Portar fuori la spazzatura


T
ITOLO: portar fuori la spazzatura
PARTE 1\1
SERIE Saiyuki
AUTORE  Niane
PAIRING  gojyo-hakkai
RATING pwp-___- e pure ooc ç_ç

NOTE la fic si colloca “tre anni prima” ed è la  continuazione dei ricordi
di Gojyo presentati in ‘incantesimo rosso’ ed ‘inno ai vivi’


DEDICHE  Visto che ogni promessa è debito è giusto che chi è causa del suo
mal pianga se stesso e si prenda tutte le responsabilità: ho scritto questa
cosa solo ed esclusivamente per Ria, per farle un regalo di compleanno
gradito…se è masochista ed apprezza le mie fic su Saiyuki non è colpa
mia…-____-

TANTI TANTI TANTI AUGURI RIA ^_^ (Ti avevo fatto anche una torta a tre
strati..ma l’ha trovata prima Goku ^_^)



                             Che cos’è in realtà l’amore?
                     Domanda stupida visto che non lo sto cercando


“Che cosa pensi di fare ora, Hakkai?”
“Che cosa penso di fare? Per un po’ credo che resterò con Gojyo…devi sapere
che si dimentica  sempre il giorno in cui viene ritirata la spazzatura. E’
una cosa che mi preoccupa molto”


                                                      ***

Il tramonto incendiava il cielo, rendendo le nuvole scure che lo tagliavano
scarlatte e slabbrate come  ferite ancora aperte.
Se fossi stato più sveglio o solo più attento,  avrei capito che quella
sera era rossa come un presagio, ma avevo mangiato troppo e bevuto ancor di
più. Incredibile: che la piccola scimmietta fosse un animale e mangiasse come
una locusta l’avevo già capito, ma che quel bonzo vizioso fosse una specie
di spugna deambulante…
“Sono una bella coppia quei due, si compensano a vicenda, non trova?”
Sollevai un sopracciglio fissandolo perplesso “Chi il bonzo corrotto e la
scimmia demente? Favolosa….in un circo farebbero miliardi”.
Rise scuotendo la testa, “Avanti, si vede che si è divertito. Quei due le
piacciono”.
Risposi con uno sbuffo derisorio, sollevando la mano per cacciare
all’indietro i capelli, un gesto che di solito affascina le mie donne, ma
sfiorai solo il polsino, ruvido e sbottonato, della camicia che mi copriva
la testa semi rasata “Bhaaa” sbottai irritato.
Hakkai rise sottovoce “Posso chiederle come mai si è tagliato i capelli?”
Lui poteva anche chiedere, ma io cosa potevo rispondere? Che le illusioni
che mi ero impilato a fatica in quelle settimane erano state fatte crollare,
piccole tessere di un domino perdente, dalle parole di un bonzo dagli occhi
violetti?
“Certo che sei un tipo strano tu.”, ridacchiai stringendomi nelle spalle, “ Ti
metti a fare domande così personali dandomi del lei. Dopo tutto quello che
c’è stato non credi sia ora di darci del tu?”
“Scusate…scusa. Non volevo essere indiscreto” e sorrise.
Mi strinsi nelle spalle osservando il sangue del tramonto oscurarsi troppo
in fretta coperto da nubi sempre più dense e scure, “Volevo vedere se ero in
grado di cambiare qualcosa…”.
Era una bugia. L’avevo fatto e basta, senza pensare, senza chiedermi perché
lo stessi facendo, un altro inutile tentativo di resistenza per non aprire
la bocca ed iniziare ad affogare nel mare di sangue in cui stavo nuotando.
“…ma sono stato solo capace di ridurre il mio fascino innato”, dissi alla
fine.
Hakkai rise dolcemente girando il viso verso il mio, guardandomi un istante
negli occhi “ Su questo non c’è dubbio…”
Annuii deciso in risposta, prima di rendermi conto che non mi aveva affatto
smentito. “Come sarebbe a dire non c’è dubbio? Bella riconoscenza! Uno si fa
in quattro per risbatterti le budella nella pancia e in cambio non ottiene
nemmeno l’ombra di un complimento!”
“Non è corretto mentire”.
“Io ti ammazzo”, sibilai facendo un balzo in avanti per afferrarlo, ma lui
aumentò l’andatura, un misto tra una marcia ed una vera corsa, sfuggendo
come un’anguilla dalle mie mani, evitando magicamente di sbattere contro le
persone che si affrettavano per raggiungere le loro case o che si
attardavano davanti alle bancarelle di frutta ancora presenti.
Si bloccò di scatto, improvvisamente, il viso alto verso il cielo.
Gli rovinai addosso e, anche se le mie mani si strinsero attorno alla sua
vita, per impedirgli di cadere e di sfuggirmi di nuovo, urtò contro un
banchetto di melanzane, sparpagliando a terra le verdure tonde e scure.
“Mi scusi madamigella, ma il mio amico è un po’ stupido”, spiegai
inchinandomi davanti al donnone, che ci guardava furioso, dall’altra parte
del banco,  piegandomi a sfiorarle la mano con le labbra.
La sentii sul collo: fredda, grossa, impietosa mentre scivolava con un
brivido sulla mia spina dorsale.
“Piove”, sussurrò Hakkai risistemando le melanzane sul bancone.
Sporadiche gocce, grosse come piccole pere trasparenti, si spiaccicavano
silenziose a terra.
“Torniamo a casa”.
Camminammo veloci, una marcia forzata, rapida tuttavia ancora lenta se
paragonata alle corse delle gente che ci passava attorno coprendosi la testa
con le mani, urtandosi a vicenda nella frenetica speranza di raggiungere un
riparo.
Quanta fatica per nulla: la pioggia non ha mai fatto male a nessuno.
Le madri uccidono.
I ricordi uccidono.
Anche l’amore uccide, ma la pioggia si limita a cadere a terra, bagnando i
vestiti, senza riuscire nemmeno a cancellare le macchie rosse che tatuano la
nostra pelle.
E alla fine, per quanto tu abbia corso, quando arrivi a casa sei sempre
fradicio.
“Odio la pioggia” sussurrò Hakkai chiudendosi la porta alle spalle ed
appoggiandovisi contro.
Odio…una parolina così strana sulla bocca di un tipetto come lui, credevo
che ormai tutto gli fosse così indifferente da farlo sorridere sempre.
Mi tolsi le camicie bagnate gettandole in un mucchietto scomposto in un
angolo, “Ti va una partitina?” chiesi accendendo il fuoco sotto l’acqua per
il caffé.
“No”.
Secco, senza aggiungere scuse o spiegazioni; mi girai per controllare che
fosse davvero lui e di non essermi portato a casa un Hakkai sbagliato.
Era lui: l’idiota che odiava la pioggia e che si era messo a guardarla dalla
finestra, i vestiti bagnati che gli si incollavano al corpo come una seconda
pelle disegnando i muscoli delle braccia e della schiena, i capelli che
piangevano pesanti e gonfi sul suo collo sottile. Lo raggiunsi con un sospiro
affranto: anche se la scimmietta maleducata se ne era tornata al tempio con
il suo padrone, pareva proprio che il mio ruolo da babysitter non fosse
ancora terminato.
“Prenderai freddo”, l’avvertii posandogli una mano sulla spalla . Il suo
profumo di pelle bagnata, di aria fresca m’inondò le narici. Inspirai con
forza, ascoltando il ticchettio violento della pioggia contro la finestra.
“E’ sbagliato”, disse all’improvviso, senza girarsi ed io ritirai di scatto
la mano dalla sua testa, stringendo il pugno con così tanta forza che le
unghie corte disegnarono delle piccole lunette rosse sul mio palmo; non mi
ero accorto che stavo giocando con i suoi capelli.
“Dici?”, chiesi, anche se sapevo già che aveva ragione, deglutendo a fatica
il macigno che mi ostruiva la gola. Lui era un uomo e non la bella donna
dagli occhi tristi che mi ero inventato; non dovevo aver voglia di
accarezzarlo.
“Non dovrebbe cadere oggi. Dovrebbe cadere quando la gente muore, non quando
è felice”.
Gli posai le mani sulle spalle, stringendo appena. Lo stavo facendo per lui,
per consolarlo, ( o forse impilavo di nuovo la mia torre, sperando che questa
volta non passassero stupidi bonzi a buttarmela giù?)
“Io credo”, sussurrai debolmente premendo la guancia contro la sua tempia, la
sua pelle fredda che scaldava il mio viso, “che a lei del tuo stato d’animo
non freghi assolutamente nulla”
Si girò di scatto, la sua spalla si scontrò dolorosamente con la mia
clavicola[ e per forza sei tutt’ossi...e mangia di più >__<NDNia],
fissandomi quasi con astio.
Il suo petto si alzava e si abbassava contro il mio, la stoffa bagnata e
fredda che mi gelava la pelle facendola rabbrividire. Attraverso i pantaloni
bagnati sentivo il muscolo caldo della sua coscia premere contro la mia
gamba e il suo profumo tornò a penetrarmi, più violento di quello della
femminilità di una splendida donna…
“Non dovrei odiarla?”
“E perché no? Di sicuro non le dà fastidio” soffiai sul suo viso.
Scoppiò a ridere abbandonandosi con la schiena contro il muro, “Mi sa che hai
ragione…non è lei la mia penitenza, sei tu”, riuscì ad articolare tra un
accesso di risa e l’altro.
Di cosa rideva, poi, chissà?
Gli feci la linguaccia arricciando il naso oltraggiato “Non sono una
penitenza,  i miei capelli non sono di sangue, ricordi?  IO sono come il
fuoco, una bellissima fiamma che non brucia”.
Scosse  piano la testa cercando di trattenere le risate e sollevò una mano
ad accarezzare quella specie di tappetino erboso appena nato che mi ero
lasciato in testa.                                                                                                             “Così sembri solo la capocchia di un cerino” osò dire e il suo profumo scivolò piano          sul mio corpo, coprendomi di piccoli brividi.
Con un ringhio piantai le mani sul muro, imprigionandolo tra le mie braccia
ed avvicinai il viso al suo sibilando maligno: “Eri più simpatico come Cho
Ghono, sai?”
Mi sorrise divertito “Mi dispiace”.
“Ti dispiace cosa?” sussurrai.
“Che mi trovassi più simpatico prima”.
Scossi la testa ridendo, “Sei insopportabile…e non dire che ti dispiace!”,               l’avvertii posandogli una mano sulla guancia. La sua pelle era tiepida sotto                     il mio palmo. Invitante.
Avevo bisogno di una sigaretta.
Da quanto non fumavo più una sigaretta?
“Gojyo?”, sussurrò piano, un vagito flebile ed io spostai lo sguardo ad
incontrare il suo. I miei occhi si riflettevano nei suoi: due pozze di
sangue su un manto d’erba. Non c’era fuoco nei miei capelli freddi, né
tramonti o mele rosse e lui, tra tutti quanti solo lui, aveva riconosciuto
il colore del sangue versato dall’amore.
“Hakkai” mormorai, la mia bocca che sfioravano le sue labbra fresca, “non
posso farti entrare un’altra volta nel mio letto”, borbottai debolmente
accarezzandogliele con la lingua, premendo leggermente sulla sottile fessura che
le univa.
Gemette socchiudendo la bocca, lasciandomi entrare nel suo calore vellutato
ad assaporare la barriera dura dei denti. La sua lingua mi venne incontro,
avviluppandoci in un abbraccio fatale.
“C’è sempre il mio”, sussurrò rabbrividendo, mentre scendevo sul suo collo,
inseguendo un velo fuggiasco di saliva.
“Co…cosa?” balbettai congelandomi.
“Il mio letto”, ripetè in un sussurro, le mani scivolarono sui miei fianchi,
lasciando che rabbrividissero sotto il loro tocco appena accennato, e poi
risalirono infilandosi sotto le ascelle, aggrappandosi alle mie spalle
mentre la sua bocca tornava imperiosa a sequestrare la mia.
Tutto smise di esistere e per un imprecisabile momento io divenni la mia
lingua, ignorante di ogni cosa al di fuori di me stessa .
Solo quando le sue gambe mi circondarono la vita, mi resi improvvisamente
conto che era indietreggiato sino all’unico grosso tavolo dell’appartamento.
“Hakkai”, sussurrai debolmente aiutandolo a stendersi sul mobile.
Come ci si comporta con un uomo?
Cosa diavolo si fa ad un uomo?
Gli tolsi il monocolo e l’occhio ferito si strinse appena su se stesso.
Striature di un rosso nerastro violentavano l’iride.
Ha ragione Goku: hai due occhi bellissimi’.
Non glielo dissi. Mi piegai sul suo viso sfiorandogli la palpebra offesa con
le labbra, scendendo in diagonale  lungo la linea affilata del naso,
attraversando la guancia per raggiungere il lobo. Un gemito sordo gli scappò
dalle labbra quando i miei denti lo strinsero appena, la lingua che
giocherellava distratta con gli orecchini d’argento.
Da quando portava gli orecchini?
La lingua penetrò il suo orecchio, titillando la pelle sensibile ed Hakkai
si inarcò con forza, ansimando; il suo bacino che sbatteva sul mio
permettendomi di sentire il suo membro durissimo premere da sotto i
pantaloni.
Duro, compatto, minaccioso ed attraente e così…diverso.
Mi allungai su di lui schiacciando la mia virilità altrettanto eccitata
contro la sua, soffocando il gemito sorpreso contro la sua gola. Iniziai a
scivolare su di lui, lasciando che i brividi violenti di quel duello ad armi
pari mi squassassero lo stomaco facendolo ribollire con violenza.
“Gojyo” gemette artigliandomi le natiche, costringendomi a gravare su di lui
con tutto il mio peso, schiacciandolo.
Gli morsi la gola, leccando piano lo stampo rossastro lasciato dai denti,
percorrendogli il corpo con mani affamate.
Con un sospiro violento gli strappai di dosso  la camicia, lottando con la
stoffa bagnata che gli si era incollata addosso come una seconda,
fastidiosissima pelle, liberandogli il petto. I muscoli disegnavano linee
sottili e solide, una pianura perfetta su cui spuntavano ritti i capezzoli
appena rosati. Gli accarezzai il collo con il dorso della mano, scendendo
piano, una carezza a scatti indecisi, scivolando sulla pelle ancora umida e
fermandomi di colpo.
Il respiro di Hakkai era veloce, rumoroso nel silenzio perfetto della
stanza.
Sfiorai con un polpastrello  uno di quei sassolini rosati e Hakkai si inarcò
sollevando la schiena dal tavolo, stringendo il labbro inferiore tra i denti
fino a rompere la pelle delicata.
“Non lo fare”, ordinai chinandomi a leccare il piccolo taglio: sapeva di
ferro e di ruggine.
Chiusi i polpastrelli attorno al capezzolo, stringendolo con forza.
“Gojyo”, ansimò e per la prima volta nei suoi occhi  brillò qualcos’altro
oltre al rimorso e all’indifferenza.
Scivolai con le labbra sul suo petto leccando la pelle umida di
pioggia,fermandomi a tratteggiare con la punta della lingua l’areola scura
dei capezzoli, prima d’inerpicarmi lentamente su una di quelle piccole punte
saporite. Trattenne il fiato, il petto inarcato, spinto bramoso verso le mie
labbra ed lo accontentai, chiudendo la bocca attorno al suo bocciolo di
carne, succhiandolo e titillandolo al contempo con la lingua. Rilasciò il
respiro con un gemito roco agitandosi scomposto sul tavolo freddo.
Non mi bastava. Volevo di più. Senza pensare gli accarezzai la coscia,
risalendola lentamente dal ginocchio verso l’inguine esitando appena.
Qualcosa mi ricordava che era un uomo, che non sarei affondato nell’oblio.
Senza sollevare il viso dal suo petto spostai la mano appoggiandola sul
rilievo imponente del suo pene: una sbarra pulsante sotto la stoffa umida
dei pantaloni.
Strinsi appena le dita, palpeggiandola attraverso la tela, sbirciando il
viso di Hakkai trasfigurarsi di piacere. Ignorando quell’antipatica vocetta
( che aveva la stessa irritante cadenza di quella di una stupida scimmia),
lo spogliai completamente, facendo forza contro me stesso per distogliere lo
sguardo dal muro davanti a me e fissarlo.
Un uomo nudo sul mio tavolo.
Un uomo nudo ed eccitato sul mio tavolo.
Allungai la mano, sfiorando per un dito al sua virilità minacciosa e
svettante ed Hakkai gemette con violenza, contorcendosi sotto la mia
carezza.
Ridacchiai toccando velocemente con il polpastrello la punta umida e di
nuovo il placido Hakkai sussultò con violenza. Era piacevole scoprire come
ero in grado di infrangere la sua compostezza,mi dava quasi un senso di
onnipotenza.
Senza pensare mi chinai su di lui, sfiorando la punta liscia del suo membro
con la lingua, una leccata veloce che mi riempì il palato col suo gusto
agrodolce.
“Bastardo” gemette artigliando il tavolo.
“questa si che è una sorpresa…conosci anche le parolacce?”
Quanti avevano potuto vedere quell’aspetto selvaggio e scomposto di Hakkai?
Di sicuro non quella donna, con lei lui era stato di certo sempre più che
gentile. Lei non gli aveva potuto far perdere il controllo.
Lei non….non aveva potuto….non avrebbe mai dovuto….perchè ad un tratto era
così importante cosa lei era riuscita a fargli?
Inspirai con cattiveria aprendo la bocca e richiudendola di colpo attorno
alla sua virilità, iniziando a succhiare piano quel velluto duro e corposo.
Improvvisamente non  importava più che Hakkai fosse un uomo.
La carne dolce che m' invadeva la bocca facendomi rimescolare il sangue
in mille vortici, i gemiti inarticolati che sovrastavano lo scrosciare della
pioggia, le mani che si muovevano affannose tra i miei capelli: tutto quello
era semplicemente Hakkai.
“Goyjo”, ansimò inarcandosi di scatto ed io sentii il suo membro tremare,
la punta che vibrava violenta contro la mia lingua e le sue
mani mi artigliarono la testa, costringendomi ad abbandonarlo per
raggiungere la sua bocca. La sua lingua s’impossessò della mia,trascinandola
tra le sue labbra e bloccandola tra i denti per iniziare a succhiarla piano,
disegnando piccoli cerchi concentrici sulla sua punta,in una conturbante
imitazione di quello che io gli avevo appena fatto. Con un gemito l’afferrai
ai fianchi trascinandomelo contro, premendo il mio inguine duro e costretto
nei pantaloni contro il suo membro bollente.
“Ti voglio”, sussurrò così piano che dubitai l’avesse detto, facendo
scivolare le dita sulla mia spina dorsale fino alla cintura dei pantaloni,
slacciandoli piano e lasciandoli cadere a terra.
Tremai quando le sue dita raggiunsero il mio membro tumido accarezzandolo
incerte: piccoli tocchi rapidi per fuggire in fretta e ritornare,
lasciandomi ansimante tra le sue braccia.
“Hakkai”, biascicai succhiandogli al gola, 'Hakkai' era l’unica parola che
conoscevo.
“Hakkai”, ripetei spingendolo nuovamente disteso sul tavolo, per far scorrere
le mie mani su tutto il suo corpo, dalle spalle alla punta dei piedi.
Gli mordicchiai la caviglia, deciso a divorare ogni centimetro del suo
corpo, sentendo il sangue pulsare sempre più veloce, seguendo il rimo
martoriato del suo respiro accelerato.
Salii,  lasciando una traccia rosata di piccoli morsi sul suo polpaccio,
leccando piano la piccola infossatura del ginocchio prima d'inerpicarmi lungo
l’interno coscia.
Profumava di muschio e di terra bagnata.
Sfiorai piano i suoi testicoli, sorridendo contento nel sentirlo cercare,
inutilmente, di coprire i  gemiti sempre più frequenti e rumorosi.
Spinsi più a fondo, inoltrandomi tra le sue cosce, raggiungendo la sua
apertura e finalmente Hakkai gridò sollevando il bacino per lasciare più
spazio alla mia lingua curiosa che lo penetrava piano, spingendosi dentro di
lui, assaporandolo.
“Gojyo”, supplicò artigliando il tavolo, iniziando a  muoversi scomposto
sopra di me.
Ansimando violentemente lo trascinai sul bordo della tavola, lasciando che
allacciasse le gambe attorno alla mia schiena.
“Ti farà male”, l’avvertii.
“Lo so”, sorrise.
“Non sei costretto a farlo…io non lo farei mai” e non lo dicevo per scherzo.
“Lo so”, sorrise di nuovo.
“Potresti anche sanguinare”.
“ Va più che bene, noi siamo legati dal sangue” . Questa volta non sorrise,
i suoi occhi si limitarono a riflettere i miei.
Gli affondai la mano tra i capelli, rubandogli un  lungo bacio prima di
forzare il suo corpo ad accogliere il mio. Rimasi immobile dentro di
lui,aspettando con ansia che il suo corpo rigido ed immobile si rilassasse e
mi accogliesse completamente.
“Hakkai?”, sussurrai baciandogli la gola morbida, leccando piano la pelle
sensibile, sorridendo appena nel sentirlo tremare sotto le mie carezze.
Non mi rispose, limitandosi a chiudere gli occhi e ad intrecciare le dita
dietro al mia nuca.
Piano iniziai a muovermi, spinte leggere, gentili fino a che i suoi gemiti
strozzati non mutarono tono assumendo una piacevole nota acuta e le sue mani
non mi artigliarono la schiena, striandomi la pelle, costringendomi a
premere dentro di lui con forza, sempre più in profondità sempre più veloce
e più veloce ancora fino a che il piacere non esplose avvolgendoci con la
sua luce rossastra.

Lo sollevai dal tavolo, trascinandolo nel letto più vicino: il mio.
“Questa è davvero l’ultima volta che ti faccio entrare nel mio letto,
chiaro?”, sussurrai gettandogli il mio braccio sul petto: sotto il dorso
della mia mano il suo cuore batteva ancora accelerato.
“Va bene”, espirò sorridendo allungandosi a sfiorarmi la zazzera morbida,
“Dovresti farli ricrescere” mormorò piano.
Annuii in silenzio.
La pioggia aveva smesso di cadere.
“Hakkai?” , lo chiamai dopo un’eternità.
“si?”
Credo di amarti…lo potevo dire?
“Non ho bisogno di qualcuno che mi porti fuori la spazzatura”.
No, non lo potevo dire: c’era troppo sangue nella parola amore.
“Lo so”.

            Da quella sera vivere non mi da più tanto fastidio.






 

 

 



 


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