Personaggi: Edward Elric, Envy, un po' tutti xD
Rating: Nc-17
Avvertenze: Nya!°.° E' una AU. Niente alchimia, niente bracci artificiali,
solo i personaggi di FMA mossi un po' come mi pare. O meglio, secondo un filo
logico pressohé INESISTENTE. Tutto accade per caso.<3
I personaggi sono tutti (c) Hiromu Arakawa-sensei, purtroppo per me, fortuna
per loro. La storia si basa su eventi realmente accaduti, ma non starò a
menzionare né quali, né chi è stato la causa di tutto ciò. Spero apprezzerete
comunque, anche se è squallida. *inchino*
Piccola nota: Anche se EnvyEd, in questa fic non troverete Envy. O meglio, non
proprio lui. L'idea di utilizzare il suo corrispettivo umano, ossia William, è
nata dal fatto che un ragazzo coi capelli verdi, in un liceo abbastanza
rinomato, e per di più ai primi del 1900, sarebbe stato un po' subdolo e fuori
luogo. Sappiate che comunque, William e Envy sono la stessa, medesima cosa.
Poisoned Milk
parte VI
di Nacchan
L'ombra del secchio pieno
d'acqua si proiettava lungo il pavimento, fino ai nostri piedi.
Alle mie spalle, la lavagna ancora bagnata, gocce d'acqua che scivolavano
lente lungo la parete scusa, depositandosi sui bordi, traboccando, sfiorando
la terra.
Nelle nostre orecchie, ancora rimbombava la voce del professor Douglas, sempre
lui a rompere le uova nel paniere.
"Di nuovo in ritardo. Punizione. E riferirò a Jhonson per riservare lo
stesso trattamento a Moore."
Solo perché all'intervallo io e William perdevamo la cognizione del tempo,
mentre discutevamo di ogni cosa. Solo perché ce ne accorgevamo quando il
giardino era deserto, e un bidello, sorridendo, diceva "Ma non dovreste
essere in classe, giovanotti?"
Pulire le aule dell'ala A. Nel doposcuola.
Eravamo nell'ultima aula, quando tutto intorno a noi aveva cominciato a
prendere un colore arancio, il sole che fuori calava, veloce. C'era ancora un
piacevole tepore, era stata una bella giornata primaverile.
Plic, plic, plic, acqua che incontrava il pavimento tiepido.
Un dito si infilò tra i miei capelli, acchiappando quel nastro rosso che Al,
quella stessa mattina, aveva accuratamente annodato. Scivolò via, seguendo la
lunghezza della chioma, per poi cadere a terra, in un tonfo delicato.
"William... - flebile, basso, per paura di esser sentito - Non qua..."
La sua lingua lambiva le mie dita, inumidendole, mordendole, lasciando che la
saliva colasse, sfiorando il palmo, colando lungo il polso.
"Non c'è nessuno, Ed...E' tardi..."
Le sue labbra aderirono all'indice, tenendolo tra di loro, andando su e giù, a
gustarne il sapore. La sua mano era poggia sulla mia gamba, e scorreva, ad
accarezzarla sopra la stoffa.
Stava davanti a me, gli occhi socchiusi mentre assaggiava la mia carne, mentre
il mio sedere era poggio sul mio stesso banco.
L'unico rumore udibile era quello un po' umido delle sue leccate. Per il
resto, esclusi gli uccelli che ogni tanto beccavano sul vetro, a farci
presente la loro presenza, il silenzio era degno di quello cimiteriale.
C'era solo il guardiano, al piano di sotto, incaricato personalmente da
Douglas e Jhonson di controllarci a intervalli di un'ora per vedere se ci
grattavamo o se stavamo adempiendo ai nostri doveri.
Ed era appena andato via, quando William mi aveva preso in braccio, e mi aveva
fatto adagiare sul banco, ancora sporco di tracce di grafite, e gomma.
"Ho voglia", aveva detto, e prima di poter ribattere... beh...
Sapete come va avanti, no?
La sua bocca si era appropriata del mio collo, sbottonando la camicia coi
denti, intrufolandosi dentro con la lingua, per poi prendere possesso della
mano.
"Ma..."
"Il guardiano è appena andato via... - Mi guardò, sorridendo - Non ti
preoccupare..."
La mano risalì la coscia, andando ad accarezzare la mia ancor placida
intimità, mentre la sua bocca si divertiva a molestare le mie dita, lasciando
che il mio corpo fosse scosso da fremiti di diversa intensità.
Il sole andava scomparendo dietro i colli.
Prese saldamente la mano umida, passando i polpastrelli bagnati sulle labbra,
guardandomi, caldo. I suoi capelli avevano una sfumatura arancio, la stessa
degli ultimi raggi che battevano sul vetro appena pulito, lucido, riflettente
quasi come uno specchio.
Infilò la mano tra banco e natiche, sfiorando con l'indice la stoffa, andando
a ritroso fino all'ombelico, per poi salire ai capezzoli, sfiorandoli piano,
pizzicandoli, stingendoli.
"Ah...Will..."
Strinsi un poco gli occhi, quel tanto che bastava a vedere il suo sguardo
sfuocato, come se in verità non fosse la realtà, ma semplicemente un sogno
troppo concreto.
Lasciò andare la mano, andando a molestare con quella stessa lingua
l'orecchio, dal padiglione al lobo, fino a solleticarne l'interno con la
punta, altro liquido caldo che colava, lento, lungo il collo.
"Tranquillo, Ed...Tranquillo..."
Andò a molestare la cintura dei pantaloni, acchiappando la pelle tra le dita,
tirandola via dalla fibbia, e lasciando che davanti a lui ci fosse solo un po'
di stoffa, ostacolo facilmente eliminabile, ormai lo avevo capito.
Le mie mani si posarono sulle sue spalle, nel tentativo di allontanarlo.
"No, Will..."
Ma lui ignorò ogni protesta, come era suo solito fare ogni volta. Si fiondò
sul mio collo, ustionandolo al suo passaggio, e nello stesso istante già la
mano andava sotto i vestiti, andando a liberare la mia eccitazione dalla
costrizione della biancheria.
Si inginocchiò, piano, mentre le labbra marchiavano il petto, la pancia, il
basso ventre, fino a catturare la mia erezione, fino a giocare con la punta,
un po' con la lingua, un po' coi denti. Spalancai le gambe quasi
automaticamente, e le mie mani affondarono sulla sua testa, la schiena
inarcata in avanti, e la bocca a sputare aria che faceva male.
Era ogni volta un brivido sempre più intenso, era ogni volta il cuore che si
spaccava, e un pezzo cadeva via.
"Ah...Ahn..."
Sentire la sua lingua sfregare contro la punta del mio sesso mi ricordava
costantemente quanto fossi stupido e malleabile. Quanto il corpo fosse debole
alle tentazioni. Quanto fosse bisognoso di cure, di affetto, di amore. Tutte
cose che non avevo, tutte cose che lui mi dava quando voleva, in maniera
distorta, in maniera sbagliata.
Io non volevo che succhiasse ogni mio briciolo di dignità, non volevo che
sfiorasse col suo tocco il più profondo me stesso, eppure il mio corpo si
apriva a lui, come una rosa in maggio, e gli diceva Prendimi, tanto è solo
un involucro vuoto.
O forse troppo pieno.
Mi morsi il labbro, soffocando i primi gemiti, e la sua mano, alla cieca,
giunse fino alla mia bocca, accarezzandola.
"Non... - si alzò un momento, sorridendo, le prime gocce di sperma sul labbro
- Non trattenere la voce..."
E poi riprese a lavorare, la lingua che scorreva lenta lungo l'asta, e
la mano che la seguiva, a ruota libera, il mio bacino che aveva preso a
seguirlo, il banco che tremolava, al movimento.
E poi, il calore concentrato sul basso ventre, un gemito che era quasi un
urlo, una, due, tre pulsazioni e via, libero di tutto quel peso, in un colpo
solo.
Lui aprì la bocca, potei sentire il suo labbro sfregare contro la carne ancora
pulsante, a raccogliere tutto il liquido, a deliziarsene, come faceva sempre.
"Non voglio ripulire per terra..." ghignò, passando la lingua sul membro, per
poi salire, e accarezzare con la stessa, sporca del mio sperma, le mie labbra.
"Nh..."
"Senti Ed... - fece, leccandomi l'orecchio, sporcandolo - Voglio provare una
cosa... Posso?"
"U-una... cosa... cosa?"
Ma non mi diede tempo di rispondere né si, né no. Sorridendo, uno schiocco
sulle mie labbra, afferrò i lembi dei miei pantaloni, ancora fermi alla
coscia, e lì fece scendere giù, fino alle caviglie, impossibilitati a cadere
per via delle scarpe. Poggiai le mani sul banco, mentre i miei fianchi
venivano trascinati un poco in avanti dalle sue mani viscide, portandomi al
bordo del banco. E poi si abbassò, di nuovo.
"Wi ...William che...che cosa...?"
Baciò la coscia, segnando il suo passaggio con la punta della lingua, mentre
le sue mani andavano a poggiarsi sulle ginocchia, premendo per allargare le
gambe.
"... W-William...?"
Odiavo non ricevere risposta alle mie domande.
Soprattutto in certi casi. E dio, avevo l'ansia che pulsava nelle vene,
assieme a quella fottutissima, incontrollabile eccitazione.
Solleticò il profilo delle natiche, allo stesso modo con cui un bambino lecca
avidamente un leccalecca.
Come faceva con ogni parte del mio corpo, insomma.
La mosse avanti e indietro, quella lingua, assaggiando, gustando, come se
volesse imprimersi quel momento in testa, con ogni briciolo di gusto, tatto,
vista, udito.
"Mh..." fece, deliziato.
E io ebbi un brivido. Guardavo il soffitto, ma quel suono così bagnato mi fece
intendere che la sua lingua stava accarezzando le sue stesse labbra.
"Ti piacerà, Ed..." mormorò poi, accarezzando piano l'interno coscia.
I suoi capelli solleticarono la pelle.
E ebbi un singulto che rimbalzò più volte nell'aria, quando qualcosa di umido
entrò in me, senza preavviso, scivolando quasi dolcemente.
"Ahn... W... William... n... ferm..."
Sentii la lingua andare sempre più in fondo, con pacata lentezza, e le mie
mani si piazzarono su sui capelli a stringere convulsamente, le dita che si
rilassavano e si chiudevano attorno alle ciocche bionde.
Sembrava ustionante. Sembrava dannatamente caldo, ERA caldo, caldo come quello
che si irradiava in tutto il corpo, caldo come quello che mi faceva inarcare
la schiena in avanti, caldo come quello che mi faceva ansimare, forte, come
quello che mi faceva sputare tutta l'aria che avevo nei polmoni.
Col la punta sfiorava le pareti, lento, e lasciava che la carne si impregnasse
della sua saliva, che colava, gocce che accarezzavano la pelle, fino a toccare
il legno del banco.
Mi penetrava, lento, veloce, lento.
"Ahn... Will..."
La sentii scivolare fuori, una sensazione scomoda mischiata al fremito di
piacere che vibrava in ogni mia fibra.
"Sei buono, Edward..." sibilò.
Risalì, lento, e con una mano accarezzava il mio sesso, mentre con l'altra si
slacciava i pantaloni. E il suo bacino aderì al mio sedere, strisciandosi
avanti e indietro, mentre gli indumenti scivolavano lungo le sue gambe,
lasciandogli la piena libertà.
Le mie braccia si aggrapparono istantaneamente al suo collo, mentre il posto
prima occupato dalla lingua veniva presto dalla sua erezione, entrando
completamente in me, in un colpo secco.
"W-Wi... Ahn..."
Prese le mie gambe, portandole ai suoi fianchi, reggendole con le mani, mentre
il bacino si muoveva quasi allo stesso ritmo con cui prima agitava la lingua.
Lento, veloce, lento.
"Edward... Nh..."
Mormorava dentro le mie orecchie, la sua lingua che entrava dentro,
accarezzava il lobo, e scendeva fin sotto il mento, le spinte che aumentavano
di intensità. Le sue mani andavano su e giù per le natiche, provocandomi
leggeri brividi, che andavano a sommarsi ai fremiti caldi provocati da quel
contatto.
Cristo, muoviti.
Glielo avrei detto, se la mia bocca non fosse stata troppo occupata a gemere.
Ma lui parve capire comunque, probabilmente vista la mia inaspettata
collaborazione, le gambe che si aprivano per farlo sprofondare in me.
E altre spinte furono, veloci, profonde, finché non venni sulla sua camicia,
lui che continuava a muoversi, per giungere all'apice pochi istanti dopo di
me.
Le mie dita si strinsero alle sue braccia, mentre la testa si poggiava al suo
petto ancora ansante.
Lo vidi uscire dal mio corpo, lo sperma che ancora ci collegava, la prova
tangibile di ogni nostra azione.
Abitudine, ormai.
Infilò il dito tra le mie natiche, graffiando un poco, mentre raccoglieva il
suo stesso liquido, per poi appoggiarlo sulle mie labbra.
"Su, assaggia."
E lo feci entrare, ancora stordito, ancora inebriato di quel piacere. Che
accarezzava la lingua, dolcemente, facendomi sentire tutto il suo sapore, la
punta dell'indice che solleticava l'organo, umido di saliva e sperma.
Chiusi gli occhi.
Sentivo un piacevole tepore invadermi il petto. Ma non era la sua lingua sui
miei capezzoli. Né la sua mano che accarezzava lenta i capelli.
Era un pensiero. Che si era insinuato tra gli altri, spingendo, predominando,
forse per salvarmi, forse solo per farmi impazzire.
La mia mano si mosse, lenta, a stringere quel polso che non apparteneva più a
lui, non era più suo. Feci scivolare fuori il dito, senza resistenza, e la mia
lingua ne lambì ogni centimetro.
Così buono, così caldo.
Ahn...Lo sentivo gemere nelle mie orecchie, la voce distorta.
William non c'era più.
E... Edward...
.. Cosa stavo facendo... ?
Una lappata, due, tre, mentre tutto colava, in gola, sul mento, nella sua
mano.
F...Frat...
"... Al... Al..."
E la mano fremette un poco, prima di tornare rilassata.
Di nuovo in bocca. A succhiare, leccare, mordere. A sentire quel sapore, il
suo sapore, e Cristo, non mi importava chi o dove fossi, ero con Al, Al,
Al, Al era lì, era con me. Al era...
Era sempre nei miei pensieri.
Era ciò che avevo sempre voluto.
Era ciò di cui avevo sempre, sempre, sempre vissuto. Ogni suo gesto, ogni sua
parola, ogni suo respiro era linfa vitale, era parte di lui che entrava in me,
come quel dito che penetrava la mia bocca, dolce, salato, amaro, aspro, tutto.
"A-Alphonse..."
Ansimi sotto il suo tocco, che dal petto scendeva al ventre, all'eccitazione
stanca, ma ben dritta, solleticandola con la punta delle dita.
Una risatina giunse al mio orecchio, alito caldo.
Erano le sue mani, di nessun altro.
Era la sua voce, di nessun altro.
Erano fremiti provocati dalla sua mano, dal suo respirare sul mio collo, e
niente di più.
"Ed, Ed..."
Così pura, così cristallina.
La sua voce.
Solo la sua voce.
Solo le sue mani, la sua pelle, il suo profumo, la sua bocca, i suoi occhi.
Solo lui.
Uno, due, tre movimenti sempre più audaci. E un bacio sulla fronte, di una
dolcezza infinita, quasi fuori luogo.
Altri movimenti, altri gemiti, altro liquido che impregnava il mio corpo, e le
sue mani.
Strozzato, il suo nome si affievolì sulle mie labbra, morendo mentre lui
schioccava un altro bacio, sulle labbra.
... Perché sto piangendo...?"
Giorni su giorni si accatastavano, inutili frammenti di una vita persa.
Non avevo più il coraggio di guardare Alphonse in faccia. Non potevo,
semplicemente.
Dio.
Da quel giorno, e per tutti i giorni a venire, per me fu un vegetare su una
sedia, fosse a casa, o a scuola, o al parco, o Dio solo sa dove.
Non volevo vedere.
Non volevo vederlo.
Alphonse. Al. Mio fratello. Invocato, implorato, desiderato.
E Dio. Oh, Dio. William sapeva. Sapeva. E io ero. Decisamente. Fottuto.
Dio.
E se lo avesse incrociato negli anditi...? E se gli avesse detto tutto...?
Al mi avrebbe odiato. Sicuro quanto era vero che il cielo del mattino era
azzurro. Sicuro quanto il giorno segue la notte.
Sicuro quanto il mio nome era Edward Elric.
Quando incontravo William per le scale, lui sorrideva, come se niente fosse, e
proseguiva per la sua strada mentre Alphonse, al mio fianco, mi guardava
preoccupato.
Non capiva, lui, io invece capivo anche troppo a cosa lui alludesse con quegli
sguardi così... ambigui.
Vai a fanculo, Moore.
Ecco, l'ho detto. Dio.
Comprare il silenzio. Praticamente vendermi a lui.
Prendimi, tanto è solo un involucro vuoto.
O forse troppo pieno.
Pensai che quello fosse l'anno della mia liberazione.
Io al terzo, lui al quinto.
E poi addio, goodbye, adios, auf wiedersehen, sayounara. Insomma, a mai più
rivederci.
Mi aggrappai a quell'idea con insistenza, quando arrivò settembre, mentre le
altre persone pensavano alle povertà e alle morti portate dalla Grande Guerra.
Cosa che, finché non mi toccava personalmente, non mi creava problemi.
Avevo altro a cui pensare.
Avevo un desiderio da tener lontano, e una minaccia a cui tener bada nel modo
peggiore. Avevo una guerra personale, dentro di me, avevo bisogno di...
Scappare.
Ma non mi era concesso, no.
Settembre passò lento, il profumo estivo di fiori e il sole che andavano a
confondersi, per poi scomparire, con i colori dell'autunno, le foglie che
cadevano lente, toccavano il suolo, e aspettavano la loro fine. Ed erano le
prime lezioni del nuovo anno, ed erano voci che aleggiavano divertite attorno
a me, erano domande per me, e su di me.
"Elric, successo qualcosa?"
"Ma no, ma no... E' il cambio di stagione..."
"Elric è strano, non credete?"
Bisbigliavano.
Ma io li sentivo.
Era il caldo estivo che sfumava nel gelo dell'inverno, lento.
Ottobre arrivò subito dopo. Era stato un autunno particolarmente piovoso. E
freddo. Che lui combatteva, facendo del mio corpo un calorifero,
riscaldando la bocca con la mia carne, le mani con i suoi tocchi, la gola con
i suoi gemiti.
Ottobre erano le cioccolate di Mary Rose e le passeggiate con l'ombrello sotto
la pioggia.
Ottobre era Alphonse che veniva la notte ad abbracciarmi, mentre io studiavo,
nascondendo le lacrime dietro gli sbadigli.
Ottobre era un "Sono disperato" e un "Ho bisogno di aiuto."
E di "Ormai è troppo tardi."
Poi... Novembre, novembre. Mamma collassò. Troppe medicine. Troppe
preoccupazioni. Troppi nervi saltati, troppe discussioni con questo e con
l'altro.
"Fratellone, ho paura..."
Lo abbracciavo ogni volta, gli baciavo la fronte, lo cullavo sul mio letto
finché non si addormentava. E nel sonno chiamava me, e chiamava la mamma.
I pomeriggi lo portavo all'ospedale.
Al pensava che la mamma stesse male per qualche problema naturale.
Non sapeva nulla.
La mamma era una dea.
E lui si sedeva al suo capezzale, e io a volte stavo, a volte andavo via.
"O vieni, o Al..."
Dovevo. Andare. Via.
"Fratellone, dove stai...?"
"Vado a fare la spesa. Poi torno a prenderti, fai compagnia alla mamma."
E corri, corri Ed, fino alla tana del lupo.
Quante volte ci sarò stato, in quei giorni? Quante volte mi avrà preso -
avanti e indietro, avanti e indietro - quante avrà sussurrato il mio nome?
Quante, fino al suo Buon Natale in Dicembre, fino al suo bacio casto
sulle labbra, a dirmi che ero un bravo bambino, che non sarebbe mai successo
nulla?
Tante?
Troppe.
E a Gennaio la neve cadeva, leggera, a coprire ogni via, ogni tetto, ogni
cuore.
La mamma di nuovo a casa, a sorridere stancamente, il viso segnato dalle
occhiaie, dalla magrezza, dal dolore.
Di papà neanche l'ombra.
E Alphonse che si premurava di accudirla, di imboccarla, di parlare con lei
finché non si addormentava, stanca. E poi veniva da me, magro quanto lei,
stanco quanto lei, spossato dai dolori e dai sensi di colpa.
"Fratellone...?"
Vocina implorante, vocina straziante.
Dio, Al. Non guardarmi con quegli occhi.
Neve copiosa fino a febbraio. Quando cominciò a rallentare, quando il gelo
cominciava a sciogliersi, entrando in marzo con quel nuovo tepore.
La primavera stava arrivando.
Le buone notizie anche.
Le cattive pure.
"Abbiamo deciso di organizzare un viaggio di istruzione a Cardiff per maggio.
Ci saranno la terza e la quinta sezione, dato che la quarta è impegnata con le
prove del concerto di fine anno."
Facevano un concerto?
Bah, poco importava.
...Quinta e terza.
William ed io. Io e William.
Ottimo.
Ottimo davvero.
"E così domani parti?"
"Già..."
Gli indumenti erano adagiati sul letto, piegati con amore da lui, che mi
guardava, sostando sul ciglio della porta.
"Non sei felice?"
No, anzi, sono decisamente irrequieto.
"Beh, si... Non sono mai stato a Cardiff..."
"A Cardiff c'é il mare! Io non ho mai visto il mare!" mormorò, con una punta
di eccitazione sulla voce.
Segna: portare Alphonse al mare.
"Per quanto ne so, non è granché magnifico, lì... Ma sarà bello, si."
Un sorriso appena accennato, mentre la camicia andava sopra il golfino. E
sopra i pantaloni.
Sarei stato via quattro giorni, e avevo già la valigia piena di cose inutili.
Golfino a maggio...?
"Guardalo anche per me, eh!"
"Ahah, certo, Al!"
Mi voltai a guardarlo, sorridendo.
E lui ricambiava, ed era questo che mi dava la forza di sopportare ancora
tutto.
Ancora per poco.
"Alphonse... Alphonse! - la voce della mamma dalla sua camera, roca ma
squillante - Bussano alla porta, andresti ad aprire?"
"Ok! - urlò oltre la porta, poi guardandomi sorridente aggiunse - Vado e
torno! Sarà il dottore!"
Il rumore dei suoi passi per le scale rimbombò fino a quando non arrivò al
piano di sotto, dove i suoni si fecero tutti ovattati.
Un altro maglione dentro la valigia.
Lo scricchiolio della porta, e la voce di Alphonse che a fatica arrivava al
mio orecchio.
Infilai in valigia una canottiera, in caso avesse fatto freddo - e no, quel
golfino non lo avrei mai messo, era lì solo per far piacere ad Al, e niente di
più - poi mi rimisi in piedi, ordinando alle chiusure della valigia di
scattare.
Olé, fatto.
Portai le braccia dietro la testa, allungandomi per sentire i muscoli tendersi
e, subito dopo, rilassarsi.
Al ancora parlava. Ma l'ospite era ancora fuori dalla porta, a quanto capivo
dalla sua voce bassa.
Poco importava.
Feci un giro della stanza, onde evitar di lasciare qualcosa di utile in casa,
mentre il silenzio era tornato sovrano, disturbato solo da un tenero rumor di
passi.
Tornava.
Mi voltai verso la porta, e quando poggiai la mano sul muro, e la mia testa
fece capolino nell'andito...
"Al, ho finito, mi daresti una mano a..."
...Si fermò.
"Ciao, Edward!"
La mano che svolazzava a mezz'aria, un sorriso pacato sul volto.
Che diavolo...?
Guardai Alphonse, che fece spallucce. Come a dire L'ho avvisato che eri
impegnato, ma ha insistito così tanto per entrare.
"Ciao, Will..."
Fu un sussurro. Ed ero sicuro che lui avesse sentito tutto, solo con due
parole.
Al, Dio, allontanati.
"Sono venuto per dirti che mia madre ha detto... - sorrise, affabile - Che se
vuoi, in stazione, puoi venire in auto con noi, anziché prendere il tram."
Tutto qua? Bene.
Ora vattene, per l'amor del cielo.
"Ah, grazie, volentieri..."
Sorrisi, lo sguardo grave di Alphonse su entrambi.
Ma William non parve notarlo.
"Al! Alphonse!"
Mamma chiamava.
"Torno subito!" disse poi, scuotendo la testa e sorridendo, facendo
dietro-front e andando verso la stanza di mamma. William osservò la sua
schiena sparire dietro l'andito e poi...
Dio, non me ne resi neanche conto.
La mano premuta sul petto, una spinta e giù a rimbalzare sul letto.
"William, no!"
Me lo ritrovai sopra, una ciocca di capelli che solleticava la mia guancia.
Dio no, dio no, dio no.
"Edward, zitto..."
Si chinò, premendo con forza le mani con forza e cominciando a passare la
lingua sul collo, piano.
"W-William, no!!" ripetei, divincolandomi.
Cielo.
La sua gamba si interpose tra le mie gambe, quel fottutissimo ginocchio che si
muoveva, lento quanto la sua lingua, a lasciar scappare un gemito dalle mie
labbra.
"N-no..."
Le braccia cedettero, molli. La schiena scivolò all'indietro, lasciando che
quel contatto diventasse più profondo, mentre anche lui scendeva con me, e la
lingua andava a torturare l'orecchio, dentro e fuori
"A-Ahn..."
Tortura tortura tortura.
E poi.
Cazzo.
Quel formicolio.
Cazzo.
Cazzo.
"A..."
"... Che... Che..."
"A...AL!"
La schiena scattò in avanti, le mani di William che si fecero salde sulle
spalle.
Era diverso.
Era diverso da due anni fa.
C'era la porta tra di noi. C'era un muro. C'era... C'era...
Oh, Dio.
Perché?!
Non una parola. Solo un labbro che tremava, gli occhi che si caricavano di
lacrime, e il viso che si faceva sempre più rosso.
Rabbia, vergogna, cosa, Al?
Scosse la testa, tremando, e poi corse via.
"AL!!"
Non saprei dire dove trovai la forza per spingere lontano William da me.
Sentii solo un tonfo sordo, probabilmente della sua schiena che sbatteva
contro il muro, e poi il mio cervello fu solo preso dal pensiero che Al aveva
visto, DI NUOVO, le mie orecchie furono invase solo dal battito del
cuore, in gola, che faceva un male cane.
Ma non quanto il male che avevo provato nell'istante in cui le nostre iridi si
erano incrociate.
Arrivai davanti alla sua porta, bussando con insistenza, il legno che
scricchiolava sotto i miei pugni.
"AL, APRI, CRISTO!"
"VATTENE!!"
Un urlo isterico, disperato.
Pugni, pugni, schegge.
"AL, TI PREGO, APRI QUESTA PORTA!"
Era un groppo che andava su e giù per la gola, era uno squarcio nel cuore che
si stava aprendo, lento.
E solo Dio sa quanto faceva male.
"HO DETTO DI ANDARTENE!" sbraitò ancora, e sentii qualcosa sfracellarsi al
suolo, forse un bicchiere, sapeva di rotto in mille pezzi.
Come me.
Le gambe tremarono. E le ginocchia cedettero, stanche. Le mani si aprirono,
avventandosi sulla parete di legno, mentre scivolavo a terra, piano.
E tanti singhiozzi smossero il mio corpo, tante lacrime bagnarono il mio viso.
Un formicolio divertito sul collo.
E lui non uscì di quella stanza, non finché non partii.
Ma non ero capace di pensare né al divertimento, né ad altro.
Solo. Il. Vuoto.
-Fine sesta parte
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