Personaggi: Edward Elric, Envy, un po' tutti xD
Rating: Nc-17
Avvertenze: Nya!°.° E' una AU. Niente alchimia, niente bracci artificiali,
solo i personaggi di FMA mossi un po' come mi pare. O meglio, secondo un filo
logico pressohé INESISTENTE. Tutto accade per caso.<3
I personaggi sono tutti (c) Hiromu Arakawa-sensei, purtroppo per me, fortuna
per loro. La storia si basa su eventi realmente accaduti, ma non starò a
menzionare né quali, né chi è stato la causa di tutto ciò. Spero apprezzerete
comunque, anche se è squallida. *inchino*
Piccola nota: Anche se EnvyEd, in questa fic non troverete Envy. O meglio, non
proprio lui. L'idea di utilizzare il suo corrispettivo umano, ossia William, è
nata dal fatto che un ragazzo coi capelli verdi, in un liceo abbastanza
rinomato, e per di più ai primi del 1900, sarebbe stato un po' subdolo e fuori
luogo. Sappiate che comunque, William e Envy sono la stessa, medesima cosa.
Poisoned Milk
parte VII
di Nacchan
"Altre penne trattino del peccato e
della desolazione."
Mansfield Park - Jane Austen.
Rimbombava, il rumore ferreo delle ruote sulle rotaie.
Tu-tu-tum, tu-tu-tum, tu-tu-tum, pressapoco come il mio cuore, stanco ormai di
andare veloce. Rumore martellante, viscerale, che nasceva nello stomaco e si
irradiava nel petto, salendo lungo il collo, pulsando nella testa.
Vuoto. Una distesa di niente in un mondo di niente. A momenti, se qualcuno me
lo avesse chiesto, non avrei saputo dire né dove ero, tanto meno come mi
chiamavo.
L'unica cosa capace di uscire dalle mie labbra, in quel momento, era il
sussurro di un nome.
Il solito nome.
Ma d'altronde, neanche il tocco di due dita sulla spalla mi facevano tornare
coi piedi per terra. Quindi non avrei avuto bisogno di aprir bocca, almeno per
le prossime tre ore.
Tu-tu-tum, tu-tu-tum, tu-tu-tum.
Quando salii sul treno, andai nel vagone più lontano possibile da quello
dove stava William.
Occhio non vede, cuore non duole, pensavo. Non tanto per lui.
Ma perché vederlo mi portava alla mente Al, e Al mi portava la mente terrore,
orrore, vergogna, e chissà cos'altro. Quindi, stavo lontano dalla fonte di
tutto.
Almeno per quel poco che potevo fare.
Tu-tu-tum, tu-tu-tum, tu-tu-tum.
Il colore scuro delle pareti della cabina, la luce soffusa delle lampade
che sostituivano quella di un sole ormai prossimo a sorgere, e un paesaggio
sempre più simile a qualcosa di davvero troppo uniforme per essere reale, mi
aiutavano ad estraniarmi da quello stesso luogo.
Tu-tu-tum, tu-tu-tum, tu-tu-tum.
Tum.
Non passò tanto tempo da quando cominciai a sentire la voce di Al sussurrare
qualcosa al mio orecchio.
Fai schifo.
Non ti sopporto.
Non voglio più vederti.
Non ti far più vedere.
Muori.
Sparisci.
Scompari.
Tu non sei mio fratello.
I miei polpastrelli si poggiarono sul vetro, la condensa del primo mattino
che penetrava nella carne, il calore che la faceva tornare acqua.
"Alphonse..."
Un bisbiglio. E quella goccia d'acqua, lenta, scivolò sul riflesso del mio
viso.
Per me che non avevo neanche la forza di piangere.
Era strana, la sensazione di salsedine sulla pelle. L'aria ne era totalmente
impregnata.
Il nostro albergo, una bettola più che altro, si trovava a pochi metri da una
spiaggia, l'acqua cristallina che si infrangeva sugli scogli al limitare della
costa. Non era molto ampia, ma per una trentina di persone sarebbe stata anche
troppo abbondante.
Meglio così.
"Bel posto, nevvero Elric?" mi sentii dire alle spalle, mentre qualcuno mi
dava una pacca leggera.
Sollevai di lato la testa, intravedendo il viso sorridente del professor
Jhonson.
Anche tu sei stato uno dei miei problemi.
"Ah... - mormorai, sforzandomi di ricambiare e tornando a guardare la spiaggia
dalla grande finestra della hall. - Si. E' davvero un bel posto."
Mi spaventai quasi della mia voce piatta. E probabilmente anche il professore,
dato che avvertivo il suo sguardo sulla mia nuca.
Un delicato pat pat sulla testa.
"Qualcosa non va, Edward?"
Ha impiegato tre anni per capirlo, se n'é accorto, signor Jeremy Jhonson?
"No. - Gentile ma inutile tocco. - Va tutto bene."
Tutto bene, tutto bene, tutto bene, tutto bene. Finché la parete non
riassorbì la mia voce.
"Sicuro?"
Insistente.
"Si. Grazie."
Un finto sorriso, di quelli che tornano sempre utili, quando non vuoi sentirti
compatito da nessuno.
Quanti ne avrò usati, fino ad oggi...?
Lui si limitò a fare spallucce, e con un altro sorriso si congedò, andando
nella sua stanza. L'aria era invasa dal chiacchiericcio delle due classi
unite, che intanto stavano girando l'albergo, stranamente interessati. I raggi
del sole illuminavano debolmente l'abitacolo, accendendo quel colore rosso che
tappezzava le pareti, filtrando attraverso i cristalli del lampadario, la cui
luce si frammentava in mille pezzi, per scivolare come stelle tutto attorno.
Ad Al sarebbe piaciuto. Lui amava i giochi di luce.
"Sai tante cose di Cardiff, Will!" sentii da uno dei miei compagni.
Poggiai la testa sul vetro fresco, alla ricerca di refrigerio.
"Mio padre è di qua. - Come squillava, la sua voce, Dio. - Aiutava il nonno
quando usciva in mare a pescare, da bambino. Quando si è sposato con la mamma,
abbiamo vissuto qua per meno di dieci anni, poi ci siamo mossi verso Londra."
"La tua vecchia casa è vicina?"
Perché le vostre voci sono così allegre?!
"Sì, se il professore ci lascia liberi, vi ci porto! La signora che vi
abita ora è una vecchina simpatica."
Perché mi bombardate la testa?
"Grande!"
State zitti.
"Ma guardate che non è niente di che, in confronto alla casa che abbiamo
ad..."
ZITTI!
Sbam. Un pugno sul vetro, il rumore che rimbombò per qualche secondo
nell'aria.
"...Ed?"
"Elric?"
Per qualche istante il silenzio calò, grave. Dovettero vedere muoversi la mia
coda sulle spalle, poco prima di sentire un soffio, la mia voce.
"Scusate... - mi girai piano, un altro sorriso schifosamente falso sfoderato
con abilità - Scusate."
Non riuscii a incrociare lo sguardo di William neanche per sbaglio. Lo volevo
evitare come la peste. Lo volevo lontano da me il più possibile.
Dio, perché non sono rimasto a casa...
Perché c'era un Alphonse incazzato a morte con me..?
I miei piedi si mossero da soli, dirigendosi verso le scale al centro della
stanza.
"Elric?" fece Jhonson.
Che carino, sembrava quasi preoccupato.
"Sono stanco. Stanotte non ho... dormito. - Lacrime, lacrime, lacrime -
Vado in camera."
Un cenno della testa.
E poi senza neanche aspettare una risposta, cominciai a salire le scale,
lento, come un fantasma che non trova pace, come un pezzo di stoffa lercia
abbandonata al cielo, spinta dal vento leggero.
"Fratellone?"
"Si, Al?"
Dieci anni io, quasi nove lui, sdraiati sull'erba, i raggi del sole che caldi
battevano sui nostri corpi.
C'erano tante farfalle che si posavano sui fiori. Tanti passeri che
cinguettavano sugli alberi. La brezza pomeridiana soffiava, leggera, portando
un po' di refrigerio in quella che era una torrida giornata di Luglio.
"Mi dirai sempre tutto, fratellone?"
Si sedette, avvicinando al petto le ginocchia e stringendole a sé, per poi
cullarsi. E io lo seguii con gli occhi, quei capelli d'un castano così chiaro
che alla luce del sole diventavano biondi.
Come i miei.
Si voltò, poggiando la testa sulle braccine grassocce, frutto di tutto il
latte che beveva alla mattina, compreso il mio.
"Si, Al."
"Tutto?"
"Si."
Un sorriso si fece spazio tra quelle tenere guance rosee.
"Tutto tutto?"
"Tutto tutto."
Dentini nuovi, candidi, timidamente uscivano allo scoperto.
"Ti voglio bene, fratellone."
"Anche io, Alphonse."
Avevo tradito forse la sua fiducia?
Avevo mancato a quella promessa di bambino?
Al, io ti avrei detto tutto, te lo giuro su me stesso. Ma questo no. Questo
non avresti mai dovuto saperlo. Era sporco, era sbagliato, e lo è diventato
ancor di più quando i tuoi occhi si sono poggiati sul mio viso, sul mio corpo,
sulla mia anima lurida, e macchiata di qualcosa di indelebile.
Ah, la forza di piangere era tornata.
Credo.
Sentivo l'umido sul cuscino, qualcosa che prima non c'era.
Alphonse era la luce che si era spenta, per poi riaccendersi ancora più
luminosa.
E adesso, era solo una misera fiammella prossima alla morte.
Strinsi le coperte convulsamente, aprendo e chiudendo ritmicamente il pugno,
mentre il mio viso non si contraeva in nessuna espressione, i miei muscoli
rimanevano immobili.
Come se, a parte quella mano destra che si piegava e rilassava, quasi
automaticamente, fossi morto.
Le mie orecchie percepivano, ma non registravano, il distinto rumore di
stoviglie che venivano buttate nel lavello, pronte ad essere spazzolate,
disinfettate, e rimesse al loro posto. Distinguevano il vociare delle
cameriere pettegole, che discutevano su quale di quei ragazzi tanto carini e
apparentemente di buona famiglia fosse disposto a passare una serata con loro.
Dio, come erano fini le pareti della mia stanza.
"Alle tre davanti alla hall per l'escursione. Avete due ore di tempo,
vedete di non fare tardi."
Così aveva detto Jhonson in quell'istante, al piano di sotto.
E subito dopo era uno scalpitare di piedi su per gli anditi, i corridoi, le
scale.
"Elric - la porta si aprì di scatto, e io sobbalzai sul letto. - Vado nella
stanza di Matthews, ok?"
"Mhmh... - mi girai a fatica, fingendomi in dormiveglia e agitando un braccio
- Ok Sanders..."
"... Ti ho svegliato?"
"Non preoccuparti..."
"Ok... - Sorriso candido. - A dopo!"
"A dopo..."
E con un colpo secco, la porta si richiuse.
Anche io avrei voluto sorridere a quel modo, adesso.
Dopo qualche minuto, ogni rumore si dissipò nell'aria, e il silenzio mi
fece tornare alla mia apatia.
Stringi, molla, stringi, molla.
"Toc toc." bussava Al ad una porta immaginaria.
Toc. Toc.
"Mh..." mormorai, e non credo che chiunque fosse dietro quella porta percepì
il mio invito ad entrare.
"Chi è?" chiedevo io, spalle al muro un braccio che copriva gli occhi.
Tuttavia la porta, lenta, si aprì di nuovo.
"Sono il lupo mangiafrutta!"
Ingrossava sempre la voce, per farsi grande. Ma suonava sempre così carino...
L'aria venne invasa dal leggero rumore della suola di plastica che
incontrava il legno del pavimento.
"Che frutta vuoi?"
"Ed."
...Non era proprio così, che funzionava a quel tempo.
Altri passi che avanzavano. Sicuri, mai titubanti, si avvicinavano al letto.
Il materasso, poco dopo, si ritrovò ad accogliere due corpi, come se il mio
non fosse sufficiente.
"Ed?"
Una punta di rammarico, in quelle due lettere. Che nascondevano un malcelato
divertimento, nel vedermi così.
Ma era l'unica cosa che percepivo.
Sentivo vago il muoversi della sua mano sul mio petto, il suo fiato caldo sul
collo.
"Lo so che sei sveglio, Ed..."
Sono sveglio, ma non per te.
Un silenzio quasi religioso regnava dentro quel buco di venti metri
quadri, disturbato solo dal fruscio della stoffa sulla mia pelle.
Scivolava rapido, quel pezzo di carne senza valore, slacciando il pantalone e
infilando dentro la mano con insistenza.
Ma non avvertivo nulla.
Avevo davanti a me un piccolo Al che mi fissava ancora con quegli occhi pieni
di disgusto, che agitava la testa, quasi scocciato.
"Non gioco più con te, fratellone. Sei cattivo."
... Era colpa mia se tutto questo stava succedendo.
Era colpa mia se la situazione era degenerata fino a quel punto.
"Edward, quando qualcuno fa qualcosa che non va, tu devi sempre dire di no.
Hai capito?"
Qualcuno mi stava facendo qualcosa che non mi andava. Ma per quanto
volessi gridare aiuto, dietro di me c'era sempre qualcuno che bisbigliava cose
maligne all'orecchio.
Non dare la colpa agli altri.
Sei tu il responsabile.
Tu non l'hai fermato.
Tu hai ceduto a tutto quanto.
Hai ceduto al piacere.
Hai ceduto a quel calore insolito.
Ti sei lasciato ingannare. Abbindolare. Usare.
La colpa non è sua.
E' tua.
Tua.
TUA.
Nei miei sogni non avevo più voce. Nei miei sogni c'erano sempre quelle mani
che frugavano dappertutto. Nei miei sogni c'era Al, c'era la mamma, che mi
guardavano, come Al stesso mi aveva guardato il giorno prima.
Come potevo chiedere aiuto..?
"Edward..."
Languido, caldo sul collo, sull'orecchio.
Una carezza più pesante, sempre più pesante. Ma quella sera Edward Elric non
era lì. Edward Elric era sulla cima di una montagna, pronto a lanciarsi nel
vuoto, a lasciarsi andare, ad abbandonarsi al dolce cullar di qualcosa troppo
in alto per uno come lui.
Finalmente, uno sbuffo sostituì lo sfregare della sua mano sul mio corpo.
Le molle del materasso cigolarono, libere del suo peso, e silenzioso, si avviò
alla porta.
Sentii il rumore della sua mano che poggiava sulla maniglia d'ottone.
"...Ti sei rotto, Ed?"
Due cigolii spezzati da una breve pausa, riempita dai suoi passi che uscivano
dalla stanza.
Clang.
Si.
Mi ero rotto. Non hai sentito il rumore del mio cuore che si crepava?
Spulciavo nel mio calendario immaginari i giorni che mancavano a tornare a
casa.
Non che fossero tanti, ma avendo per la testa sempre lo stesso pensiero, alla
fine diventava qualcosa di moralmente distruttivo. Tanto distruttivo.
Avevo bisogno di parlare con Al. Avevo bisogno di sentire ancora la sua voce.
Ma non osavo telefonare casa, avevo troppa paura di sentire in ogni parola il
peso del disgusto. Dell'odio. Della sua disperazione.
Che alimentava la mia.
Allo stesso modo in cui quel cibo davanti alla mia vista avrebbe dovuto
nutrire il mio stomaco.
Carne infilzata crudelmente con la forchetta.
Zac, zac, zac.
Sollevai quel tanto che bastava la mano per farla avvicinare alla mia bocca
stanca, assaporando quella carne che impregnava col suo gusto ogni mia papilla
gustativa. Per quel poco che mangiavo, volevo almeno che il gusto rimanesse
percepibile, come a darmi un senso di sazietà inesistente.
Ma quattro bocconi furono sufficienti.
Credo che le cameriere di quell'albergo mi odiassero per la mia continua
voglia di ingurgitare cibo.
Sì, come no.
"Beh ragazzi, come vi è sembrata Cardiff?"
Un suono confuso nel silenzio. Un luogo come un altro.
La sedia sotto il mio sedere si spostò, e me ne andai.
Toc toc.
Troppo silenzio. Troppi pensieri. Troppo dolore.
Troppe cose.
Toc toc.
Matto. Stavo andando di matto. In tutti i sensi. La tensione che avevo
accumulato in quei giorni era tutta lì, gravida sul petto. Tutto quel troppo,
davanti a quella porta color ebano, resa ancora più scura dalla notte che
avanzava, si stava lentamente annullando.
Era come se il mio cervello fosse stanco di pensare.
C'era forse da stupirsi, d'altronde?
Toc toc.
E finalmente si aprì. Lenta, silenziosa.
Sotto il suo braccio, potevo vedere la stanza vuota. Totalmente vuota. E tirai
un sospiro.
Di sollievo.
... O di rassegnazione?
"... Mh?"
Non so perché. Non so chi mi avesse dato la forza per aggrapparmi al suo collo
con forza - il respiro agitato, il cuore impazzito, ma la mente sgombra da
ogni pensiero, futile o non futile che fosse.
Ma lo avevo fatto. E sentivo il calore del suo corpo sfiorare, penetrare nella
mia anima freddata dagli eventi.
"Fammi entrare." mormorai.
Un sibilo, un gemito soffocato, due parole che mai mi sarei sognato di dire
proprio a lui, il sogno che avevo rincorso per anni, l'incubo che stava
distruggendo piano la mia vita, il mio essere una persona, il mio tesoro, la
mia esistenza.
Non mi sorpresi di sentire la sua mano scivolare lungo la spina dorsale. Non
mi sorpresi di sentire il suo mento poggiarsi sulla mia spalla, la sua testa
orientarsi verso di me, e il suo respiro caldo, che sapeva appena di alchool,
posarsi sul mio orecchio, accompagnando la sua voce lasciva, bassa per non
farsi sentire.
"Entra, Edward."
E lui fece due passi indietro, trascinandomi nella sua stanza, per poi
sciogliere quello pseudo abbraccio, e chiudere la porta a chiave.
Clack. Secco, come a dire: te la sei cercata, stavolta.
... Lo so.
"... Come mai qui?" sibilò gentile, mentre sul suo bicchiere, preso dal
tavolino, versava un poco di Napoleon rubato dalle cucine.
Fece in tempo a gustare uno, due sorsi, prima che quell'oggetto insulso gli
scivolasse di mano, la mia stretta di nuovo attorno al collo, la mia bocca che
cercava le sue labbra umide d'alchool, mentre il vetro si spargeva sul
pavimento in piccoli pezzi.
Il vetro infranto, la voce di Alphonse che gridava, rauca dal dolore.
"VATTENE!!"
Non si lamentò della mia presa di posizione. Anzi.
Le sue labbra si dischiusero, stirandosi in un sorriso.
"Che c'é, Ed...?" soffiò sulle mie labbra, lasciando che la punta della lingua
mi sfiorasse, l'odore forte del liquore che entrava nelle mie narici.
Non ero abituato all'alchool. E di farfalle in testa ne avevo così tante, che
servì soltanto a farmi sentire ancora più fuori da me stesso di prima.
"Zitto..." mormorai, lasciando che la sua lingua entrasse nella mia bocca.
Rovente, come i suoi tocchi, come lui stesso.
"Al, apri, Cristo!!
Accarezzava la mia lingua, lento, per impregnarmi del suo stesso sapore,
mentre le sua braccia cingevano i miei fianchi. Indietreggiò un poco,
portandomi vicino al letto, sbattendoci contro.
E mi fece sedere prima, sdraiare poi, senza staccarsi dalla mia bocca, senza
smettere di accarezzarla, di solleticare il palato, di riempirmi della sua
saliva.
Era una sensazione così strana...
Staccandosi, si mise a cavalcioni sopra di me, accarezzando il collo con due
dita.
Oro contro oro, un raggio di luna che penetrava attraverso la persiana,
sfiorandogli il viso.
"Edward..."
Un bisbiglio appena pronunciato.
Le mie dita salirono fino alle sue labbra, accarezzandole. Non vedo te,
William. Non vedo nessuno. Forzando un po', chiesero tacitamente di essere
accolte nella sua calda cavità.
E lui accettò di buon grado.
Sfiorare, lambire, accarezzare, inumidire, mordere e succhiare. Ripetutamente.
Lentamente.
Quasi per portarmi all'angoscia.
La mia mano libera salì sul suo petto, scivolando sul tessuto liscio del
pigiama, di un colore indefinito, alla luce della luna. Sfibbiai un bottone, e
poi il secondo, accarezzando coi polpastrelli caldi la sua pelle. Sospirai
pesantemente, lo sguardo perso sul suo corpo, mentre lui continuava a fare
l'amore con le mie dita. Ogni volta che i suoi denti scorrevano per la
lunghezza, un brivido agitava le mie membra, partendo dal collo per scendere
lungo la schiena, e risalire.
Si lasciò scivolare al mio fianco, senza mollare la presa, e i suoi occhi
lucidi si scontrarono coi miei.
Era come avere la febbre.
Leccava, insistentemente, - tra le dita, sul polpastrello, nelle giunture
- senza staccare gli occhi dal mio viso, le mie labbra dischiuse, a
boccheggiare.
Mi avvicinai a lui, muovendomi sul suo corpo, ansimando nel sentire la sua
erezione gonfia scontrarsi col mio basso ventre.
"Ahn..."
"Ed..."
Portò una mano dietro la mia nuca, spingendomi a sé e riprendendo la mia
bocca, in una danza di lingue che forse lui aveva aspettato per troppo
tempo.
Per me era una cosa come un'altra, anche se il mio corpo non ne era totalmente
indifferente.
Salii sopra di lui, quasi spalmandomici sopra, le gambe divaricate a far
aderire meglio il mio corpo al suo, il mio membro al suo, il mio Io al suo Io.
E stringendo le natiche iniziai a muovermi, gemendo e ansimando, ansimando e
gemendo, poco importava della finezza delle pareti, poco importava delle
orecchie della gente.
Con Al, avevo perso tutto.
Era duro, e spingeva contro i pantaloni, implorando la libertà.
Acchiappai tremolante i lembi di quella maglia, trascinandola lungo i suoi
fianchi, lungo le braccia, fino a farla finire sul pavimento, a impregnarsi di
Napoleon.
Senza Al, non era importante quante persone sapessero, o vedessero. Perché
l'unica persona che non doveva, aveva visto, e sentito.
Inarcai la schiena in avanti, lambendo con la punta della lingua il suo
petto, mordendo quasi con rabbia i capezzoli irti, sperando di fargli male,
sperando di lasciargli un segno.
Come lui aveva marchiato me.
"Ahn... Ed, vacci piano..." ghignò.
Ed ero ciecamente convinto che le sue parole non riflettessero neanche un poco
la sua volontà. Strinsi i denti più forte, sentendo quasi il sapore del suo
sangue marcio.
E lì mi sollevai, accarezzando con la lingua il petto, risalendo fino al
collo, ansimando sull'orecchio ad ogni movimento più marcato.
I'm losing control.
Lui infilò una mano sotto la camicia, e due, tre bottoni saltarono,
lasciando il mio petto mezzo scoperto, il suo ad essere accarezzato dalla
stoffa del mio indumento.
"Domani te ne comprerò una nuova..." bisbigliò, leccandosi il labbro, mentre
premeva tra le sue dita le mie protuberanze.
"Nh... - mi morsi il labbro, stringendo gli occhi - Non serve..."
Mi mossi sempre più in fretta, finché la schiena non fu inarcata fino a farmi
sfiorare il petto con la testa, finché i miei gemiti si fecero sempre più
alti, sempre più profondi.
Finché lui non mi prese per le spalle, sollevandomi e quindi costringendo a
rallentare.
"Ci penso io..."
Corsero fino alla patta, le sue mani, corsero fino a sfibbiare quei due
bottoni, per permettergli di frugare dentro la biancheria, e prendere, come
faceva sempre, la mia erezione tra le sue mani.
Muoviti. Ti prego.
Sfiorava lento. Esasperante.
"Non così in fretta, però..." sussurrò, sorridendo con malizia.
Al diavolo anche quella.
Le mie mani scivolarono fino ai pantaloni leggeri del suo pigiama, le dita
si aggrapparono all'elastico dei suoi pantaloni, tirandoli in basso,
sollevando il bacino per lasciarli scivolare.
Fretta, fretta, fretta.
Quanto godimento traeva da questa situazione..?
"Ed, Ed... - una carezza leggera, lenta - Quanta fretta..." mormorò, senza
tuttavia fermarmi.
Vuoi farmi forse credere che stavolta, tu fretta non ne hai?
Tirai giù anche i boxer lasciando il suo membro libero di pulsare
nell'aria, davanti al mio bacino intrappolato tra le sue mani. Premette con
forza, sollevandomi dalle sue gambe e portandomi sopra la sua erezione,
lasciando sentire la sua punta fra le mie natiche.
"Ahn..." ansimai, pregando che se sue mani tornassero a fare il loro lavoro,
mordendomi il labbro per non dargli troppa soddisfazione.
"Lo vuoi...?" mi chiese, lascivo, sollevandomi e riappoggiandomi senza fatica
alcuna.
Come se fossi una bambola di pezza.
"Muoviti..." fui solo capace di dire, e lui sorrise, vedendo in quella
parola un sì, lasciandomi scivolare dentro di lui, piano. Le mie pareti si
inumidirono di quel poco liquido che avevo contribuito a fargli produrre,
mentre entrava, quasi senza dolore. La forza dell'abitudine?
"Male?"
"Ahn... - scossi la testa, senza guardarlo - N-no..."
E cominciai a muovermi, sotto la guida delle sue mani, una sui fianchi,
l'altra a sfiorare il pene, piano.
Che razza di subdola parola con doppio significato.
E su e giù, mentre il fastidio diventava piacere, mentre l'anima si distaccava
dal resto del corpo, a guardare schifata, a implorare perdono a qualcuno che
non avrebbe mai potuto accogliere la mia richiesta.
Questo era quel che si chiamava cadere in basso.
Era come cavalcare un cavallo senza sella. Trotta, trotta, si sentivano i
colpi del suo bacino ripercuotersi sulla mia schiena, scuotendola di brividi,
mentre la mia bocca si riempiva di gemiti.
"Ahn...Ahn..."
Gemiti che lo portarono ad accelerare il ritmo di colpo, rapido mentre il
sedere nudo rimbalzava sul letto sfatto, rapido mentre il suo membro si
schiaffava dentro di me, pulsante, impaziente. E lo scricchiolare del letto, e
gli ansiti della mia bocca, lo provocavano sempre di più, sempre di più.
Spingi, sbatti, muovi.
La mia schiena si inarcò, le mie unghie affondarono nella sua carne,
segnandola, graffiandola, rovinando quella pelle bianca, liscia, morbida,
imperlata del suo sudore. E del mio che andava gocciolando lentamente lungo il
braccio.
"Ed... Edward... Ahn..."
Sollevò il viso dal cuscino, acchiappando le mie labbra, mordendole per
saggiarne appieno il gusto, ferendole malamente, fino a farmi gemere sì di
piacere, ma anche di dolore.
Fammi male, così che il mio peccato si affievolisca, almeno un po'.
E una goccia di sangue scivolò lungo il mento, fino al collo, pronta ad
esser raccolta da quella lingua peccatrice, prima ancora che andasse perduta
tra i tessuti della mia camicia.
Una spinta più forte, ancora, ancora. E il mio gemito strozzato mi aiutò a
liberarmi di tutta quella pesantezza, di tutto quel peccato superfluo, che
andò a posarsi sul suo ventre scosso dai respiri sempre più rapidi, finché la
cavalcata non si trasformò in un leggero trottare, e lui venne nel mio corpo.
Mi persi nei suoi occhi, recuperando il respiro, mentre il suo alito
rinfrescava il mio viso accaldato, rosso, sudato.
Scossi la testa, e senza uscire dal suo corpo mi accinsi a raccogliere il mio
stesso sperma con la bocca, pulendolo fino ad ogni residuo, lasciando che
tornasse al suo padrone. Dopo ciò, un incontro di labbra.
Caldo.
Troppo.
Rovente.
Ustionante.
Marchiatore.
Peccatore.
L'Ultimo.
"William... - un sorriso vuoto, spento, privo d'ogni significato. - ...
Basta."
Mi sorpresi, nel vederlo annuire. Mi sorpresi nel vederlo arrendevole. Forse
perché dopo tempo, aveva ottenuto quello che voleva.
Me. In ogni senso. In ogni maniera.
Amico. Amante. Sottomesso.
E traditore.
Sorrise, senza dire una parola.
Uscii dal suo corpo, mettendomi in piedi davanti a lui, sentendo il cigolare
delle molle, le sue mani cingermi i fianchi, e la sua lingua pulire dove aveva
sporcato. Ma la cosa ormai, non aveva più importanza.
Fai sparire le tracce della tua presenza.
Quando mi porto su gli indumenti, allacciò i pantaloni, e poi mi strinse a
sé, la guancia poggiata alla mia schiena che si tendeva in un sorriso, ne
potevo avvertire il movimento.
Presto sarà solo lontano ricordo.
Allacciai quei pochi bottoni che erano rimasti cuciti alla stoffa della
camicia, e poi azzardai un paio di passi verso la porta, sentendo le sue mani
scivolare via dal mio grembo, le molle che di nuovo accoglievano un piccolo
peso.
Poggiare la mano sul pomello della porta portò un po' di sollievo al mio
corpo, un po' per il freddo che emanava, un po' perché, oltre quella porta,
forse, ci sarebbe stata la possibilità di ricominciare daccapo.
"Tanto ero solo un giocattolo." dissi, lasciando scattare la serratura e
aprendo la porta.
Un attimo di silenzio, gravido, breve eppure dannatamente lungo.
"...Tanto eri solo un giocattolo."
Sorrisi tra me e me, e agitando la mano libera, uscii dalla stanza, lasciando
che la porta si chiudesse alle spalle con uno schiocco.
Per poi poggiarmici sopra, e scivolare a terra, piangendo come un bambino.
Nel viaggio di ritorno, avevamo portato con noi a Londra le nuvole cariche di
pioggia da Cardiff, arrivate quella mattina e che ci avevano vietato di
passare l'ultima giornata della visita in spiaggia.
La valigia era stata scaraventata a terra non appena ebbi messo piede in casa.
C'era un silenzio innaturale, come se non ci fosse nessuno. Passando per la
cucina, vidi nel calendario che la mamma avrebbe avuto una visita quel
pomeriggio, quindi probabilmente neanche Alphonse era in casa.
Avevo un nodo al petto.
Davanti a me, immagini di William e Alphonse si alternavano di continuo, allo
stesso ritmo con cui la pioggia batteva sulla grande finestra del soggiorno.
Azzardai un passo verso la camera di Al, infilando la testa oltre la porta e
buttando un'occhiata in giro.
Le persiane erano chiuse, poca luce filtrava all'interno, dando alla stanza un
aspetto decisamente ... triste.
Ma lui pareva non essere lì.
"Forse è andato con la mamma..."
Mi inoltrai nell'andito, osservando ogni porta, pensando che magari qualcuno
sarebbe bucato all'improvviso.
Passo, passo, passo. Finché non mi fermai, attirato dallo scricchiolar di una
porta al piano di sopra.
Bagno.
I miei piedi partirono da soli, frettolosi, facendo le scale ad due a due,
mentre la voce di Al, la sua voce, riempiva l'aria, dolce.
"Mamma sei torn..?"
E quando mi vide, si bloccò.
"Al..."
Un passo in avanti io, uno indietro lui.
Silenzio.
"Alphonse, aspetta..."
Altri passi più rapidi, le gambe coordinate, la stessa velocità.
E sbam, la porta si richiuse, lasciandomi davanti alla porta a bussare.
"Alphonse, apri, per favore!"
Il rumore dei pugni che sbattevano sulla porta rimbombavano continuamente
nella mia testa, anche quando decisi di fermarmi, vedendo quanto inutile fosse
continuare. Probabilmente, andando avanti lo avrei solamente spaventato.
Feci un mezzo giro, lasciando che la schiena aderisse alla porta, e tirai un
sospiro.
"Al... - cominciai - Mi sta bene che tu non voglia vedermi... - No, non mi
sta affatto bene, ma non importa. - Ma almeno ascoltami."
Nessuna risposta.
... Vabbeh, tentar non nuoce, no?
"So che ti ha disgustato. - Disgustava persino me. - E non pensare che
a me facesse piacere. Quando eravamo piccoli, avevo promesso che ti avrei
detto ogni cosa. - Si, Al, ogni cosa, avrei dovuto dirti di questo, ma non
ce l'ho fatta fino alla fine. - Dunque, ora ti dirò ogni cosa. Mi spiace
solo di esser arrivato così tardi, Al."
Sentii un sospiro.
E, prendendolo come un continua, andai avanti.
"Al, so che sapevi. - Una mano si strinse sulla maglia azzurra, lasciando che
le dita vi affondassero - So che hai visto, due anni fa. William era un amico.
Io pensavo davvero di essere importante per lui. Mi ha trattato con
gentilezza, quando ci siamo conosciuti. Mi ha aiutato quando sono stato male,
si... Anche quel giorno che hai visto tutto, io pensavo davvero che lo
stesse facendo per aiutarmi. - Pausa. - Hai un fratello stupido, Al."
La stretta si sciolse, e con sguardo triste osservai che la mano tremava.
"Ho passato mesi a tentare di allontanarti. Perché non volevo che anche tu
finissi come me. Avevo paura che William facesse quello che faceva a me, con
te. - Deglutii sonoramente, passando una mano sulla fronte, respirando. - Ma
dopo quel giorno, sei stato tu ad allontanarti, e anche se ne soffrivo, da una
parte ne ero felice. Ti allontanavi da me, e dai guai e... Cristo..."
Mi fermai, respirando, mentre sentivo le parole spingere per venir fuori, in
fretta.
Tutto, purché tutto ciò finisse.
"Quando... Quando ero in bagno... Dio... Volevo farla finita. - E sentii un
singhiozzo, stavolta non mio. - Avevo troppa paura. Di lui, di te, di me.
Ha... abusato di me per tutto questo tempo... E tu ti allontanavi sempre di
più... La mamma stava male... Io mi sentivo... Uno straccio, un rifiuto -
Respiro profondo. - Mi sembrava di non meritare di vivere, perché più andavo
avanti e più mi sporcavo, e più tradivo la tua fiducia e..."
Dio, Ed, sei logorroico...
"... Ma poi sei entrato... Mi hai salvato, Al... Io senza di te di nuovo
vicino... Non sarei arrivato fino ad oggi..."
La mia luce, la mia ombra.
Sogno, incubo.
"Sono stato un bugiardo. Uno stupido. Una bambola - E il singhiozzo si fece
più forte, unendosi ai miei singoli, che si facevano man mano sempre più
vicini. - All'inizio non capivo, poi è diventata un'abitudine per lui. Io lo
vedevo felice. Per me era strano, distorto, il modo con cui mi dava affetto.
Ma era felice. E dopo, invece..."
... Glielo dovevo dire?
"Ricordi quando... Douglas mi ha trattenuto in punizione a scuola? - Aspettai
qualche segno, che non arrivò. - C'era anche William... E... Quando lui... -
Caldo. Panico. Paura. Ma dovevo dirglielo. - Quando lui mi stava
toccando io... Io ti ho invocato, Al."
Un lieve scatto, e mi allontanai dalla porta, voltandomi piano, vedendola
ancora socchiusa.
"Lui ti avrebbe detto tutto. Ti avrebbe detto di quel che mi faceva, ti
avrebbe detto che... - Intravidi i suoi occhi fatti liquidi dalle lacrime da
dietro quel piccolo spiraglio che, Dio, Dio, speravo si aprisse totalmente -
... Che io ti chiamavo, che io ti volevo... E ha cominciato a ricattarmi, a
farmi fare quello che voleva, come voleva, quando voleva, in maniera sempre
peggiore, e io avevo il terrore che non mantenesse fede alla sua parola... Non
volevo che tu sapessi, non volevo che tu mi odiassi..."
E vedendo le sue lacrime rigargli il viso, anche le mie cominciarono a
scendere, silenziose.
"A-Al... Io... Non volevo mentirti... Ma avevo troppa paura... Di farti del
male..."
Molestavo il labbro coi denti, il taglio del giorno prima ben visibile, che
ancora faceva male.
Lui lo notò, e si portò una mano alla bocca.
"Non volevo... che diventassi come me..."
Strinsi gli occhi, scosso dai singhiozzi ormai incontrollati.
"N-non odiarmi..."
Scossi la testa, a rinnegare le mie stesse parole, sapendo che sarebbe stato
impossibile per lui non farlo.
... Dio, quanto mi sbagliavo.
Era ciò che di più caldo avevo mai sentito.
E non quel caldo che per anni aveva avvelenato ogni mio senso.
Era piacevole tepore. Era la protezione che tanto andavo cercando. Era
l'affetto da cui sarei dipeso anche tutta la vita.
"A-Al..."
"Smettila, fratellone, smettila!"
Mi strinse più forte, singhiozzando sulla mia spalla, sfregandovi
continuamente sopra gli occhi, mentre il suo petto si stringeva forte al mio,
e io potevo sentire il battito dei nostri cuori farsi sincronizzato.
"Al..."
Poggiai le labbra sulla sua fronte, stringendolo per paura di vederlo
scappare.
E poi, lui sollevò lo sguardo verso di me. Lucido dalle lacrime, che ancora
scendevano, rossi per il dolore, per la disperazione che si scioglieva, pian
piano.
Chissà se anche lui non era mai riuscito a prendere sonno, dopo quel
giorno.
Mosse le labbra, e fui certo che volesse dirmi che non mi odiava, perché
mentre il labiale, seppur tremolante, si leggeva, la voce non voleva saperne
di venir fuori, sepolta sotto il groppo che probabilmente lui non riusciva a
mandar giù.
E fece l'unica cosa fattibile in quell'istante.
Si posò sulle mie labbra, dolce. Sapeva di zucchero, di amore, di miele, di
affetto, di dolcezza indescrivibile. Tremavano le sue labbra, allo stesso modo
in cui tremava ogni centimetro del suo corpo, le gambe tese, le braccia
attorno al mio collo.
Era la mia ricompensa per aver sofferto.
Rimbalzò più e più volte sulle mie labbra, senza chiedere di più. Senza
pretendere di più. Solo un dischiudersi leggero di labbra, un acchiapparsi
l'un l'altro per sentire un sapore buono, il sapore di un nuovo inizio.
Era il premio per aver cercato di proteggerti.
Mi guardò negli occhi, abbozzando un sorriso.
No, Alphonse non mi avrebbe mai odiato. Lui era mio, ed io ero suo.
Alphonse non mi avrebbe mai fatto soffrire. Alphonse non mi avrebbe mai
trattato come un giocattolo. Per me era la mia vita, la mia luce, il mio
conforto.
E io sarei stato lo stesso per lui.
William era morto nel momento in cui Al si appropriava delle mie labbra.
Il suo ricordo diventò soltanto un'ombra che tornava ogni tanto nel sonno, a
tormentarmi. Ma avevo qualcuno a cui stringere la mano, quando mi svegliavo.
Non avevo più addosso la paura di incrociarlo per le strade, perché sapevo di
poter contare sulla presenza del mio fratellino, in qualunque situazione.
Dopo la visita a Cardiff non lo avevo più visto. Non avevo partecipato alla
cerimonia di diploma, quindi non ebbi l'occasione di vederlo un'ultima volta.
Per mia fortuna.
Grazie ad Alphonse, riuscii a riprendermi presto. Mi stava accanto quando
avevo paura, o quando i ricordi bussavano, le ferite vive bruciavano.
Ma lui le curava, con baci, carezze, e le attenzioni che non sapevano
d'interesse. Finché il suo ricordo, qualche mese più tardi, ritornò, quasi
triste.
Incidente ferroviario, nessun sopravvissuto.
Alphonse disse che per lui era stata una punizione del Cielo.
E in fondo gli dovetti dare ragione.
Con la sua scomparsa, si chiudeva il più triste capitolo della mia vita,
mentre uno nuovo si preparava ad essere scritto.
Senza alcun errore, con mano sicura.
Senza paura di far cadere grosse gocce d'inchiostro a macchiare tutto.
Senza nessun intoppo.
E se mai ci sarebbe stato qualche problema, beh.
Stavolta non sarei stato solo.
Non lo sarei stato mai più.
O.wa.ri.<3
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