Personaggi: Edward Elric, Envy, un po' tutti xD
Rating: Nc-17
Avvertenze: Nya!°.° E' una AU. Niente alchimia, niente bracci artificiali,
solo i personaggi di FMA mossi un po' come mi pare. O meglio, secondo un filo
logico pressohé INESISTENTE. Tutto accade per caso.<3
I personaggi sono tutti (c) Hiromu Arakawa-sensei, purtroppo per me, fortuna
per loro. La storia si basa su eventi realmente accaduti, ma non starò a
menzionare né quali, né chi è stato la causa di tutto ciò. Spero apprezzerete
comunque, anche se è squallida. *inchino*
Piccola nota: Anche se EnvyEd, in questa fic non troverete Envy. O meglio, non
proprio lui. L'idea di utilizzare il suo corrispettivo umano, ossia William, è
nata dal fatto che un ragazzo coi capelli verdi, in un liceo abbastanza
rinomato, e per di più ai primi del 1900, sarebbe stato un po' subdolo e fuori
luogo. Sappiate che comunque, William e Envy sono la stessa, medesima cosa.
Poisoned Milk
parte V
di Nacchan
Gli incubi tornavano
ricorrenti, in quel periodo. Vuoi per il caldo, vuoi per la situazione, non
riuscivo mai a passare una notte in modo veramente tranquillo. Se non
erano i sogni, a turbarmi, era l'afa di Agosto, o il miagolio dei gatti in
calore, o il vociare animato di Alphonse che nel sonno chiedeva il mio aiuto,
per un qualcosa che a quel tempo non avevo la capacità di capire.
Con lui, con Al, non avevo più avuto una conversazione degna di esser definita
tale da quel maledetto giorno di fine settembre. Se l'inverno era servito a
distanziarci, l'estate aveva dato quello che poteva essere definito un piccolo
colpo di grazia.
E dire che, di lì a pochi giorni, avremmo cominciato a frequentare la stessa
scuola, gli stessi ambienti, le... le stesse persone?
No, no. Alphonse sarebbe venuto nella mia stessa scuola, era vero, ma lui
avrebbe avuto i suoi amici con cui stare, gli amici che lo avrebbero seguito
anche in un ambiente squallido come quello che si apprestava ad accoglierli
per cinque anni e qualche sospiro.
E in fondo, un ragazzino del primo anno non doveva forzatamente avere a che
fare con qualcuno del quarto anno.
...Neanche uno del secondo, in effetti.
Ma non era di questo che stavo parlando.
Dicevo, che gli incubi in quel periodo mi tormentavano.
E non erano i soliti incubi dove un mostro ti corre dietro, pronto a
divorarti. Oppure dove una bella donna ti porge un dolce per poi rapirti e
farti chissà quale male, no.
Nei miei sogni erano costanti due elementi, fissi, perenni, mai stanchi di
essere lì. Da una parte c'era Alphonse, il suo viso innocente distrutto dallo
shock di aver visto ciò che alla sua età sarebbe meglio rimanesse racchiuso
nella favoletta dell'Uomo Nero. Dall'altra William, che tendeva dolce le
braccia e sussurrava il mio nome, chiedendomi di andare da lui, di non
lasciarlo, di dargli fiducia, perché non mi avrebbe mai fatto del male.
La cosa divertente, in tutto ciò, era che mentre il mio cervello, il mio
cuore, la mia mente dicevano "Vai da Alphonse, vai da lui!", il mio
corpo andava da solo verso l'ultima persona al mondo con cui avrebbe avuto il
piacere, almeno morale, di avere un contatto.
E se i sogni sono lo specchio della verità, Dio solo sa quanto dolore provavo
nel riaprire gli occhi.
Dio solo sa quante volte ho desiderato di morire, rivedendo la luce di un
nuovo giorno.
Morire, si...
A pensarci ora, mi viene quasi da ridere per quanto debole fossi stato in quel
periodo. Mi sento quasi ridicolo, pensando al suo amore, ai suoi gesti di
adesso.
A pensarci ora, un brivido mi percuote la schiena, e il cervello mi dà dello
stupido.
Forse il panico per la scuola, forse la paura di incrociare nuovamente quel
viso ogni mattina sapendo che Alphonse era tra le stesse mura e poteva ben
vederci da un momento all'altro, la paura che anche a lui toccasse la stessa
sorte, forse il caldo ancora forte, forse, forse...
Non lo so.
Era la fine di agosto. Un pomeriggio...?
La mamma era uscita a fare compere. Ultimamente usciva più spesso del solito,
per fare un giro al parco, per chiacchierare con le sue amiche, per leggere un
libro su una panchina, per andare da qualche strizza cervelli, credo.
Papà? Beh, papà aveva ormai lasciato definitivamente Londra. Non lo aveva
detto, ma si era capito. Un uomo legato alla famiglia torna a casa, non sta
fuori otto mesi. Neanche per lavoro.
Alphonse invece era diventato una cosa sola col suo gruppo. Lui usciva, si
divertiva, rideva felice, e poi quando tornava a casa raccontava tutto alla
mamma. Si, solo a lei. Perché ogni giorno, a metà racconto, io mi alzavo dal
tavolo e andavo in camera, e per lui era come se non fosse cambiato nulla.
Esserci, o non esserci, non faceva la minima differenza.
Non si interrompeva, non chiedeva dove stessi andando. Parlava e basta.
E alla fine, anche se era ciò che più volevo in quel momento, che lui mi
stesse lontano, il più lontano possibile, era una situazione che non tolleravo
più.
Così come non tolleravo più lo smettere di vivere.
Gli unici momenti in cui mi sentivo vivo davvero, era quando provavo affetto
per quel ragazzo più grande di me che mi viziava e coccolava con stupidi
regalini, pranzi alla tavola calda o merende di metà mattina. Oppure quando
quello stesso ragazzo mi faceva provare una paura che superava quasi quella
dell'abbandono.
Ed io ero stanco, davvero stanco, di vivere in questo modo.
Quel pomeriggio, o sera, le idee sono confuse, di fine agosto, io e il
bagno avemmo un incontro ravvicinato del terzo tipo.
Io e l'armadietto del bagno.
Io e le lamette che papà aveva lasciato a casa per aggiustarsi la barba.
Lo scricchiolio dell'anta dell'armadietto riempì l'aria, vuota, troppo
silenziosa.
Le mie dita si allungarono su quel piccolo ed aggraziato bicchiere color del
cielo, con dentro i vari strumenti con cui la mamma trafugava sempre la
mattina.
E quelle belle lame lucide, quasi fossero appena comprate, stanziavano lì,
solenni, e aspettavano solo di essere prese.
Sospirai, mentre le mie dita avvolgevano la plastica protettiva. A cosa poi
servisse...mah. La sollevai dal bicchiere, portandola vicino a me e guardando
con interesse la lama.
Pareva davvero affilata, Dio.
...Chissà quanto male avrei sentito.
Levai la pellicola protettiva, sospirando, e gettai un occhio allo specchio,
guardandomi un'ultima volta...?
Sarebbe stato davvero così facile?
Un taglio netto, nel vero senso del termine, alla vita?
Sarebbe bastato?
...Al sarebbe stato male per me, poi?
Un occhio alla lama lucida. Da ambo i lati, così. Per esser certo che avrebbe
funzionato.
...Ma in fondo, perché non avrebbe dovuto? Era la mia volontà, e il suo solco
sulla mia pelle.
Piano piano, piano piano... Senza fretta.
"Forza, Ed."
Un sospiro, e la mano tremante si avvicinò con lentezza estenuante all'altra,
le vene in evidenza, quasi pulsanti alla vista. Tum tum tum, cuore impazzito.
Come il padrone.
La vista offuscata. "Non piangere, Edward! Sei un uomo!"
Guarda il tuo ometto, mamma. Guarda in che condizioni versa.
La lama sempre più vicina...Il gelo del metallo sulla carne rosa...Una infima
punta di dolore.
Ed un sospiro.
No, non potevo davvero fare una cosa simile. Troppo codardo ed attaccato alla
vita, nonostante tutto.
"Fratellone, cosa...?!"
Un sobbalzo, le orecchie che mi si riempivano della sua voce, e il dolore
lancinante di carne tagliata lì, a pochi centimetri dalla morte.
"A...Al..."
Il rumore di qualcosa di metallico che incontrava il suolo.
"Fratellone!! Che cosa... - si avvicinò, veloce, troppo veloce - Che cosa
stavi facendo?!"
La sua mano afferrò il mio polso con forza, poi mi trascinò sul lavabo,
strappò un pezzo di carta igienica e cominciò a tamponare, piano, dopo averla
inumidita con alcool.
"I-io...ah..."
Sussultai, sentendo la ferita bruciare.
Non volevo, Al. Non volevo.
Mi sono spaventato.
"Che...Ah, ma cosa volevi fare?!" ripeté, col viso sconvolto, gli occhi velati
di lacrime che sapevo non sarebbero scese.
Non lo so nemmeno io. Divertente, vero?
Mi limitai a scuotere la testa, provando a balbettare parole simili a "Non
è come credi" (bugia.) e "Mi dispiace" (La più sacrosanta verità.).
E lui tamponò la ferita, ancora e ancora, tra un Dio, e un Cosa
volevi fare ripetuti in continuazione, come un grammofono rotto.
Sentivo caldo. Al petto. Dolce, discreto. Come quando eravamo piccoli, come
quando ci facevamo male e ci curavamo a vicenda.
"Tra poco starai meglio..." sussurrò, gli occhi che schizzavano tra la ferita,
la mano grondante di sangue, e il mio viso, che assunse un colorito pallido
pallido, a quelle parole.
Un brivido scosse tutta la schiena, mentre gli occhi si gonfiavano, rossi,
carichi di lacrime.
Deglutii, più volte, mentre il cuore accelerava, impazzito, come un cavallo
che corre a briglie sciolte in una prateria. E al viso di Alphonse si sostituì
per un breve attimo quello di William, per poi tornare tutto esattamente come
prima.
"...Fratellone?"
Scesero piano, rotolando lungo le gote che andavano a fuoco. Il mio busco
cominciò a scuotersi sotto i singhiozzi via via sempre più disperati. Quella
frase cominciò a rimbalzare nel mio cervello una miriade di volte, la voce di
mio fratello che si confondeva a quella di William, calda, suadente, eccitata.
E tremai, quasi sentendo ancora i movimenti delle sue mani sul mio corpo.
Sentendo nelle mie orecchie i suoi gemiti soffocati.
Non é qua, non é qua, non c'é, é Alphonse quello davanti a te, non William,
non lui, non agitarti, stai tranquillo, stai...
Pum. Pensieri interrotti.
Il calore si espanse in tutto il corpo, a partire dal petto per poi
raggiungere ogni più recondita zona. Al mi stava abbracciando. Al mi stava
abbracciando come non faceva da mesi, ormai. La sua mano tremava, passando
sulla spalla, lungo il braccio, per poi risalire. Le sue labbra posavano sulla
mia fronte, baciandola, anche se non capiva, o forse capiva ma non voleva
darlo a vedere, perché stessi in quelle condizioni.
Ma non mi importava. L'unica cosa importante era che le sue braccia mi stavano
stringendo al suo corpo, e le sue labbra sussurravano parole intrise di
preoccupazione.
"Scusa, Al... Scusa..." fu l'unica cosa che riuscii a dire in quei minuti.
E lui scuoteva la testa ogni volta.
Va tutto bene.
Andava tutto bene.
Anche se non sapeva niente.
Anche se era buio totale.
Andava bene lo stesso.
Di nuovo.
Quando il mio secondo anno in quella scuola iniziò, nell'aria c'era ancora
qualche rimasuglio d'estate. Il cielo era terso, limpido. Il sole, poco alto
all'orizzonte, cominciava a riscaldare la terra resa fredda dalla notte.
Per le strade, impregnate di un buon odore di hibiscus, cominciavano a
riversarsi, come ogni anno in quel periodo, e così per i nove mesi restanti,
masse di studenti, chi andava a piedi, chi prendeva i mezzi.
"Amerai Mary Rose." dissi ad un Al che si teneva a stento su un poggiamani nel
tram, carico più del solito quella mattina.
"Mary Rose?"
"Sta al bar al piano terra. Fa delle cioccolate buonissime." gli risposi,
alzando un dito e guardando al soffitto, pregustando già una delle sue tazze
fumanti di cioccolata calda.
Al diavolo che facesse ancora caldo.
"E' tanto che non mangio una cioccolata!" disse, entusiasta, mentre la sua
bocca si allargava in un sorriso.
"Quando la assaggerai non ne potrai più fare a meno, credimi!"
... Era così tenero quando sorrideva. Quando mi parlava.
Tra una chiacchiera e l'altra, la coincidenza, e il sole che cominciava a
battere, finalmente il tram arrivò al capolinea. E fu come essere investiti da
una sensazione distorta, mentre gli occhi si posavano nelle pareti
dell'edificio, alto, maestoso, imponente.
Un altro anno tra quelle mura.
Col sollievo della presenza di Al.
Con la gioia e l'angoscia del sapere William nuovamente vicino.
Durante l'estate, i nostri incontri si erano fatti davvero rari. Perché lui
era andato in Germania, dagli zii materni. Me lo aveva raccontato, durante le
poche uscite di fine giugno, che per lui Londra d'estate diventava lontana,
quasi inesistente.
Ma a Londra doveva pur tornare. E così accadde, in fin dei conti.
Mentre salivo le scale, abbandonando Alphonse allo smistamento in classi,
sentii distintamente la sua voce tra le altre, il suo allegro chiacchiericcio
alla fine del corridoio.
Parlava di monti, e prati in fiore, e montagne alte e fresche. Di Monaco,
Berlino, di caffetterie e locali notturni, dove era andato con i cugini a
festeggiare il suo diciottesimo compleanno.
Parlava delle lamentele di sua madre, delle bravate per strada di suo padre e...
E poi si voltò, sorridente, mentre io apparivo dalle scale, salutando i miei
compagni.
"Ed!" fece, la voce alta e squillante, mentre la mano si agitava nell'aria,
per esser certa di essere vista. E io, sorriso timido, ricambiai, salutandolo
di rimando.
Eh si, era proprio riniziata.
Settembre sui libri.
Ottobre pure.
Novembre... Beh, lascio intuire.
"Edward, cos'è questo votaccio?"
Non è colpa mia, se Jhonson non sa spiegare.
"Ehr..."
Mi guardò, sventolandomi il foglio davanti al naso, con fare inquisitorio.
"Edward, cos'é questo votaccio?"
Dio, perché deve sempre guardare i voti bassi? Con tutte le sfilze di A che
ci sono, poi.
"Biologia non riesco a studiarla." le dissi, guardando fuori dalla finestra.
Odiavo incrociare i suoi occhi quando si facevano piccoli piccoli. Soprattutto
in quel periodo. Soprattutto quando si avvicinava l'anno dalla partenza
permanente di papà. Soprattutto quando si parlava di scuola.
Indemoniata? Più o meno.
"Che cosa vuol dire non riesco a studiarla?! - sbuffò, prendendomi il viso fra
le mani e costringendomi a guardarla - Hai preso una D, Ed. Una D! Neanche una
B, o al massimo una C. Una D. Come fai a recuperare una D?!"
"In qualche modo farò!" sbottai, strappandole la pagella di mano e buttandoci
un occhio.
Matematica, A. Alla faccia di Douglas, poi.
Inglese, A.
Letteratura, B.
Cioè.
Il novanta per certo della pagella era POSITIVA. E lei no, andava su quel neo.
Ma se io biologia non la digerivo, cosa dovevo fare? Mangiare il libro?!
"In qualche modo, co....me?"
Rallentò. Guardò un attimo il soffitto, pensando intensamente.
Non mi piaceva affatto.
"...Mamma?"
Schioccò le dita, sorridendo.
"Ci sono. - disse poi. - Ripetizioni."
"....COME?"
"Ma si. Se fai un po' di ripetizioni, non credo che sarà un male. Magari
arrivi alla C, almeno."
"Ma...Io non ho bisogno di rip..."
"Il tuo amico ha detto di esser portato per la biologia. Magari può darti una
mano, non credi?"
"Mamma... - si intromise Alphonse - Non credo sia..."
... Una buona idea, Al? Non hai tutti i torti.
"Tuo fratello una D in pagella non se la può permettere. E poi è un suo amico,
sono certa che non avrà problemi! E sono disposta a pagarlo. Ma Edward, - si
rivolse nuovamente a me, minacciosa - non deve avere insufficienze gravi. No."
Sospiro rassegnato. In fondo, la parola di mamma era legge, a quel tempo.
"Glielo chiederò, domani. Hai ragione, dubito che non mi aiuterà, quindi vedrò
di far diventare quella D almeno una B, d'accordo?"
Mi alzai in piedi, aiutandomi col la mano ben poggia sul tavolo, poi mi
diressi in camera, con tutta l'intenzione di studiare un po' di... Biologia?,
ma sentii i passi di Alphonse trotterellare dietro di me, e sostare sulla
porta, mentre io mi sedevo alla scrivania.
Potevo vedere la sua ombra proiettata sul pavimento, grazie ai raggi del sole
che filtravano dalle finestre dell'andito.
"Fratellone?"
"Si, Al?"
"...Sei sicuro di..."
Un'ulteriore conferma ai miei dubbi.
"Non succederà nulla, Al. - Aveva visto. - Sarà solo qualche ora buttata sui
libri. - Aveva visto tutto. Quasi tutto. La parte peggiore. - Almeno così la
mamma sarà felice, no?"
Mi voltai, il viso chinato all'indietro, ad incrociare quelle iridi di un
delicato nocciola, velate di preoccupazione.
... Dove era sparita l'ostilità dei mesi appena passati?
"Ok... - mormorò, sollevando un poco le spalle. - Fai attenzione però."
"A cosa? A che non mi mangino i libri? - risi, camuffando le sensazioni che
assalivano il mio petto. - Tornerò a casa intero ogni volta, promesso!"
Pugno di ferro sul petto.
Lui sorrise, annuendo.
In fondo non sapeva che io sapevo.
"Buona fortuna fratellone..." disse, le labbra che si stiravano verso l'altro,
lo sguardo insicuro. Poi si voltò, lasciandomi solo col canticchiare degli
uccelli e il ticchettare dell'orologio.
Buona fortuna.
"Ripetizioni?"
Lui stava seduto sulla panchina, il sedere sul poggiaschiena, i piedi sul...
poggia sedere?
Sorseggiava tranquillo la tazza di cioccolata, fondente, quella mattina,
mentre gli occhi rimanevano incollati ai miei, un sorriso appena accennato
sulle labbra.
"Ah. - risposi, spostando lo sguardo alla mia tazza fumante, riscaldandomi le
mani - Jhonson ha ben deciso di darmi una D. A mamma la cosa non è andata a
genio."
"Biologia, eh? Bella grana... E perché io?" chiese, un pizzico di curiosità
nella sua voce.
"Mamma ricordava di quando avevi parlato dei tuoi voti eccellenti in quella
materia, quindi..."
"Ah, capisco... - annuì, guardando il cielo - ... Quando ti va bene?"
"... Davvero non disturbo?"
"Ma figurati! Lo faccio con piacere!"
Il viso pendette di lato, mentre lui mi guardava, senza smettere di sorridere.
Gli sorrisi di rimando, felice del suo aiuto, felice che in qualche modo,
sarei riuscito a trasmutare quella D in una B senza troppi problemi, alla
fine.
"Vieni a pranzo a casa. Così ti mostro dove abito." propose poi, mettendosi in
piedi, mentre la campanella suonava.
Fine dell'intervallo.
"Sicuro?"
"Certo! Mamma sarà ben felice di avere degli ospiti a casa."
"Allora accetto volentieri!"
E nel pomeriggio, avvisato Al, ricevuto uno sguardo preoccupato, mi ritrovai a
passeggiare per le vie di un classico borgo londinese, non molto differente da
quello dove vivevo io. Nonostante fossero appena le due del pomeriggio, l'aria
si era fatta piuttosto fredda, e ciò che respiravamo, tornava alla natura
sotto forma di condensa, una nuvola di vapore sospesa nell'atmosfera.
"Manca tanto?"
"Cinque minuti e siamo arrivati..."
Cinque minuti tra viali alberati, panchine per parte arrugginite, e case che
via via si facevano sempre più sfarzose, scostandosi dalla realtà di poco
prima. In effetti, avevo sempre pensato che William fosse un ragazzo di buona
famiglia. Ma vedendo davanti a me la sua casa, grandi pareti bianche, un
cancello nero e un bel giardino a circondare un viale di ciottoli candidi come
la neve, dovetti ricredermi.
Buona era decisamente limitativo.
"C...Caspita..." mormorai, mentre i miei occhi cercavano il sottile confine
tra il tetto e il cielo. Ma sembrava tutto così...
Così. Dannatamente. Immenso.
Lo scatto di una serratura, e William aprì il cancello, facendomi cenno di
entrare.
"Prego!" sorrise, e dopo essere entrato, richiuse il cancello e mi fece strada
verso l'ingresso. Un'altra serratura che scattava.
E dentro, mi sembrò quasi d'essere in un palazzo reale. Perché in realtà non
ne avevo mai visti, e per me tutto quello che si parava davanti agli occhi
sembrava proprietà di un re.
"Benvenuto nella mia umile dimora!" sbottò, facendo un inchino, prendendo poi
la mia mano e baciandola, uno sfiorarsi di carne e labbra.
...Umile?
"Ahah... Grazie... Ma la tua casa è una reggia!"
"Ma no... - mi fece cenno di seguirlo, e insieme ci addentrammo nella cucina -
Mamma!"
Probabilmente, il biondo in famiglia era suo padre. Una donna alta, il viso
dolce, capelli corti di un colore scuro, e occhi color cioccolata, così caldi,
così grandi, così belli.
"Ben tornato, Will... Tu devi essere Edward, vero? Piacere..."
Mi sorrise, tendendo la mano in avanti. La afferrai. Calda.
"Piacere, signora Moore."
Si somigliavano. Nel portamento, nei lineamenti... Di quel pranzo conservo
tuttora un piacevole ricordo. Le pietanze squisite, i modi gentili della
famiglia Moore, le chiacchierate tra una portata e l'altra, sembravano tutte
andare a comporre, tasselli sparsi, un grande, magnifico puzzle.
Anche le serate passate sui libri di biologia, a volte mangiando una crostata,
a volte sorseggiando succo di mela, riuscivano a non essere mai pesanti.
William aveva una voce limpida e chiara, una grande padronanza delle parole, e
tutto ciò che proveniva dalle sue labbra appariva semplice, senza quelle
assurde complicazioni che ci sono sulle pagine di un libro, tanto per far
sembrare il testo più serio di quello che in realtà era.
E quando riferivo a mamma che tutto sembrava più semplice, e che la B appariva
sempre più come la realtà che non come un miraggio, anche lei fu lieta di
avermi portato su quella strada. Adorava William, pensava a lui come al
figlio, all'uomo perfetto.
Al non era della stessa idea, ma mai si sarebbe sognato di contraddirla, così
si limitava a tacere, e ad annuire ad ogni sua frase.
Al non si era mai pronunciato su William, a parte quella sera di settembre.
Quel giorno era stato l'unico in cui avesse manifestato ostilità per qualcuno.
Ma in fondo... Come dargli torto?
Io non riuscivo a vederla come lui, tuttavia. Perché continuava a mostrarmi
lati diversi del suo carattere, del suo essere. C'era quello giocoso, c'era
quello serio, il diligente, il generoso.
E quel neo.
Piccolo, nascosto. Che solo io potevo vedere.
"Non riesco a capirlo, Cristo."
Affondai le mani nei capelli, stringendoli poi tra le dita, tirandoli un poco.
"Calma, Ed. Non è così complicato, rileggi il passaggio con calma..."
"Calma? E' la decima volta che leggo le stesse venti righe. E non lo capisco,
Dio, non lo capisco!"
Mi sembrava di avere la testa talmente piena di concetti da far male. O
meglio. Era talmente piena da sembrare vuota. Parole su parole che si
sovrapponevano, pressavano sulle pareti del cervello, fino a riempire ogni
briciolo di spazio, fino a quasi esplodere. Ed era inutile leggere e
rileggere quelle dannate righe perché, no, non c'era niente da fare.
In testa non volevano saperne di entrare.
"Se ti fai prendere dal panico è finita. - mormorò, poggiandomi una mano sulla
spalla. - Sei in ansia, lo so. Ma devi calmarti. Altrimenti Jhonson non ti
alzerà mai il voto. E fino ad ora stavamo andando alla grande, quindi Ed,
calmati. E' un passaggio importante, non puoi permetterti di vacillare ora."
La presa dai miei capelli si allentò, mentre dalle mie labbra sfuggiva un
sospiro pesante.
Dio, quanto avrei voluto che finisse presto.
La porta si aprì, cigolando. La signora Moore sorrise, venendoci chini sui
libri, poi con voce dolce disse:
"William, esco una decina di minuti, la signora Parker vuole una mano a
trasportare le buste della spesa in casa... - la vidi guardare al cielo - Sai
com'è, no?"
"Ahah, si mamma, si... D'accordo, a dopo!"
E la porta si richiuse.
"Uff... - fece, lasciando cadere le braccia sulla scrivania in un altro
sospiro. - Non riesco."
"Vuoi fare una pausa?"
"Sarebbe il caso..." sbottai, senza accorgermi che la mia mano era già tra le
sue. Se la portò alla bocca, gli occhi leggermente socchiusi, le pupille che
lente, esaminavano ogni centimetro della mia pelle. E poi la sua bocca si
poggiò sul dorso, sfiorandola leggermente.
"... William..."
Lui non rispose alla mia invocazione, se non alzandosi dalla sedia, lasciando
scivolare la mia mano lungo i fianchi e andandosi a mettere dietro di me,
battendo due dita sulla spalla.
"Vieni sul letto, su..."
Non sentivo né punta di malizia, né la sua solita incrinatura nella voce.
Pareva tutto assolutamente normale. Mi alzai in piedi, vedendolo già
accomodato sul materasso, una mano che affondava tra le lenzuola, l'altra che
mi faceva cenno di raggiungerlo.
E io così feci. Allontanai la sedia dalla scrivania, mettendomi in piedi e
mettendomi tra le sue gambe, là dove la sua mano batteva, e prontalmente lui
le poggiò entrambe sulle mie spalle, cominciando a muovere le dita sulla mia
carne.
"Rilassati... Sei teso come una corda di violino..." mormorò.
"Non sono teso..."
"Sicuro? - potevo percepire il leggero sorriso sul suo viso senza vederlo,
soltanto sentendo il mutar della sua voce - Sai che ho visto bambini di otto
anni mentire in maniera più credibile...?"
"Aw, non sono un bambino..."
Su e giù per il collo, le spalle. Era davvero piacevole, tanto da far
sciogliere lentamente la tensione, tanto da far liberare la testa dai
pensieri. Sentivo le sue dita passeggiare per i muscoli, massaggiandoli con
cura, dolcezza, senza provocare nessun fastidio, o dolore.
"Nh... sei... bravo..."
Ridacchiò.
"Grazie... La mamma soffre spesso di dolori alle spalle... Così, sai com'è...
Con la pratica..." Le sue dita scivolano sotto il colletto della camicia,
andando a sbottonare con non chalance un bottone della camicia, per poi
tornare al loro posto, e rifare il loro lavoro.
Davvero. Bravo.
Così bravo che già andavo rilassandomi, e lentamente mi appoggiai a lui,
buttando fuori l'aria dai polmoni in un sospiro secco.
"Complimenti..." mormorai, lasciando andare la testa in avanti, lasciandogli
campo libero su tutta la zona.
Rilassato. Troppo rilassato. Le sue mani scorsero ancora per tutta la
muscolatura, intrufolandosi sotto la camicia, lasciando che un altro bottone
saltasse così, quasi naturalmente. E le sue mani sprofondarono per un momento,
a sfiorare i capezzoli, e poi risalirono a massaggiare il collo. Come se tutto
facesse parte dello stesso piano.
"Se ti sono utile... - e si avvicina, portando le sue labbra alla mia guancia,
un leggero schiocco, la punta della lingua che sfiora la pelle, la saliva che
viene ripulita con un altro tocco, leggero - Ti fa male poi..."
"Mh... - Così soffice, così leggero... - Non posso farci niente... - Così
deciso, così caldo. - Non riesco a mandarla giù..."
"La materia?"
"Ah... - Le sue mani riscivolarono lente, stavolta stringendo i capezzoli fra
le dita, senza far male. Un tocco leggero, delicato. - Non mi è mai
piaciuta..."
"Eppure l'anno scorso non andavi male..."
"L'anno scorso era... - Bacio sul collo. Due baci sul collo. Dio. - Era...più
facile..."
"Forse ti impegnavi di più..." sibilò sul mio orecchio, fiato caldo, come
quello che lentamente si stava concentrando nello stomaco. E ancora le sue
mani abbandonarono le mie sporgenze, andando a sbottonare altri due, tre
bottoni. Col la punta delle dita sfiorò ogni centimetro del petto, risalendo
al collo, e tornando a massaggiare.
Ogni tanto mano, ogni tanto labbra.
"Io... mi impegno sempre... per ogni cosa..."
E deglutii a fatica, il dolore mentre la saliva scendeva in gola.
Caldo. Tanto caldo.
"Non lo stai facendo abbastanza... - Giù, giù di nuovo. Fino all'ultimo
bottone. Fino a far scivolare la camicia lungo le braccia. Fino a risalire
ancora. - Ma ti aiuterò io, Edward..."
"Ah-ahn..."
Collo. Petto. Collo. Braccia. Collo.
Strinse le mani sulle spalle, attirandomi a se, mentre la mia testa lentamente
si poggiava sulla sua spalla, rilassandosi, lasciandogli il collo a sua
disposizione. E le sue labbra, prontalmente arrivarono, succhiando piano,
baciando la pelle, a volte leccandola.
"Ti va, Ed...?"
Mi va... cosa? Dio, c'era solo vuoto nella mia mente.
Vuoto e caldo.
La sua mano scivolò lento lungo il mio braccio, avvinghiandosi alla gemella e
portandola vicino alla bocca. Diede un bacio sul collo, innocente, per poi
dedicarsi con dolcezza ad ogni dito, leccandolo, poggiandolo sulle labbra.
"Will... William..."
Sentii i suoi denti mordicchiare la carne, la punta della lingua accarezzare
la pelle, provocando un brivido lunga la schiena, mentre ogni nervo, ogni
muscolo, ogni fibra del mio corpo pareva andare di colpo in pausa.
Ancora quel dolore alla gola.
L'indice scorreva, dentro e fuori dalla sua bocca, riempiendosi della sua
saliva calda, e andava sopra, sotto la sua lingua, beandosi di quel piacere
così profondo. Succhiò, alternandosi tra forte e piano, mentre piano piano
anche le altre dita ricevevano lo stesso trattamento, mentre l'altra mano
continuava a massaggiare un po' le spalle, un po' il petto.
Sentivo le guance roventi, le mani che mi tremavano leggermente, come il resto
del corpo. Era qualcosa che mi inibiva, che mandava al diavolo ogni briciolo
di buon senso, di voglia di opporsi, di allontanarlo e tornare a...
Cosa stavamo facendo, prima?
... Ah si, biologia.
E lui continuò a far l'amore con le mie dita, mentre l'altra mano scendeva
verso il basso ventre, scorrendo tra la stoffa dei boxer e la pelle calda. E
un altro bottone saltò, quello dei pantaloni, tirandoli un poco, a mostrare la
biancheria, l'eccitazione appena pronunciata.
Mentre la sua premeva contro la schiena, presente, pressante.
Un bacio su ogni dito, e la mia mano scivolò, poggiandosi sulla sua gamba.
"Ti va...?"
Con entrambe le mani, spinse i pantaloni verso il basso, mentre io inarcavo la
schiena all'indietro, lasciando che la mia testa si distendesse sulla sua
spalla, che il bacino su alzasse, facilitandogli il lavoro.
Come se non fossi cosciente di me stesso.
La sua lingua scorse per la giugulare, lasciando una traccia di saliva,
ustionante come l'olio che bolle, mentre una mano si intrufolava dentro la
stoffa dei pantaloni, ad accarezzarmi, a stimolarmi.
Altri brividi, tanti brividi, troppi.
"Ah-ahn..." risposi con un ansito, senza sapere realmente quale fosse
l'oggetto della domanda.
Avevo già dimenticato.
E con un movimento di polso, costrinse involontariamente il mio bacino a
seguire quel movimento, a pochi centimetri dal materasso, mentre la sua bocca
continuava a scivolare sul mio collo, lenta, e l'altra mano spariva sicura
dietro la mia schiena.
Un leggero rumore, la zip che si abbassava, e stoffa che si muoveva contro la
sua pelle, lasciando il suo membro libero di strusciare tra le mie natiche.
"Will...William...ah...William..."
Su e giù, sempre più veloce.
"Sono qui, Edward..." mormorò, mentre entrava in me, con un colpo secco,
talmente improvviso da lasciarmi sorpreso, con un gemito di dolore che moriva
tra le mie labbra. Sospirò pesantemente contro il mio collo, mentre si faceva
spazio in me, doloroso. "Scusami..." bisbigliò poi, lambendo il lobo
dell'orecchio tra i denti, mentre i colpi di bacino andavano, lenti, mentre le
mie mani scendevano sulle sue, pogge sui miei fianchi, ad affondare le unghie
nella sua carne, per soffocare le grida.
Mentre una lacrima rotolava giù per le mie guance, il gelo in confronto a
tutto quel calore.
"Ahn...Wi...William..."
La punta della sua lingua catturò quel piccolo sprazzo di umanità, eliminando
ogni traccia del suo passaggio.
"Scusa..."
Un bacio, uno schiocco sulle labbra, mentre la mano rallenta, e accelera,
rallenta, e accelera.
Mentre tutto cominciava a farsi più veloce, con le mie gambe che si
spalancavano, a dargli più spazio, ad accogliere il piacere, e mandare via il
dolore fisico. E la stanza fu presto satura di ansiti, gemiti, nomi confusi,
quasi lettere dette a caso, tra uno spasmo di piacere e l'altro.
Dentro, fuori, su, giù.
Strinsi la mano sulla sua gamba, mentre lui lavorava in ogni dove, con le
mani, col suo sesso, con la bocca, la lingua.
Altri due, tre, quattro colpi di bacino, e mi sentii invadere dai suoi
liquidi, caldi come il suo corpo, mentre anche la sua mano si riempiva di me.
Veloce, doloroso.
Poggiò per pochi istanti la fronte sulla mia spalla, ansimando pesantemente,
riprendendosi dall'orgasmo, mentre mi cullava, così protettivo, così...
Dio, era successo ancora...
... Così dolce. Poi, prendendomi per le spalle, mi fece scivolare sul
materasso, mentre lui usciva dal mio corpo, lo sperma che ancora ci univa, e
con innata gentilezza mi ripulì, risistemandomi poi gli indumenti. E dopo aver
fatto lo stesso con se stesso, dopo aver cancellato le prove della sua
debolezza buttandole nella pattumiera della sua stanza, e dopo essersi
sistemato, poggiò il sedere sul materasso, ancora.
E in quello stesso istante, la porta si aprì.
"William, sono... - Uno sguardo, le sopracciglia inarcate. - Tutto bene?"
"Ah, mamma... - lo vidi voltarsi, e non sapevo che faccia avesse in quel
momento, ma dal tono di voce era certo che tutto sarebbe uscito dalle sue
labbra, fuorché la verità. - Si, è tutto a posto... Edward ha avuto un momento
di mancamento, lo sto facendo riposare un po'..."
"Oh povero ragazzo... Ti porto qualcosa?"
"Ho tutto, mamma, stai tranquilla, vai pure..."
"Ok, se avete bisogno..."
Fece un cenno con la testa, richiudendo poi la porta. E lui sospirò, forse
felice, e si voltò, per poi baciarmi sulla fronte.
Un momento di mancamento.
Dio, che qualcuno mi salvi da tutto.
-Fine Quinta parte.
|