sempre ciò che desiderava.


Senza più capire Hanamichi si alzò.
Meccanicamente si rivestì.
Un’ asola alla volta, un bottone alla volta.


Silenziosamente scivolò anche lui fuori da quella stanza che non avrebbe fatto parte dei loro ricordi condivisi, seguì il lungo corridoio, senza neanche capire dove stesse andando, fino a che non scorse la porta di quella camera.

La riconobbe immediatamente.
Anche se era uguale a tutte le altre.
La sua stanza.
Quella stanza.

Lentamente si avvicinò alla porta.
Senza un rumore.
Come se il proprio corpo avesse volontà indipendente dalla sua mente.
Appoggiò leggerissimo una mano sullo stipite.
E si affacciò, su uno spiraglio rimasto incautamente aperto.


Poca luce, ombre lunghe ovunque.
La finestra.
Pochi fasci di argentea lunarità.

Rukawa dai capelli neri come ebano prezioso, sul letto, supino, una mano sul ventre, che saliva a chiudere la propria bocca, a farsi mordere, l’ altra……

…persa nelle pieghe di un pantalone di tessuto scuro….in basso…..molto in basso…..impegnata in un movimento lento e poi veloce….lento e poi veloce…per prolungare un piacere……per perdersi ancora a lungo nell’ oblio………..la testa si stava lentamente reclinando…il petto si alzava e si abbassava, la camicia aperta, per il caldo che quella pelle oramai provava……..la mano sempre più veloce……un mugolio breve, ma intenso sfuggì alla mano che avrebbe dovuto coprirlo…….

Hanamichi capì.


Quel corpo che si contorceva fra le lenzuola, accaldato e frustrato, cercava sollievo in quella mano.
Per non commettere errori ben diversi ed incancellabili.

Lui dai capelli rossi e gli occhi di miele sentì la proprie iridi bagnarsi velocemente.
Ma non diede il proprio permesso alle lacrime.
No.
Si coprì le labbra con una mano.
Coprendo un gemito disperato.

Rivedeva cento volte in un istante quel corpo perfetto e stupendo che si inarcava solitario sulle lenzuola candidissime.
Il viso chiaro sudato, l’ espressione delle labbra coperta dalle dita, gli occhi socchiusi in lame piene di piacere.
Improvvisamente il profilo delle labbra si stagliò nitido, la mano che doveva coprirle si era artigliata in cerca d’ aiuto su quelle lenzuola, le stringeva ad intervalli regolari, sempre più frequenti, sempre più brevi.


Ed in quel preciso istante Hanamichi desiderò essere lì con lui.
Sotto di lui.
A provocare, aprendogli il proprio corpo, quel piacere.
Voleva quelle mani su di sé.
Voleva gemere al posto suo, per lui.
E farsi lusingare dal suo sguardo, farsi mordere le labbra da lui, la pelle ed infine farsi preparare, sentire quelle dita sempre più in fondo, sempre più lunghe e farsi schiudere le gambe e gridare piano mentre lo faceva appoggiare contro di sé e tremare di paura e aspettativa e guardarlo e chiedergli, supplicare ‘piano..piano..ti prego….non farmi male….’ solo per potergli regalare l’ illusione di avere il potere e vederlo poi sorridere appena e fare promesse che avrebbe mantenuto nel momento in cui, inarcandosi, sarebbe affondato nel suo corpo caldissimo e bagnato.


Brividi.
Brividi di pura eccitazione scorrevano come acqua sul suo corpo.
Lui dai capelli rossi chiuse gli occhi, si morse le labbra, profondamente.
Tentando di riprendere un controllo che sfuggiva viscidamente.
Il tempo placò lievemente i suoi sensi.
Appena si poté di nuovo muovere Hanamichi scappò.
Al freddo, in strada, a correre per dimenticare ciò che mai più avrebbe dimenticato.

Mentre al buio, una mano affondata a ghermire i cuscini dietro di sé, Kaede raggiunse un piacere traditore ed insulso.


Continua……….

M:Ma come è stato galante in questo cap il nostro Ru…….finalmente comincia ad imparare…..
H: Ma che imparare e imparare……aaaah….aiuto….no, non voglio tornare in camera, Kae lasciami….LASCIAMI…..no, non voglio provare la scena finale con te…..no, l’ abbiamo già provata 275 volte da quando è cominciata questa storia ….no…..non mi interessa…..noooooooooo….aiuto…mi sta legandoooo……..autriceeeeee…………..
M:Oh vado a farmi una nuotata………sono giovani , devono divertirsi …………..
H: (La voce che sfuma impietosamente…)Aiutoooooooooooooooooooooooooooooooo……………………………..

Un grazie di cuore a tutte le ragazze delle mail …….davvero…..vi voglio tanto bene…………ed imparerò il giapponese così potremo tradurre le dj insieme, ok?

Un bacio
Mel

La mia mail è MelKaine@hotmail.com


*Per chi fosse tremendamente curiosa mi dispiaceva non scrivere le parole che Ru dice ad Hana, anche perché se io incontrassi una ff scritta così in cui poi non c’ è riportato cosa si dicono propenderei per l’ impiccagione dell’ autrice/autore……..quindi eccovi cosa si dicono…..


“Bravo…vieni qui…tranquillo……non siamo qui per pietà……chiediamo solo una conferma……poi andiamo via…… ………………dai…..rilassati…………non guardarli se non vuoi ………………..va tutto bene………………………”


Fictions Vai all'Archivio Fan Fictions Vai all'Archivio Original Fictions Original Fictions